Anno: 2013

Iran: la fine di 10 anni di contenzioso nucleare?

  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

Iran: la fine di 10 anni di contenzioso nucleare?

  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

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  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

Iran: la fine di 10 anni di contenzioso nucleare?

  Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rohani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie. Anzi la sospensione temporanea, in attesa di un’intesa […]

La voce (cupa) di Damasco

Thierry Meyssan sceglie con cura dove abitare. Al tempo della guerra in Libia stava a Tripoli, nei palazzi di Moammar Gheddafi. A guerra finita si è trasferito a Damasco, dove vive da due anni. Ma, secondo quanto scrive su Megachip,…

Incontri di Conversazione: parla, ascolta, impara!

Lo studio della grammatica, della sintassi e dei vocaboli sono i passi fondamentali nel processo di apprendimento di una lingua, dopo i quali l’ascolto e la produzione orale diventano, ad un livello più avanzato,attività non sempre semplici da praticare. Per questa ragione l’Associazione Culturale Arabismo prevede un ciclo di 6 incontri di Conversazione che permettono, […]

Egitto, al via processo all’ex presidente Morsi. Ma la seduta è subito rinviata

E’ stata la confusione la protagonista della prima udienza del processo a carico dell’ex presidente egiziano Mohammed Morsi e degli altri 14 imputati, quasi tutti membri dei Fratelli Musulmani. Nell’aula, in cui è stato ammesso un numero ristretto di giornalisti senza telefoni, macchine fotografiche e telecamere, l’ex presidente è apparso per la prima volta dal giorno della sua […]

L’articolo Egitto, al via processo all’ex presidente Morsi. Ma la seduta è subito rinviata proviene da Il Fatto Quotidiano.

Egitto, al via processo all’ex presidente Morsi. Ma la seduta è subito rinviata

E’ stata la confusione la protagonista della prima udienza del processo a carico dell’ex presidente egiziano Mohammed Morsi e degli altri 14 imputati, quasi tutti membri dei Fratelli Musulmani. Nell’aula, in cui è stato ammesso un numero ristretto di giornalisti senza telefoni, macchine fotografiche e telecamere, l’ex presidente è apparso per la prima volta dal giorno della sua […]

L’articolo Egitto, al via processo all’ex presidente Morsi. Ma la seduta è subito rinviata proviene da Il Fatto Quotidiano.

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

MARCO ALLONI – Fratelli musulmani: gli attentati alla cultura

Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

MARCO ALLONI – Fratelli musulmani: gli attentati alla cultura

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MARCO ALLONI – Fratelli musulmani: gli attentati alla cultura

Recentemente è stato aggredito lo scrittore Alaa Al-Aswani all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Qualcuno mi ha chiesto ragguagli su Facebook a proposito dell’accaduto. Ho risposto che si era trattato di un manipolo di Fratelli musulmani che avevano interrotto la conferenza con lanci di libri e dispense nonché pesanti insulti in arabo – per carità […]

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

La migrazione clandestina nello specchio della letteratura, Laila Lalami e le sue “Speranze”

Più della morbosità dell’occhio fotografico, dell’invasività indagatrice delle telecamere,  della freddezza dei numeri e delle statistiche, della rigidità delle legislazioni e del buonismo occasionale dei salotti televisivi, più e prima di tutto ciò a raccontare il dramma dell’immigrazione clandestina c’è la letteratura. Ad avvertire l’emorragia dei migranti, il trasformarsi del Mediterraneo  in un cimitero di … Continua a leggere

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La migrazione clandestina nello specchio della letteratura, Laila Lalami e le sue “Speranze”

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Con l’operazione Mare nostrum, sfugge la parte “umanitaria”

Per affrontare l’emergenza sbarchi, il governo da il via all’operazione “Mare nostrum”. In sintesi: Il 14 ottobre al termine di un vertice a palazzo Chigi il ministro dell’interno Angelino Alfano e il ministro della difesa Mario Mauro hanno annunciato che dal 15 ottobre sarà lanciata l’operazione militare Mare nostrum per il pattugliamento del Mediterraneo. Nell’operazione […]

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

Quale rivoluzione

[Inchieste – La Repubblica 30 sett. 2013] – La rivoluzione tunisina è finita? O è solo all’inizio? Forse una rivoluzione non c’è mai stata, ed era tutto un complotto? C’è molto di rivoluzionario in ciò che ha iniziato a svolgersi…

MARCO ALLONI – Caro Quirico, l’Islam moderato esiste

I.
Domenico Quirico, il giornalista della Stampa sequestrato e poi liberato dai jihadisti del Free Syrian Army, merita un tributo di rispetto per una ragione che sta molto al qua della sua audacia – in definitiva pleonastica – di giornalista. Dico pleonastica perché un reporter audace è appunto – malgrado le varie Lucie Goracci sguinzagliate a […]

MARCO ALLONI – Caro Quirico, l’Islam moderato esiste

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MARCO ALLONI – Caro Quirico, l’Islam moderato esiste

I.
Domenico Quirico, il giornalista della Stampa sequestrato e poi liberato dai jihadisti del Free Syrian Army, merita un tributo di rispetto per una ragione che sta molto al qua della sua audacia – in definitiva pleonastica – di giornalista. Dico pleonastica perché un reporter audace è appunto – malgrado le varie Lucie Goracci sguinzagliate a […]

Gli amici americani del Presidente Bashar al-Asad

Ricevo “il dossier” e lo descrivo. Il 12 giugno 2012 appariva su youtube il video (sfocato). Le persone dietro la telecamera e la donna parlano in curdo. La descrizione del video, in arabo, recita: Aleppo, Sheykh Maqsud. Attivista curda prima…

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

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“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

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“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

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“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

MARCO ALLONI – Vecchioni e il Nobel

“Sono onorato, emozionato e sorpreso per questa nomination al Nobel per la Letteratura che va ben oltre qualsiasi aspettativa personale”.
A pronunciare tali parole è Roberto Vecchioni, a cui l’Accademia di Svezia pare voglia offrire la candidatura al Nobel per la Letteratura. Parole che sopravanzano per impudenza persino quelle dei selezionatori di Stoccolma, non tanto perché […]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

L’Egitto ricomincia dai militari?

    Appuntamento stasera alle 19 alla Libreria Verdi in piazza Luciani 28 a Salerno per un incontro sulle primavere arabe tra streetpolitics e Isabella Camera d’Afflitto. Si parlerà di Egitto, colpo di stato e futuro dei Fratelli musulmani

L’Egitto ricomincia dai militari?

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LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
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LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
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LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

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A.L.M.A-Vision 1: Rabii El Gamrani

Dopo la pausa estiva torna il Collettivo A.L.M.A con rubriche nuove e altre già collaudate. Letteratura, migrazione, arte, politica, Sud e Nord…continueremo a raccontare tutte le latitudini e a fare da ponte tra i paralleli…Stay tunedArchiviato in:Alma-vision Continua a leggere

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Turchia: vittime collaterali

Un post da @workingclasshero che ci racconta le ultime ore ad Istanbul, Grazie caro! Serdar Kadakal è morto stamattina. È morto per un attacco cardiaco dovuto a inalazione di gas. È morto perché da tre giorni a Kadikoy, quartiere in parte asiatica di Istanbul, va in onda uno spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio offerto dalle […]

Turchia: vittime collaterali

Un post da @workingclasshero che ci racconta le ultime ore ad Istanbul, Grazie caro! Serdar Kadakal è morto stamattina. È morto per un attacco cardiaco dovuto a inalazione di gas. È morto perché da tre giorni a Kadikoy, quartiere in parte asiatica di Istanbul, va in onda uno spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio offerto dalle […]

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Un post da @workingclasshero che ci racconta le ultime ore ad Istanbul, Grazie caro! Serdar Kadakal è morto stamattina. È morto per un attacco cardiaco dovuto a inalazione di gas. È morto perché da tre giorni a Kadikoy, quartiere in parte asiatica di Istanbul, va in onda uno spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio offerto dalle […]

MARCO ALLONI – L’Egitto e la fine della sudditanza

Che cosa stia accadendo in Egitto è presto detto. La ragion pratica, o la Realpolitik, sta acquistando i caratteri del darwinismo. Si pensava di poter ribadire la vulgata straniera secondo la quale l’elezione di Morsi rappresentava il passaggio dalla dittatura alla democrazia; si pensava di poter cantilenare il leit-motiv del golpe. Invece le formule rassicuranti […]

MARCO ALLONI – L’Egitto e la fine della sudditanza

Che cosa stia accadendo in Egitto è presto detto. La ragion pratica, o la Realpolitik, sta acquistando i caratteri del darwinismo. Si pensava di poter ribadire la vulgata straniera secondo la quale l’elezione di Morsi rappresentava il passaggio dalla dittatura alla democrazia; si pensava di poter cantilenare il leit-motiv del golpe. Invece le formule rassicuranti […]

MARCO ALLONI – L’Egitto e la fine della sudditanza

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MARCO ALLONI – L’Egitto e la fine della sudditanza

Che cosa stia accadendo in Egitto è presto detto. La ragion pratica, o la Realpolitik, sta acquistando i caratteri del darwinismo. Si pensava di poter ribadire la vulgata straniera secondo la quale l’elezione di Morsi rappresentava il passaggio dalla dittatura alla democrazia; si pensava di poter cantilenare il leit-motiv del golpe. Invece le formule rassicuranti […]

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MARCO ALLONI – L’Egitto e la fine della sudditanza

Che cosa stia accadendo in Egitto è presto detto. La ragion pratica, o la Realpolitik, sta acquistando i caratteri del darwinismo. Si pensava di poter ribadire la vulgata straniera secondo la quale l’elezione di Morsi rappresentava il passaggio dalla dittatura alla democrazia; si pensava di poter cantilenare il leit-motiv del golpe. Invece le formule rassicuranti […]

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La tecnologia invade le scuole di Beirut

13/09/2013 |Addio libri e mani macchiate d’inchiostro. Da quest’anno rinomate scuole e università di Beirut, come l’American Community School e l’Eastwood College, hanno confermato l’ausilio di mezzi tecnologici come materiali didattici per i corsi di studio. L’Eastwood College in particolare ha il vanto di essere la prima istituzione scolastica in Medio Oriente ad aver creato […]

La tecnologia invade le scuole di Beirut

13/09/2013 |Addio libri e mani macchiate d’inchiostro. Da quest’anno rinomate scuole e università di Beirut, come l’American Community School e l’Eastwood College, hanno confermato l’ausilio di mezzi tecnologici come materiali didattici per i corsi di studio. L’Eastwood College in particolare ha il vanto di essere la prima istituzione scolastica in Medio Oriente ad aver creato […]

Come il petrolio condizionò il mondo (arabo)

11/09/2013 | In Occidente Golfo Persico e oro nero generano, nella mente di chi le evoca, immagini di progresso ed opulenza, ben lontane dai problemi che affliggono generalmente gli stati dell’area (povertà, analfabetismo, lotte intestine…). Tale apparenza è data dal modo di mettere a tacere il dissenso nei paesi del Golfo, sia tramite i petroldollari […]

Come il petrolio condizionò il mondo (arabo)

11/09/2013 | In Occidente Golfo Persico e oro nero generano, nella mente di chi le evoca, immagini di progresso ed opulenza, ben lontane dai problemi che affliggono generalmente gli stati dell’area (povertà, analfabetismo, lotte intestine…). Tale apparenza è data dal modo di mettere a tacere il dissenso nei paesi del Golfo, sia tramite i petroldollari […]

How wrong you are, Slavoj

Slavoj, I am one of your readers. I am always in agreement with you even if often, I would prefer not to be, I jump right over those pieces in Lacanian and Hegelian that you have the habit of trying…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook: Caro Fouad, Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dol…

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.


Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook:

Caro Fouad,
Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dolore e le tue paure. Le capisco più di molti perché le ho già vissute. Ma ti devo dire che anche io sono uno di quelli contro l’intervento militare. Forse non in chiave vetero staliniana … ma, contro, lo sono e con forza e cerco di spiegarti le mie ragioni senza giudicare la tua posizione né quella di qualcun altro. .
Per quelli che, in opposizione al campo dei cattivi, considerano che Assad sia dalla parte dei buoni ho dedicato vari interventi per dire che la cosa non è così semplice. Uno di questi, in chiave ironica l’ho scritto per descrivere l’imbarazzo di tutti di fronte alle manifestazioni di Piazza Taksim e Gezi Park. Una presa in giro sia di chi scrive quello che le forze della Nato vogliono, sia di chi non pensa con testa propria ma aspetta quello che diranno gli stati occidentali per essere contro come nella buona vecchia guerra fredda.
L’ottusità e la testardaggine dei vecchi “tovarish” è un conto, l’accettare le bombe come mezzo di gestione dei conflitti è un altro. Io non sono pacifista o “pacifinto” come hai scritto. Mi considero Nonviolento e voglio credere che la violenza non sia il rimedio per i mali dell’umanità.
Eppure una situazione molto simile a quella che vive oggi la Siria, io l’ho vissuta in diretta, preso in mezzo ad un regime corrotto e criminale e una opposizione ancora più criminale. Io ce l’ho fatta ma ho visto tanti amici e compagni cadere intorno a me di quelli che come me non volevano sostenere né la pesta né il colera. Ma anche tanti altri esseri umani di tutte le età che non avevano nemmeno idea di chi li uccideva e del perché. Questo per dirti che quello che tu senti oggi, io l’ho vissuto. Non l’ho solo sentito raccontare.
In un dibattito sulla Siria, un po’ di mesi fa, avevo proposto questa bozza di piattaforma per una dichiarazione comune. Nessuno sostegno a Assad e alle sue forze criminali. Ma nemmeno un sostegno incondizionato alle forze dell’opposizione.
Tu chiedi alla gente: dov’era quando Assad massacrava la sua gente? Io ti chiedo: dov’era chi vuole oggi bombardare? Dov’era quando l’opposizione democratica tentava di creare una iniziativa di dialogo e di negoziato? Perché nessun dollaro andato ai gruppi armati è andato alle iniziative di pace?
Vuoi sapere dov’era la gente quando Assad massacrava. Ebbene era esattamente laddove eravamo io e te quando Saddam massacrava i suoi. Dove eravamo quando Gheddafi massacrava i suoi. Eravamo a chiederci, a cercare di capire qualcosa a pensare, a sentirci impotenti… Hanno fatto quello che io e te abbiamo fatto nel caso dell’Iraq e forse anche della Libia (non mi ricordo bene, ma mi sembra che non eri molto favorevole alle bombe di Sarkozy e Cameron. O sbaglio?). Ti ho conosciuto negli ambienti anti-guerra. Credo che prima che tocchi direttamente ai tuoi cari, abbiamo avuto più o meno le stesse posizioni.
Ma non è per criticarti. Lo capisco benissimo. Una discussione simile ho avuto con molti amici iracheni all’epoca dell’intervento nel loro paese. Poi con Farid Adli nei giorni dell’intervento in Libia. Farid anche lui era un fervente oppositore all’intervento in Iraq. Ma smisi di parlare con lui di questo quando disse in un dibattito tra lui e me su Radio Popolare che i carri armati di Gheddafi erano a 100 metri dalla casa dei suoi… Io che conosco l’angoscia di sapere che gli assassini sono a pochi passi dalla tua famiglia, non potevo andare oltre. Non si può pretendere da nessuno di accettare tale paura senza reazione fosse anche violenta. Io ho rispetto per le sue paure e per il suo dolore proprio perché so di che si tratta. E così rispetto anche le tue.

Però mi chiedo: quante volte dovremo vivere questo stesso incubo prima di capire che le bombe non hanno mai risolto niente? Non l’hanno fatto in Afghanistan. Non l’ha fatto in Iraq. Non l’ha fatto in Libia. I 3 paesi sono ancora ridotti a una specie di Mad-Max orientaleggiante dove il territorio rurale è controllato da varie milizie etnico-confessionali e le città sono in mano a delle mafie nominate dalle multinazionali occidentali.
La bilancia delle forze militari pende decisamente dalla parte dei cattivi (Assad e gruppi integralisti), le forze democratiche non pesano niente nel conflitto armato. Anche perché non le sostiene nessuno. Tu dici che le forze integraliste sono solo una piccola parte dell’opposizione. Forse è così. O sarebbe così se non fosse per le decine di migliaia di uomini armati giunti da mezzo mondo. L’Algeria sola conta migliaia di “volontari” andati in Siria a combattere (solo i morti Algerini ufficialmente identificati in Siria sono 246), la Tunisia uguale. Per non parlare dei Libici e dei tanti altri giunti nel paese da tutte le parti del mondo per portarlo dalla padella alla brace.
L’amico Gabriele Del Grande ci racconta delle cose molto simpatiche da lì, di come comitati di quartieri sono gestiti dall’opposizione non integralista etc. Ma sono solo gocce nell’oceano. Altre voci di amici siriani che stanno in Siria (non embedded da nessuna delle due forze in campo) o nei dintorni raccontano ben altri scenari. Il mio amico Hamed (di cui ho parlato due volte: qui e qui) lui ad esempio ci ha creduto nella Aleppo liberata e ci è andato. Siccome è stato riconosciuto e denunciato da gente di Damasco come militante di sinistra ha preso 20 frustate sulla schiena. Non l’hanno ucciso solo perché tutti sapevano che era appena uscito dalle carceri di Assad. Poi se n’è tornato a Damasco con la coda tra le gambe. Per fortuna questa settimana mi ha chiamato da Atena. In qualche modo è riuscito a fuggire dalla trappola in cui era preso: tra l’incudine e il martello.
Una vittoria militare di Assad o delle orde jihadiste sarebbe comunque una catastrofe immane. Non so quale delle due sarebbe peggio. Sinceramente non lo so. E solo tramite una soluzione negoziata possiamo sperare in una salvezza del paese e della sua gente. Io ci credo. E credo che se non è possibile ora è solo perché nessuno, proprio nessuno ha investito nella pace in questa zona del mondo. Chi vorrebbe la pace in Siria? La Turchia o l’Arabia Saudita che dall’inizio hanno soffiato sul fuoco della violenza? La Russia o l’Iran che vogliono mantenere in Assad il loro ultimo alleato nella zona? I paesi della Nato che vogliono anche a Damasco un governo fantoccio loro (e non di altri) come ormai tutti gli altri nella regione? I vicini? La Giordania? Israele?
A nessuno interessa la pace in Siria e nessuno manderebbe i suoi “boys” a morire per l’interesse del popolo siriano. I bombardamenti Nato vorranno dire solo aggiungere morti ai morti. E per me che siano popolazioni pro o anti-Assad a morire (ammesso che le bombe possano scegliere) è un crimine ugualmente. E la morte chiama solo la morte.

Oggi tocca alla Siria. É un paese che adoro e mi vengono le lacrime quando ci penso. Ma tutti gli indicatori dicono che, fra qualche anno, potrebbe toccare all’Algeria. Il mio paese ha tutte le condizioni per svegliare gli istinti predatori di chi si sta mangiando il mondo a pezzettoni. Una posizione strategica essenziale per il controllo dei flussi tra Mediterraneo e Africa sub sahariana. Una delle più importanti riserve di idrocarburi al mondo. Un fondo sovrano ricco di centinaia di miliardi di Dollari, una dirigenza impresentabile anche se ancora amica di tutti, come lo era ghaddafi fino a poche settimane prima della sua caduta…
Con la Libia ridotta a quella che è oggi. Un Sahel da tempo trasformato in autostrada di tutti i traffici e un regime marocchino tradizionalmente ostile, ci vuole poco a far entrare elementi di sovversione armata da tutte le parti. Poi l’esercito algerino che non è mai stato uno stinco di santo farà il resto.
Se questo succederà domani, io dico sin da adesso: anche se un presidente americano o francese dirà che c’è un genocidio in corso e dirà che l’esercito ha usato armi di distruzione di massa, anche se i ribelli faranno vedere file di bambini morti e diranno che quelle sono vittime dell’esercito, anche se tutti i paesi del mondo (soprattutto quelli che hanno di più soffiato sul fuoco di quella guerra) si diranno preoccupati… non accettate che Algeri sia bombardata, per favore. Non è quella la soluzione. Non lo è stata per Kabul, né per Baghdad, né per Tripoli, né lo è oggi per Damasco e non lo sarà per nessun altro paese. Mai!

Un abbraccio.

Allegato: Il post di Fouad su Facebook:

<< Vedo fioccare le dichiarazioni indignate di tanti “compagni” che in 2 anni e mezzo evidentemente non si erano accorti che la mia terra era violentata dalla guerra e che di ingerenze esterne ce ne sono tante e tante. In risposta a tutti questi ignavi che oggi si sono svegliati solo perchè a minacciare la mia gente sono bombe a stelle e strisce ed in base a valutazioni geopolitiche, non creto per condivisione della sofferenza del mio popolo, voglio ripubblicare uno sfogo che avevo scritto sotto un post di fabio amato, responsabile esteri del PRC, un paiuo di settimane fa. Da allora è cambiato che l’intervento USa sembra più probabile e che ora parlare di Siria è più trendy.

Ci avete lasciati soli, nel silenzio, quando ispirati dal grido di libertà dei nostri fratelli anche le nostre voci hanno riempito le strade e le nostre uniche armi erano speranza, dignità e voglia di democrazia. I nostri canti per la democrazia, per l’unità e la non-violenza hanno riempito l’aere delle nostre piazze che hanno visto nascere la storia, mentre i selciati antichi si tingevano del nostro sangue. Per 6 mesi nessuno ha risposto alle provocazioni, alla feroce repressione, all’assedio di intere città private d’acqua ed elettricità in piena estate. Quando poi sono finite le guance da porgere, quando i nostri partigiani (come fecero i vostri) salirono sulle montagne rischiando non solo le loro vite ma anche quelle dei loro cari, allora ci avete condannato. Quando eravamo sotto la soverchiante superiorità del fuoco nemico, alimentato dalle uomini, armi e carburanti di Iran, Russia, Libano, Iraq e persino dell’ Europa voi non avete mosso un dito per impedire il flusso di morte verso la nostra terra, evidentemente quello è l’Impero del Bene. Ma se schiacciati dal piombo, l’esplosivo ed i mig del Bene i nostri partigiani hanno accettato il (tutt’altro che disinteressato) aiuto degli antagonisti dell’Impero che piace a voi, finalmente avete potuto dar sostanza alle infamanti accuse che fin dalla prima ora ci avete rivolto. E non mostratemi cartine e statistiche, analisi e numeri, quelli van bene “in società”, nei vostri salottini, ma non per chi ha sentito le parole e le voci di chi è sceso in piazza… pensate che strano, in Siria i ragazzini non si chiedono quali potenza internazionale tragga vantaggio dal loro manifestare, scendono in piazza per il loro diritto al futuro, per aver la dignità di scegliere il proprio destino, per pretendere la democrazia, slogan che mi sembra di aver sentito da tante altre parti, anche da parte vostra in Piazza San Giovanni o sotto MOntecitorio, nonostante l’Italia appaia come un paradiso di democrazia confrontata con la nostra terra.
Tranquilli “compagni”, gli States (che l’Italia accolse a braccia aperte, quando i nazi-fascisti ne violentavano le terre) non interverranno semplicemente perchè non è loro interesse quindi senza troppi sforzi otterrete il risultato auspicato da tovarish Fabio… ma i 1500 morti di Ghouta, che si aggiungono alle 100.000 vite spezzate da Assad e compagni, non sono un casus belli ma una vergogna per l’umanità e per voi in particolare, voi che amate atteggiarvi a paladini degli oppressi e degli ultimi ma siete sordi se il nemico di quegli oppressi non è quello “tradizionale”, se quel che avviene non risponde alla vostra narrazione del mondo.
Cari ignavi o saputelli giudici dell’altrui storia, fateci un favore però: non venite a piangere i nostri bambini, non versate lascrime al funerale della nostra nazione, non siete invitati.

p.s.
Un ringraziamento particolare a tutti coloro che (come avviene sempre in queste occasioni), a seguito di quanto ho scritto e dall’alto della loro conoscenza della mia persona, della mia terra, della real politic e della geopolitica internazionale vorranno definirmi ratto, jihadista, tagliagole, spia al soldo del mossad…. il vostr
o contributo sarà davvero prezioso.>>

Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.


Lettera a Fouad Roueiha sui bombardamenti sulla Siria.

Risposta a un post di Fouad Roueiha messo su Facebook:

Caro Fouad,
Ho letto con molto interesse la tua lettera a chi si oppone ad un eventuale intervento militare Nato in Siria. Prima di tutto voglio dirti che mi dispiace tanto e che capisco il tuo dolore e le tue paure. Le capisco più di molti perché le ho già vissute. Ma ti devo dire che anche io sono uno di quelli contro l’intervento militare. Forse non in chiave vetero staliniana … ma, contro, lo sono e con forza e cerco di spiegarti le mie ragioni senza giudicare la tua posizione né quella di qualcun altro. .
Per quelli che, in opposizione al campo dei cattivi, considerano che Assad sia dalla parte dei buoni ho dedicato vari interventi per dire che la cosa non è così semplice. Uno di questi, in chiave ironica l’ho scritto per descrivere l’imbarazzo di tutti di fronte alle manifestazioni di Piazza Taksim e Gezi Park. Una presa in giro sia di chi scrive quello che le forze della Nato vogliono, sia di chi non pensa con testa propria ma aspetta quello che diranno gli stati occidentali per essere contro come nella buona vecchia guerra fredda.
L’ottusità e la testardaggine dei vecchi “tovarish” è un conto, l’accettare le bombe come mezzo di gestione dei conflitti è un altro. Io non sono pacifista o “pacifinto” come hai scritto. Mi considero Nonviolento e voglio credere che la violenza non sia il rimedio per i mali dell’umanità.
Eppure una situazione molto simile a quella che vive oggi la Siria, io l’ho vissuta in diretta, preso in mezzo ad un regime corrotto e criminale e una opposizione ancora più criminale. Io ce l’ho fatta ma ho visto tanti amici e compagni cadere intorno a me di quelli che come me non volevano sostenere né la pesta né il colera. Ma anche tanti altri esseri umani di tutte le età che non avevano nemmeno idea di chi li uccideva e del perché. Questo per dirti che quello che tu senti oggi, io l’ho vissuto. Non l’ho solo sentito raccontare.
In un dibattito sulla Siria, un po’ di mesi fa, avevo proposto questa bozza di piattaforma per una dichiarazione comune. Nessuno sostegno a Assad e alle sue forze criminali. Ma nemmeno un sostegno incondizionato alle forze dell’opposizione.
Tu chiedi alla gente: dov’era quando Assad massacrava la sua gente? Io ti chiedo: dov’era chi vuole oggi bombardare? Dov’era quando l’opposizione democratica tentava di creare una iniziativa di dialogo e di negoziato? Perché nessun dollaro andato ai gruppi armati è andato alle iniziative di pace?
Vuoi sapere dov’era la gente quando Assad massacrava. Ebbene era esattamente laddove eravamo io e te quando Saddam massacrava i suoi. Dove eravamo quando Gheddafi massacrava i suoi. Eravamo a chiederci, a cercare di capire qualcosa a pensare, a sentirci impotenti… Hanno fatto quello che io e te abbiamo fatto nel caso dell’Iraq e forse anche della Libia (non mi ricordo bene, ma mi sembra che non eri molto favorevole alle bombe di Sarkozy e Cameron. O sbaglio?). Ti ho conosciuto negli ambienti anti-guerra. Credo che prima che tocchi direttamente ai tuoi cari, abbiamo avuto più o meno le stesse posizioni.
Ma non è per criticarti. Lo capisco benissimo. Una discussione simile ho avuto con molti amici iracheni all’epoca dell’intervento nel loro paese. Poi con Farid Adli nei giorni dell’intervento in Libia. Farid anche lui era un fervente oppositore all’intervento in Iraq. Ma smisi di parlare con lui di questo quando disse in un dibattito tra lui e me su Radio Popolare che i carri armati di Gheddafi erano a 100 metri dalla casa dei suoi… Io che conosco l’angoscia di sapere che gli assassini sono a pochi passi dalla tua famiglia, non potevo andare oltre. Non si può pretendere da nessuno di accettare tale paura senza reazione fosse anche violenta. Io ho rispetto per le sue paure e per il suo dolore proprio perché so di che si tratta. E così rispetto anche le tue.

Però mi chiedo: quante volte dovremo vivere questo stesso incubo prima di capire che le bombe non hanno mai risolto niente? Non l’hanno fatto in Afghanistan. Non l’ha fatto in Iraq. Non l’ha fatto in Libia. I 3 paesi sono ancora ridotti a una specie di Mad-Max orientaleggiante dove il territorio rurale è controllato da varie milizie etnico-confessionali e le città sono in mano a delle mafie nominate dalle multinazionali occidentali.
La bilancia delle forze militari pende decisamente dalla parte dei cattivi (Assad e gruppi integralisti), le forze democratiche non pesano niente nel conflitto armato. Anche perché non le sostiene nessuno. Tu dici che le forze integraliste sono solo una piccola parte dell’opposizione. Forse è così. O sarebbe così se non fosse per le decine di migliaia di uomini armati giunti da mezzo mondo. L’Algeria sola conta migliaia di “volontari” andati in Siria a combattere (solo i morti Algerini ufficialmente identificati in Siria sono 246), la Tunisia uguale. Per non parlare dei Libici e dei tanti altri giunti nel paese da tutte le parti del mondo per portarlo dalla padella alla brace.
L’amico Gabriele Del Grande ci racconta delle cose molto simpatiche da lì, di come comitati di quartieri sono gestiti dall’opposizione non integralista etc. Ma sono solo gocce nell’oceano. Altre voci di amici siriani che stanno in Siria (non embedded da nessuna delle due forze in campo) o nei dintorni raccontano ben altri scenari. Il mio amico Hamed (di cui ho parlato due volte: qui e qui) lui ad esempio ci ha creduto nella Aleppo liberata e ci è andato. Siccome è stato riconosciuto e denunciato da gente di Damasco come militante di sinistra ha preso 20 frustate sulla schiena. Non l’hanno ucciso solo perché tutti sapevano che era appena uscito dalle carceri di Assad. Poi se n’è tornato a Damasco con la coda tra le gambe. Per fortuna questa settimana mi ha chiamato da Atena. In qualche modo è riuscito a fuggire dalla trappola in cui era preso: tra l’incudine e il martello.
Una vittoria militare di Assad o delle orde jihadiste sarebbe comunque una catastrofe immane. Non so quale delle due sarebbe peggio. Sinceramente non lo so. E solo tramite una soluzione negoziata possiamo sperare in una salvezza del paese e della sua gente. Io ci credo. E credo che se non è possibile ora è solo perché nessuno, proprio nessuno ha investito nella pace in questa zona del mondo. Chi vorrebbe la pace in Siria? La Turchia o l’Arabia Saudita che dall’inizio hanno soffiato sul fuoco della violenza? La Russia o l’Iran che vogliono mantenere in Assad il loro ultimo alleato nella zona? I paesi della Nato che vogliono anche a Damasco un governo fantoccio loro (e non di altri) come ormai tutti gli altri nella regione? I vicini? La Giordania? Israele?
A nessuno interessa la pace in Siria e nessuno manderebbe i suoi “boys” a morire per l’interesse del popolo siriano. I bombardamenti Nato vorranno dire solo aggiungere morti ai morti. E per me che siano popolazioni pro o anti-Assad a morire (ammesso che le bombe possano scegliere) è un crimine ugualmente. E la morte chiama solo la morte.

Oggi tocca alla Siria. É un paese che adoro e mi vengono le lacrime quando ci penso. Ma tutti gli indicatori dicono che, fra qualche anno, potrebbe toccare all’Algeria. Il mio paese ha tutte le condizioni per svegliare gli istinti predatori di chi si sta mangiando il mondo a pezzettoni. Una posizione strategica essenziale per il controllo dei flussi tra Mediterraneo e Africa sub sahariana. Una delle più importanti riserve di idrocarburi al mondo. Un fondo sovrano ricco di centinaia di miliardi di Dollari, una dirigenza impresentabile anche se ancora amica di tutti, come lo era ghaddafi fino a poche settimane prima della sua caduta…
Con la Libia ridotta a quella che è oggi. Un Sahel da tempo trasformato in autostrada di tutti i traffici e un regime marocchino tradizionalmente ostile, ci vuole poco a far entrare elementi di sovversione armata da tutte le parti. Poi l’esercito algerino che non è mai stato uno stinco di santo farà il resto.
Se questo succederà domani, io dico sin da adesso: anche se un presidente americano o francese dirà che c’è un genocidio in corso e dirà che l’esercito ha usato armi di distruzione di massa, anche se i ribelli faranno vedere file di bambini morti e diranno che quelle sono vittime dell’esercito, anche se tutti i paesi del mondo (soprattutto quelli che hanno di più soffiato sul fuoco di quella guerra) si diranno preoccupati… non accettate che Algeri sia bombardata, per favore. Non è quella la soluzione. Non lo è stata per Kabul, né per Baghdad, né per Tripoli, né lo è oggi per Damasco e non lo sarà per nessun altro paese. Mai!

Un abbraccio.

Allegato: Il post di Fouad su Facebook:

<< Vedo fioccare le dichiarazioni indignate di tanti “compagni” che in 2 anni e mezzo evidentemente non si erano accorti che la mia terra era violentata dalla guerra e che di ingerenze esterne ce ne sono tante e tante. In risposta a tutti questi ignavi che oggi si sono svegliati solo perchè a minacciare la mia gente sono bombe a stelle e strisce ed in base a valutazioni geopolitiche, non creto per condivisione della sofferenza del mio popolo, voglio ripubblicare uno sfogo che avevo scritto sotto un post di fabio amato, responsabile esteri del PRC, un paiuo di settimane fa. Da allora è cambiato che l’intervento USa sembra più probabile e che ora parlare di Siria è più trendy.

Ci avete lasciati soli, nel silenzio, quando ispirati dal grido di libertà dei nostri fratelli anche le nostre voci hanno riempito le strade e le nostre uniche armi erano speranza, dignità e voglia di democrazia. I nostri canti per la democrazia, per l’unità e la non-violenza hanno riempito l’aere delle nostre piazze che hanno visto nascere la storia, mentre i selciati antichi si tingevano del nostro sangue. Per 6 mesi nessuno ha risposto alle provocazioni, alla feroce repressione, all’assedio di intere città private d’acqua ed elettricità in piena estate. Quando poi sono finite le guance da porgere, quando i nostri partigiani (come fecero i vostri) salirono sulle montagne rischiando non solo le loro vite ma anche quelle dei loro cari, allora ci avete condannato. Quando eravamo sotto la soverchiante superiorità del fuoco nemico, alimentato dalle uomini, armi e carburanti di Iran, Russia, Libano, Iraq e persino dell’ Europa voi non avete mosso un dito per impedire il flusso di morte verso la nostra terra, evidentemente quello è l’Impero del Bene. Ma se schiacciati dal piombo, l’esplosivo ed i mig del Bene i nostri partigiani hanno accettato il (tutt’altro che disinteressato) aiuto degli antagonisti dell’Impero che piace a voi, finalmente avete potuto dar sostanza alle infamanti accuse che fin dalla prima ora ci avete rivolto. E non mostratemi cartine e statistiche, analisi e numeri, quelli van bene “in società”, nei vostri salottini, ma non per chi ha sentito le parole e le voci di chi è sceso in piazza… pensate che strano, in Siria i ragazzini non si chiedono quali potenza internazionale tragga vantaggio dal loro manifestare, scendono in piazza per il loro diritto al futuro, per aver la dignità di scegliere il proprio destino, per pretendere la democrazia, slogan che mi sembra di aver sentito da tante altre parti, anche da parte vostra in Piazza San Giovanni o sotto MOntecitorio, nonostante l’Italia appaia come un paradiso di democrazia confrontata con la nostra terra.
Tranquilli “compagni”, gli States (che l’Italia accolse a braccia aperte, quando i nazi-fascisti ne violentavano le terre) non interverranno semplicemente perchè non è loro interesse quindi senza troppi sforzi otterrete il risultato auspicato da tovarish Fabio… ma i 1500 morti di Ghouta, che si aggiungono alle 100.000 vite spezzate da Assad e compagni, non sono un casus belli ma una vergogna per l’umanità e per voi in particolare, voi che amate atteggiarvi a paladini degli oppressi e degli ultimi ma siete sordi se il nemico di quegli oppressi non è quello “tradizionale”, se quel che avviene non risponde alla vostra narrazione del mondo.
Cari ignavi o saputelli giudici dell’altrui storia, fateci un favore però: non venite a piangere i nostri bambini, non versate lascrime al funerale della nostra nazione, non siete invitati.

p.s.
Un ringraziamento particolare a tutti coloro che (come avviene sempre in queste occasioni), a seguito di quanto ho scritto e dall’alto della loro conoscenza della mia persona, della mia terra, della real politic e della geopolitica internazionale vorranno definirmi ratto, jihadista, tagliagole, spia al soldo del mossad…. il vostr
o contributo sarà davvero prezioso.>>

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Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

I danni della Primavera araba al turismo dei paesi MENA

29/08/2013 | L’estate è ormai agli sgoccioli, strade, porti, aeroporti e stazioni sono affollate di turisti che ritornano a casa, le vacanze, insomma, sono finite quasi per tutti. Ma qual è la situazione del turismo nella regione mediorientale e nordafricana? Secondo i dati relativi al 2012 forniti dal Tourism Highlights 2013, report redatto dall’UNWTO (United […]

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE

REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE Da Dahab, Egitto + dal Cairo Di Sonia Serravalli (autrice de “L’oro di Dahab” – Premio Rhegium Julii 2007 – e di “Se baci la rivoluzione”, IBUC Edizioni, gennaio 2012) Gennaio 2011, l’inizio. Durante la rivoluzione: … Continue reading

REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE

REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE Da Dahab, Egitto + dal Cairo Di Sonia Serravalli (autrice de “L’oro di Dahab” – Premio Rhegium Julii 2007 – e di “Se baci la rivoluzione”, IBUC Edizioni, gennaio 2012) Gennaio 2011, l’inizio. Durante la rivoluzione: … Continue reading

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REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE Da Dahab, Egitto + dal Cairo Di Sonia Serravalli (autrice de “L’oro di Dahab” – Premio Rhegium Julii 2007 – e di “Se baci la rivoluzione”, IBUC Edizioni, gennaio 2012) Gennaio 2011, l’inizio. Durante la rivoluzione: … Continue reading

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REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE Da Dahab, Egitto + dal Cairo Di Sonia Serravalli (autrice de “L’oro di Dahab” – Premio Rhegium Julii 2007 – e di “Se baci la rivoluzione”, IBUC Edizioni, gennaio 2012) Gennaio 2011, l’inizio. Durante la rivoluzione: … Continue reading

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REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE Da Dahab, Egitto + dal Cairo Di Sonia Serravalli (autrice de “L’oro di Dahab” – Premio Rhegium Julii 2007 – e di “Se baci la rivoluzione”, IBUC Edizioni, gennaio 2012) Gennaio 2011, l’inizio. Durante la rivoluzione: … Continue reading

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REPORTAGE DI UNA RIVOLUZIONE Da Dahab, Egitto + dal Cairo Di Sonia Serravalli (autrice de “L’oro di Dahab” – Premio Rhegium Julii 2007 – e di “Se baci la rivoluzione”, IBUC Edizioni, gennaio 2012) Gennaio 2011, l’inizio. Durante la rivoluzione: … Continue reading

Reciproci feedback

Sono molte le persone che in questi giorni mi mandano lettere o messaggi privati lusinghieri. Vi ringrazio di cuore e dico agli italiani tra questi che come voi siete fieri di me, io lo sono di voi, in quanto ritengo … Continue reading

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Sono molte le persone che in questi giorni mi mandano lettere o messaggi privati lusinghieri. Vi ringrazio di cuore e dico agli italiani tra questi che come voi siete fieri di me, io lo sono di voi, in quanto ritengo … Continue reading

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Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

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(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

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(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi) Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino? L’altro giorno su Facebook ho visto…

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi)

Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino?

L’altro giorno su Facebook ho visto un post di un famoso blogger egiziano, Wael Abbas, che diceva: “benvenuti in Algeria!”. Qualche giorno dopo mentre ero in macchina la “redazione esteri” di Radio Popolare (capeggiata da un giornalista di origine algerina, Chaouki Senoussi) tentò una analisi in cui spiegava sostanzialmente che “la situazione egiziana non è paragonabile a quella algerina del 1992 perché all’epoca in Algeria gli Islamisti non avevano la maggioranza.”

Ed è tutto un ping-pong di opinioni sul web e sui giornali tra chi sostiene che i due scenari siano uguali e chi sostiene il contrario.

Sicuramente sentendo, vedendo quello che succede in Egitto tutti i giorni, non posso fermare il mio pensiero dal volare verso quei giorni traumatici vissuti tra il 1991 e il 1992.

Nel 1988 ci fu una insurrezione generale. Che non assomigliava nella forma a quelle di che in questi anni hanno messo fine ad alcuni regimi arabi. I tempi erano diversi. L’Algeria era un paese socialista (almeno ufficialmente) e se non faceva parte del blocco sovietico era comunque alla sinistra dell’organizzazione dei non allineati. Il ghiaccio della guerra fredda si stava sciogliendo e il “wind of change”, come canteranno gli “Scorpions” 3 anni dopo, il vento del cambiamento cominciava a soffiare. Ma invece di svegliare le masse sottomesse alle dittature svegliò prima l’appetito vorace delle leadership corrotte: Era ora di sbarazzarsi del guscio socialista per far fruttare le fortune e il potere acquisiti in quel contesto ormai svuotato di significato e di fascino in quello del capitalismo.

Il terrore poliziesco era arrivato alle stelle. Il cantante dissidente Matoub Lounes cantava: «Due Lettere instaurano la paura: S e M. Siamo terrorizzati anche in pieno giorno». SM erano le iniziali di “Sécurité Militaire”, i servizi segreti. Ma ciò nonostante il fronte sociale era caldo, c’erano scioperi e manifestazioni, sempre duramente represse, un po’ ovunque. L’inflazione era alle stelle. Lo stipendio medio permetteva giusto di comprare le cose vendute a prezzo sostenuto nei negozi di stato. Peccato che questi erano quasi sempre vuoti. La rendita degli idrocarburi che aveva assicurato un benessere relativo per anni era entrata in crisi. I paesi del Golfo Persico stavano inondando il mercato sotto milioni di barili di petrolio al giorno. Iran e Iraq che erano in guerra lo facevano per sostenere lo sforzo bellico. Le monarchie arabe semplicemente per destabilizzare il mercato a loro favore. Il petrolio era sceso sotto la soglia dei venti dollari al barile. Per paesi che non avevano la capacità produttiva della penisola araba e popolazioni molto più numerose furono anni duri. E l’Algeria era una di quelli.


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

Il 5 ottobre 1988 è tutto il sistema che entra in collasso. È l’insurrezione generale. Ma le scintille scatenanti partono da dentro il regime stesso. Chadli Bendjedid, l’allora presidente della repubblica in un discorso alla nazione in TV invita la gente a sollevarsi se vogliono il cambiamento. Tante città del paese sono messe a fuoco da bande di cittadini furiosi. Davanti all’incapacità delle unità antisommosse della polizia a ripristinare l’ordine, l’esercito esce nelle strade e la repressione si fa spietata. I militari sparano abbondantemente sulla folla.: si parla di 500 a 800 morti. Migliaia i feriti, arresti e tortura in numeri considerevoli.

Ma oltre l’invito a sollevarsi lanciato in televisione dal presidente, ci sono tante altre stranezze nell’insurrezione del 1988.

Uno: l’onda coinvolge tutto il Nord del paese, stranamente, tranne la Cabilia, regione sempre pronta a scattare;

Due: gli attivisti dei movimenti di sinistra, tra cui lo scrittore Kateb Yacine, sono arrestati la vigilia dell’inizio degli scontri; ( Abed Charef, Algérie ’88 Un chahut de gamins.? Laphomic, Alger, 1990 ).

Tre: Mentre la repressione preventiva si abbatte sugli attivisti di sinistra, gli integralisti del futuro Fronte Islamico della Salvezza (FIS) hanno tutta la libertà di movimento di cui hanno bisogno e riescono ad organizzare una manifestazione durante il coprifuoco generale e a recuperare così a loro profitto la rabbia dei giovani, delle vittime della tortura e delle famiglie dei caduti.

Quelli eventi segnano due grandi cambiamenti: proclamazione della liberalizzazione della politica e soprattutto dell’economia e l’entrata in campo degli islamisti come attori politici di primo piano.

Dopo le riforme politiche, il paese entra in una vera fase euforica. Ci sembra di essere usciti definitivamente dal tunnel. La parola “dimuqratiya”, democrazia, si mangiava a tutte le salse. I partiti politici crescono come funghi, i chioschi a giornale che finora vendevano solo quelli del partito esibiscono una miriade di nuove testate. La tv e la radio nazionale si apre alle opposizioni o almeno fa finta di farlo. Si parla di politica ovunque… Ma la doccia fredda non tarda ad arrivare.


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

(Foto: il figlio di Ali Benhadj arringa la folla)
Mi ricordo come oggi del 12 giugno 1990. Ci sono state le prime (e ultime)elezioni amministrative libere . Avevo monitorato lo spoglio delle schede nel nostro comune e quando uscì vittorioso il Fronte delle Forze Socialiste (FFS), anche se non sono mai stato uno di loro, visto che militavo molto più a sinistra, sono andato a festeggiare la vittoria con i suoi elettori. Quello che si festeggiava non era la vittoria di quel partito, ma la meraviglia di vedere finalmente una elezione non teleguidata. Ma il mattino del 13 ci aspettava uno choc. Il Fronte Islamico della Salvezza aveva letteralmente conquistato il paese: 54% di voti, maggioranza in 46% dei consigli municipali e 55% dei consigli di Wilayat (Province).

Dopo quello tsunami il sogno era finito e poco poco scivolò verso l’incubo. Le pressioni da parte dei militari obbligano il governo a rimandare la data delle legislative. Gli islamisti sicuri di vincerle cominciano un vero braccio di ferro. Sciopero generale, Sit-in nelle piazze di Algeri. Una situazione che durò varie settimane fin quando interviene l’esercito a sgomberare le piazze e fa arrestare alcuni membri della direzione del Fronte Islamico della Salvezza. Tra gli arrestati i due principali leader, rappresentanti delle principali correnti del Fronte: Abbassi Madani (presidente del consiglio direttivo e figura “moderata”) e Ali Behhadj (vice presidente e leader carismatico dell’ala dura del movimento).


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

Nel frattempo molte cose sono successe anche a livello internazionale. Il Fronte Islamico era sostenuto e finanziato dalle monarchie del Golfo Persico (sempre loro, sì). Nella notte del 2 agosto 1990 l’esercito iracheno invade il Kuwait. La direzione del Fis è ovviamente per il sostegno della monarchia islamica contro il mostro laico iracheno. Ma nel meeting che organizzano in una sala polisportiva di Algeri per annunciare la linea da seguire trovano una sala scaldata a bianco, ma lo slogan cantato è: “Ya Saddam Ya habib /damar damar Tal Abib!”, (Saddam amato nostro /distruggi distruggi Tel-Aviv). Il militante medio del Fis di quelli anni era in genere un islamista di fresca data. L’Islam politico fino agli anni 90 aveva poco pubblico in Algeria. E i giovani che erano entrati in massa nel partito di Dio, più per ripicca contro le repressioni che per altro, erano cresciuti come tutti noi a pane e anti-imperialismo. E per tutti noi le monarchie del Golfo erano la mano dell’imperialismo americano nella regione, punto e basta. La direzione del Fis era davanti a un dilemma: sostenere il Kuwait e perdere la base o sostenere Saddam e perdere i petrodollari. Preferirono la base. Il Fis ne usci indebolito economicamente ma più popolare che mai.

Dopo la repressione il governo organizzò lo stesso le elezioni legislative, con qualche mese di ritardo e con i leader del Fis in carcere. Il 26 dicembre 1991 fu un nuovo tsunami, più grande del primo. Al primo turno avevano già il 48% dei seggi parlamentari, ed erano in ballottaggio in molte province. Era chiaro che se ci fosse stato il secondo turno avrebbero vinto la maggioranza assoluta. Si parla ovunque di pressioni e brogli. Mohamed Said, uno dei nuovi leader della nuova direzione annuncia che “gli algerini si devono preparare ad un cambiamento nel modo di vivere.” L’ombra della polizia religiosa, come in Arabia Saudita, planava sulle strade di Algeri.

L’11 gennaio 1992 l’esercito occupa le piazze. Il Presidente Chadli Bendjedid è costretto a dimettersi. L’esercito nomina un governo provvisorio e chiama a dirigerlo un eroe della guerra di liberazione che aveva vissuto fin a quel momento in esilio: Mohammad Boudiaf. Il Fis è sciolto per decisione giudiziaria e decine di migliaia di militanti e eletti locali del movimento sono deportati senza processo verso dei campi di tende in mezzo al deserto. Il seguito lo sappiamo: lacrime e sangue per quasi due decenni.

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Quali domande mi suscita la situazione egiziana di oggi? Quali elementi di risposta mi possono venire in mente? Leggere su Almablog

Guardare l’Egitto e ricordare l’Algeria


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

(Foto: Bambini vestiti di sudari sfilano per Morsi)

Cosa posso sentire oggi, io, di fronte a quello che succede in Egitto? Cosa possono sentire milioni di Algerini, di fronte al caos che colpisce questo paese vicino?

L’altro giorno su Facebook ho visto un post di un famoso blogger egiziano, Wael Abbas, che diceva: “benvenuti in Algeria!”. Qualche giorno dopo mentre ero in macchina la “redazione esteri” di Radio Popolare (capeggiata da un giornalista di origine algerina, Chaouki Senoussi) tentò una analisi in cui spiegava sostanzialmente che “la situazione egiziana non è paragonabile a quella algerina del 1992 perché all’epoca in Algeria gli Islamisti non avevano la maggioranza.”

Ed è tutto un ping-pong di opinioni sul web e sui giornali tra chi sostiene che i due scenari siano uguali e chi sostiene il contrario.

Sicuramente sentendo, vedendo quello che succede in Egitto tutti i giorni, non posso fermare il mio pensiero dal volare verso quei giorni traumatici vissuti tra il 1991 e il 1992.

Nel 1988 ci fu una insurrezione generale. Che non assomigliava nella forma a quelle di che in questi anni hanno messo fine ad alcuni regimi arabi. I tempi erano diversi. L’Algeria era un paese socialista (almeno ufficialmente) e se non faceva parte del blocco sovietico era comunque alla sinistra dell’organizzazione dei non allineati. Il ghiaccio della guerra fredda si stava sciogliendo e il “wind of change”, come canteranno gli “Scorpions” 3 anni dopo, il vento del cambiamento cominciava a soffiare. Ma invece di svegliare le masse sottomesse alle dittature svegliò prima l’appetito vorace delle leadership corrotte: Era ora di sbarazzarsi del guscio socialista per far fruttare le fortune e il potere acquisiti in quel contesto ormai svuotato di significato e di fascino in quello del capitalismo.

Il terrore poliziesco era arrivato alle stelle. Il cantante dissidente Matoub Lounes cantava: «Due Lettere instaurano la paura: S e M. Siamo terrorizzati anche in pieno giorno». SM erano le iniziali di “Sécurité Militaire”, i servizi segreti. Ma ciò nonostante il fronte sociale era caldo, c’erano scioperi e manifestazioni, sempre duramente represse, un po’ ovunque. L’inflazione era alle stelle. Lo stipendio medio permetteva giusto di comprare le cose vendute a prezzo sostenuto nei negozi di stato. Peccato che questi erano quasi sempre vuoti. La rendita degli idrocarburi che aveva assicurato un benessere relativo per anni era entrata in crisi. I paesi del Golfo Persico stavano inondando il mercato sotto milioni di barili di petrolio al giorno. Iran e Iraq che erano in guerra lo facevano per sostenere lo sforzo bellico. Le monarchie arabe semplicemente per destabilizzare il mercato a loro favore. Il petrolio era sceso sotto la soglia dei venti dollari al barile. Per paesi che non avevano la capacità produttiva della penisola araba e popolazioni molto più numerose furono anni duri. E l’Algeria era una di quelli.


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

Il 5 ottobre 1988 è tutto il sistema che entra in collasso. È l’insurrezione generale. Ma le scintille scatenanti partono da dentro il regime stesso. Chadli Bendjedid, l’allora presidente della repubblica in un discorso alla nazione in TV invita la gente a sollevarsi se vogliono il cambiamento. Tante città del paese sono messe a fuoco da bande di cittadini furiosi. Davanti all’incapacità delle unità antisommosse della polizia a ripristinare l’ordine, l’esercito esce nelle strade e la repressione si fa spietata. I militari sparano abbondantemente sulla folla.: si parla di 500 a 800 morti. Migliaia i feriti, arresti e tortura in numeri considerevoli.

Ma oltre l’invito a sollevarsi lanciato in televisione dal presidente, ci sono tante altre stranezze nell’insurrezione del 1988.

Uno: l’onda coinvolge tutto il Nord del paese, stranamente, tranne la Cabilia, regione sempre pronta a scattare;

Due: gli attivisti dei movimenti di sinistra, tra cui lo scrittore Kateb Yacine, sono arrestati la vigilia dell’inizio degli scontri; ( Abed Charef, Algérie ’88 Un chahut de gamins.? Laphomic, Alger, 1990 ).

Tre: Mentre la repressione preventiva si abbatte sugli attivisti di sinistra, gli integralisti del futuro Fronte Islamico della Salvezza (FIS) hanno tutta la libertà di movimento di cui hanno bisogno e riescono ad organizzare una manifestazione durante il coprifuoco generale e a recuperare così a loro profitto la rabbia dei giovani, delle vittime della tortura e delle famiglie dei caduti.

Quelli eventi segnano due grandi cambiamenti: proclamazione della liberalizzazione della politica e soprattutto dell’economia e l’entrata in campo degli islamisti come attori politici di primo piano.

Dopo le riforme politiche, il paese entra in una vera fase euforica. Ci sembra di essere usciti definitivamente dal tunnel. La parola “dimuqratiya”, democrazia, si mangiava a tutte le salse. I partiti politici crescono come funghi, i chioschi a giornale che finora vendevano solo quelli del partito esibiscono una miriade di nuove testate. La tv e la radio nazionale si apre alle opposizioni o almeno fa finta di farlo. Si parla di politica ovunque… Ma la doccia fredda non tarda ad arrivare.


Guardare l'Egitto e ricordare l'Algeria

(Foto: il figlio di Ali Benhadj arringa la folla)
Mi ricordo come oggi del 12 giugno 1990. Ci sono state le prime (e ultime)elezioni amministrative libere . Avevo monitorato lo spoglio delle schede nel nostro comune e quando uscì vittorioso il Fronte delle Forze Socialiste (FFS), anche se non sono mai stato uno di loro, visto che militavo molto più a sinistra, sono andato a festeggiare la vittoria con i suoi elettori. Quello che si festeggiava non era la vittoria di quel partito, ma la meraviglia di vedere finalmente una elezione non teleguidata. Ma il mattino del 13 ci aspettava uno choc. Il Fronte Islamico della Salvezza aveva letteralmente conquistato il paese: 54% di voti, maggioranza in 46% dei consigli municipali e 55% dei consigli di Wilayat (Province).

Dopo quello tsunami il sogno era finito e poco poco scivolò verso l’incubo. Le pressioni da parte dei militari obbligano il governo a rimandare la data delle legislative. Gli islamisti sicuri di vincerle cominciano un vero braccio di ferro. Sciopero generale, Sit-in nelle piazze di Algeri. Una situazione che durò varie settimane fin quando interviene l’esercito a sgomberare le piazze e fa arrestare alcuni membri della direzione del Fronte Islamico della Salvezza. Tra gli arrestati i due principali leader, rappresentanti delle principali correnti del Fronte: Abbassi Madani (presidente del consiglio direttivo e figura “moderata”) e Ali Behhadj (vice presidente e leader carismatico dell’ala dura del movimento).


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Nel frattempo molte cose sono successe anche a livello internazionale. Il Fronte Islamico era sostenuto e finanziato dalle monarchie del Golfo Persico (sempre loro, sì). Nella notte del 2 agosto 1990 l’esercito iracheno invade il Kuwait. La direzione del Fis è ovviamente per il sostegno della monarchia islamica contro il mostro laico iracheno. Ma nel meeting che organizzano in una sala polisportiva di Algeri per annunciare la linea da seguire trovano una sala scaldata a bianco, ma lo slogan cantato è: “Ya Saddam Ya habib /damar damar Tal Abib!”, (Saddam amato nostro /distruggi distruggi Tel-Aviv). Il militante medio del Fis di quelli anni era in genere un islamista di fresca data. L’Islam politico fino agli anni 90 aveva poco pubblico in Algeria. E i giovani che erano entrati in massa nel partito di Dio, più per ripicca contro le repressioni che per altro, erano cresciuti come tutti noi a pane e anti-imperialismo. E per tutti noi le monarchie del Golfo erano la mano dell’imperialismo americano nella regione, punto e basta. La direzione del Fis era davanti a un dilemma: sostenere il Kuwait e perdere la base o sostenere Saddam e perdere i petrodollari. Preferirono la base. Il Fis ne usci indebolito economicamente ma più popolare che mai.

Dopo la repressione il governo organizzò lo stesso le elezioni legislative, con qualche mese di ritardo e con i leader del Fis in carcere. Il 26 dicembre 1991 fu un nuovo tsunami, più grande del primo. Al primo turno avevano già il 48% dei seggi parlamentari, ed erano in ballottaggio in molte province. Era chiaro che se ci fosse stato il secondo turno avrebbero vinto la maggioranza assoluta. Si parla ovunque di pressioni e brogli. Mohamed Said, uno dei nuovi leader della nuova direzione annuncia che “gli algerini si devono preparare ad un cambiamento nel modo di vivere.” L’ombra della polizia religiosa, come in Arabia Saudita, planava sulle strade di Algeri.

L’11 gennaio 1992 l’esercito occupa le piazze. Il Presidente Chadli Bendjedid è costretto a dimettersi. L’esercito nomina un governo provvisorio e chiama a dirigerlo un eroe della guerra di liberazione che aveva vissuto fin a quel momento in esilio: Mohammad Boudiaf. Il Fis è sciolto per decisione giudiziaria e decine di migliaia di militanti e eletti locali del movimento sono deportati senza processo verso dei campi di tende in mezzo al deserto. Il seguito lo sappiamo: lacrime e sangue per quasi due decenni.

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Di: Anna Maria Corsini

Nella primavera 2009 ho visitato il monastero di Marmuse e ne sono rimasta ammirata per la bellezza del luogo e soprattutto della sua cura. Questa terra mi è rimasta nel cuore. Credo che il dialogo intereligioso ed interculturale sia la strada più importante per arrivare ad affermare la giustizia e quindi la pace.
Abito a Crotone e faccio parte di un’associazione che si occupa della formazione culturale delle persone e di altro…Mia figlia ha partecipato ad un incontro tenuto da Eva Ziedan e Lorenzo Trombetta a Verona, questa primavera, organizzato dall’associazione 2 facce. Siamo amici con Silvano, Alessandro e Paola del monastero del bene comune, di Sezano.
Vorremmo entrare in contatto con Eva e Lorenzo per organizzare qualche incontro insieme qui in Calabria.
Vi ringrazio ed attendo una vostra risposta
Anna

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I TG italiani stanno diffondendo da settimane (e la situazione sta peggiorando), DATI FALSI sull’Egitto (numeri falsi, ruoli invertiti, ecc.). Per chi ne vuole sapere di più, seguiteci sul gruppo “La verità sull’Egitto dopo il 30 giugno” (la sottoscritta, Marco … Continue reading

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Tell al Zaater, agosto 1976: 3000 morti palestinesi per mano siriana

3000 cadaveri…un migliaio in più di quelli di Sabra e Chatila: il paese è lo stesso, il Libano, ed anche il sangue è lo stesso, sangue palestinese, sangue di profughi palestinesi. La mano non è la stessa però: mentre a Sabra e Chatila i quasi duemila morti vengono fatti sotto ordine israeliano ( a gestire […]

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