Categoria: Great Game

Attacco al cuore di Kabul, la versione dei talebani (aggiornato)

La bandiera dei talebani

La strage di martedi a Kabul (64 morti e 340 feriti) è stata rivendicata dai talebani con un comunicato sul sito della guerriglia che per la prima volta  dettaglia l’intera operazione, la prima grossa prova di forza dell’operativo “Omari”, ossia la cosiddetta campagna di primavera intitolata a mullah Omar (c’era anche Gentiloni a Kabul). I talebani dettagliano momento per momento l’attacco (pubblicato poco dopo la chiusura degli incidenti con un “final report” quasi in tempo reale) durato dal mattino alle 9 sino alle tre del pomeriggio con un autobus carico di esplosivo e alcuni  guerriglieri che hanno cercato di forzare l’ingresso di un’unità dei servizi segreti che si occupa della protezione dei Vip. L’obiettivo si trova accanto al ministero della Difesa (Pul-e-Mahmood Khan) e all’interno di un’area sempre affollata a quell’ora, sino alle  cinque del pomeriggio, perché a due passi dal bazar cittadino che è particolarmente frequentato la mattina. I talebani fanno mostra di aver preso in considerazione l’aspetto vittime civili in una zona, scrivono, dove civili non ce ne sono proprio perché situata vicino alla Difesa e al palazzo presidenziale. A detta loro nessun civile sarebbe stato ucciso ma solo lievemente ferito dalle schegge dell’esplosione perché chi non è autorizzato non può circolare nei pressi dei ministeri. In realtà, anche le zone più sorvegliate, come la Difesa o il ministero dell’Interno, sono molto frequentate da civili che a piedi, in bici o in macchina ci passano davanti. Non si può sostare ma ci si può tranquillamente passare accanto. Secondo la guerriglia in turbante 92 agenti sarebbero stati uccisi e tra loro alcune figure chiave dei servizi. Con l’arrivo di mullah Mansur la propaganda talebana e la capacità mediatica sono notevolmente aumentate anche nella qualità dell’esposizione dei fatti. La veridicità è un altro discorso.

Attacco al cuore di Kabul, la versione dei talebani (aggiornato)

La bandiera dei talebani

La strage di martedi a Kabul (64 morti e 340 feriti) è stata rivendicata dai talebani con un comunicato sul sito della guerriglia che per la prima volta  dettaglia l’intera operazione, la prima grossa prova di forza dell’operativo “Omari”, ossia la cosiddetta campagna di primavera intitolata a mullah Omar (c’era anche Gentiloni a Kabul). I talebani dettagliano momento per momento l’attacco (pubblicato poco dopo la chiusura degli incidenti con un “final report” quasi in tempo reale) durato dal mattino alle 9 sino alle tre del pomeriggio con un autobus carico di esplosivo e alcuni  guerriglieri che hanno cercato di forzare l’ingresso di un’unità dei servizi segreti che si occupa della protezione dei Vip. L’obiettivo si trova accanto al ministero della Difesa (Pul-e-Mahmood Khan) e all’interno di un’area sempre affollata a quell’ora, sino alle  cinque del pomeriggio, perché a due passi dal bazar cittadino che è particolarmente frequentato la mattina. I talebani fanno mostra di aver preso in considerazione l’aspetto vittime civili in una zona, scrivono, dove civili non ce ne sono proprio perché situata vicino alla Difesa e al palazzo presidenziale. A detta loro nessun civile sarebbe stato ucciso ma solo lievemente ferito dalle schegge dell’esplosione perché chi non è autorizzato non può circolare nei pressi dei ministeri. In realtà, anche le zone più sorvegliate, come la Difesa o il ministero dell’Interno, sono molto frequentate da civili che a piedi, in bici o in macchina ci passano davanti. Non si può sostare ma ci si può tranquillamente passare accanto. Secondo la guerriglia in turbante 92 agenti sarebbero stati uccisi e tra loro alcune figure chiave dei servizi. Con l’arrivo di mullah Mansur la propaganda talebana e la capacità mediatica sono notevolmente aumentate anche nella qualità dell’esposizione dei fatti. La veridicità è un altro discorso.

Post coloniale: rubare è il nostro mestiere. Il caso Koh-i-Nur

Da oggi il titolo di questo post potrebbe essere causa di una citazione per danni. E si perché le diatribe post coloniali non finiscono mai e, sorprendentemente, anche chi ne ha subito gli effetti è pronto a riconoscere che in molti casi furto non fu. Non sempre ovviamente: chiedetelo un po’ ai Greci che ne pensano dei frontoni del Partenone che si trovano al British Museum o agli Etiopi se son contenti che la stele di Axum ad Axum sia tornata. Ma oggi,  davanti alla Suprema corte indiana il General Solicitor  Ranjit Kumar, che esprimeva l’opinione del governo, ha dato ragione ai britannici sul famoso diamante Koh-i-Nur (Montagna di luce), gemma che adorna la corona di sua Maestà britannica da più di un secolo: 108 carati di diamante che sono un pezzo di Storia, coloniale e non. La causa sul diritto alla proprietà, l’ha promossa una Ong indiana, la All India Human Rights & Social Justice Front che però, oltre alla corona britannica, adesso ha contro il governo di Narendra Modi.

Quel diamante ha una lunga storia, anzi un’epopea che provo a riassumere in due parole: le origini sono incerte, probabilmente indiane, nell’Andra Pradesh, dove la gemma regale fu trovata pare nel XIII secolo. Finì nelle mani della dinastia indù dei Kakatiya, regno che fu poi spodestato dal sultanato di Delhi. Ma c’è chi dice che quella pietra già adornasse i tesori dei re ben prima della nascita di Cristo. A Delhi comunque siede  Babur, un uomo di origini turco mongole (discendeva da Tamerlano e Gengis Khan) ma molto influenzato dalla cultura persiana che nel ‘500 fonda in India l’impero moghul. Babur, che volle essere seppellito a Kabul (conquistata nel 1504)- e  dove tuttora si trova la sua tomba nei giardini che portano il suo nome –  si accaparra la gemma che diventa il “diamante di Babur”, un re “afgano” a Delhi (anche se era originario della valle del Fergana, Babur si era, come dire, afganizzato e aveva fatto di quella città – dove alla fine volle essere seppellito per “vederne il cielo” – un giardino). Il gioiello entra dunque nella sfera afgano-persiana della storia e ancor di più quando diviene la pietra di Nader Shah, lo scià di Persia (1736–47) conquistatore, tra l’altro, dell’Afghanistan e in grado di invadere l’India battendo le truppe moghul. Ma gli afgani erano in agguato e quando il suo impero collassa, la gemma passa nelle mani di Ahmad Shāh Durrānī, il creatore di un regno afgano a tutti gli effetti, fondatore di quel che oggi consideriamo il Paese dell’Hindukush (muore nel 1772). Un suo discendente (su cui ci siamo a  lungo dilungati), Shah Shuja (1785-1842), diviene proprietario della pietra che però non gli porta fortuna. Uomo reinsediato al trono afgano dai britannici, sarà costretto alla fuga durante la quale porterà con sé la Montagna di luce.

Babur il grande: sopra Nader Shah

Shah Shuja chiede ospitaltà al re guerriero sikh  Ranjit Singh, che lo ospita a Lahore ma gli chiede in cambio la pietra, chissà se promettendogli un ritorno in Afghanistan. La pietra per Ranjit è il coronamento di un potere assoluto e ne fa dono a un tempio di Puri, in Orissa. Ma nel 1849 (Ranjit muore nel 1839), dopo la seconda guerra anglo-sikh, i britannici prendono possesso del Punjab e si accaparrano la pietra che viene ceduta alla Regina Vittoria mentre la Compagnia delle Indie si pappa tutto il resto dei beni del maharaja sconfitto.

Certo la pietra fu ceduta e non trafugata e vi è traccia di quei passaggi di mano sanciti da un trattato. Ma è una storia di vincitori e vinti e di una pietra, asiatica a tutti gli effetti, che la Regina d’Oltremanica voleva per sé in Europa (o meglio, nel Regno Unito). Potremmo chiosare che Vittoria forse non immaginava che, dall’India, avrebbe guadagnato un diamante ma, da lì a breve, nel 1947 avrebbe perso la perla dell’Impero: e cioè l’India intera, comprese le montagne dell’Andra Pradesh da cui proveniva la bella Koh-i-Nur

Post coloniale: rubare è il nostro mestiere. Il caso Koh-i-Nur

Da oggi il titolo di questo post potrebbe essere causa di una citazione per danni. E si perché le diatribe post coloniali non finiscono mai e, sorprendentemente, anche chi ne ha subito gli effetti è pronto a riconoscere che in molti casi furto non fu. Non sempre ovviamente: chiedetelo un po’ ai Greci che ne pensano dei frontoni del Partenone che si trovano al British Museum o agli Etiopi se son contenti che la stele di Axum ad Axum sia tornata. Ma oggi,  davanti alla Suprema corte indiana il General Solicitor  Ranjit Kumar, che esprimeva l’opinione del governo, ha dato ragione ai britannici sul famoso diamante Koh-i-Nur (Montagna di luce), gemma che adorna la corona di sua Maestà britannica da più di un secolo: 108 carati di diamante che sono un pezzo di Storia, coloniale e non. La causa sul diritto alla proprietà, l’ha promossa una Ong indiana, la All India Human Rights & Social Justice Front che però, oltre alla corona britannica, adesso ha contro il governo di Narendra Modi.

Quel diamante ha una lunga storia, anzi un’epopea che provo a riassumere in due parole: le origini sono incerte, probabilmente indiane, nell’Andra Pradesh, dove la gemma regale fu trovata pare nel XIII secolo. Finì nelle mani della dinastia indù dei Kakatiya, regno che fu poi spodestato dal sultanato di Delhi. Ma c’è chi dice che quella pietra già adornasse i tesori dei re ben prima della nascita di Cristo. A Delhi comunque siede  Babur, un uomo di origini turco mongole (discendeva da Tamerlano e Gengis Khan) ma molto influenzato dalla cultura persiana che nel ‘500 fonda in India l’impero moghul. Babur, che volle essere seppellito a Kabul (conquistata nel 1504)- e  dove tuttora si trova la sua tomba nei giardini che portano il suo nome –  si accaparra la gemma che diventa il “diamante di Babur”, un re “afgano” a Delhi (anche se era originario della valle del Fergana, Babur si era, come dire, afganizzato e aveva fatto di quella città – dove alla fine volle essere seppellito per “vederne il cielo” – un giardino). Il gioiello entra dunque nella sfera afgano-persiana della storia e ancor di più quando diviene la pietra di Nader Shah, lo scià di Persia (1736–47) conquistatore, tra l’altro, dell’Afghanistan e in grado di invadere l’India battendo le truppe moghul. Ma gli afgani erano in agguato e quando il suo impero collassa, la gemma passa nelle mani di Ahmad Shāh Durrānī, il creatore di un regno afgano a tutti gli effetti, fondatore di quel che oggi consideriamo il Paese dell’Hindukush (muore nel 1772). Un suo discendente (su cui ci siamo a  lungo dilungati), Shah Shuja (1785-1842), diviene proprietario della pietra che però non gli porta fortuna. Uomo reinsediato al trono afgano dai britannici, sarà costretto alla fuga durante la quale porterà con sé la Montagna di luce.

Babur il grande: sopra Nader Shah

Shah Shuja chiede ospitaltà al re guerriero sikh  Ranjit Singh, che lo ospita a Lahore ma gli chiede in cambio la pietra, chissà se promettendogli un ritorno in Afghanistan. La pietra per Ranjit è il coronamento di un potere assoluto e ne fa dono a un tempio di Puri, in Orissa. Ma nel 1849 (Ranjit muore nel 1839), dopo la seconda guerra anglo-sikh, i britannici prendono possesso del Punjab e si accaparrano la pietra che viene ceduta alla Regina Vittoria mentre la Compagnia delle Indie si pappa tutto il resto dei beni del maharaja sconfitto.

Certo la pietra fu ceduta e non trafugata e vi è traccia di quei passaggi di mano sanciti da un trattato. Ma è una storia di vincitori e vinti e di una pietra, asiatica a tutti gli effetti, che la Regina d’Oltremanica voleva per sé in Europa (o meglio, nel Regno Unito). Potremmo chiosare che Vittoria forse non immaginava che, dall’India, avrebbe guadagnato un diamante ma, da lì a breve, nel 1947 avrebbe perso la perla dell’Impero: e cioè l’India intera, comprese le montagne dell’Andra Pradesh da cui proveniva la bella Koh-i-Nur

Quel giorno a Bandung quando nacquero i non allineati

Cerano una volta Tito, Sukarno, Nasser, Ciu e tanti altri che provarono a superare il bipolarismo Usa Urss, quello della Guerra fredda (e del terrore atomico). I non allineati ci provarono anche se è andata male. Fu un esperimento importante.  Oggi proviamo a raccontare la conferenza di Bandung,  a Wikiradio alle 14. Era il 18 aprile 1955

Le trasmissioni in podcast – dopo la messa in onda, si possono sentire  qui

Repertorio

frammento da African Conference in Bandung – Warner Pathé News

– Conferenza di Belgrado – Settimana Incom 02118 dell’8/9/1961 – Archivio Luce

– Discorso di apertura dell’indonesiano Sukarno

– intervista di Andrea Barbato al ministro degli esteri indiano Krishna Menon tratta dal programma televisivo Quel giorno- Morte di Gandhi – Archivi Rai

– Estratti delle conclusioni e del decalogo della Conferenza di Bandung tratti dal programma radiofonico: I Paesi non-allineati. Passato e Presente. Come si arrivò alla Conferenza di Bandung, 1,8 agosto 1971 – Terzo Programma – Archivi Rai

Quel giorno a Bandung quando nacquero i non allineati

Cerano una volta Tito, Sukarno, Nasser, Ciu e tanti altri che provarono a superare il bipolarismo Usa Urss, quello della Guerra fredda (e del terrore atomico). I non allineati ci provarono anche se è andata male. Fu un esperimento importante.  Oggi proviamo a raccontare la conferenza di Bandung,  a Wikiradio alle 14. Era il 18 aprile 1955

Le trasmissioni in podcast – dopo la messa in onda, si possono sentire  qui

Repertorio

frammento da African Conference in Bandung – Warner Pathé News

– Conferenza di Belgrado – Settimana Incom 02118 dell’8/9/1961 – Archivio Luce

– Discorso di apertura dell’indonesiano Sukarno

– intervista di Andrea Barbato al ministro degli esteri indiano Krishna Menon tratta dal programma televisivo Quel giorno- Morte di Gandhi – Archivi Rai

– Estratti delle conclusioni e del decalogo della Conferenza di Bandung tratti dal programma radiofonico: I Paesi non-allineati. Passato e Presente. Come si arrivò alla Conferenza di Bandung, 1,8 agosto 1971 – Terzo Programma – Archivi Rai

La Kabul di Juliano sahib

Riproduzione tratta da Iranicaonline

A Kabul, al mattino per prima cosa mi affaccio sulla terrazza di casa. Di fronte a me, in lontananza, ci sono le montagne dell’Hindu Kush, innevate anche in primavera, sulla rotta che punta al Nord, al passo Salang e poi alla città di Kunduz. A Ovest si va verso Mazar-e-Sharif, all’antica Balkh di Alessandro Magno, nella terra dei meloni zuccherini, fino al Turkmenistan. A Nord, a due passi c’è Dushanbe e il Tajikistan, oltre un confine trafficato. A Est ci sono le più antiche miniere di lapislazzuli al mondo e il Wakhan, la sottile lingua di terra che collega l’Afghanistan al Turkestan cinese degli uighuri oppressi da Pechino…”

Leggi tutto  il racconto sulla capitale afgana (Kabul mon amour) di Giuliano Battiston illustrato da Gio Pastori per The Towner

La Kabul di Juliano sahib

Riproduzione tratta da Iranicaonline

A Kabul, al mattino per prima cosa mi affaccio sulla terrazza di casa. Di fronte a me, in lontananza, ci sono le montagne dell’Hindu Kush, innevate anche in primavera, sulla rotta che punta al Nord, al passo Salang e poi alla città di Kunduz. A Ovest si va verso Mazar-e-Sharif, all’antica Balkh di Alessandro Magno, nella terra dei meloni zuccherini, fino al Turkmenistan. A Nord, a due passi c’è Dushanbe e il Tajikistan, oltre un confine trafficato. A Est ci sono le più antiche miniere di lapislazzuli al mondo e il Wakhan, la sottile lingua di terra che collega l’Afghanistan al Turkestan cinese degli uighuri oppressi da Pechino…”

Leggi tutto  il racconto sulla capitale afgana (Kabul mon amour) di Giuliano Battiston illustrato da Gio Pastori per The Towner

Formidable

Mantova 2014 (Festival della letteratura) alla cena del Comitato locale di Emergency. Foto di Maso Notarianni

Formidable

Mantova 2014 (Festival della letteratura) alla cena del Comitato locale di Emergency. Foto di Maso Notarianni

Libri consigliati: Battiston su Daesh

Venerdì 1 aprile è uscito per l’Espresso un ebook di Giuliano Battiston: “Stato islamico. La vera storia”. 

La genesi, i protagonisti, l’ideologia, la strategia militare, la governance dei territori, la propaganda, le finanze, i foreign fighters. Un viaggio dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Egitto alla Siria, dal Pakistan alla valle del Pankisi, passando per il cuore dell’Europa. Il racconto dall’interno delle ragioni che hanno portato alla nascita e all’affermazione del gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, dentro la storia più ampia del jihadismo contemporaneo.

Acquista cliccando qui

Libri consigliati: Battiston su Daesh

Venerdì 1 aprile è uscito per l’Espresso un ebook di Giuliano Battiston: “Stato islamico. La vera storia”. 

La genesi, i protagonisti, l’ideologia, la strategia militare, la governance dei territori, la propaganda, le finanze, i foreign fighters. Un viaggio dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Egitto alla Siria, dal Pakistan alla valle del Pankisi, passando per il cuore dell’Europa. Il racconto dall’interno delle ragioni che hanno portato alla nascita e all’affermazione del gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, dentro la storia più ampia del jihadismo contemporaneo.

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In Asia il primato della pena capitale

«Iran, Pakistan e Arabia Saudita hanno fatto un uso senza precedenti della pena di morte, spesso al termine di processi gravemente irregolari. Questo massacro deve cessare. Per fortuna, gli Stati che continuano a eseguire condanne a morte sono una piccola e sempre più isolata minoranza. La maggior parte ha voltato le spalle alla pena di morte e nel 2015 altri quattro Paesi hanno abolito del tutto questa barbara sanzione dai loro codici». Nelle parole di Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. c’è tutto il contenuto del rapporto dell’organizzazione internazionale sulla pena di morte nel mondo durante il 2015. Luci e ombre. La maggior parte delle quali sta in Asia.

Secondo AI, il 2015 ha registrato il più alto numero di esecuzioni da oltre 25 anni e tre Paesi (Iran, Pakistan e Arabia Saudita) sono stati responsabili di quasi il 90 per cento delle esecuzioni note. Note, perché il grande assassino di Stato è la Cina che però non fa filtrare dati dal momento che quelli sulle esecuzioni sono segreto di Stato. Queste le ombre. La luce dice invece che per la prima volta, con le quattro abrogazioni del 2015 (Figi, Madagascar, Repubblica del Congo e Suriname), la maggior parte dei Paesi del pianeta risulta abolizionista per tutti i reati. E’ una buona notizia che solo in parte redime un bilancio che fa i conti con almeno 1634 prigionieri messi a morte: oltre il doppio rispetto all’anno precedente e il più alto numero registrato da Amnesty dal 1989. Un dato che – come accennavamo – non comprende la Cina, Paese dove è probabile – dice il rapporto – che le esecuzioni siano state «migliaia».

L’Iran ha mandato a morte almeno 977 prigionieri (erano 743 nel 2014), la maggior parte dei quali per reati legati agli stupefacenti. L’Iran resta anche uno degli ultimi Paesi al mondo a eseguire condanne a morte inflitte a minorenni al momento del reato (almeno quattro nel 2015).
L’Arabia Saudita si guadagna un bel primato: le esecuzioni sono aumentate del 76% rispetto al 2014, con almeno 158 prigionieri mandati al patibolo. La maggior parte delle condanne è stata eseguita mediante decapitazione ma in alcuni casi è stato impiegato anche il plotone d’esecuzione e a volte i cadaveri dei giustiziati sono stati esibiti in pubblico. Una pratica pedissequamente seguita da Daesh.
Il Pakistan invece si distingue per aver abolito nel dicembre del 2014 la moratoria in vigore e ha iniziato nuovamente a impiccare: nel 2015 sono stati uccisi con la corda al collo oltre 320 prigionieri, il maggior numero mai registrato da Amnesty International. Il Pakistan, aggiungiamo noi, deve questa scelta al suo modo di combattere il terrorismo: dopo le ultime stragi islamiste, il governo non solo ha sospeso la moratoria ma ha permesso alle corti militari di comminare la pena capitale, uno strumento che il Pakistan crede possa servire a combattere la piaga jihadista. In realtà il numero di omicidi mirati (con l’aviazione o la fanteria) non è noto e, a ben vedere, andrebbe conteggiato nelle morti di Stato (stesso discorso per le esecuzioni fatte con i droni da altri Paesi, come Israele e Stati Uniti): ricercatori e reporter non possono infatti verificare cosa sta accadendo nelle aree tribali dove da due anni l’esercito porta avanti una vera e propria guerra senza quartiere ai rifugi dei jihadisti. Quante vittime civili ci siano state è dunque impossibile da determinare: secondo l’esercito addirittura, di vittime civili non ce ne sarebbe stata nessuna!

Tornando al rapporto, Amnesty International ha registrato un considerevole aumento delle esecuzioni anche in altri Paesi, tra cui Egitto e Somalia e il numero di nazioni in cui sono state eseguite condanne a morte è salito a 25 rispetto ai 22 del 2014. Almeno sei Paesi che non avevano eseguito condanne a morte nell’anno precedente lo hanno fatto nel 2015: tra questi il Ciad, dove le esecuzioni sono riprese dopo oltre un decennio. I cinque principali Paesi per numero di esecuzioni del 2015 sono stati, nell’ordine, Cina, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti d’America e, per il settimo anno consecutivo, gli Usa sono stati gli unici a eseguire condanne a morte nel loro continente anche se le esecuzioni sono state 28, il numero più basso dal 1991, mentre le nuove condanne sono state 52, il numero più basso dal 1977, anno del ripristino della pena di morte. Lo Stato della Pennsylvania ha imposto una moratoria sulle esecuzioni e in comunque 18 Stati degli Usa sono completamente abolizionisti.

Visioni consigliate: Prima che la vita

Retsina tappo corona: una delle prime
bevande esotiche del Viaggio all’Eden

Il  film di Felice Pesoli PRIMA CHE LA VITA CAMBI NOI verrà proiettato allo Spazio Oberdan (Milano) in queste prossime date ed orari:
 Martedì 26 aprile (h 21.15) / Giovedì 28 aprile (h 21.15) / Domenica 1 maggio (h 19) / Martedì 3 maggio (h 19.30).

Vai alla pagine di fb di Prima che la vita cambi noi 

Leggi la recensione 

Una fondazione per le donne afgane. Nel nome di Soraya e nello spirito di Amanullah

Riporto l’intervista a Soraya Malek –  e il resoconto dell’incontro – dopo che alcuni giorni fa la nipote di re Amanullah ha intrattenuto una lunga conversazione con gli studenti della Scuola di Giornalismo Basso di Roma. La principessa ha parlato del suo prossimo impegno afgano a favore delle donne, in linea con l’eredità spirituale e politica dei suoi avi. A seguire un breve reportage dalla casa romana che ospitò il monarca e la sua famiglia  durante l’esilio.

Quando andrò a Kabul fonderò la Soraya d’Afghanistan Foundation proprio in onore di mia nonna. Per aiutare le donne dell’Afghanistan”. La principessa Soraya Malek annuncia agli studenti della scuola di giornalismo della Fondazione Basso, a Roma, l’intenzione di dare vita, anche nella capitale afgana, all’associazione nata in Italia con la collaborazione del Centro Studi Cappella Orsini. Obiettivo dell’iniziativa è la valorizzazione dei saperi tradizionali del Paese e la realizzazione di progetti finalizzati a rendere le donne afgane economicamente produttive, anche attraverso forme di comunicazione legate alle nuove tecnologie. È dal nonno, il re Amanullah Khan, che Soraya eredita il suo impegno al servizio del popolo afgano. Un impegno rivolto in particolare alle donne, costrette a vivere una condizione di forte limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.

In un’intervista sulla condizione femminile in Afghanistan, sua madre, la principessa India d’Afghanistan, afferma che il vero disastro per le donne afgane avviene a partire dall’invasione sovietica. Lei è d’accordo e, se sì, perché individua nell’invasione sovietica un momento di rottura rispetto al percorso di emancipazione delle donne in Afghanistan?
Con l’invasione sovietica sono saltati tutti i valori. È stata una cosa terribile. Per un anno non

sono riuscita a dormire la notte al pensiero dei sovietici che entravano con i carri armati in Afghanistan e che avvelenavano le acque. Con il senno del poi mi sono resa conto che si è trattato di una guerra a distanza tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Certamente i sovietici hanno fatto cose orribili però, osservando ciò che è successo in seguito, mi rendo conto che alcuni mali sono successivi a quell’evento di portata storica. Non dico che erano meglio i sovietici, o che era meglio Saddam Hussein, o Assad. Io ero per Saddam Hussein, anche se ovviamente non sono d’accordo su come Saddam ha affrontato la questione curda. Sotto il suo governo però le donne erano senza velo, potevano circolare liberamente nelle città. Tutte le donne, curde, arabe, persiane d’Iraq, sciite, sunnite. Non c’erano distinzioni. Adesso le donne di Iraq stanno come sappiamo. Lo stesso vale per le donne afgane. Comunque tutto è iniziato con l’invasione sovietica. Perché i sovietici hanno invaso l’Afghanistan? Niente succede per caso. Nel 1978 la Conferenza di Panama il G6 decise di non appoggiare più lo shah di Persia e di portare Khomeini in Iran. Gli occidentali volevano che lo shah dichiarasse guerra all’Iraq, ma lo shah si rifiutò perché non voleva mettere in discussione gli accordi di Algeri del 1975. Ma perché gli occidentali hanno favorito l’ascesa di Khomeini? Per destabilizzare le repubbliche socialiste sovietiche musulmane in Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. A quel punto l’Unione Sovietica ha deciso di invadere l’Afghanistan per paura che la propria area di influenza si contaminasse con l’integralismo, poi con il fondamentalismo. È tutto in mano all’Occidente e ai fondamentalisti che si fanno manovrare.

Riguardo al processo di emancipazione delle donne, lei considera la figura di Rula Ghani una figura di rottura rispetto al passato?
Ammiro molto Rula Ghani. Quest’anno, quando ha preso parte al meeting di Rimini, una giornalista le ha chiesto se si considerasse come la regina Soraya. Rula ha risposto di non esserne all’altezza perché non è una regina. Ha dichiarato pubblicamente che Soraya è stata la prima donna afgana, la prima regina d’Afghanistan, a uscire fuori dal Paese per farlo conoscere. È stata la prima a lavorare con le donne del suo Paese. Solo dopo Rula ha ammesso di essere “la seconda donna dell’Afghanistan” ad andare “all’estero per fare conoscere il Paese”. Il problema di Rula Ghani, e io le sono vicina, è che, essendo libanese, nasce maronita, quindi cristiana. Per ogni cosa che afferma riguardo il Corano viene tacciata di essere infedele. Quindi, deve essere sempre molto attenta a quello che sostiene. Però sta lavorando molto: ha una commissione di donne in gamba che si occupano di varie questioni, come la sanità e le imprese, che l’aiutano. Gira il mondo. È un faro anche per me.
Suo nonno, il re Amanullah Khan, a quali figure politiche e a quale cultura politica si è ispirato? Lei cosa sente di aver ereditato dello spirito riformista di suo nonno?
Il riferimento iniziale di Amanullah è stato Mahmud Tarzi, padre della regina Soraya, un grande intellettuale. Alla fine, purtroppo, Tarzi si è allontanato da Amanullah. Amanullah voleva che ci fosse un avanzamento veloce, mentre Mahmud Tarzi gli consigliava di procedere con più prudenza, per evitare complicazioni. E invece Amanullah non ha voluto seguire i suoi consigli ed ha accelerato il processo riformatore del Paese.
Quanto all’influenza dello spirito riformista di mio nonno, sì, c’è stata. In famiglia ci hanno sempre insegnato a servire il popolo afgano, anche se eravamo distanti. Io sono l’unica dei tredici nipoti di Amanullah che va in Afghanistan. Sento quasi il dovere di servire il popolo afgano, ma soprattutto le donne del mio Paese. Infatti, quando andrò a Kabul, fonderò la Soraya d’Afghanistan Foundation, proprio in onore di mia nonna. Per aiutare le donne afgane.
                                   ——————————————————————

L’incontro alla Fondazione Basso

“Ammiro molto Rula Ghani perché si batte per i diritti delle donne dell’Afghanistan”. Così a margine dell’incontro svoltosi presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso, Soraya Malek, nipote dell’omonima regina afghana del primo Novecento, giudica l’operato dell’attuale first lady. A breve, Soraya Malek aprirà una fondazione in difesa delle donne afghane, causa per cui si batte da quasi un secolo la sua famiglia.
L’incontro avvenuto mercoledì 16 marzo alla Fondazione Basso in via della Dogana Vecchia a Roma è stata l’occasione per ricostruire la storia del Re Amanullah Kahn negli anni venti, l’esilio della famiglia in Italia e l’attuale condizione delle donne e della società in Afghanistan.
La nipote del Re Amanullah Kahn, costretto alla fuga nel 1929, ha ripercorso la storia della famiglia reale nel Novecento. Dalle riforme politiche e sociali attuate a partire dall’insediamento di Amanullah: parità dei sessi; tutela delle minoranze; abolizione dell’obbligo di portare il velo e garanzia del diritto all’istruzione. I diritti per le donne come il divieto di matrimonio tra un uomo anziano e una giovanissima; l’istituzione di un tribunale per le donne vittime di torti, abusi o ingiustizie.
Poi la campagna di diffamazione nei confronti del nonno: “gli inglesi mettevano dei nastri registrati nascosti nelle moschee che dicevano “qui è Dio che parla, il vostro Re è un infedele”. Non mancano i ricordi tramandati nella famiglia reale a proposito dell’esilio in Italia ospite della casata Savoia. Il re era molto vicino a Vittorio Emanuele III, non amava Mussolini e gli chiese: “Come fai a farti mettere i piedi in testa da uno come il Duce?”. L’educazione ricevuta dalla principessa Soraya è ancora un ricordo nitido. Vivevano nell’attuale ambasciata nigeriana: “Era come un’accademia militare e una volta all’anno dovevamo servire il personale della villa. Mi ripetevano sempre che una famiglia reale ha il compito di servire il popolo”.
Non solo il passato, ma anche l’attuale condizione dell’Afghanistan, con “la dominazione occidentale per 14 anni con in testa gli Usa” non ha aiutato la figura della donna: “non hanno migliorato l’istruzione, hanno investito solo in addestramento militare”. sentenzia Soraya. “Quando torno in Afghanistan mi rendo conto di vivere una distanza abissale con il mio paese di origine; sono cresciuta qui in Italia e ho trascorso molto tempo con mia nonna, una sincera democratica. Ho potuto visitare l’Afghanistan diverse volte e sento come dovere quello di servire le donne afghane. Per questo motivo ho deciso di aprire una fondazione dedicata alla questione femminile.” Anche per questo, non mancano parole di ammirazione nei confronti dell’attuale first lady che non si definisce all’altezza della regina Soraya ma la rispetta molto e la riconosce come fonte di ispirazione per la tutela della donna. “Purtroppo – conclude la principessa – l’attuale first lady è nata cristiana e per ogni cosa che lei dice riguardo al Corano viene aggredita dai fondamentalisti perché giudicata infedele”.  

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L’infanzia romana della principessa d’Afghanistan

La luce che illumina il palazzo di via Orazio 14 a Roma, non scalda i ricordi rimasti al suo interno. Non c’è modo di entrare nel luogo che un tempo fu la casa della principessa Soraya. Oggi è l’ambasciata della Nigeria ma nel 1929 accolse la famiglia reale.
Nessuno che adesso lavori all’ambasciata saprebbe dire in quale stanza il re Amanullah si sedesse a raccontare alla nipotina Soraya della terra d’Afghanistan e del suo popolo. Le finestre del palazzo, alte e sormontate da un elegante arco di marmo bianco, hanno per lo più le serrande abbassate e alla vista è così sottratta ogni possibilità di scoperta. Basta poca immaginazione però per capire che affacciandosi su via Orazio, Soraya avrebbe visto la scuola dove passò l’infanzia. Più precisamente il retro dell’istituto e una scritta incisa sul muro: i caratteri regolari come le strade di questo ricco quartiere di Prati, si susseguono a formare parole fiere e sconfitte come “Opera nazionale balilla”. Anche la scuola Umberto I però, non ricorda più i sorrisi, le amicizie, la matita colorata impugnata per provare a scrivere le prime lettere dell’alfabeto sul foglio bianco, con mano tremante e curiosa. Oltre il cortile all’interno non si può andare; non si possono percorrere i corridoi della scuola, alla ricerca di qualche vecchia foto di classe.
Un caffè ristoratore potrà forse colmare la curiosità di penetrare questi luoghi inaccessibili. A meno che, lo sguardo di chi dietro al bancone del bar sta riempiendo la tazzina di caffè non si accenda e finalmente inizi a raccontare. I ricordi di Mario sono più che altro sensazioni: la scuola torna ad essere un luogo vivace in cui la moglie del barista baffuto e la principessa Soraya giocavano insieme da bambine. Nessuna differenza sociale le separava. Anche il palazzo di via Orazio 14 prende vita perché da lì usciva un signore distinto mano per mano con la sua piccola figliola: il padre di Soraya. “Si vedeva che era nobile, anche se non avresti mai detto che era un principe, tanto era alla mano”.
Quando la ricerca sembrava fallita, i racconti di Mario restituiscono un’idea dell’infanzia della principessa Afghana e permettono di spingersi ad immaginare anche il tipo di educazione ricevuta. Le stanze del palazzo, prima imperscrutabili, si riempiono di tradizioni afghane; di storie di famiglia tramandate di generazione in generazione; di valori nobili che non sono garanzia di uno status ma educano ed elevano l’animo.

L’intervista è di Annalisa Ramundo e Marta Facchini
Il resoconto è di Marco Mastrandrea
Il mini rep è di Marina de Ghantuz Cubbe

A questo lavoro, in gran parte collettivo, hanno anche partecipato Greta Bisello, Viola Brancatella, Marina de Ghantuz Cubbe, Marta Facchini, Marco Mastrandrea, Annalisa Ramundo, Giulia Sbaffi,  Alfredo Sprovieri, Federico Stefanutto,

Una fondazione per le donne afgane. Nel nome di Soraya e nello spirito di Amanullah

Riporto l’intervista a Soraya Malek –  e il resoconto dell’incontro – dopo che alcuni giorni fa la nipote di re Amanullah ha intrattenuto una lunga conversazione con gli studenti della Scuola di Giornalismo Basso di Roma. La principessa ha parlato del suo prossimo impegno afgano a favore delle donne, in linea con l’eredità spirituale e politica dei suoi avi. A seguire un breve reportage dalla casa romana che ospitò il monarca e la sua famiglia  durante l’esilio.

Quando andrò a Kabul fonderò la Soraya d’Afghanistan Foundation proprio in onore di mia nonna. Per aiutare le donne dell’Afghanistan”. La principessa Soraya Malek annuncia agli studenti della scuola di giornalismo della Fondazione Basso, a Roma, l’intenzione di dare vita, anche nella capitale afgana, all’associazione nata in Italia con la collaborazione del Centro Studi Cappella Orsini. Obiettivo dell’iniziativa è la valorizzazione dei saperi tradizionali del Paese e la realizzazione di progetti finalizzati a rendere le donne afgane economicamente produttive, anche attraverso forme di comunicazione legate alle nuove tecnologie. È dal nonno, il re Amanullah Khan, che Soraya eredita il suo impegno al servizio del popolo afgano. Un impegno rivolto in particolare alle donne, costrette a vivere una condizione di forte limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.

In un’intervista sulla condizione femminile in Afghanistan, sua madre, la principessa India d’Afghanistan, afferma che il vero disastro per le donne afgane avviene a partire dall’invasione sovietica. Lei è d’accordo e, se sì, perché individua nell’invasione sovietica un momento di rottura rispetto al percorso di emancipazione delle donne in Afghanistan?
Con l’invasione sovietica sono saltati tutti i valori. È stata una cosa terribile. Per un anno non

sono riuscita a dormire la notte al pensiero dei sovietici che entravano con i carri armati in Afghanistan e che avvelenavano le acque. Con il senno del poi mi sono resa conto che si è trattato di una guerra a distanza tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Certamente i sovietici hanno fatto cose orribili però, osservando ciò che è successo in seguito, mi rendo conto che alcuni mali sono successivi a quell’evento di portata storica. Non dico che erano meglio i sovietici, o che era meglio Saddam Hussein, o Assad. Io ero per Saddam Hussein, anche se ovviamente non sono d’accordo su come Saddam ha affrontato la questione curda. Sotto il suo governo però le donne erano senza velo, potevano circolare liberamente nelle città. Tutte le donne, curde, arabe, persiane d’Iraq, sciite, sunnite. Non c’erano distinzioni. Adesso le donne di Iraq stanno come sappiamo. Lo stesso vale per le donne afgane. Comunque tutto è iniziato con l’invasione sovietica. Perché i sovietici hanno invaso l’Afghanistan? Niente succede per caso. Nel 1978 la Conferenza di Panama il G6 decise di non appoggiare più lo shah di Persia e di portare Khomeini in Iran. Gli occidentali volevano che lo shah dichiarasse guerra all’Iraq, ma lo shah si rifiutò perché non voleva mettere in discussione gli accordi di Algeri del 1975. Ma perché gli occidentali hanno favorito l’ascesa di Khomeini? Per destabilizzare le repubbliche socialiste sovietiche musulmane in Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. A quel punto l’Unione Sovietica ha deciso di invadere l’Afghanistan per paura che la propria area di influenza si contaminasse con l’integralismo, poi con il fondamentalismo. È tutto in mano all’Occidente e ai fondamentalisti che si fanno manovrare.

Riguardo al processo di emancipazione delle donne, lei considera la figura di Rula Ghani una figura di rottura rispetto al passato?
Ammiro molto Rula Ghani. Quest’anno, quando ha preso parte al meeting di Rimini, una giornalista le ha chiesto se si considerasse come la regina Soraya. Rula ha risposto di non esserne all’altezza perché non è una regina. Ha dichiarato pubblicamente che Soraya è stata la prima donna afgana, la prima regina d’Afghanistan, a uscire fuori dal Paese per farlo conoscere. È stata la prima a lavorare con le donne del suo Paese. Solo dopo Rula ha ammesso di essere “la seconda donna dell’Afghanistan” ad andare “all’estero per fare conoscere il Paese”. Il problema di Rula Ghani, e io le sono vicina, è che, essendo libanese, nasce maronita, quindi cristiana. Per ogni cosa che afferma riguardo il Corano viene tacciata di essere infedele. Quindi, deve essere sempre molto attenta a quello che sostiene. Però sta lavorando molto: ha una commissione di donne in gamba che si occupano di varie questioni, come la sanità e le imprese, che l’aiutano. Gira il mondo. È un faro anche per me.
Suo nonno, il re Amanullah Khan, a quali figure politiche e a quale cultura politica si è ispirato? Lei cosa sente di aver ereditato dello spirito riformista di suo nonno?
Il riferimento iniziale di Amanullah è stato Mahmud Tarzi, padre della regina Soraya, un grande intellettuale. Alla fine, purtroppo, Tarzi si è allontanato da Amanullah. Amanullah voleva che ci fosse un avanzamento veloce, mentre Mahmud Tarzi gli consigliava di procedere con più prudenza, per evitare complicazioni. E invece Amanullah non ha voluto seguire i suoi consigli ed ha accelerato il processo riformatore del Paese.
Quanto all’influenza dello spirito riformista di mio nonno, sì, c’è stata. In famiglia ci hanno sempre insegnato a servire il popolo afgano, anche se eravamo distanti. Io sono l’unica dei tredici nipoti di Amanullah che va in Afghanistan. Sento quasi il dovere di servire il popolo afgano, ma soprattutto le donne del mio Paese. Infatti, quando andrò a Kabul, fonderò la Soraya d’Afghanistan Foundation, proprio in onore di mia nonna. Per aiutare le donne afgane.
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L’incontro alla Fondazione Basso

“Ammiro molto Rula Ghani perché si batte per i diritti delle donne dell’Afghanistan”. Così a margine dell’incontro svoltosi presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso, Soraya Malek, nipote dell’omonima regina afghana del primo Novecento, giudica l’operato dell’attuale first lady. A breve, Soraya Malek aprirà una fondazione in difesa delle donne afghane, causa per cui si batte da quasi un secolo la sua famiglia.
L’incontro avvenuto mercoledì 16 marzo alla Fondazione Basso in via della Dogana Vecchia a Roma è stata l’occasione per ricostruire la storia del Re Amanullah Kahn negli anni venti, l’esilio della famiglia in Italia e l’attuale condizione delle donne e della società in Afghanistan.
La nipote del Re Amanullah Kahn, costretto alla fuga nel 1929, ha ripercorso la storia della famiglia reale nel Novecento. Dalle riforme politiche e sociali attuate a partire dall’insediamento di Amanullah: parità dei sessi; tutela delle minoranze; abolizione dell’obbligo di portare il velo e garanzia del diritto all’istruzione. I diritti per le donne come il divieto di matrimonio tra un uomo anziano e una giovanissima; l’istituzione di un tribunale per le donne vittime di torti, abusi o ingiustizie.
Poi la campagna di diffamazione nei confronti del nonno: “gli inglesi mettevano dei nastri registrati nascosti nelle moschee che dicevano “qui è Dio che parla, il vostro Re è un infedele”. Non mancano i ricordi tramandati nella famiglia reale a proposito dell’esilio in Italia ospite della casata Savoia. Il re era molto vicino a Vittorio Emanuele III, non amava Mussolini e gli chiese: “Come fai a farti mettere i piedi in testa da uno come il Duce?”. L’educazione ricevuta dalla principessa Soraya è ancora un ricordo nitido. Vivevano nell’attuale ambasciata nigeriana: “Era come un’accademia militare e una volta all’anno dovevamo servire il personale della villa. Mi ripetevano sempre che una famiglia reale ha il compito di servire il popolo”.
Non solo il passato, ma anche l’attuale condizione dell’Afghanistan, con “la dominazione occidentale per 14 anni con in testa gli Usa” non ha aiutato la figura della donna: “non hanno migliorato l’istruzione, hanno investito solo in addestramento militare”. sentenzia Soraya. “Quando torno in Afghanistan mi rendo conto di vivere una distanza abissale con il mio paese di origine; sono cresciuta qui in Italia e ho trascorso molto tempo con mia nonna, una sincera democratica. Ho potuto visitare l’Afghanistan diverse volte e sento come dovere quello di servire le donne afghane. Per questo motivo ho deciso di aprire una fondazione dedicata alla questione femminile.” Anche per questo, non mancano parole di ammirazione nei confronti dell’attuale first lady che non si definisce all’altezza della regina Soraya ma la rispetta molto e la riconosce come fonte di ispirazione per la tutela della donna. “Purtroppo – conclude la principessa – l’attuale first lady è nata cristiana e per ogni cosa che lei dice riguardo al Corano viene aggredita dai fondamentalisti perché giudicata infedele”.  

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L’infanzia romana della principessa d’Afghanistan

La luce che illumina il palazzo di via Orazio 14 a Roma, non scalda i ricordi rimasti al suo interno. Non c’è modo di entrare nel luogo che un tempo fu la casa della principessa Soraya. Oggi è l’ambasciata della Nigeria ma nel 1929 accolse la famiglia reale.
Nessuno che adesso lavori all’ambasciata saprebbe dire in quale stanza il re Amanullah si sedesse a raccontare alla nipotina Soraya della terra d’Afghanistan e del suo popolo. Le finestre del palazzo, alte e sormontate da un elegante arco di marmo bianco, hanno per lo più le serrande abbassate e alla vista è così sottratta ogni possibilità di scoperta. Basta poca immaginazione però per capire che affacciandosi su via Orazio, Soraya avrebbe visto la scuola dove passò l’infanzia. Più precisamente il retro dell’istituto e una scritta incisa sul muro: i caratteri regolari come le strade di questo ricco quartiere di Prati, si susseguono a formare parole fiere e sconfitte come “Opera nazionale balilla”. Anche la scuola Umberto I però, non ricorda più i sorrisi, le amicizie, la matita colorata impugnata per provare a scrivere le prime lettere dell’alfabeto sul foglio bianco, con mano tremante e curiosa. Oltre il cortile all’interno non si può andare; non si possono percorrere i corridoi della scuola, alla ricerca di qualche vecchia foto di classe.
Un caffè ristoratore potrà forse colmare la curiosità di penetrare questi luoghi inaccessibili. A meno che, lo sguardo di chi dietro al bancone del bar sta riempiendo la tazzina di caffè non si accenda e finalmente inizi a raccontare. I ricordi di Mario sono più che altro sensazioni: la scuola torna ad essere un luogo vivace in cui la moglie del barista baffuto e la principessa Soraya giocavano insieme da bambine. Nessuna differenza sociale le separava. Anche il palazzo di via Orazio 14 prende vita perché da lì usciva un signore distinto mano per mano con la sua piccola figliola: il padre di Soraya. “Si vedeva che era nobile, anche se non avresti mai detto che era un principe, tanto era alla mano”.
Quando la ricerca sembrava fallita, i racconti di Mario restituiscono un’idea dell’infanzia della principessa Afghana e permettono di spingersi ad immaginare anche il tipo di educazione ricevuta. Le stanze del palazzo, prima imperscrutabili, si riempiono di tradizioni afghane; di storie di famiglia tramandate di generazione in generazione; di valori nobili che non sono garanzia di uno status ma educano ed elevano l’animo.

L’intervista è di Annalisa Ramundo e Marta Facchini
Il resoconto è di Marco Mastrandrea
Il mini rep è di Marina de Ghantuz Cubbe

A questo lavoro, in gran parte collettivo, hanno anche partecipato Greta Bisello, Viola Brancatella, Marina de Ghantuz Cubbe, Marta Facchini, Marco Mastrandrea, Annalisa Ramundo, Giulia Sbaffi,  Alfredo Sprovieri, Federico Stefanutto,

Tutti i libri dell’Asia

Sabato 2 aprile alle ore 12.00, la curatrice del progetto “Asia” di add editore Ilaria Benini è ospite insieme ad Andrea Berrini (Metropoli d’Asia), Maurizio Gatti (editore di O barra O edizioni) de Emanuele Giordana (Lettera 22) a BOOKPRIDE 2016 per la conferenza Asia: l’editoria per accorciare le distanze.
Di cosa parliamo quando parliamo di Asia? Quanti mondi e quante realtà letterarie ne fanno parte? Perché l’editoria dedicata all’Asia è debole e qual è il suo potenziale? Un incontro a cura di add editore, per professionisti del settore e appassionati, per cercare risposte e costruire le basi per iniziative.
L’appuntamento è a Milano all’ex Ansaldo in via Bergognone 34

Tutti i libri dell’Asia

Sabato 2 aprile alle ore 12.00, la curatrice del progetto “Asia” di add editore Ilaria Benini è ospite insieme ad Andrea Berrini (Metropoli d’Asia), Maurizio Gatti (editore di O barra O edizioni) de Emanuele Giordana (Lettera 22) a BOOKPRIDE 2016 per la conferenza Asia: l’editoria per accorciare le distanze.
Di cosa parliamo quando parliamo di Asia? Quanti mondi e quante realtà letterarie ne fanno parte? Perché l’editoria dedicata all’Asia è debole e qual è il suo potenziale? Un incontro a cura di add editore, per professionisti del settore e appassionati, per cercare risposte e costruire le basi per iniziative.
L’appuntamento è a Milano all’ex Ansaldo in via Bergognone 34

Il Gandhi della frontiera

Musulmano, pashtun, non violento e pacifista. Profilo del leader delle 100mila “camice rosse” disarmate che volevano l’indipendenza del Raj britannico e la redistribuzione delle terre. Senza sparare un colpo e senza dividere l’India. Un simbolo allora nel mirino della polizia coloniale e adesso dei talebani
Negli anni Quaranta non a tutti era piaciuta la decisione dell’Indian National Congressdi accettare il piano di Londra che divideva in due il Raj britannico. Un colosso che, nel 1947, si sarebbe risvegliato da un parto gemellare che faceva della Perla d’oriente della corona i due stati liberi di India e Pakistan. A Ovest del Raj, un signore alto e risoluto che era stato come Gandhi e forse più di Gandhi, contrario alla Partition, la commentò così rivolgendosi all’Inc che non lo aveva nemmeno consultato: «Ci avete gettato in pasto ai lupi». Chi erano i lupi? Tanti e di diversa forma. Ieri come oggi.
Abdul Ghaffar Khan era un leader politico della Provincia più occidentale dell’Impero, al confine con l’Afghanistan. Era un musulmano convinto e convinto che l’islam fosse una religione di pace. Ed era un pukthun, membro di una comunità di milioni di uomini, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, che il righello coloniale di Sir Mortimer Durand, delegato dal viceré del Raj, aveva diviso in due nel 1893: i pathanin quello che sarebbe poi diventato nel 1947 il Pakistan e i pashtun, come vengono chiamati in Afghanistan.
Pukhtun, pathan, pashtun
La storia delle due comunità, legate da vincoli di parentela o da antichi codici etici e di convivenza, era stata dunque definitivamente separata alla fine dell’Ottocento anche se ha conservato un’unità di fondo che dura ancora oggi. E che spiega in parte perché la “guerra afgana” si combatta in realtà soprattutto a cavallo della Durand Line e nelle zone limitrofe. C’è molto dunque che lega il passato al presente. E c’è un episodio recente che richiama quella storia lontana e Abdul Ghaffar Khan, uno dei suoi principali protagonisti.
Il 20 gennaio di quest’anno, un gruppo di guerriglieri talebani (talebani pachistani da non confondere coi gemelli oltre frontiera) fa irruzione nell’università Bacha Khan di Charsadda nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Fa strage di studenti e insegnanti mentre corpo docente e allievi stanno proprio commemorando la morte di Bacha Khan che altri non è se non Abdul Ghaffar, nato nel 1890 e deceduto il 20 gennaio del 1988 in piena guerra afgana (quella contro l’Urss). Il suo profilo è tale che – dicono le cronache – quel giorno le armi tacciono. Sia nelle file mujahedin, sia tra i soldati dell’Armata rossa. Ma il giorno della strage di Charsadda sono pochi a mettere in relazione l’assalto con la cerimonia. Eppure la scelta appare evidente. Perché? Chi era Bacha Khan o Badshah Khan, detto anche il Gandhi della Frontiera?
Non violento e pacifista
Bacha Khan con Gandhi. Si alleò col Congresso
ma fu contrarissimo allla divisione del Raj
. Sopra a sn la “Durand Line” disegnata dai britannici
La scrittrice Pakistan Kamila Shamsie ha ricordato sul Guardianche «…la sua filosofia della non-violenza ha una forte radice nel pashtunwali– il codice etico dei pashtun – e nell’Islam» e che il successo della diffusione della sua filosofia contraddice la vulgata per cui pashtun e musulmani sono violenti e amano le armi. Kamila stabilisce un nesso evidente tra l’attacco di musulmani violenti a una scuola intitolata a uno dei primi assertori della non violenza come arma politica. Una missione e un messaggio che, dagli anni Trenta, contagerà l’intera provincia patana e metterà in seria difficoltà gli inglesi. Spiega Thomas Michel, islamologo gesuita che lo ha ricordato sulla rivista Mosaico di pace: «Nel 1929 fondò un movimento nonviolento denominato Khudai Khidmatgar, “i servi di Dio”. Il movimento, che raggiunse i 100mila adepti (tra loro anche donne ndr), era dedito alla riforma sociale e a porre fine al regime britannico con mezzi nonviolenti…fu per molti anni un fedele compagno di lotta di Gandhi… e ancora oggi viene ricordato come il “Gandhi della frontiera”. Le sue esortazioni alla trasformazione sociale, a una distribuzione equa delle terre e all’armonia religiosa erano considerate una minaccia dal Raj britannico oltre che da alcuni politici, leader religiosi e proprietari terrieri locali, e Abdul Ghaffar riuscì a sopravvivere a due tentativi di omicidio e a più di 30 anni di prigionia». Per lo storico Marshall Hodgson «…l’espressione pratica più piena del gandhismo in tutta l’India ebbe luogo tra le tribù afghane lungo la frontiera nord-occidentale… gli appartenenti a queste tribù, noti per le loro faide e le loro razzie, furono conquistati alla causa di un programma attivo e quasi universale di autoriforma sociale. Le faide familiari furono eliminate, e fu imposta la disciplina in nome del Servizio di Dio». Aggiunge Amitabh Pal del magazine Progressive: «I britannici trattarono Ghaffar Khan e il suo movimento con una barbarie che non infliggevano ad altri aderenti della nonviolenza in India».
La nascita del movimento avviene in un momento particolare della storia del Raj. Gli indiani, hindu e musulmani, vogliono togliersi di dosso un giogo coloniale che dura da secoli. La corona fa alcune concessioni ma i pathan erano stati esclusi, dal responsabile regionale britannico Roos-Keppel. A suo dire, riporta sir Olaf Caroe in “The Pathans”, questa gente «…non era pronta per quel che a livello popolare era chiamato governo responsabile»e che avrebbe dovuto dare (in parte) l’India agli indiani con la riforma Montagu–Chelmsford del 1918 che, l’anno dopo, doveva trasformarsi nel Government of India Act, la legge sull’autogoverno. Di fatto i pathan si trovavano rappresentati a Delhi da due delegati non eletti ma “nominati”. E di fatto la provincia della Frontiera del NordOvest, come è stata chiamata sino a tempi recenti, doveva servire da bastione di difesa dei confini del Raj e dunque le riforme potevano aspettare. Non di meno le cose andavano avanti anche in quell’area remota così che si formò un’organizzazione politica in cui emersero due personaggi noti come i “fratelli Khan”: Khan Sahib, un medico che aveva sposato un’inglese e lavorava per l’Indian Medical Service e suo fratello minore, Abdul Ghaffar Khan. Se il primo era un modernista che non disdegnava di lavorare per il governo coloniale, il secondo capiva l’inglese ma non lo parlava così come preferiva gli abiti tradizionali a quelli d’importazione. Un vero pathan dall’eloquio affascinante che finì per conquistare – si direbbe oggi – il cuore e le menti di quelle genti.
Una terra per tutti: il Pashtunistan
Le terre patane   o pashtun tra Afghanistan
e Pakistan. Un fantasma ancora presente
Bacha Khan, che in gioventù aveva aderito al movimento “Khilafat” (in difesa del califfo turco), diventa rapidamente uno dei consiglieri di Gandhi e, come lui, un fiero oppositore della divisione dell’India su basi confessionali (dopo la nascita del Pakistan si avvicinerà anche al Partito socialista e ai partiti non confessionali Azad e Awami). Ma quando diventa chiaro che la Partitionè inevitabile, Bacha Khan lavora all’idea che le terre dei pashtun-pathan siano riunite in un Pashtunistan o Pathanistan indipendente. Le sue amicizie nazionaliste e in seguito l’idea del Pashtunistan, ma soprattutto la lotta anti britannica e le idee sulla riforma agraria, lo rendono inviso ai funzionari britannici e ai possidenti terrieri. E quando crea i Khudai Khidmatgar– detti anche surkh poshano camice rosse – è la goccia che fa traboccare il vaso. Meno noto del Mahatma, il Gandhi della Frontiera non è da meno e i britannici lo sanno e lo temono: entra ed esce di prigione, viene mandato in esilio, il suo movimento viene preso di mira dalla polizia coloniale e dagli stessi musulmani indiani favorevoli alla nascita del Pakistan (che dopo il ’47 metterà fuori legge le camice rosse). La repressione è violenta: nel 1930, dopo che Bacha Khan viene arrestato, un’enorme folla di sostenitori si raduna al Kissa Kwhani Bazar. La polizia coloniale fa fuoco e i morti sono centinaia. La mattanza si arresta solo dopo che alcuni fucilieri indiani si rifiutano di sparare.
Dentro e fuori dal suo Paese (è a Jalalabd in Afghanistan che si svolgeranno i suoi funerali cui partecipano 200mila persone e lo stesso capo di Stato afgano Najibullah), perseguitato e offeso spesso dai suoi correligionari, Bacha Khan è esattamente la negazione dello stereotipo violento appiccicato ai pashtun (da cui provengono i talebani), ai musulmani e al Corano stesso. Bacha Khan lo citavaper corroborare le sue tesi e, sure alla mano, lo interpretava in modo diverso da come oggi fanno altri: «Musulmano e’ colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Anche gli attentatori di Charsadda non lo hanno dimenticato.

Per saperne di più:
Leggere: Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, trad. Lorenzo Armando, Sonda, Torino 1990 pp. 250
Vedere: Teri C. McLuhan, Frontier Gandhi Badshah Khan a torch for peace (Canada) 2009
Questo articolo è uscito sul quotidiano  il manifesto

Il Gandhi della frontiera

Musulmano, pashtun, non violento e pacifista. Profilo del leader delle 100mila “camice rosse” disarmate che volevano l’indipendenza del Raj britannico e la redistribuzione delle terre. Senza sparare un colpo e senza dividere l’India. Un simbolo allora nel mirino della polizia coloniale e adesso dei talebani
Negli anni Quaranta non a tutti era piaciuta la decisione dell’Indian National Congressdi accettare il piano di Londra che divideva in due il Raj britannico. Un colosso che, nel 1947, si sarebbe risvegliato da un parto gemellare che faceva della Perla d’oriente della corona i due stati liberi di India e Pakistan. A Ovest del Raj, un signore alto e risoluto che era stato come Gandhi e forse più di Gandhi, contrario alla Partition, la commentò così rivolgendosi all’Inc che non lo aveva nemmeno consultato: «Ci avete gettato in pasto ai lupi». Chi erano i lupi? Tanti e di diversa forma. Ieri come oggi.
Abdul Ghaffar Khan era un leader politico della Provincia più occidentale dell’Impero, al confine con l’Afghanistan. Era un musulmano convinto e convinto che l’islam fosse una religione di pace. Ed era un pukthun, membro di una comunità di milioni di uomini, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, che il righello coloniale di Sir Mortimer Durand, delegato dal viceré del Raj, aveva diviso in due nel 1893: i pathanin quello che sarebbe poi diventato nel 1947 il Pakistan e i pashtun, come vengono chiamati in Afghanistan.
Pukhtun, pathan, pashtun
La storia delle due comunità, legate da vincoli di parentela o da antichi codici etici e di convivenza, era stata dunque definitivamente separata alla fine dell’Ottocento anche se ha conservato un’unità di fondo che dura ancora oggi. E che spiega in parte perché la “guerra afgana” si combatta in realtà soprattutto a cavallo della Durand Line e nelle zone limitrofe. C’è molto dunque che lega il passato al presente. E c’è un episodio recente che richiama quella storia lontana e Abdul Ghaffar Khan, uno dei suoi principali protagonisti.
Il 20 gennaio di quest’anno, un gruppo di guerriglieri talebani (talebani pachistani da non confondere coi gemelli oltre frontiera) fa irruzione nell’università Bacha Khan di Charsadda nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Fa strage di studenti e insegnanti mentre corpo docente e allievi stanno proprio commemorando la morte di Bacha Khan che altri non è se non Abdul Ghaffar, nato nel 1890 e deceduto il 20 gennaio del 1988 in piena guerra afgana (quella contro l’Urss). Il suo profilo è tale che – dicono le cronache – quel giorno le armi tacciono. Sia nelle file mujahedin, sia tra i soldati dell’Armata rossa. Ma il giorno della strage di Charsadda sono pochi a mettere in relazione l’assalto con la cerimonia. Eppure la scelta appare evidente. Perché? Chi era Bacha Khan o Badshah Khan, detto anche il Gandhi della Frontiera?
Non violento e pacifista
Bacha Khan con Gandhi. Si alleò col Congresso
ma fu contrarissimo allla divisione del Raj
. Sopra a sn la “Durand Line” disegnata dai britannici
La scrittrice Pakistan Kamila Shamsie ha ricordato sul Guardianche «…la sua filosofia della non-violenza ha una forte radice nel pashtunwali– il codice etico dei pashtun – e nell’Islam» e che il successo della diffusione della sua filosofia contraddice la vulgata per cui pashtun e musulmani sono violenti e amano le armi. Kamila stabilisce un nesso evidente tra l’attacco di musulmani violenti a una scuola intitolata a uno dei primi assertori della non violenza come arma politica. Una missione e un messaggio che, dagli anni Trenta, contagerà l’intera provincia patana e metterà in seria difficoltà gli inglesi. Spiega Thomas Michel, islamologo gesuita che lo ha ricordato sulla rivista Mosaico di pace: «Nel 1929 fondò un movimento nonviolento denominato Khudai Khidmatgar, “i servi di Dio”. Il movimento, che raggiunse i 100mila adepti (tra loro anche donne ndr), era dedito alla riforma sociale e a porre fine al regime britannico con mezzi nonviolenti…fu per molti anni un fedele compagno di lotta di Gandhi… e ancora oggi viene ricordato come il “Gandhi della frontiera”. Le sue esortazioni alla trasformazione sociale, a una distribuzione equa delle terre e all’armonia religiosa erano considerate una minaccia dal Raj britannico oltre che da alcuni politici, leader religiosi e proprietari terrieri locali, e Abdul Ghaffar riuscì a sopravvivere a due tentativi di omicidio e a più di 30 anni di prigionia». Per lo storico Marshall Hodgson «…l’espressione pratica più piena del gandhismo in tutta l’India ebbe luogo tra le tribù afghane lungo la frontiera nord-occidentale… gli appartenenti a queste tribù, noti per le loro faide e le loro razzie, furono conquistati alla causa di un programma attivo e quasi universale di autoriforma sociale. Le faide familiari furono eliminate, e fu imposta la disciplina in nome del Servizio di Dio». Aggiunge Amitabh Pal del magazine Progressive: «I britannici trattarono Ghaffar Khan e il suo movimento con una barbarie che non infliggevano ad altri aderenti della nonviolenza in India».
La nascita del movimento avviene in un momento particolare della storia del Raj. Gli indiani, hindu e musulmani, vogliono togliersi di dosso un giogo coloniale che dura da secoli. La corona fa alcune concessioni ma i pathan erano stati esclusi, dal responsabile regionale britannico Roos-Keppel. A suo dire, riporta sir Olaf Caroe in “The Pathans”, questa gente «…non era pronta per quel che a livello popolare era chiamato governo responsabile»e che avrebbe dovuto dare (in parte) l’India agli indiani con la riforma Montagu–Chelmsford del 1918 che, l’anno dopo, doveva trasformarsi nel Government of India Act, la legge sull’autogoverno. Di fatto i pathan si trovavano rappresentati a Delhi da due delegati non eletti ma “nominati”. E di fatto la provincia della Frontiera del NordOvest, come è stata chiamata sino a tempi recenti, doveva servire da bastione di difesa dei confini del Raj e dunque le riforme potevano aspettare. Non di meno le cose andavano avanti anche in quell’area remota così che si formò un’organizzazione politica in cui emersero due personaggi noti come i “fratelli Khan”: Khan Sahib, un medico che aveva sposato un’inglese e lavorava per l’Indian Medical Service e suo fratello minore, Abdul Ghaffar Khan. Se il primo era un modernista che non disdegnava di lavorare per il governo coloniale, il secondo capiva l’inglese ma non lo parlava così come preferiva gli abiti tradizionali a quelli d’importazione. Un vero pathan dall’eloquio affascinante che finì per conquistare – si direbbe oggi – il cuore e le menti di quelle genti.
Una terra per tutti: il Pashtunistan
Le terre patane   o pashtun tra Afghanistan
e Pakistan. Un fantasma ancora presente
Bacha Khan, che in gioventù aveva aderito al movimento “Khilafat” (in difesa del califfo turco), diventa rapidamente uno dei consiglieri di Gandhi e, come lui, un fiero oppositore della divisione dell’India su basi confessionali (dopo la nascita del Pakistan si avvicinerà anche al Partito socialista e ai partiti non confessionali Azad e Awami). Ma quando diventa chiaro che la Partitionè inevitabile, Bacha Khan lavora all’idea che le terre dei pashtun-pathan siano riunite in un Pashtunistan o Pathanistan indipendente. Le sue amicizie nazionaliste e in seguito l’idea del Pashtunistan, ma soprattutto la lotta anti britannica e le idee sulla riforma agraria, lo rendono inviso ai funzionari britannici e ai possidenti terrieri. E quando crea i Khudai Khidmatgar– detti anche surkh poshano camice rosse – è la goccia che fa traboccare il vaso. Meno noto del Mahatma, il Gandhi della Frontiera non è da meno e i britannici lo sanno e lo temono: entra ed esce di prigione, viene mandato in esilio, il suo movimento viene preso di mira dalla polizia coloniale e dagli stessi musulmani indiani favorevoli alla nascita del Pakistan (che dopo il ’47 metterà fuori legge le camice rosse). La repressione è violenta: nel 1930, dopo che Bacha Khan viene arrestato, un’enorme folla di sostenitori si raduna al Kissa Kwhani Bazar. La polizia coloniale fa fuoco e i morti sono centinaia. La mattanza si arresta solo dopo che alcuni fucilieri indiani si rifiutano di sparare.
Dentro e fuori dal suo Paese (è a Jalalabd in Afghanistan che si svolgeranno i suoi funerali cui partecipano 200mila persone e lo stesso capo di Stato afgano Najibullah), perseguitato e offeso spesso dai suoi correligionari, Bacha Khan è esattamente la negazione dello stereotipo violento appiccicato ai pashtun (da cui provengono i talebani), ai musulmani e al Corano stesso. Bacha Khan lo citavaper corroborare le sue tesi e, sure alla mano, lo interpretava in modo diverso da come oggi fanno altri: «Musulmano e’ colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Anche gli attentatori di Charsadda non lo hanno dimenticato.

Per saperne di più:
Leggere: Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, trad. Lorenzo Armando, Sonda, Torino 1990 pp. 250
Vedere: Teri C. McLuhan, Frontier Gandhi Badshah Khan a torch for peace (Canada) 2009
Questo articolo è uscito sul quotidiano  il manifesto

Strage di Pasqua in Pakistan

Il giorno dopo la strage di Pasqua, tutto il Pakistan manifesta la sua solidarietà ai funerali delle vittime dell’attentato in Punjab, ben oltre la religione di appartenenza dei morti: tre giorni di lutto nazionale, dichiarazioni istituzionali forti contro l’islamismo radicale e il via libera a un’ “Operazione Punjab” che è stata decisa ieri dal generale Rahel Sharif, l’uomo forte del Pakistan, a capo dell’esercito e il personaggio che sta facendo piazza pulita nel Waziristan, sul confine con l’Afghanistan, con un operativo militare contro la guerriglia (nell’immagine sotto a sn).

I fatti di Pasqua sono atroci anche se perfettamente in linea con la logica stragista e terroristica che insanguina il Paese ormai da oltre quindici anni: un gruppo islamista di recente formazione e dai contorni confusi, mette a segno nel giorno di Pasqua un attentato suicida che si consuma in un parco pubblico di Lahore. Il primo bilancio dava già almeno settanta morti (ieri saliti a 72) con centinaia di feriti di diversa età, estrazione sociale e confessione religiosa anche se il comunicato di rivendicazione di Jamaatul Ahrar puntava l’indice sui cristiani, colpiti nel mucchio di un luogo di ricreazione che di per sé una fede non ce l’ha. L’attentatore suicida che entra senza difficoltà nel parco, innescando l’inevitabile polemica sull’assenza di forze di sicurezza, appartiene a una formazione dai contorni incerti che oltre un anno fa si è scissa dal Tehreek Taleban Pakistan (Ttp), l’ombrello jihadista per eccellenza che si rifà al verbo di mullah Omar e alla scuola islamista Deobandi ma che ha declinato il suo jihad in modo brutale e scegliendo di colpire soprattutto il governo di Islamabad, apostata e asservito agli Stati Uniti. JA è governata tra l’altro da quell’Ehsanullah Ehsan che del Ttp è stato a lungo portavoce. Le cronache dicono che la scissione ha poi portato il gruppo a sostenere Daesh ma che in seguito JA avrebbe fatto marcia indietro, rientrando nelle file del Ttp. Vero o non vero, è JA a firmare l’attentato di Pasqua e questo è il primo dato: un dato che dice che il Ttp è ancora in crisi e una nuova guerra per bande – forse anche per controllare la cupola del vecchio network jihadista – è in corso.

Il secondo elemento è che il gruppo colpisce Lahore, la “perla dell’islam” nel subcontinente indiano, ex capitale del Punjab – quando Pakistan e India erano unite sotto il Raj britannico – e capitale attuale della provincia più popolosa e importante del Paese, governata dal fratello del premier Nawaz Sharif. Un elemento non secondario perché la fazione punjabi del Ttp – anche lei dissociatasi dal cartello madre – appare in sordina da diverso tempo e, a parte rare escursioni in altre province, le azioni dell’estremismo jihadista restano per lo più confinate nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa e in particolare nelle sette agenzie tribali al confine con l’Afghanistan. Il terrore esce dunque dalla sua area tradizionale.

Il terzo elemento racconta una deriva anti cristiana che non è nelle corde classiche del Ttp, più orientato semmai a combattere gli sciiti, i sufi, le minoranze islamiche devianti. Un quarto elemento che li contiene tutti, appare dunque essere quello di una guerriglia jihadista sempre più atomizzata, che sembra sparare nel mucchio senza far troppe differenze, forse per guadagnare la testa di un movimento in difficoltà: sia per l’arrivo di Daesh sia per i dissidi interni, spesso legati all’origine clanica – dunque “famigliare” – della guerriglia pashtun delle aree di confine, ma anche perché governo ed esercito stanno facendo sul serio con quell’operazione Zarb e Azb iniziata quasi due anni fa nelle aree tribali e che ha scompaginato e in parte distrutto i santuari rifugio della guerriglia, nazionale e straniera.

E’ comunque difficile capire quale rapporto Jamaatul Ahrar abbia con Daesh – presente in Pakistan ma più come minaccia che come realtà – quale sia la sua relazione col Ttp, quale la sua agenda politica, aperta e nascosta. E, soprattutto, chi arma e finanzia un gruppo la cui scia di terrore ha già colpito la minoranza cristiana altre volte. E’ pur vero che il gruppo era salito alla ribalta con un’attentato al confine indo-pachistano – il che l’aveva posizionato tra i combattenti anti indiani – ma poi le sue azioni si sono diversificate. Agisce – Lahore ne è la prova – anche fuori dalle aree tribali. E non guarda in faccia le sue vittime. Non è purtroppo una sua prerogativa. Se ci colpiscono settanta persone uccise in un parco, la memoria corre al gennaio scorso quando a Charsadda, un manipolo di combattenti, anche quelli non riconducibili al Ttp (che anzi condannò), attacca un’università e uccide oltre una ventina tra studenti e insegnanti. E solo un anno prima, a Peshawar, nel dicembre 2014, il Ttp uccideva oltre 140 studenti di una scuola militare.

Strage di Pasqua in Pakistan

Il giorno dopo la strage di Pasqua, tutto il Pakistan manifesta la sua solidarietà ai funerali delle vittime dell’attentato in Punjab, ben oltre la religione di appartenenza dei morti: tre giorni di lutto nazionale, dichiarazioni istituzionali forti contro l’islamismo radicale e il via libera a un’ “Operazione Punjab” che è stata decisa ieri dal generale Rahel Sharif, l’uomo forte del Pakistan, a capo dell’esercito e il personaggio che sta facendo piazza pulita nel Waziristan, sul confine con l’Afghanistan, con un operativo militare contro la guerriglia (nell’immagine sotto a sn).

I fatti di Pasqua sono atroci anche se perfettamente in linea con la logica stragista e terroristica che insanguina il Paese ormai da oltre quindici anni: un gruppo islamista di recente formazione e dai contorni confusi, mette a segno nel giorno di Pasqua un attentato suicida che si consuma in un parco pubblico di Lahore. Il primo bilancio dava già almeno settanta morti (ieri saliti a 72) con centinaia di feriti di diversa età, estrazione sociale e confessione religiosa anche se il comunicato di rivendicazione di Jamaatul Ahrar puntava l’indice sui cristiani, colpiti nel mucchio di un luogo di ricreazione che di per sé una fede non ce l’ha. L’attentatore suicida che entra senza difficoltà nel parco, innescando l’inevitabile polemica sull’assenza di forze di sicurezza, appartiene a una formazione dai contorni incerti che oltre un anno fa si è scissa dal Tehreek Taleban Pakistan (Ttp), l’ombrello jihadista per eccellenza che si rifà al verbo di mullah Omar e alla scuola islamista Deobandi ma che ha declinato il suo jihad in modo brutale e scegliendo di colpire soprattutto il governo di Islamabad, apostata e asservito agli Stati Uniti. JA è governata tra l’altro da quell’Ehsanullah Ehsan che del Ttp è stato a lungo portavoce. Le cronache dicono che la scissione ha poi portato il gruppo a sostenere Daesh ma che in seguito JA avrebbe fatto marcia indietro, rientrando nelle file del Ttp. Vero o non vero, è JA a firmare l’attentato di Pasqua e questo è il primo dato: un dato che dice che il Ttp è ancora in crisi e una nuova guerra per bande – forse anche per controllare la cupola del vecchio network jihadista – è in corso.

Il secondo elemento è che il gruppo colpisce Lahore, la “perla dell’islam” nel subcontinente indiano, ex capitale del Punjab – quando Pakistan e India erano unite sotto il Raj britannico – e capitale attuale della provincia più popolosa e importante del Paese, governata dal fratello del premier Nawaz Sharif. Un elemento non secondario perché la fazione punjabi del Ttp – anche lei dissociatasi dal cartello madre – appare in sordina da diverso tempo e, a parte rare escursioni in altre province, le azioni dell’estremismo jihadista restano per lo più confinate nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa e in particolare nelle sette agenzie tribali al confine con l’Afghanistan. Il terrore esce dunque dalla sua area tradizionale.

Il terzo elemento racconta una deriva anti cristiana che non è nelle corde classiche del Ttp, più orientato semmai a combattere gli sciiti, i sufi, le minoranze islamiche devianti. Un quarto elemento che li contiene tutti, appare dunque essere quello di una guerriglia jihadista sempre più atomizzata, che sembra sparare nel mucchio senza far troppe differenze, forse per guadagnare la testa di un movimento in difficoltà: sia per l’arrivo di Daesh sia per i dissidi interni, spesso legati all’origine clanica – dunque “famigliare” – della guerriglia pashtun delle aree di confine, ma anche perché governo ed esercito stanno facendo sul serio con quell’operazione Zarb e Azb iniziata quasi due anni fa nelle aree tribali e che ha scompaginato e in parte distrutto i santuari rifugio della guerriglia, nazionale e straniera.

E’ comunque difficile capire quale rapporto Jamaatul Ahrar abbia con Daesh – presente in Pakistan ma più come minaccia che come realtà – quale sia la sua relazione col Ttp, quale la sua agenda politica, aperta e nascosta. E, soprattutto, chi arma e finanzia un gruppo la cui scia di terrore ha già colpito la minoranza cristiana altre volte. E’ pur vero che il gruppo era salito alla ribalta con un’attentato al confine indo-pachistano – il che l’aveva posizionato tra i combattenti anti indiani – ma poi le sue azioni si sono diversificate. Agisce – Lahore ne è la prova – anche fuori dalle aree tribali. E non guarda in faccia le sue vittime. Non è purtroppo una sua prerogativa. Se ci colpiscono settanta persone uccise in un parco, la memoria corre al gennaio scorso quando a Charsadda, un manipolo di combattenti, anche quelli non riconducibili al Ttp (che anzi condannò), attacca un’università e uccide oltre una ventina tra studenti e insegnanti. E solo un anno prima, a Peshawar, nel dicembre 2014, il Ttp uccideva oltre 140 studenti di una scuola militare.

La favola dell’ “integrazione”

Tutte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male.

Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo “provincializzare l’Europa”, renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro.

La favola dell’ “integrazione”

Tutte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male.

Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo “provincializzare l’Europa”, renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro.

Afghanistan / La guerra infinita e l’allarme di Emergency

A Kabul è appena finito un incontro tra membri del governo e inviati della comunità internazionale con un titolo che appare persino sarcastico: “Addio al conflitto, benvenuto allo sviluppo”. Nelle stesse ore, l’ospedale di Emergency a Kabul rendeva noto che sono in aumento i pazienti che arrivano all’ospedale per ferite connesse al conflitto. L’ospedale, che l’anno scorso ha curato 3mila pazienti, dice che le sue statistiche non mentono. La guerra è tutt’altro che un addio. Su un altro fronte, nella provincia di Baghdis, un gruppo di guerriglieri in turbante fedeli a mullah Rassul – il comandante che si è staccato dal movimento talebano guidato da mullah Mansur dopo la morte di mullah Omar – ha dichiarato guerra al nuovo capo talebano ritenuto l’usurpatore del trono che fu del fondatore del movimento. A detta dell’ennesima fazione, Mansur non solo è colluso con i servizi pachistani ma sta ammazzando i comandanti che non seguono il dettato del nuovo leader della shura di Quetta.

In mezzo a un quadro inquietante e che al momento non promette nulla di buono, si muove un impacciato Alto consiglio di pace che anni fa era stato scelto da Karzai per tentare di apparecchiare un tavolo negoziale. Ma passi avanti ne ha fatti pochi. Alcuni mesi fa è stato messo in piedi un Comitato quadrilaterale che comprende afgani, pachistani, americani e cinesi. Si sono riuniti quattro volte e avevano annunciato l’imminente avvio del tavolo negoziale per marzo. Ma la tovaglia non era stata ancora stesa che mullah Mansur, l’uomo che ha sostituito mullah Omar (e come si vede non senza suscitare polemiche) ha detto «no», reiterando la vecchia posizione della guerriglia in turbante: finché le truppe straniere non avranno lasciato il Paese di negoziare non se ne parla.

Adesso la Quadrilaterale vorrebbe riprovarci. Un piccolo successo lo ha in effetti portato a casa perché l’Hezb e islami di Gulbuddin Hekmatyar (chi ha buona memoria si ricorderà di questo capo mujahedin all’epoca della guerra antisovietica) ha accettato do negoziare col governo. Ma è un successo a metà. Hekmatyar, un soggetto a geometria di alleanze molto variabile, non solo non è molto affidabile ma non rappresenta che se stesso: ossia una fazione minoritaria della guerriglia che controlla zone a macchia di leopardo nel Nord e nell’Est. Già alleato coi talebani, Hekmatyar è solo una parte del tutto e certo non la più importante.

Il quadro della lotta armata è molto frazionato e uno dei timori che circolano a proposito del ritorno forzato di migranti è che proprio questa nuova forza lavoro in cerca dell’occupazione negata in Europa possa diventare facile preda degli arruolatori delle varie bande: dai talebani più o meno doc, alle fazioni che contestano Mansur fino ai reclutatori di Daesh – piccoli ma presenti – o della vecchia Al Qaeda che riunisce un po’ tutti gli spezzoni jihadsiti che negli anni hanno fatto di Pakistan e Afghanistan le case rifugio dei vari movimenti islamisti stranieri, dall’Uzbekistan al Turkestan cinese. La pace per ora è lontana e non sembra sia sufficiente il riavvicinamento afgano-pachistano che è in realtà sempre a rischio perché nel governo Ghani-Abdullah c’è chi rema contro a un accordo col Pakistan se non addirittura al processo di pace. I più restii sono i vecchi signori della guerra che, cooptati nei governi nazionali che ne hanno ripulito l’immagine, coi talebani preferiscono combattere. Il peccato originale – averli amnistiati di fatto – si continua a scontare. E rinvia la pace impossibile a uno scenario di guerra infinita dalla quale per ora non si intravede via d’uscita.

Afghanistan / La guerra infinita e l’allarme di Emergency

A Kabul è appena finito un incontro tra membri del governo e inviati della comunità internazionale con un titolo che appare persino sarcastico: “Addio al conflitto, benvenuto allo sviluppo”. Nelle stesse ore, l’ospedale di Emergency a Kabul rendeva noto che sono in aumento i pazienti che arrivano all’ospedale per ferite connesse al conflitto. L’ospedale, che l’anno scorso ha curato 3mila pazienti, dice che le sue statistiche non mentono. La guerra è tutt’altro che un addio. Su un altro fronte, nella provincia di Baghdis, un gruppo di guerriglieri in turbante fedeli a mullah Rassul – il comandante che si è staccato dal movimento talebano guidato da mullah Mansur dopo la morte di mullah Omar – ha dichiarato guerra al nuovo capo talebano ritenuto l’usurpatore del trono che fu del fondatore del movimento. A detta dell’ennesima fazione, Mansur non solo è colluso con i servizi pachistani ma sta ammazzando i comandanti che non seguono il dettato del nuovo leader della shura di Quetta.

In mezzo a un quadro inquietante e che al momento non promette nulla di buono, si muove un impacciato Alto consiglio di pace che anni fa era stato scelto da Karzai per tentare di apparecchiare un tavolo negoziale. Ma passi avanti ne ha fatti pochi. Alcuni mesi fa è stato messo in piedi un Comitato quadrilaterale che comprende afgani, pachistani, americani e cinesi. Si sono riuniti quattro volte e avevano annunciato l’imminente avvio del tavolo negoziale per marzo. Ma la tovaglia non era stata ancora stesa che mullah Mansur, l’uomo che ha sostituito mullah Omar (e come si vede non senza suscitare polemiche) ha detto «no», reiterando la vecchia posizione della guerriglia in turbante: finché le truppe straniere non avranno lasciato il Paese di negoziare non se ne parla.

Adesso la Quadrilaterale vorrebbe riprovarci. Un piccolo successo lo ha in effetti portato a casa perché l’Hezb e islami di Gulbuddin Hekmatyar (chi ha buona memoria si ricorderà di questo capo mujahedin all’epoca della guerra antisovietica) ha accettato do negoziare col governo. Ma è un successo a metà. Hekmatyar, un soggetto a geometria di alleanze molto variabile, non solo non è molto affidabile ma non rappresenta che se stesso: ossia una fazione minoritaria della guerriglia che controlla zone a macchia di leopardo nel Nord e nell’Est. Già alleato coi talebani, Hekmatyar è solo una parte del tutto e certo non la più importante.

Il quadro della lotta armata è molto frazionato e uno dei timori che circolano a proposito del ritorno forzato di migranti è che proprio questa nuova forza lavoro in cerca dell’occupazione negata in Europa possa diventare facile preda degli arruolatori delle varie bande: dai talebani più o meno doc, alle fazioni che contestano Mansur fino ai reclutatori di Daesh – piccoli ma presenti – o della vecchia Al Qaeda che riunisce un po’ tutti gli spezzoni jihadsiti che negli anni hanno fatto di Pakistan e Afghanistan le case rifugio dei vari movimenti islamisti stranieri, dall’Uzbekistan al Turkestan cinese. La pace per ora è lontana e non sembra sia sufficiente il riavvicinamento afgano-pachistano che è in realtà sempre a rischio perché nel governo Ghani-Abdullah c’è chi rema contro a un accordo col Pakistan se non addirittura al processo di pace. I più restii sono i vecchi signori della guerra che, cooptati nei governi nazionali che ne hanno ripulito l’immagine, coi talebani preferiscono combattere. Il peccato originale – averli amnistiati di fatto – si continua a scontare. E rinvia la pace impossibile a uno scenario di guerra infinita dalla quale per ora non si intravede via d’uscita.

La fine del Tibet nel 1959 (wikiradio)

Bandiera tibetana utilizzata dall’esilio

Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell’indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all’occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E’ un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E’ il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India.

E’ una storia che finisce male. Che sembra ripercorrere, nel sangue e nel dolore, quel marzo del 1959.

Quella dell’indipendenza del Tibet e dei desideri che si affacciano su questa preziosa torta geopolitica ricoperta di neve viene da lontano. E’ anche la storia di una teocrazia conservatrice e socialmente arretrata ma dove i fermenti della modernità hanno fatto, anche li, la loro piccola strada. Una strada che spesso viene limitata dagli appetiti di chi ha messo gli occhi addosso alla regione: russi, cinesi e britannici. I primi due sono i colossi dell’Asia: il terzo lo è diventato costruendo il suo impero nel subcontinente indiano. Dawa Norbu, un tibetano specialista di Storia asiatica che vive a Parigi, la racconta così, sostenendo che proprio questa lotta per garantirsi un controllo o evitare che altri ne avessero, finì a favorire un isolamento che, anziché essere splendido, condannava il Tibet a restare ai confini del mondo e del suo sviluppo

Nel 1950 – scrive Dawa Norbu – il Tibet era una teocrazia isolata, forse unica nel suo genere nel mondo moderno. Era però condannata, dagli interessi in conflitto di Russia, Gran Bretagna e Cina a un isolamento ancora più forte che rinforzava quello naturale di un Paese di montagne. Sia il trattato anglo tibetano del 1904 sia quello anglo russo del 1907 erano infatti tesi a creare un’ area libera delle influenze reciproche. Cosa che in questo modo negava al Tibet qualsiasi possibilità di cambiamento sociale. E se però in qualche modo i britannici favorivano la sua indipendenza e autonomia, i cinesi erano invece feroci oppositori di ogni influenza esterna. Temevano che, occupati com’erano con la rivoluzione, Londra avrebbe finito per fare del Tibet una colonia. Sebbene gli inglesi non avessero intenzione di sfruttare economicamente il Tibet non si opponevano alla sua modernizzazione, ovviamente finché si fosse svolta sotto l’occhio vigile di Londra. Il 13mo Dalai Lama, dopo una serie di viaggi in Mongolia e in India, prestava attenzione a queste aperture guardate invece con sospetto dalla comunità conservatrice monastica, cosa che – dice sempre Dawa Norbu – fu favorita dai cinesi che erano considerati i tradizionali custodi del buddismo tibetano nei confronti di possibili ingerenze esterne come quelle dei cristiani.

Dunque in quella società, per certi versi conservatrice e feudale, si muovono forze progressiste che ne sottolineano la vitalità. E dunque per i cinesi il controllo del Tibet resta un punto chiave, si tratti anche di appoggiare i segmenti sociali più conservatori del Paese. Per i cinesi il controllo del Tetto del mondo è di vitale importanza ma la vera occasione arriva solo negli anni Cinquanta, quando l’epoca classica del colonialismo sta ormai arrivando alla sua nemesi storica. Per i cinesi, fin dalla nascita della Repubblica popolare nel ’49 e ancor prima di quell’evento, la riunificazione col Tibet è un elemento primario. Bisogna riaccorpare i territori “separati dalla madre patria”. Il 7 ottobre 1950, quarantamila soldati dell’Esercito popolare di liberazione attraversano il corso superiore dello Yangtze e dilagano nel Tibet orientale. Avanzano incontrando poca resistenza. Una settimana dopo, l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso che allora è solo poco più che quindicenne, viene dichiarato maggiorenne e diventa sovrano del Tibet a tutti gli effetti. Ma ormai è un sovrano senza Stato.

I cinesi però vogliono le cose a posto nonostante l’invasione non abbia sollevato grandi problemi nella comunità internazionale. Pensano a un accordo, l’Accordo fra il governo centrale del popolo e il governo locale del Tibet sulle misure per la liberazione pacifica del Tibet, chiamato in forma breve anche l’Accordo dei Diciassette punti. E’ un documento che viene firmato dai delegati del 14 ° Dalai Lama nel 1951. I cinesi lo considerano un contratto legale, reciprocamente accolto da entrambi i governi, ma i tibetani lo rifiutano come un atto illegale perché firmato sotto costrizione. Il Dalai Lama lo ha rinnegato in più occasioni. Ma come è andata? La Cina ha in sostanza chiesto al Tibet di inviare rappresentanti a Pechino per negoziare un accordo. Il Dalai Lama accetta ma ai delegati non è concesso suggerire modifiche. Inoltre non gli è permesso comunicare con il governo di Lhasa. La delegazione tibetana, pur non essendo stata autorizzata a firmare, alla fine – sotto la forte pressione dei cinesi – sigla l’accordo. E’ il via libera legale all’assimilazione del Tibet. Le cose però non vanno lisce anche se devono passano otto anni.

La rivolta scatta il 10 marzo del 1959 in seguito a un evento apparentemente ordinario. I cinesi

hanno invitato Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito che si trova alle porte della capitale. Il Dalai Lama accetta ma le autorità militari lo invitano a venire rinunciando alla scorta che di solito lo accompagna. In città si diffonde l’idea, largamente condivisa dalla leadership tibetana, che in realtà l’invito nasconda l’opportunità di un sequestro e la reazione non si fa attendere. La gente della capitale scende in strada come a voler sigillare il percorso che porta dal palazzo del Dalai Lama alla caserma. E’ però una miccia che innesca l’esplosione di una rivolta latente.

Tom Grunfeld, uno storico americano, sostiene che la rivolta di Lhasa non fu semplicemente una ribellione anti cinese. Fu anche, scrive in The Making of Modern Tibet, una rivolta contro il comunismo e il feudalesimo: una doppia rivoluzione, diretta anche contro i privilegi della tirannia religiosa locale cosi come contro la tirannia imperialistica del comunismo cinese. Una rivolta che combinava assieme la rivoluzione ungherese con quella francese. Quel che è certo è che in quelle tragiche settimane che vanno dal 10 al 28 marzo, si consuma il dramma tibetano. Quel giorno, il 28, tre tramonti dopo la riconquista di Lhasa il 25 marzo, un atto formale del Consiglio di Stato firmato da Zhou Enlai abolisce di fatto il sistema teocratico e feudale del Tibet. E dissolve – cancella – il governo tibetano.

Il 12 marzo la città è piena di barricate e di manifestanti che chiedono l’indipendenza. Si mescolano sentimenti diversi che forse possono essere riassunti nelle preoccupazioni che alcuni profughi tibetani confidano anni dopo a Grunfeld:
c’è il timore di non poter più praticare il buddismo; poi i racconti sulle atrocità commesse dagli Han, l’etnia principe dei cinesi; i rumor sul fatto che i matrimoni fra tibetani sono vietati ed è obbligatorio sposare un Han; c’è la fuga del Dalai Lama e l’insicurezza di un futuro incerto
E’ il 1975 quando Grunfeld fa la sua ricerca. Sono passati più di 15 anni dalla rivolta ma nella testa dei tibetani nulla è cambiato

Torniamo a Lasa attanagliata nella morsa della protesta e della repressione. I cinesi hanno dislocato l’artiglieria e il 17 marzo il primo proiettile arriva vicino al palazzo del Dalai Lama. E’ il segnale definitivo che Tenzin Gyatso deve prendere la strada dell’esilio. Ha appena 21 anni e regna da nemmeno due lustri. Il suo tempo è finito e, presto, anche quello della rivolta di Lhasa.

La rivolta si conclude con una strage. Il numero dei morti è incerto e non provato da documenti storici anche se i tibetani stimano il bilancio a 87mila morti. I cinesi invece hanno lasciato sul campo 2mila soldati. L’asimmetria è evidente: da una parte le armi sono piccole e poche in una rivolta semi spontanea. Dall’altra, la Cina ha i cannoni, l’aviazione, un esercito disciplinato e organizzato. I danni ai monasteri e le testimonianze raccontano il resto: raccontano di una battaglia furiosa e di esecuzioni sommarie. Di una repressione che non lascia quartiere. Tenzin Gyatso intanto è fuggito, di notte, accompagnato dalla sua scorta. Obiettivo: raggiungere l’India. Passa diverse notti in un ricovero per monaci mentre esercito e aviazione setacciano i villaggi alla sua ricerca: mentre si conclude nel sangue la rivolta di Lhasa, i generali cinesi infuriati cercano di mettere il cappio attorno al leader politico e spirituale dei tibetani. Non ci riescono

Il Dalai Lama raggiunge Towang, oltre la frontiera. Il suo viaggio verso l’esilio è durato due settimane. La sua fuga, scrive Jennifer Latson per Time magazine, è stata protetta da una coltre di nubi basse evocate dalle preghiere dei monaci che hanno impedito agli aerei di vedere i movimenti del drappello di fuggiaschi. E’ il 30 marzo 1959. Il palazzo di Norbulingka è lontano e il suo governo è stato spazzato via con la rivolta. Tenzin Gyatso sa che anche il governo tibetano, ristabilito formalmente a Lhudup Dzong in quei giorni, un governo che rigetta l’accordo dei 17 punti, non ha futuro. Il 25 marzo, le truppe di Pechino hanno ormai riconquistato la capitale. La rivolta è finita. Ora Zhou Enlai può firmare il decreto. Tre giorni dopo la riconquista della capitale il Tibet autonomo sparisce dalla storia. Al suo posto c’è una festa nazionale che ha il nome di una beffa: celebra il giorno dell’emancipazione.

Del Tibet ci si occupa ormai solo in rari casi. Spesso quando è utile citare il Dalai Lama per fare un dispetto alla Cina o quando la cronaca ci obbliga a riparlarne. E’ successo nel 2008. Succede quando un monaco o una monaca si danno fuoco, una pratica che il Dalai Lama ha fortemente condannato ma che è il segno inequivocabile di un malessere irrisolto. Il Dalai Lama ha rinunciato dal 1987 a rivendicare l’indipendenza del Tibet ma lo statuto di “regione autonoma” non è in realtà che un nome

improprio come una foglia di fico su un territorio dove bisogna essere cinesi prima che tibetani. La comunità internazionale se ne occupa poco e dunque salvaguardare la cultura e le tradizioni di questo paese – in una parola la sua identità – è difficile quando non impossibile. Eppure nel 1992 il Tribunale permanente per i diritti dei popoli con sede a Strasburgo, un’istituzione creata dal politico italiano Lelio Basso negli anni Settanta, studiò il caso Tibet e arrivò a queste conclusioni: il tribunale giudicò che sottomettere negli anni Cinquanta il Tibet al regime del diritto internazionale, considerando che il suo passato lo aveva visto ripetutamente avere un rapporto di vassallaggio con la Cina, ne snaturava l’identità statuale, quella di uno Stato a parte, fuori allora dalle regole di quel diritto internazionale sancito dalle Nazioni unite cui Lhasa non aveva aderito. Un Paese però, che se non rientrava nei canoni del diritto internazionale dell’epoca, aveva dimostrato più volte la sua volontà di partecipare, come soggetto attivo – dice il tribunale – a una vita internazionale effettiva. I magistrati dunque gli riconoscevano un’esistenza di entità statuale propria, con gli attributi dunque di una sovranità interna. Un punto di partenza che oggi, anche nell’ottica di un’appartenenza del Tibet alla Cina, potrebbe costituire la base di un negoziato serio attraverso il quale ricostruire una reale autonomia. Una scelta politica, sia da parte cinese, sia da parte tibetana. Che sembra però ancora lontana.

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) il ricordo quelle due settimane e la fine dell’indipendenza tibetana 

La fine del Tibet nel 1959 (wikiradio)

Bandiera tibetana utilizzata dall’esilio

Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell’indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all’occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E’ un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E’ il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India.

E’ una storia che finisce male. Che sembra ripercorrere, nel sangue e nel dolore, quel marzo del 1959.

Quella dell’indipendenza del Tibet e dei desideri che si affacciano su questa preziosa torta geopolitica ricoperta di neve viene da lontano. E’ anche la storia di una teocrazia conservatrice e socialmente arretrata ma dove i fermenti della modernità hanno fatto, anche li, la loro piccola strada. Una strada che spesso viene limitata dagli appetiti di chi ha messo gli occhi addosso alla regione: russi, cinesi e britannici. I primi due sono i colossi dell’Asia: il terzo lo è diventato costruendo il suo impero nel subcontinente indiano. Dawa Norbu, un tibetano specialista di Storia asiatica che vive a Parigi, la racconta così, sostenendo che proprio questa lotta per garantirsi un controllo o evitare che altri ne avessero, finì a favorire un isolamento che, anziché essere splendido, condannava il Tibet a restare ai confini del mondo e del suo sviluppo

Nel 1950 – scrive Dawa Norbu – il Tibet era una teocrazia isolata, forse unica nel suo genere nel mondo moderno. Era però condannata, dagli interessi in conflitto di Russia, Gran Bretagna e Cina a un isolamento ancora più forte che rinforzava quello naturale di un Paese di montagne. Sia il trattato anglo tibetano del 1904 sia quello anglo russo del 1907 erano infatti tesi a creare un’ area libera delle influenze reciproche. Cosa che in questo modo negava al Tibet qualsiasi possibilità di cambiamento sociale. E se però in qualche modo i britannici favorivano la sua indipendenza e autonomia, i cinesi erano invece feroci oppositori di ogni influenza esterna. Temevano che, occupati com’erano con la rivoluzione, Londra avrebbe finito per fare del Tibet una colonia. Sebbene gli inglesi non avessero intenzione di sfruttare economicamente il Tibet non si opponevano alla sua modernizzazione, ovviamente finché si fosse svolta sotto l’occhio vigile di Londra. Il 13mo Dalai Lama, dopo una serie di viaggi in Mongolia e in India, prestava attenzione a queste aperture guardate invece con sospetto dalla comunità conservatrice monastica, cosa che – dice sempre Dawa Norbu – fu favorita dai cinesi che erano considerati i tradizionali custodi del buddismo tibetano nei confronti di possibili ingerenze esterne come quelle dei cristiani.

Dunque in quella società, per certi versi conservatrice e feudale, si muovono forze progressiste che ne sottolineano la vitalità. E dunque per i cinesi il controllo del Tibet resta un punto chiave, si tratti anche di appoggiare i segmenti sociali più conservatori del Paese. Per i cinesi il controllo del Tetto del mondo è di vitale importanza ma la vera occasione arriva solo negli anni Cinquanta, quando l’epoca classica del colonialismo sta ormai arrivando alla sua nemesi storica. Per i cinesi, fin dalla nascita della Repubblica popolare nel ’49 e ancor prima di quell’evento, la riunificazione col Tibet è un elemento primario. Bisogna riaccorpare i territori “separati dalla madre patria”. Il 7 ottobre 1950, quarantamila soldati dell’Esercito popolare di liberazione attraversano il corso superiore dello Yangtze e dilagano nel Tibet orientale. Avanzano incontrando poca resistenza. Una settimana dopo, l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso che allora è solo poco più che quindicenne, viene dichiarato maggiorenne e diventa sovrano del Tibet a tutti gli effetti. Ma ormai è un sovrano senza Stato.

I cinesi però vogliono le cose a posto nonostante l’invasione non abbia sollevato grandi problemi nella comunità internazionale. Pensano a un accordo, l’Accordo fra il governo centrale del popolo e il governo locale del Tibet sulle misure per la liberazione pacifica del Tibet, chiamato in forma breve anche l’Accordo dei Diciassette punti. E’ un documento che viene firmato dai delegati del 14 ° Dalai Lama nel 1951. I cinesi lo considerano un contratto legale, reciprocamente accolto da entrambi i governi, ma i tibetani lo rifiutano come un atto illegale perché firmato sotto costrizione. Il Dalai Lama lo ha rinnegato in più occasioni. Ma come è andata? La Cina ha in sostanza chiesto al Tibet di inviare rappresentanti a Pechino per negoziare un accordo. Il Dalai Lama accetta ma ai delegati non è concesso suggerire modifiche. Inoltre non gli è permesso comunicare con il governo di Lhasa. La delegazione tibetana, pur non essendo stata autorizzata a firmare, alla fine – sotto la forte pressione dei cinesi – sigla l’accordo. E’ il via libera legale all’assimilazione del Tibet. Le cose però non vanno lisce anche se devono passano otto anni.

La rivolta scatta il 10 marzo del 1959 in seguito a un evento apparentemente ordinario. I cinesi

hanno invitato Tenzin Gyatso a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito che si trova alle porte della capitale. Il Dalai Lama accetta ma le autorità militari lo invitano a venire rinunciando alla scorta che di solito lo accompagna. In città si diffonde l’idea, largamente condivisa dalla leadership tibetana, che in realtà l’invito nasconda l’opportunità di un sequestro e la reazione non si fa attendere. La gente della capitale scende in strada come a voler sigillare il percorso che porta dal palazzo del Dalai Lama alla caserma. E’ però una miccia che innesca l’esplosione di una rivolta latente.

Tom Grunfeld, uno storico americano, sostiene che la rivolta di Lhasa non fu semplicemente una ribellione anti cinese. Fu anche, scrive in The Making of Modern Tibet, una rivolta contro il comunismo e il feudalesimo: una doppia rivoluzione, diretta anche contro i privilegi della tirannia religiosa locale cosi come contro la tirannia imperialistica del comunismo cinese. Una rivolta che combinava assieme la rivoluzione ungherese con quella francese. Quel che è certo è che in quelle tragiche settimane che vanno dal 10 al 28 marzo, si consuma il dramma tibetano. Quel giorno, il 28, tre tramonti dopo la riconquista di Lhasa il 25 marzo, un atto formale del Consiglio di Stato firmato da Zhou Enlai abolisce di fatto il sistema teocratico e feudale del Tibet. E dissolve – cancella – il governo tibetano.

Il 12 marzo la città è piena di barricate e di manifestanti che chiedono l’indipendenza. Si mescolano sentimenti diversi che forse possono essere riassunti nelle preoccupazioni che alcuni profughi tibetani confidano anni dopo a Grunfeld:
c’è il timore di non poter più praticare il buddismo; poi i racconti sulle atrocità commesse dagli Han, l’etnia principe dei cinesi; i rumor sul fatto che i matrimoni fra tibetani sono vietati ed è obbligatorio sposare un Han; c’è la fuga del Dalai Lama e l’insicurezza di un futuro incerto
E’ il 1975 quando Grunfeld fa la sua ricerca. Sono passati più di 15 anni dalla rivolta ma nella testa dei tibetani nulla è cambiato

Torniamo a Lasa attanagliata nella morsa della protesta e della repressione. I cinesi hanno dislocato l’artiglieria e il 17 marzo il primo proiettile arriva vicino al palazzo del Dalai Lama. E’ il segnale definitivo che Tenzin Gyatso deve prendere la strada dell’esilio. Ha appena 21 anni e regna da nemmeno due lustri. Il suo tempo è finito e, presto, anche quello della rivolta di Lhasa.

La rivolta si conclude con una strage. Il numero dei morti è incerto e non provato da documenti storici anche se i tibetani stimano il bilancio a 87mila morti. I cinesi invece hanno lasciato sul campo 2mila soldati. L’asimmetria è evidente: da una parte le armi sono piccole e poche in una rivolta semi spontanea. Dall’altra, la Cina ha i cannoni, l’aviazione, un esercito disciplinato e organizzato. I danni ai monasteri e le testimonianze raccontano il resto: raccontano di una battaglia furiosa e di esecuzioni sommarie. Di una repressione che non lascia quartiere. Tenzin Gyatso intanto è fuggito, di notte, accompagnato dalla sua scorta. Obiettivo: raggiungere l’India. Passa diverse notti in un ricovero per monaci mentre esercito e aviazione setacciano i villaggi alla sua ricerca: mentre si conclude nel sangue la rivolta di Lhasa, i generali cinesi infuriati cercano di mettere il cappio attorno al leader politico e spirituale dei tibetani. Non ci riescono

Il Dalai Lama raggiunge Towang, oltre la frontiera. Il suo viaggio verso l’esilio è durato due settimane. La sua fuga, scrive Jennifer Latson per Time magazine, è stata protetta da una coltre di nubi basse evocate dalle preghiere dei monaci che hanno impedito agli aerei di vedere i movimenti del drappello di fuggiaschi. E’ il 30 marzo 1959. Il palazzo di Norbulingka è lontano e il suo governo è stato spazzato via con la rivolta. Tenzin Gyatso sa che anche il governo tibetano, ristabilito formalmente a Lhudup Dzong in quei giorni, un governo che rigetta l’accordo dei 17 punti, non ha futuro. Il 25 marzo, le truppe di Pechino hanno ormai riconquistato la capitale. La rivolta è finita. Ora Zhou Enlai può firmare il decreto. Tre giorni dopo la riconquista della capitale il Tibet autonomo sparisce dalla storia. Al suo posto c’è una festa nazionale che ha il nome di una beffa: celebra il giorno dell’emancipazione.

Del Tibet ci si occupa ormai solo in rari casi. Spesso quando è utile citare il Dalai Lama per fare un dispetto alla Cina o quando la cronaca ci obbliga a riparlarne. E’ successo nel 2008. Succede quando un monaco o una monaca si danno fuoco, una pratica che il Dalai Lama ha fortemente condannato ma che è il segno inequivocabile di un malessere irrisolto. Il Dalai Lama ha rinunciato dal 1987 a rivendicare l’indipendenza del Tibet ma lo statuto di “regione autonoma” non è in realtà che un nome

improprio come una foglia di fico su un territorio dove bisogna essere cinesi prima che tibetani. La comunità internazionale se ne occupa poco e dunque salvaguardare la cultura e le tradizioni di questo paese – in una parola la sua identità – è difficile quando non impossibile. Eppure nel 1992 il Tribunale permanente per i diritti dei popoli con sede a Strasburgo, un’istituzione creata dal politico italiano Lelio Basso negli anni Settanta, studiò il caso Tibet e arrivò a queste conclusioni: il tribunale giudicò che sottomettere negli anni Cinquanta il Tibet al regime del diritto internazionale, considerando che il suo passato lo aveva visto ripetutamente avere un rapporto di vassallaggio con la Cina, ne snaturava l’identità statuale, quella di uno Stato a parte, fuori allora dalle regole di quel diritto internazionale sancito dalle Nazioni unite cui Lhasa non aveva aderito. Un Paese però, che se non rientrava nei canoni del diritto internazionale dell’epoca, aveva dimostrato più volte la sua volontà di partecipare, come soggetto attivo – dice il tribunale – a una vita internazionale effettiva. I magistrati dunque gli riconoscevano un’esistenza di entità statuale propria, con gli attributi dunque di una sovranità interna. Un punto di partenza che oggi, anche nell’ottica di un’appartenenza del Tibet alla Cina, potrebbe costituire la base di un negoziato serio attraverso il quale ricostruire una reale autonomia. Una scelta politica, sia da parte cinese, sia da parte tibetana. Che sembra però ancora lontana.

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) il ricordo quelle due settimane e la fine dell’indipendenza tibetana 

Migranti: un piano Ue per fermare gli afgani

E’ un’Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo – due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara – si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a un’invasione dall’Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. E’ un’invasione che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell’Hindukush. Che ha visto cercare la via dell’Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no.

E’ questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi.

Il documento delinea quello che la Ue avrebbe in mente per fermare chi bussa alle sue frontiere. E gli afgani sono una fetta rilevante: secondi solo ai siriani ma più numerosi degli iracheni. Il documento, che paventa «l’alto rischio di una nuova ondata migratoria» tenta di chiarire attraverso quale strada sia possibile impedire che il flusso di afgani in Medio oriente continui la sua marcia oltre la Turchia (dove già se ne trovano 100 mila, 80mila dei quali “documentati”) per poi raggiungere la Grecia e da lì l’Europa: attraverso la via balcanica di terra o, come avvenuto per anni, sulle navi che attraccano in Italia. Ma come fermare il flusso degli afgani da un Paese che 15 anni di guerra ai talebani non sono riusciti a pacificare? Soldi. Tanti soldi. E accordi col governo afgano, in parte già negoziati in ordine sparso da alcuni stati membri anche con la mediazione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (con cui ora però, dopo l’accordo con Ankara, i ferri si son fatti corti).

Il documento confidenziale indica negli incentivi economici la strada maestra di un accordo negoziato per trovare la «strada giusta» (Joint Way Forward) per far restare gli afgani a casa loro. Il governo è sensibile e il dialogo è già iniziato: il 40% del prodotto nazionale lordo afgano – dice il documento – dipende dall’aiuto internazionale (c’è chi sostiene sia molto di più ndr) anche perché i 2/3 della spesa del budget nazionale vanno nel capitolo “sicurezza”, nella guerra in una parola. E interrompere o ridurre il flusso di aiuti, avverte Bruxelles, significherebbe far crollare la faticosa costruzione istituzionale messa in piedi a partire del 2001 dopo la rotta dell’emirato talebano. Gli afgani per altro, col governo amico di Ashraf Ghani, hanno già predisposto un piano per contenere un’emorragia di persone in continuo aumento (un sondaggio Gallup di ieri sosteneva che solo il 4% degli afgani ritiene che le cose stiano migliorando). E’ un piano che prevede investimenti nel settore dell’edilizia popolare, nella creazione di posti di lavoro e nella possibilità di negoziare flussi di lavoratori coi Paesi del Golfo (noti recettori di manodopera a basso costo e priva delle minime garanzie). Si tratta di sostenere lo sforzo.

Dal punto di vista finanziario la Ue ha già messo sul piatto 1,4 miliardi di euro per il periodo 2014-
2020 – l’impegno più alto in assoluto di un singolo donatore in Afghanistan – ma conta di aggiungere subito altri 300 milioni e di accelerare le erogazioni del piano quinquennale. L’enfasi però, che inizialmente era su quattro settori chiave (agricoltura, salute, giustizia, governance), tende a spostarsi anche sul “restare a casa” o a favorire il quadro per ritornarci il prima possibile. Con pacchetti incentivo ad hoc sia per i rientri volontari, sia per quelli forzati ma stando attenti a «che ciò non attragga invece nuovi migranti». Un accento che si dovrebbe riflettere sulla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan che la Ue sta preparando per il prossimo ottobre e dove bisognerà convincere gli Stati membri a non mollare l’impegno. C’è fretta dunque e le cose andranno ben preparate entro l’inizio dell’estate. Puntando soprattutto più sull’aspetto degli incentivi «in positivo» – uniti al controllo dei migranti, alla sensibilizzazione sui rischi della corsa all’oro in Europa, all’istituzione di centri di documentazione e monitoraggio – che non sulla leva brutale del rimpatrio forzato. Che pure, avverte il documento, rischia di vedere 80mila afgani fare a breve ritorno a casa contro la loro volontà. La strada di un concordato tra Stati resta infatti in salita. E in salita è anche la strada che porta a Kabul.

Il documento avverte che se il presidente Ashraf Ghani è sensibile al tema, molti altri componenti del suo governo fanno orecchie da mercante, evidenziando la dicotomia di un esecutivo a due teste (Ghani presidente e Abdullah a capo dell’esecutivo) che in questi mesi ha elargito all’opinione pubblica continue battaglie interne, dalla scelta dei governatori all’atteggiamento verso il processo di pace (vedi articolo a fianco). In questi giorni una mano arriva anche dal Giappone che ha reso noto di aver aumentato la quota di aiuto al Paese per 80 milioni di dollari. Con la differenza che nessuno bussa (o riesce a bussare) ai cancelli del Sol Levante.

L’appuntamento dunque è per ora fissato a Bruxelles per il 4 e 5 ottobre, appuntamento che dovrebbe seguire un’interministeriale sempre in Belgio in estate. L’idea è arrivare alla Conferenza (seguito ideale a Bonn 2011, Tokyo 2012 e Londra 2014) in un clima di reciproca fiducia tra gli Stati membri della Ue e un’Afghanistan nel ruolo del partner affidabile. Preparando il terreno per tempo per fare in modo che gli effetti della guerra infinita non arrivino sempre più numerosi fino alle nostre frontiere.

Migranti: un piano Ue per fermare gli afgani

E’ un’Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo – due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara – si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a un’invasione dall’Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. E’ un’invasione che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell’Hindukush. Che ha visto cercare la via dell’Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no.

E’ questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi.

Il documento delinea quello che la Ue avrebbe in mente per fermare chi bussa alle sue frontiere. E gli afgani sono una fetta rilevante: secondi solo ai siriani ma più numerosi degli iracheni. Il documento, che paventa «l’alto rischio di una nuova ondata migratoria» tenta di chiarire attraverso quale strada sia possibile impedire che il flusso di afgani in Medio oriente continui la sua marcia oltre la Turchia (dove già se ne trovano 100 mila, 80mila dei quali “documentati”) per poi raggiungere la Grecia e da lì l’Europa: attraverso la via balcanica di terra o, come avvenuto per anni, sulle navi che attraccano in Italia. Ma come fermare il flusso degli afgani da un Paese che 15 anni di guerra ai talebani non sono riusciti a pacificare? Soldi. Tanti soldi. E accordi col governo afgano, in parte già negoziati in ordine sparso da alcuni stati membri anche con la mediazione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (con cui ora però, dopo l’accordo con Ankara, i ferri si son fatti corti).

Il documento confidenziale indica negli incentivi economici la strada maestra di un accordo negoziato per trovare la «strada giusta» (Joint Way Forward) per far restare gli afgani a casa loro. Il governo è sensibile e il dialogo è già iniziato: il 40% del prodotto nazionale lordo afgano – dice il documento – dipende dall’aiuto internazionale (c’è chi sostiene sia molto di più ndr) anche perché i 2/3 della spesa del budget nazionale vanno nel capitolo “sicurezza”, nella guerra in una parola. E interrompere o ridurre il flusso di aiuti, avverte Bruxelles, significherebbe far crollare la faticosa costruzione istituzionale messa in piedi a partire del 2001 dopo la rotta dell’emirato talebano. Gli afgani per altro, col governo amico di Ashraf Ghani, hanno già predisposto un piano per contenere un’emorragia di persone in continuo aumento (un sondaggio Gallup di ieri sosteneva che solo il 4% degli afgani ritiene che le cose stiano migliorando). E’ un piano che prevede investimenti nel settore dell’edilizia popolare, nella creazione di posti di lavoro e nella possibilità di negoziare flussi di lavoratori coi Paesi del Golfo (noti recettori di manodopera a basso costo e priva delle minime garanzie). Si tratta di sostenere lo sforzo.

Dal punto di vista finanziario la Ue ha già messo sul piatto 1,4 miliardi di euro per il periodo 2014-
2020 – l’impegno più alto in assoluto di un singolo donatore in Afghanistan – ma conta di aggiungere subito altri 300 milioni e di accelerare le erogazioni del piano quinquennale. L’enfasi però, che inizialmente era su quattro settori chiave (agricoltura, salute, giustizia, governance), tende a spostarsi anche sul “restare a casa” o a favorire il quadro per ritornarci il prima possibile. Con pacchetti incentivo ad hoc sia per i rientri volontari, sia per quelli forzati ma stando attenti a «che ciò non attragga invece nuovi migranti». Un accento che si dovrebbe riflettere sulla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan che la Ue sta preparando per il prossimo ottobre e dove bisognerà convincere gli Stati membri a non mollare l’impegno. C’è fretta dunque e le cose andranno ben preparate entro l’inizio dell’estate. Puntando soprattutto più sull’aspetto degli incentivi «in positivo» – uniti al controllo dei migranti, alla sensibilizzazione sui rischi della corsa all’oro in Europa, all’istituzione di centri di documentazione e monitoraggio – che non sulla leva brutale del rimpatrio forzato. Che pure, avverte il documento, rischia di vedere 80mila afgani fare a breve ritorno a casa contro la loro volontà. La strada di un concordato tra Stati resta infatti in salita. E in salita è anche la strada che porta a Kabul.

Il documento avverte che se il presidente Ashraf Ghani è sensibile al tema, molti altri componenti del suo governo fanno orecchie da mercante, evidenziando la dicotomia di un esecutivo a due teste (Ghani presidente e Abdullah a capo dell’esecutivo) che in questi mesi ha elargito all’opinione pubblica continue battaglie interne, dalla scelta dei governatori all’atteggiamento verso il processo di pace (vedi articolo a fianco). In questi giorni una mano arriva anche dal Giappone che ha reso noto di aver aumentato la quota di aiuto al Paese per 80 milioni di dollari. Con la differenza che nessuno bussa (o riesce a bussare) ai cancelli del Sol Levante.

L’appuntamento dunque è per ora fissato a Bruxelles per il 4 e 5 ottobre, appuntamento che dovrebbe seguire un’interministeriale sempre in Belgio in estate. L’idea è arrivare alla Conferenza (seguito ideale a Bonn 2011, Tokyo 2012 e Londra 2014) in un clima di reciproca fiducia tra gli Stati membri della Ue e un’Afghanistan nel ruolo del partner affidabile. Preparando il terreno per tempo per fare in modo che gli effetti della guerra infinita non arrivino sempre più numerosi fino alle nostre frontiere.

Ricordando il Tibet, domani a Wikiradio (Radio3)

Bandiera tibetana utilizzata dall’esilio

Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell’indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all’occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E’ un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E’ il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India…

Ai microfoni di Radio3 il 25 marzo alle 14 per Wikiradio (Radio3) ricordo quelle due settimane e la fine dell’indipendenza tibetana 

Chi si ricorda di Giovanni Lo Porto?

Presi come siamo dalla vicenda di Giulio Regeni, tra depistaggi e bugie, abbiamo forse dimenticato – in un Paese che tende a dimenticare alla svelta – la morte di un altro italiano: Giovanni Lo Porto, rapito nel 2012 in Pakistan e ucciso da un drone americano nel gennaio del 2015. A non dimenticare è la famiglia che, quattro giorni fa, ha tenuto una conferenza stampa a Montecitorio (andata deserta!) con gli avvocati che la assistono, i radicali (grazie a loro si può riascoltare nei podcast di Radio radicale) e il senatore Luigi Manconi. Quest’ultimo lunedi prossimo depositerà un’interrogazione al governo e al ministero degli Esteri per sapere sia il risultato delle promesse che il presidente Obama fece nella dichiarazione pubblica con la quale, nell’aprile 2015, rese nota la morte di Giovanni e si scusò con la famiglia, sia se gli Usa intendano procedere a un risarcimento. E sì, perché Obama fece delle promesse poi ribadite in un comunicato ufficiale della casa Bianca. Undici mesi fa.

L’America non è l’Egitto e ovviamente Obama non è Al Sisi. Anzi, quella dichiarazione rese testimonianza di un desiderio di trasparenza che sta a cuore all’uomo che ha sempre voluto chiudere Guantanamo anche se resta il principale assertore della politica dei droni. Ma la storia della morte di Giovanni era e resta lacunosa. E le promesse di quell’aprile lettera morta. I legali della famiglia, gli avvocati Andrea Saccucci e Giorgio Perroni, ricordano che Obama si assunse la piena responsabilità dell’accaduto e promise la declassificazione dell’operativo che “erroneamente” portò alla morte di Giovanni e di Warren Weinstein quando l’obiettivo erano due qaedisti americani, Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Gli avvocati, per conto della famiglia, hanno inoltrato una richiesta formale al governo americano per quel che riguarda il risarcimento e al contempo hanno depositato, nel procedimento aperto dalla magistratura italiana nel 2012, una denuncia querela nella quale domandano ai giudici italiani di richiedere, per rogatoria, le regole delle operazioni coi droni e la documentazione su quella che riguardò Giovanni. Infine le risultanze delle indagini condotte dall’intelligence americana prima e dopo il raid, ossia gli esiti degli accertamenti tecnici. Va ricordato che Obama fece il suo annuncio tre mesi dopo l’operativo e che Renzi (si ricorderà la polemica sul fatto che non fosse stato informato) spiegò che gli accertamenti avevano richiesto appunto tre mesi per capire come erano andate le cose. La famiglia infine, solleciterà anche le Nazioni Unite perché appoggino le loro richieste (esiste un Rapporteur che indaga queste pratiche ritenute violazioni del diritto internazionale quando i droni operano fuori da un contesto bellico dichiarato).

Oggi come allora: una mappa dela Durand Line
il confine artificioso creato dai britannici.In che zona
fu ucciso Giovanni Lo Porto? Ancora non sappiano

Manconi, nella sua interrogazione, chiede luce su un particolare: «Il comunicato ufficiale della Casa Bianca – dice – fa esplicito riferimento al lavoro di una commissione indipendente di indagine. Di questo lavoro, a 11 mesi dall’impegno, vorremmo sapere, poiché ciò fornirebbe la conoscenza non solo del prima e del dopo ma anche cosa o chi determinò l’errore».

Recentemente il Pentagono ha fatto sapere, forse sull’onda dell’effetto trasparenza, che annualmente saranno rese note tutte le operazioni segrete compiute dai droni e relativi effetti. Ma quanto sarà trasparente il rapporto resta da vedere visto che gli esiti dell’indagine sul caso Lo Porto (o quella sul raid di Kunduz nell’ospedale di Msf) ancora non si vedono. Per ora ci sono solo dichiarazioni d’intenti. Una recente inchiesta di Al Jazeera in Afghanistan – con Pakistan e Yemen uno dei Paesi più bombardati del mondo con i droni – ha rivelato che proprio la classificazione delle operazioni con velivoli senza pilota impedisce la ricostruzione degli effetti su vittime innocenti. Impedisce cioè una ricostruzione chiara delle responsabilità che finisce così a inficiare persino il rapporto sulle vittime civili afgane che ogni anno Unama, la missione Onu a Kabul, rende pubblico.

Chi si ricorda di Giovanni Lo Porto?

Presi come siamo dalla vicenda di Giulio Regeni, tra depistaggi e bugie, abbiamo forse dimenticato – in un Paese che tende a dimenticare alla svelta – la morte di un altro italiano: Giovanni Lo Porto, rapito nel 2012 in Pakistan e ucciso da un drone americano nel gennaio del 2015. A non dimenticare è la famiglia che, quattro giorni fa, ha tenuto una conferenza stampa a Montecitorio (andata deserta!) con gli avvocati che la assistono, i radicali (grazie a loro si può riascoltare nei podcast di Radio radicale) e il senatore Luigi Manconi. Quest’ultimo lunedi prossimo depositerà un’interrogazione al governo e al ministero degli Esteri per sapere sia il risultato delle promesse che il presidente Obama fece nella dichiarazione pubblica con la quale, nell’aprile 2015, rese nota la morte di Giovanni e si scusò con la famiglia, sia se gli Usa intendano procedere a un risarcimento. E sì, perché Obama fece delle promesse poi ribadite in un comunicato ufficiale della casa Bianca. Undici mesi fa.

L’America non è l’Egitto e ovviamente Obama non è Al Sisi. Anzi, quella dichiarazione rese testimonianza di un desiderio di trasparenza che sta a cuore all’uomo che ha sempre voluto chiudere Guantanamo anche se resta il principale assertore della politica dei droni. Ma la storia della morte di Giovanni era e resta lacunosa. E le promesse di quell’aprile lettera morta. I legali della famiglia, gli avvocati Andrea Saccucci e Giorgio Perroni, ricordano che Obama si assunse la piena responsabilità dell’accaduto e promise la declassificazione dell’operativo che “erroneamente” portò alla morte di Giovanni e di Warren Weinstein quando l’obiettivo erano due qaedisti americani, Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Gli avvocati, per conto della famiglia, hanno inoltrato una richiesta formale al governo americano per quel che riguarda il risarcimento e al contempo hanno depositato, nel procedimento aperto dalla magistratura italiana nel 2012, una denuncia querela nella quale domandano ai giudici italiani di richiedere, per rogatoria, le regole delle operazioni coi droni e la documentazione su quella che riguardò Giovanni. Infine le risultanze delle indagini condotte dall’intelligence americana prima e dopo il raid, ossia gli esiti degli accertamenti tecnici. Va ricordato che Obama fece il suo annuncio tre mesi dopo l’operativo e che Renzi (si ricorderà la polemica sul fatto che non fosse stato informato) spiegò che gli accertamenti avevano richiesto appunto tre mesi per capire come erano andate le cose. La famiglia infine, solleciterà anche le Nazioni Unite perché appoggino le loro richieste (esiste un Rapporteur che indaga queste pratiche ritenute violazioni del diritto internazionale quando i droni operano fuori da un contesto bellico dichiarato).

Oggi come allora: una mappa dela Durand Line
il confine artificioso creato dai britannici.In che zona
fu ucciso Giovanni Lo Porto? Ancora non sappiano

Manconi, nella sua interrogazione, chiede luce su un particolare: «Il comunicato ufficiale della Casa Bianca – dice – fa esplicito riferimento al lavoro di una commissione indipendente di indagine. Di questo lavoro, a 11 mesi dall’impegno, vorremmo sapere, poiché ciò fornirebbe la conoscenza non solo del prima e del dopo ma anche cosa o chi determinò l’errore».

Recentemente il Pentagono ha fatto sapere, forse sull’onda dell’effetto trasparenza, che annualmente saranno rese note tutte le operazioni segrete compiute dai droni e relativi effetti. Ma quanto sarà trasparente il rapporto resta da vedere visto che gli esiti dell’indagine sul caso Lo Porto (o quella sul raid di Kunduz nell’ospedale di Msf) ancora non si vedono. Per ora ci sono solo dichiarazioni d’intenti. Una recente inchiesta di Al Jazeera in Afghanistan – con Pakistan e Yemen uno dei Paesi più bombardati del mondo con i droni – ha rivelato che proprio la classificazione delle operazioni con velivoli senza pilota impedisce la ricostruzione degli effetti su vittime innocenti. Impedisce cioè una ricostruzione chiara delle responsabilità che finisce così a inficiare persino il rapporto sulle vittime civili afgane che ogni anno Unama, la missione Onu a Kabul, rende pubblico.

Msf/Kunduz: una multa seppellirà il caso

Medici senza frontiere e senza giustizia

Nel novembre scorso il Pentagono rese noto che erano stati sospesi dal servizio i militari coinvolti nell’incidente di Kundz, dove un ospedale di Medici senza frontiere finì con dottori e pazienti sotto il fuoco di un cacciabombardiere americano. Si aspettava che l’indagine a seguito della strage fosse terminata. L’indagine ancora non si è vista ma le indiscrezioni continuano a filtrare e l’ultima in ordine di tempo riguarda le “punizioni” comminate ai soldati coinvolti. Ma se è vero quanto riporta l’agenzia Associated Press, subito ripresa dalla stampa afgana, le punizioni sono di puro ordine disciplinare e non criminale, ossia non molto di più della sospensione già resa nota in novembre dal generale John Campbell, allora comandante interforze della Nato e al contempo responsabile della missione statunitense nel Paese dell’Hindukush. L’amministrazione militare si sarebbe limitata a una reprimenda scritta che, secondo l’agenzia di stampa, può al più essere d’impedimento al proseguimento della carriera militare. Sanzioni amministrative insomma, ben lontane dalla possibilità di un’accusa per crimini di guerra. E un’azione, aggiungiamo noi, che almeno apparentemente scarica le responsabilità della catena di comando sugli esecutori e non sul vertice.

Msf per ora non smentisce e non conferma e, spiegano nei suoi uffici, aspetta di vedersi recapitare un atto formale e non una semplice indiscrezione di stampa. La polemica è in agguato: a fine febbraio gli americani scrissero a 140 parenti delle vittime facendo le scuse e promettendo un risarcimento che da vittime e medici fu definito offensivo e ridicolo: 3mila dollari se c’era un ferito, e ben… 6mila se era scappato il morto. Se i soldi siano stati poi accettati o già pagati non si sa: a distanza di quasi sei mesi dall’attacco all’ospedale di Msf a Kunduz (erano gli inizi dell’ottobre scorso) la vicenda resta piena di ombre e le famose indagini ufficiali ancora non sono state pubblicate. Di certo c’è soltanto quella prodotta da Msf mentre il numero dei morti è lievitato ad “almeno” 52 (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti e 14 altri civili).

Presentato in novembre a Kabul, il rapporto di Msf racconta invece dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario, consumatosi in circa un’ora di bombardamento, iniziato tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre 2015 e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto: alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e alcuni dello staff furono decapitati e mutilati dalle schegge magari mentre tentavano di mettersi al riparo. Il rapporto spiegava anche che all’interno del centro traumatologico della città in mano ai talebani e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione statunitense, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – spiegava Christopher Stokes, direttore generale di Msf – ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”. Gli americani hanno poi spiegato che si era trattato di un difetto nella ricezzione degli ordini e cioè che l’edificio da colpire era in realtà un altro. Dunque la colpa fu della squadra dell’AC-130 che avrebbe dovuto mirare allo stabile in mano alla guerriglia a 411 metri di distanza dal nosocomio ma sbagliò obiettivo.

Msf/Kunduz: una multa seppellirà il caso

Medici senza frontiere e senza giustizia

Nel novembre scorso il Pentagono rese noto che erano stati sospesi dal servizio i militari coinvolti nell’incidente di Kundz, dove un ospedale di Medici senza frontiere finì con dottori e pazienti sotto il fuoco di un cacciabombardiere americano. Si aspettava che l’indagine a seguito della strage fosse terminata. L’indagine ancora non si è vista ma le indiscrezioni continuano a filtrare e l’ultima in ordine di tempo riguarda le “punizioni” comminate ai soldati coinvolti. Ma se è vero quanto riporta l’agenzia Associated Press, subito ripresa dalla stampa afgana, le punizioni sono di puro ordine disciplinare e non criminale, ossia non molto di più della sospensione già resa nota in novembre dal generale John Campbell, allora comandante interforze della Nato e al contempo responsabile della missione statunitense nel Paese dell’Hindukush. L’amministrazione militare si sarebbe limitata a una reprimenda scritta che, secondo l’agenzia di stampa, può al più essere d’impedimento al proseguimento della carriera militare. Sanzioni amministrative insomma, ben lontane dalla possibilità di un’accusa per crimini di guerra. E un’azione, aggiungiamo noi, che almeno apparentemente scarica le responsabilità della catena di comando sugli esecutori e non sul vertice.

Msf per ora non smentisce e non conferma e, spiegano nei suoi uffici, aspetta di vedersi recapitare un atto formale e non una semplice indiscrezione di stampa. La polemica è in agguato: a fine febbraio gli americani scrissero a 140 parenti delle vittime facendo le scuse e promettendo un risarcimento che da vittime e medici fu definito offensivo e ridicolo: 3mila dollari se c’era un ferito, e ben… 6mila se era scappato il morto. Se i soldi siano stati poi accettati o già pagati non si sa: a distanza di quasi sei mesi dall’attacco all’ospedale di Msf a Kunduz (erano gli inizi dell’ottobre scorso) la vicenda resta piena di ombre e le famose indagini ufficiali ancora non sono state pubblicate. Di certo c’è soltanto quella prodotta da Msf mentre il numero dei morti è lievitato ad “almeno” 52 (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti e 14 altri civili).

Presentato in novembre a Kabul, il rapporto di Msf racconta invece dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario, consumatosi in circa un’ora di bombardamento, iniziato tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre 2015 e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto: alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e alcuni dello staff furono decapitati e mutilati dalle schegge magari mentre tentavano di mettersi al riparo. Il rapporto spiegava anche che all’interno del centro traumatologico della città in mano ai talebani e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione statunitense, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – spiegava Christopher Stokes, direttore generale di Msf – ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”. Gli americani hanno poi spiegato che si era trattato di un difetto nella ricezzione degli ordini e cioè che l’edificio da colpire era in realtà un altro. Dunque la colpa fu della squadra dell’AC-130 che avrebbe dovuto mirare allo stabile in mano alla guerriglia a 411 metri di distanza dal nosocomio ma sbagliò obiettivo.

Pace in Afghanistan. E il vecchio islamista disse si

Classe 1947, è nato
 nella provincia di Kunduz

L’Hezb-e-Islami, il partito islamista pashtun di Gulbuddin Hekmatyar – che ha un braccio politico in parlamento e un esercito nelle montagne afgane – lo aveva anticipato in febbraio, rendendo noto che non era da escludere una sua partecipazione al negoziato di pace tra guerriglia e governo. Poi, a sorpresa, qualche giorno fa, il gruppo ha detto si al negoziato promosso da Kabul che al momento però è al palo dopo che i talebani di mullah Mansur han detto no. I primi passi sono già in corso.

Hekmatyar sostiene che nonostante gli americani non se ne siano andati (precondizione principe della guerriglia per avviare negoziati) il suo partito è disposto comunque al dialogo perché vuole dimostrare che l’Hezb vuole la pace. In realtà di Hekmatyar non c’è molto da fidarsi: è un uomo che ha attraversato tutte le stagioni della guerra afgana e cambiato posizione, alleati e ideologie a seconda della situazione. Gode di un discreto potere in certe aree del Paese nelle regioni  settentrionali e orientali (è originario di Kunduz)  ma il suo legame coi talebani è sempre stato soprattutto tattico. Di fatto è un soggetto per i fatti suoi pronto, domani, ad allearsi, se davvero gli convenisse, anche con Daesh. E’ comunque un personaggio con cui è d’obbligo fare i conti e scendere a patti. E se il fronte della guerriglia si scompagina, tanto meglio. La pace si fa quando il punto di non ritorno mostra le debolezze che, nel caso afgano, sono un segno che ormai tocca tutti i contendenti. C’è una stanchezza della e nella guerra? Staremo a vedere. Per ora il fronte caldo è più a Ovest, in Medio oriente. E questo aiuta

Pace in Afghanistan. E il vecchio islamista disse si

Classe 1947, è nato
 nella provincia di Kunduz

L’Hezb-e-Islami, il partito islamista pashtun di Gulbuddin Hekmatyar – che ha un braccio politico in parlamento e un esercito nelle montagne afgane – lo aveva anticipato in febbraio, rendendo noto che non era da escludere una sua partecipazione al negoziato di pace tra guerriglia e governo. Poi, a sorpresa, qualche giorno fa, il gruppo ha detto si al negoziato promosso da Kabul che al momento però è al palo dopo che i talebani di mullah Mansur han detto no. I primi passi sono già in corso.

Hekmatyar sostiene che nonostante gli americani non se ne siano andati (precondizione principe della guerriglia per avviare negoziati) il suo partito è disposto comunque al dialogo perché vuole dimostrare che l’Hezb vuole la pace. In realtà di Hekmatyar non c’è molto da fidarsi: è un uomo che ha attraversato tutte le stagioni della guerra afgana e cambiato posizione, alleati e ideologie a seconda della situazione. Gode di un discreto potere in certe aree del Paese nelle regioni  settentrionali e orientali (è originario di Kunduz)  ma il suo legame coi talebani è sempre stato soprattutto tattico. Di fatto è un soggetto per i fatti suoi pronto, domani, ad allearsi, se davvero gli convenisse, anche con Daesh. E’ comunque un personaggio con cui è d’obbligo fare i conti e scendere a patti. E se il fronte della guerriglia si scompagina, tanto meglio. La pace si fa quando il punto di non ritorno mostra le debolezze che, nel caso afgano, sono un segno che ormai tocca tutti i contendenti. C’è una stanchezza della e nella guerra? Staremo a vedere. Per ora il fronte caldo è più a Ovest, in Medio oriente. E questo aiuta

Un "presidente civile" per Myanmar

Il primo giorno del prossimo mese di aprile il Myanmar avrà, dopo più di cinquant’anni di regime militare, un presidente in abiti civili. Si chiama Htin Kyaw, ha settant’anni, gode della stima di molti birmani e – quel che fa la differenza – della piena fiducia di Aung San Suu Kyi, la vera vincitrice di questa vicenda che si trascina da anni attraverso arresti domiciliari per lei e una persecuzione mirata degli uomini e delle donne del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Lnd). La gestazione di questa elezione è stata lunga e, si può ben dire, sofferta. Comincia nel novembre scorso (ben prima in realtà) quando la Lega fa il pieno alle elezioni parlamentari. Un successo a valanga, senza brogli e intimidazioni. Con qualche ombra ma, in sostanza, col marchio della trasparenza e della legalità sul voto popolare. La maggioranza in parlamento può dunque permettersi di non temere più la presenza dei militari che hanno comunque il 25% dei seggi garantiti e un indiretto potere di veto sul cambiamento della Costituzione, che si può modificare solo col 75% del voto parlamentare.


Dopo la vittoria comincia una lunga trattativa che Aung San Suu Kyi conduce con il partito dei militari e le minoranze per capire come potrà governare. Sa che per ora non può essere presidente perché l’articolo 59 della Costituzione “militare” del 2008 lo vieta a chi ha sposato un forestiero o ha figli con passaporto straniero. La Nobel per la pace spiana così la strada al suo braccio destro: a un uomo, in sostanza, che le consentirà di governare dietro al paravento. Per meglio dire, Suu Kyi sta pavimentando la strada che può portarla a fare la premier, carica che finora non esiste: per governare allo scoperto, poter andare all’estero a incontrare i suoi pari, decidere, avere in mano le leve dell’esecutivo che finora sono prerogativa del presidente. Comunque difficile, perché, al momento, i ministeri chiave son nelle mani dei militari che possono contare sul vicepresidente.

Htin Kyaw infatti non è solo. Ha vinto più della metà dei voti necessari nei due rami del parlamento (360 su 652). Ma accanto a lui – come “primo vicepresidente” – c’è l’uomo che i militari hanno proposto: Myint Swe, 213 voti totali. Non pochi. E’ un buon amico del presidente uscente Than Shwe, e dunque un uomo fedele alla tradizione in divisa. Si dice anche che sia un falco. A sua volta c’è però un “secondo vice” che è un altro uomo della Lega: Henry Van Thio, 79 voti, e un’appartenenza etnica alla minoranza Chin. Non son state rose e fiori. Le nomine a presidente devono passare l’analisi di un comitato cui vengono presentate le candidature. Il comitato è composto da sette membri, sei dei quali in rappresentanza di Camera Alta e Bassa, più un militare. Quest’ultimo, il generale Than Soe, ha avuto da ridire sia su Htin Kyaw sia su Van Thio. Il primo non è un deputato e il secondo ha passato molto tempo all’estero. Ma un problema ce l’aveva anche Mynt Shwe il cui figlio, con passaporto australiano, ha dovuto rinunciare a quella nazionalità per garantire al padre di poter accedere allo scranno di vice presidente. Il particolare, raccontato da Irrawaddy (da sempre una testata dell’opposizione), rivela dunque che la trattativa applicata alle vicende dei tre candidati potrebbe domani riaprirsi sulla presidenza per Aung San Suu Kyi, che di figli ne ha due con passaporto britannico.

La legge ad hoc che le ha finora impedito di correre per la presidenza potrà forse essere superata – cambiando la Costituzione – o aggirata con qualche escamotage classico delle alchimie istituzionali. O più semplicemente, l’istituzione del premierato semplificherà le cose impedendo un’inutile guerra tra militari e civili. La battaglia sembra dunque spostarsi su un altro fronte: quello della conservazione di poteri e privilegi, una stagione abbastanza classica nei Paesi in transizione. E le prime battaglie si vedranno al momento di formare l’esecutivo, la prima mossa reale del presidente Htin Kyaw. I militari controllano Difesa e economia, hanno le mani in pasta nel commercio e nelle miniere. Sono i signori della guerra alle minoranze. La strada è meno in salita ma non è ancora in discesa.

Un "presidente civile" per Myanmar

Il primo giorno del prossimo mese di aprile il Myanmar avrà, dopo più di cinquant’anni di regime militare, un presidente in abiti civili. Si chiama Htin Kyaw, ha settant’anni, gode della stima di molti birmani e – quel che fa la differenza – della piena fiducia di Aung San Suu Kyi, la vera vincitrice di questa vicenda che si trascina da anni attraverso arresti domiciliari per lei e una persecuzione mirata degli uomini e delle donne del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Lnd). La gestazione di questa elezione è stata lunga e, si può ben dire, sofferta. Comincia nel novembre scorso (ben prima in realtà) quando la Lega fa il pieno alle elezioni parlamentari. Un successo a valanga, senza brogli e intimidazioni. Con qualche ombra ma, in sostanza, col marchio della trasparenza e della legalità sul voto popolare. La maggioranza in parlamento può dunque permettersi di non temere più la presenza dei militari che hanno comunque il 25% dei seggi garantiti e un indiretto potere di veto sul cambiamento della Costituzione, che si può modificare solo col 75% del voto parlamentare.


Dopo la vittoria comincia una lunga trattativa che Aung San Suu Kyi conduce con il partito dei militari e le minoranze per capire come potrà governare. Sa che per ora non può essere presidente perché l’articolo 59 della Costituzione “militare” del 2008 lo vieta a chi ha sposato un forestiero o ha figli con passaporto straniero. La Nobel per la pace spiana così la strada al suo braccio destro: a un uomo, in sostanza, che le consentirà di governare dietro al paravento. Per meglio dire, Suu Kyi sta pavimentando la strada che può portarla a fare la premier, carica che finora non esiste: per governare allo scoperto, poter andare all’estero a incontrare i suoi pari, decidere, avere in mano le leve dell’esecutivo che finora sono prerogativa del presidente. Comunque difficile, perché, al momento, i ministeri chiave son nelle mani dei militari che possono contare sul vicepresidente.

Htin Kyaw infatti non è solo. Ha vinto più della metà dei voti necessari nei due rami del parlamento (360 su 652). Ma accanto a lui – come “primo vicepresidente” – c’è l’uomo che i militari hanno proposto: Myint Swe, 213 voti totali. Non pochi. E’ un buon amico del presidente uscente Than Shwe, e dunque un uomo fedele alla tradizione in divisa. Si dice anche che sia un falco. A sua volta c’è però un “secondo vice” che è un altro uomo della Lega: Henry Van Thio, 79 voti, e un’appartenenza etnica alla minoranza Chin. Non son state rose e fiori. Le nomine a presidente devono passare l’analisi di un comitato cui vengono presentate le candidature. Il comitato è composto da sette membri, sei dei quali in rappresentanza di Camera Alta e Bassa, più un militare. Quest’ultimo, il generale Than Soe, ha avuto da ridire sia su Htin Kyaw sia su Van Thio. Il primo non è un deputato e il secondo ha passato molto tempo all’estero. Ma un problema ce l’aveva anche Mynt Shwe il cui figlio, con passaporto australiano, ha dovuto rinunciare a quella nazionalità per garantire al padre di poter accedere allo scranno di vice presidente. Il particolare, raccontato da Irrawaddy (da sempre una testata dell’opposizione), rivela dunque che la trattativa applicata alle vicende dei tre candidati potrebbe domani riaprirsi sulla presidenza per Aung San Suu Kyi, che di figli ne ha due con passaporto britannico.

La legge ad hoc che le ha finora impedito di correre per la presidenza potrà forse essere superata – cambiando la Costituzione – o aggirata con qualche escamotage classico delle alchimie istituzionali. O più semplicemente, l’istituzione del premierato semplificherà le cose impedendo un’inutile guerra tra militari e civili. La battaglia sembra dunque spostarsi su un altro fronte: quello della conservazione di poteri e privilegi, una stagione abbastanza classica nei Paesi in transizione. E le prime battaglie si vedranno al momento di formare l’esecutivo, la prima mossa reale del presidente Htin Kyaw. I militari controllano Difesa e economia, hanno le mani in pasta nel commercio e nelle miniere. Sono i signori della guerra alle minoranze. La strada è meno in salita ma non è ancora in discesa.

Formidable!

Due mesi fa esatti ci lasciava Mario Dondero che, in questo particolare da uno scatto di Monika Bulaj, sembra dire: “Formidabile”. Eri formidabile Mario. E indimenticabile.

Formidable!

Due mesi fa esatti ci lasciava Mario Dondero che, in questo particolare da uno scatto di Monika Bulaj, sembra dire: “Formidabile”. Eri formidabile Mario. E indimenticabile.

Prima che il mondo cambi noi. Una reazione a caldo (aggiornato con una nota di F. Pesoli)

Matteo Guarnaccia – personaggio
 guida del documentario – assieme
a Finardi (dalla pag fb di Matteo)

Con una certa emozione che non nascondo, sono andato a vedere ieri sera a Milano – muovendo dalle lande padane dove attualmente staziono in un eccitante incipit primaverile – il bel documentario di Felice Pesoli. Si intitola “Prima che la vita cambi noi” ed è dedicato al movimento beat, beatnik, hippy degli anni Sessanta e Settanta. Il documentario si interrompe quando l’oscura tragedia degli anni di piombo (e dell’operazione Blue Moon) si abbatte sul movimento e su quel segmento del  movimento più che anarchico e più che libertario: artistico, pacifista, curioso, viaggiante e capace di mettere a rischio ogni certezza. Il docufilm (pare si dica così) mi è piaciuto e molto. Fila giù come un bicchier d’acqua nonostante gli 80 minuti. Non c’è ombra di nostalgie o di un “com’eravamo” che sottintenda “belli e bravi” come nessuno più sarà. Ad un certo punto del filmato, Eugenio Finardi, il musicista che con Rossana Casale ha firmato una delle più belle melodie della musica italiana (che posto sotto), dice che gli è piaciuto trasmettere ai suoi ragazzi le idee che aveva e ha ancora in testa ma che loro, ora, stanno cercando nuove strade in quella direzione. E’ il messaggio migliore per dire che non eravamo né i migliori né qualcos’altro. Eravamo nel flusso della vita che andava in una certa direzione e pronti al salto nel buio, tra le pareti di casa o a Kathmandu. Qualcun’altro sta già esplorando nuove frontiere. Per oltrepassarle come noi cercammo in qualche modo di fare

Il re è nudo

Dico qui cosa credo manchi al documentario: due cose forse. La prima è che è quasi totalmente assente il “proletariato giovanile” come allora veniva chiamato da quel tentativo nobile (di Re Nudo, degli Indiani metropolitani e forse anche di una parte di Lotta Continua*) di dar voce a un popolo minore che tutt’al più serviva alle cronache del Corriere per raccontare i “capelloni”. Ma di quella gente – giovani operai, disoccupati, ragazzi col diploma elementare – nel film non c’è che sporadica traccia. C’è molto salotto buono ed è pur vero che quei giovani figli della borghesia illuminata (ed ero tra quelli) erano le punte di lancia del movimento che però aveva una sua

Felice Pesoli 

dimensione di massa un po’ diversa e che nel documentario appare solo a tratti. Pochi.

Infine c’è tantissima Milano – che fu in effetti una gran fucina – ma assai poco del resto d’Italia. Penso anche solo a Roma, dove pure ci furono esperimenti fondamentali: Stampa alternativa nell’editoria e il Filmstudio sul fronte musiche e immagini che venivano dall’estero. Qui forse il materiale si sarebbe trovato. E forse anche di Napoli o della Sicilia (la famosa comune vicino a Cinisi). Ma certo,”…se 80 minuti vi sembran pochi…” provateci voi a metterci tutto senza far sbadigliare! **

Il mio contributo beat:
I disegni per il
manuale  di Luca Gerosa

Detto questo – e spero che Felice non me ne voglia –  il lavoro di Pesoli è straordinario. Il primo lavoro  ben fatto e con la giusta distanza; con empatia ma anche con la freddezza necessaria ad analizzarne il bene e il male. E senza dimenticare la tenerezza, traghettata dalle belle parole di Claudio Rocchi (di cui si coglie la statura intellettuale e a cui il docufilm è dedicato) o di certi baci rubati dalla macchina da presa in un lavoro di ricostruzione difficilissimo perché le immagini dell’epoca sono poche (a Roma però c’è il tesoretto di Grifi).

E’ un documentario che consiglierei a chiunque per farsi un’idea di cosa fu quello strano e straordinario movimento che diede un impulso fondamentale al cambiamento della società bigotta e dagli orizzonti ristretti che eravamo. Per farsi un’idea di cosa fu quel difficile incontro tra politica e istanze libertarie, tra organizzazioni militanti e violente e persone che volevano mettere i fiori nei cannoni. Per capire cosa furono le droghe e il viaggio in Oriente, il mitico Viaggio all’Eden. Tanto insomma, e bene. Che mille sale fioriscano e che possiate avere l’occasione di gustarvi quest’ora e venti minuti. Ne uscirete rinfrancati e con una curiosità del divenire che, grazie a Dio, non si spegne mai. Questo, mi sembra, il messaggio che resta e che il film posta con sé.

* Ricordate Rostagno? “Una fumata bianca al vertice di Lotta Continua”

** Posto di seguito una breve nota di Pesoli a questa breve recensione:
Caro Emanuele, ti ringrazio molto per quello che hai scritto, naturalmente comprese le critiche. Forse non è molto elegante commentare una recensione, ma un paio di cose le voglio dire. La prima è che non ho mai ben capito cosa volesse dire “proletariato giovanile”, fin dai tempi mi è sembrata una definizione politichese, un modo per dire che tutti i giovani incazzati stanno con noi, mentre secondo me c’era una discriminante culturale, una concezione del mondo che andava conquistata al di là delle origini di classe. Lo dice uno che non ha mai appartenuto alla borghesia illuminata (anzi forse adesso sì). Detto brutalmente penso che il tentativo di includere in quel movimento troppa gente sia stato un errore, io credo nel valore dell’esempio, non nell’ “andare verso le masse”.
Per quanto riguarda la dimensione non milanese del movimento ci ho rinunciato perchè avrei dovuto mettere in evidenza le differenze e questo contrastava con la modalità “a volo d’uccello” con cui ho costruito il doc. E poi è già abbastanza lungo così, altro non ci stava e non volevo togliere nulla. Quella che racconto è la specificità del movimento milanese, a Roma le cose erano molto diverse. Direi che c’è spazio per altre documentari.


Prima che il mondo cambi noi. Una reazione a caldo (aggiornato con una nota di F. Pesoli)

Matteo Guarnaccia – personaggio
 guida del documentario – assieme
a Finardi (dalla pag fb di Matteo)

Con una certa emozione che non nascondo, sono andato a vedere ieri sera a Milano – muovendo dalle lande padane dove attualmente staziono in un eccitante incipit primaverile – il bel documentario di Felice Pesoli. Si intitola “Prima che la vita cambi noi” ed è dedicato al movimento beat, beatnik, hippy degli anni Sessanta e Settanta. Il documentario si interrompe quando l’oscura tragedia degli anni di piombo (e dell’operazione Blue Moon) si abbatte sul movimento e su quel segmento del  movimento più che anarchico e più che libertario: artistico, pacifista, curioso, viaggiante e capace di mettere a rischio ogni certezza. Il docufilm (pare si dica così) mi è piaciuto e molto. Fila giù come un bicchier d’acqua nonostante gli 80 minuti. Non c’è ombra di nostalgie o di un “com’eravamo” che sottintenda “belli e bravi” come nessuno più sarà. Ad un certo punto del filmato, Eugenio Finardi, il musicista che con Rossana Casale ha firmato una delle più belle melodie della musica italiana (che posto sotto), dice che gli è piaciuto trasmettere ai suoi ragazzi le idee che aveva e ha ancora in testa ma che loro, ora, stanno cercando nuove strade in quella direzione. E’ il messaggio migliore per dire che non eravamo né i migliori né qualcos’altro. Eravamo nel flusso della vita che andava in una certa direzione e pronti al salto nel buio, tra le pareti di casa o a Kathmandu. Qualcun’altro sta già esplorando nuove frontiere. Per oltrepassarle come noi cercammo in qualche modo di fare

Il re è nudo

Dico qui cosa credo manchi al documentario: due cose forse. La prima è che è quasi totalmente assente il “proletariato giovanile” come allora veniva chiamato da quel tentativo nobile (di Re Nudo, degli Indiani metropolitani e forse anche di una parte di Lotta Continua*) di dar voce a un popolo minore che tutt’al più serviva alle cronache del Corriere per raccontare i “capelloni”. Ma di quella gente – giovani operai, disoccupati, ragazzi col diploma elementare – nel film non c’è che sporadica traccia. C’è molto salotto buono ed è pur vero che quei giovani figli della borghesia illuminata (ed ero tra quelli) erano le punte di lancia del movimento che però aveva una sua

Felice Pesoli 

dimensione di massa un po’ diversa e che nel documentario appare solo a tratti. Pochi.

Infine c’è tantissima Milano – che fu in effetti una gran fucina – ma assai poco del resto d’Italia. Penso anche solo a Roma, dove pure ci furono esperimenti fondamentali: Stampa alternativa nell’editoria e il Filmstudio sul fronte musiche e immagini che venivano dall’estero. Qui forse il materiale si sarebbe trovato. E forse anche di Napoli o della Sicilia (la famosa comune vicino a Cinisi). Ma certo,”…se 80 minuti vi sembran pochi…” provateci voi a metterci tutto senza far sbadigliare! **

Il mio contributo beat:
I disegni per il
manuale  di Luca Gerosa

Detto questo – e spero che Felice non me ne voglia –  il lavoro di Pesoli è straordinario. Il primo lavoro  ben fatto e con la giusta distanza; con empatia ma anche con la freddezza necessaria ad analizzarne il bene e il male. E senza dimenticare la tenerezza, traghettata dalle belle parole di Claudio Rocchi (di cui si coglie la statura intellettuale e a cui il docufilm è dedicato) o di certi baci rubati dalla macchina da presa in un lavoro di ricostruzione difficilissimo perché le immagini dell’epoca sono poche (a Roma però c’è il tesoretto di Grifi).

E’ un documentario che consiglierei a chiunque per farsi un’idea di cosa fu quello strano e straordinario movimento che diede un impulso fondamentale al cambiamento della società bigotta e dagli orizzonti ristretti che eravamo. Per farsi un’idea di cosa fu quel difficile incontro tra politica e istanze libertarie, tra organizzazioni militanti e violente e persone che volevano mettere i fiori nei cannoni. Per capire cosa furono le droghe e il viaggio in Oriente, il mitico Viaggio all’Eden. Tanto insomma, e bene. Che mille sale fioriscano e che possiate avere l’occasione di gustarvi quest’ora e venti minuti. Ne uscirete rinfrancati e con una curiosità del divenire che, grazie a Dio, non si spegne mai. Questo, mi sembra, il messaggio che resta e che il film posta con sé.

* Ricordate Rostagno? “Una fumata bianca al vertice di Lotta Continua”

** Posto di seguito una breve nota di Pesoli a questa breve recensione:
Caro Emanuele, ti ringrazio molto per quello che hai scritto, naturalmente comprese le critiche. Forse non è molto elegante commentare una recensione, ma un paio di cose le voglio dire. La prima è che non ho mai ben capito cosa volesse dire “proletariato giovanile”, fin dai tempi mi è sembrata una definizione politichese, un modo per dire che tutti i giovani incazzati stanno con noi, mentre secondo me c’era una discriminante culturale, una concezione del mondo che andava conquistata al di là delle origini di classe. Lo dice uno che non ha mai appartenuto alla borghesia illuminata (anzi forse adesso sì). Detto brutalmente penso che il tentativo di includere in quel movimento troppa gente sia stato un errore, io credo nel valore dell’esempio, non nell’ “andare verso le masse”.
Per quanto riguarda la dimensione non milanese del movimento ci ho rinunciato perchè avrei dovuto mettere in evidenza le differenze e questo contrastava con la modalità “a volo d’uccello” con cui ho costruito il doc. E poi è già abbastanza lungo così, altro non ci stava e non volevo togliere nulla. Quella che racconto è la specificità del movimento milanese, a Roma le cose erano molto diverse. Direi che c’è spazio per altre documentari.


Oggi a Milano, due viaggi a Oriente

Il primo al Pime (alle 18, via mosè bianchi 94) è un viaggio dentro la guerra in Afghanistan
all’interno del ciclo sulla Via della seta. Un modo un po’ anomalo di raccontare  di quella lunga strada che lungo 8mila chilometri di carovaniere ci portava fino in Cina e viceversa. Passava per Herat (una delle tante Alexandria) e Kabul, che i cinesi chiamavano Kophen. Ma oggi ci passa altro sulla via della seta. Ci passano le pallottole e le trame del nuovo Grande gioco che proveremo a raccontare.

La sera alle 21 invece, allo spazio  Oberdan, di viaggio ce n’è un’altro: quello che Felice Pesoli ha fatto con la cinepresa nella generazione che al piombo preferì i sogni e alle pallottole preferì un altro viaggio: il viaggio all’Eden. Sono contento di aver partecipato al suo lavoro che ha un bel titolo: Prima che la vita cambi noi. Una scommessa che, per quanto mi riguarda, resta ancora aperta.

Oggi a Milano, due viaggi a Oriente

Il primo al Pime (alle 18, via mosè bianchi 94) è un viaggio dentro la guerra in Afghanistan
all’interno del ciclo sulla Via della seta. Un modo un po’ anomalo di raccontare  di quella lunga strada che lungo 8mila chilometri di carovaniere ci portava fino in Cina e viceversa. Passava per Herat (una delle tante Alexandria) e Kabul, che i cinesi chiamavano Kophen. Ma oggi ci passa altro sulla via della seta. Ci passano le pallottole e le trame del nuovo Grande gioco che proveremo a raccontare.

La sera alle 21 invece, allo spazio  Oberdan, di viaggio ce n’è un’altro: quello che Felice Pesoli ha fatto con la cinepresa nella generazione che al piombo preferì i sogni e alle pallottole preferì un altro viaggio: il viaggio all’Eden. Sono contento di aver partecipato al suo lavoro che ha un bel titolo: Prima che la vita cambi noi. Una scommessa che, per quanto mi riguarda, resta ancora aperta.

Negoziati afgani: mullah Mansur dice no

L‘annunciato avvio del negoziato di pace tra governo afgano e talebani sembra nuovamente lettera morta. Con una nota ufficiale,  pubblicata ieri sul sito del movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e ora capeggiato da mullah Mansur, i talebani respingono al mittente l’offerta del tavolo negoziale che solo due giorni fa era dato per apparecchiato sia da Islamabad sia da Kabul. Persino con una data: una prima riunione da tenersi in Pakistan entro venerdi prossimo.

Come fonti dei talebani avevano comunque già fatto sapere, la nota di ieri reitera che «l’Ufficio Politico dell’Emirato islamico (che si trova a Doha, in Qatar, e che è l’organismo deputato alla trattativa ndr) non è stato tenuto informato in merito ai negoziati», motivo per cui sono prive di fondamento «le voci in circolazione sul fatto che delegati dell’Emirato islamico parteciperanno agli incontri con il permesso dello stimato Ameer ul Momineen, Mullah Akhtar Muhammad Mansoor (che Allah lo salvaguardi). Respingiamo tutte queste voci e inequivocabilmente affermiamo che il leader dell’Emirato islamico non ha autorizzato nessuno a partecipare a questo incontro né lo ha fatto la leadership del Consiglio dell’Emirato». I talebani chiariscono che nessun negoziato è possibile finché non verranno rispettate le precondizioni poste dalla guerriglia a fine gennaio durante una riunione informale promossa dall’Ong internazionale Pugwash: «fine dell’occupazione dell’Afghanistan, eliminazione delle liste nere, liberazione dei prigionieri». La guerriglia accusa infine governo e Stati uniti di utilizzare una doppia condotta: da una parte compiono raid ed espandono l’attività militare, dall’altra fanno propaganda sui risultati positivi del Comitato quadrilaterale, una commissione formata da emissari di Islamabad, Kabul, Washington e Pechino che avrebbe dovuto stendere la “road map” per predisporre l’avvio del negoziato ufficiale. Che per ora sembra nuovamente congelato.

La notizia è effettivamente una doccia fredda anche se in parte c’era da aspettarselo. E può persino darsi che alcuni elementi della guerriglia (mullah Mansur e l’Ufficio di Doha ne rappresentano solo una porzione benché forse la più strutturata) decidano di partecipare a un processo che inizierebbe però a zoppicare ancor prima di cominciare la corsa. Il comunicato dice una serie di cose: la prima è che evidentemente non è la fazione che fa capo a Mansur quella che si pensava fosse stata convinta a partecipare al tavolo da Islamabad (che aveva citato una “lista” in suo possesso di talebani favorevoli al negoziato); la seconda è che, salvo smentite, il comunicato ribadisce unità di intenti tra la direzione talebana di Mansur e l’Ufficio politico di Doha, questione non del tutto scontata. La terza è che, se il negoziato salta, la leadership di Mansur e dei talebani della cosiddetta Shura di Quetta riacquistano forza e riescono a farsi percepire che la vera unica forza con cui bisogna parlare.

Il movimento talebano è molto diviso non da oggi e, dopo la morte di mullah Omar, alcuni esponenti del movimento e comandanti dei vari distretti non hanno gradito la manovra “centralista” con cui Mansur, già braccio destro di Omar, ha creato le condizioni per la sua nomina a nuova guida del movimento. Alcune defezioni sono state recuperate ma altre restano. Infine c’è la variabile Hezb Islami, la fazione – non esattamente talebana – che fa capo al vecchio mujahedin Hekmatyar e che controlla diverse aree nel Nord – Nord-est. Senza contare la minaccia rappresentata da Daesh, un movimento ancora debole in Afghanistan e confinato solo in alcuni distretti, ma che rappresenta un polo di attrazione per i nemici di Mansur. Che dimostra però di aver ben compreso la lezione della propaganda e della comunicazione, e assai meglio di Hekmatyar o dei pur abili (ma non in Afghanistan) comunicatori di Daesh.

Quanto alla controparte, la Quadrilaterale per ora ha partorito un topolino. Tra l’altro, forse, sconta il peccato originale di rappresentare un quadro internazionale molto ristretto anche se altri Paesi – come la Russia ad esempio – han preso posizione appellandosi ai talebani perché partecipino al tavolo negoziale e la Ue vuole invitare Teheran a una conferenza internazionale da tenersi in ottobre a Bruxelles sul futuro dell’Afghanistan.

Negoziati afgani: mullah Mansur dice no

L‘annunciato avvio del negoziato di pace tra governo afgano e talebani sembra nuovamente lettera morta. Con una nota ufficiale,  pubblicata ieri sul sito del movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e ora capeggiato da mullah Mansur, i talebani respingono al mittente l’offerta del tavolo negoziale che solo due giorni fa era dato per apparecchiato sia da Islamabad sia da Kabul. Persino con una data: una prima riunione da tenersi in Pakistan entro venerdi prossimo.

Come fonti dei talebani avevano comunque già fatto sapere, la nota di ieri reitera che «l’Ufficio Politico dell’Emirato islamico (che si trova a Doha, in Qatar, e che è l’organismo deputato alla trattativa ndr) non è stato tenuto informato in merito ai negoziati», motivo per cui sono prive di fondamento «le voci in circolazione sul fatto che delegati dell’Emirato islamico parteciperanno agli incontri con il permesso dello stimato Ameer ul Momineen, Mullah Akhtar Muhammad Mansoor (che Allah lo salvaguardi). Respingiamo tutte queste voci e inequivocabilmente affermiamo che il leader dell’Emirato islamico non ha autorizzato nessuno a partecipare a questo incontro né lo ha fatto la leadership del Consiglio dell’Emirato». I talebani chiariscono che nessun negoziato è possibile finché non verranno rispettate le precondizioni poste dalla guerriglia a fine gennaio durante una riunione informale promossa dall’Ong internazionale Pugwash: «fine dell’occupazione dell’Afghanistan, eliminazione delle liste nere, liberazione dei prigionieri». La guerriglia accusa infine governo e Stati uniti di utilizzare una doppia condotta: da una parte compiono raid ed espandono l’attività militare, dall’altra fanno propaganda sui risultati positivi del Comitato quadrilaterale, una commissione formata da emissari di Islamabad, Kabul, Washington e Pechino che avrebbe dovuto stendere la “road map” per predisporre l’avvio del negoziato ufficiale. Che per ora sembra nuovamente congelato.

La notizia è effettivamente una doccia fredda anche se in parte c’era da aspettarselo. E può persino darsi che alcuni elementi della guerriglia (mullah Mansur e l’Ufficio di Doha ne rappresentano solo una porzione benché forse la più strutturata) decidano di partecipare a un processo che inizierebbe però a zoppicare ancor prima di cominciare la corsa. Il comunicato dice una serie di cose: la prima è che evidentemente non è la fazione che fa capo a Mansur quella che si pensava fosse stata convinta a partecipare al tavolo da Islamabad (che aveva citato una “lista” in suo possesso di talebani favorevoli al negoziato); la seconda è che, salvo smentite, il comunicato ribadisce unità di intenti tra la direzione talebana di Mansur e l’Ufficio politico di Doha, questione non del tutto scontata. La terza è che, se il negoziato salta, la leadership di Mansur e dei talebani della cosiddetta Shura di Quetta riacquistano forza e riescono a farsi percepire che la vera unica forza con cui bisogna parlare.

Il movimento talebano è molto diviso non da oggi e, dopo la morte di mullah Omar, alcuni esponenti del movimento e comandanti dei vari distretti non hanno gradito la manovra “centralista” con cui Mansur, già braccio destro di Omar, ha creato le condizioni per la sua nomina a nuova guida del movimento. Alcune defezioni sono state recuperate ma altre restano. Infine c’è la variabile Hezb Islami, la fazione – non esattamente talebana – che fa capo al vecchio mujahedin Hekmatyar e che controlla diverse aree nel Nord – Nord-est. Senza contare la minaccia rappresentata da Daesh, un movimento ancora debole in Afghanistan e confinato solo in alcuni distretti, ma che rappresenta un polo di attrazione per i nemici di Mansur. Che dimostra però di aver ben compreso la lezione della propaganda e della comunicazione, e assai meglio di Hekmatyar o dei pur abili (ma non in Afghanistan) comunicatori di Daesh.

Quanto alla controparte, la Quadrilaterale per ora ha partorito un topolino. Tra l’altro, forse, sconta il peccato originale di rappresentare un quadro internazionale molto ristretto anche se altri Paesi – come la Russia ad esempio – han preso posizione appellandosi ai talebani perché partecipino al tavolo negoziale e la Ue vuole invitare Teheran a una conferenza internazionale da tenersi in ottobre a Bruxelles sul futuro dell’Afghanistan.

Talebani vs Kabul. Processo di pace? No grazie

Mullah Mansur: la nota dei talebani
lo cita come la persona che può o meno
autorizzare la partecipazione al negoziato

I talebani che fanno capo a mullah Mansur, il leader in turbante che ha preso il posto l’estate scorsa di mullah Omar, respingono al mittente la proposta di un incontro negoziale che faccia ripartire il processo di pace col governo afgano, grazie anche agli sforzi di Islamabad e al sostegno di Washington e Pechino. . Con una nota ufficiale, il Consiglio e l’Ufficio politico della guerriglia in turbante, sostenendo di non essere mai stati consultati, negano che qualcuno sia stato autorizzato a partecipare all’incontro su cui, nei giorni scorsi, sia Kabul sia Islamabad si dicevano molto fiduciosi tanto che anche Barack Obama, in una video conferenza con la sua controparte afgana Ashraf Ghani, si è appena complimentato per gli sforzi di Kabul nel riavvio del processo di pace che sarebbe dovuto ripartire, ormai il condizionale è d’obbligo,  entro metà mese.

Talebani vs Kabul. Processo di pace? No grazie

Mullah Mansur: la nota dei talebani
lo cita come la persona che può o meno
autorizzare la partecipazione al negoziato

I talebani che fanno capo a mullah Mansur, il leader in turbante che ha preso il posto l’estate scorsa di mullah Omar, respingono al mittente la proposta di un incontro negoziale che faccia ripartire il processo di pace col governo afgano, grazie anche agli sforzi di Islamabad e al sostegno di Washington e Pechino. . Con una nota ufficiale, il Consiglio e l’Ufficio politico della guerriglia in turbante, sostenendo di non essere mai stati consultati, negano che qualcuno sia stato autorizzato a partecipare all’incontro su cui, nei giorni scorsi, sia Kabul sia Islamabad si dicevano molto fiduciosi tanto che anche Barack Obama, in una video conferenza con la sua controparte afgana Ashraf Ghani, si è appena complimentato per gli sforzi di Kabul nel riavvio del processo di pace che sarebbe dovuto ripartire, ormai il condizionale è d’obbligo,  entro metà mese.

Dentro la guerra oggi a Padova

Oggi alle 17.30 a Padova con Massimiliano Trentin per parlare de “Dentro la guerra. La guerra dentro. Confini, conflitti e resistenze alle porte d’Europa” a Padova via del Santo 24 Aula B1

Dentro la guerra oggi a Padova

Oggi alle 17.30 a Padova con Massimiliano Trentin per parlare de “Dentro la guerra. La guerra dentro. Confini, conflitti e resistenze alle porte d’Europa” a Padova via del Santo 24 Aula B1

Kabul, il Duce e il caso Piperno. Marò ante litteram

La copertina del libro di Tanzi
alla Biblioteca del Pime a Milano
Nel 1923 il Duce spedì in Afghanistan una missione tecnica guidata da Gastone Tanzi, Dario Piperno e Giuseppe Mazzoli. L’idea era probabilmente quella non solo di un assessment (come si dice oggi) in tema di cooperazione soprattutto tecnico.-sanitaria ma anche quella di un corteggiamento rivolto ad Amanullah Khan, monarca afgano in rotta coi britannici, nemici giurati di Mussolini. La storia di Amanullah l’abbiamo già affrontata e con questa la melina disgustosa che il regime fece con l’ormai ex monarca quando Amanullah dovette prendere la via dell’esilio conclusosi in Italia (in realtà il re morì in Svizzera) dove aveva traslocato con la sua famiglia e dove tutt’ora abitano alcuni dei suoi discendenti diretti. Mi soffermo invece sia  su Gastone Tanzi e sul suo libro di viaggio dove un capitolo è dedicato all’incontro con Amanullah sia su una vicenda che accompagnò la fine di quel soggiorno. Il libro l’ho trovato alla biblioteca del Pime a Milano e gli ho dato una rapida occhiata. Al netto di una serie di luoghi comuni ormai assodati sul Paese ( e che si ripetono negli anni), il libro non presenta un gran interesse e anche la conversazione con il re non dice molto né su Amanullah né sui suoi rapporti con Roma. Ma è uno spaccato di quelle relazioni lontane che Roma tenne con Kabul, capitolo poco noto e piuttosto oscuro visto poi come il Fascismo si comportò con il monarca pashtun:  lo blandì e lo illuse che avrebbe appoggiato il suo ritorno al trono che era però ostacolato dalla Germania nazista che non voleva grane con Londra sul fronte asiatico. Non se ne face nulla e Amanullah morì con l’illusione che gli amici italiani lo avrebbero aiutato.
Dal libro di Tanzi: re Amanullah al centro con il classico
karakuli, lo stesso copricapo amato da Karzai
Interessante è però la vicenda a latere che riguardò l’ingegner Piperno, che era finito in galera per aver ucciso un poliziotto. Non è chiara l’origine della diatriba (ho trovato su un sito destrorso una ricostruzione che gli affibbia un amorazzo afgano che sarebbe stato il casus belli, ma l’articolo è talmente pieno di errori che non ci si può far conto). La storia è invece ben ricostruita dall’Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). In due parole la mette così: «Il 27 luglio 1924, le Autorità afghane arrestavano l’ingegnere italiano Dario Piperno, per aver ucciso un gendarme, tale Mohamed Yasin, che voleva forzarlo a presentarsi al posto di polizia L’Italia non poteva opporsi a che il Piperno fosse sottoposto alla giurisdizione dei tribunali locali, dato che non esisteva in Afghanistan il regime delle capitolazioni. Egli veniva quindi condannato a morte, in prima ed in seconda istanza. Per evitare l’esecuzione, il Governo italiano decideva di pagare il cosiddetto prezzo del sangue, previsto dal diritto consuetudinario musulmano, secondo il quale, in caso di omicidio, spettava alla famiglia dell’ucciso perdonare l’uccisore in cambio di un’indennità. Il perdono dei familiari era una condizione indispensabile perché il Governo dell’Emiro regnante, Amanullah Khan, potesse concedere la grazia».
Il prezzo del sangue
Si fissa la somma di 130.000 lire ai parenti dell’ucciso e Roma tratta per il rimpatrio immediato del Piperno ma il malcapitato pensa bene di evadere dal carcere di Kabul, con l’idea di varcare la frontiera con l’ormai Unione sovietica nel Turkestan, probabilmente l’attuale Turkmenistan. Fatti due conti però, Piperno ci ripensa e si consegna, forse pensando che ormai la trattativa stia andando a buon fine, alle autorità di polizia che lo sbattono in galera. Ma le cose non vanno bene e il «30 maggio 1925, improvvisamente e senza dare alcun preavviso alla Legazione d’Italia, le Autorità afghane lo giustiziavano».
Nel suo rapporto a Mussolini del 31 maggio 1925, Cavicchioni (ministro d’Italia, cioè ambasciatore, a Kabul ndr) fa alcune osservazioni interessanti che riporto per intero:
« Il caso Piperno si può riassumere in tre punti principali: 1. Piperno ha ucciso un gendarme mussulmano, offendendo così la religione, la Società e il corpo di polizia. 2. E’ stato pagato il prezzo del sangue, e sono in tal modo stati soddisfatti i dettami della legge religiosa, la sola che conti in Afghanistan. 3. Piperno è stato giustiziato dall’Autorità civile afghana in modo barbaro e contrariamente ad ogni assicurazione e ad ogni aspettativa. Il primo punto è incontestabile. Ne segue un processo senza difesa, senza interpreti e senza che si permetta di chiamare testimoni che non siano mussulmani, sulla base di una legge che una mente civile non può comprendere applicata ad un cittadino, sia pure colpevole, di una nazione civile. Ne risulta una condanna a morte: cioè la facoltà alla famiglia dell’ucciso di prendere una vendetta che vada fino alla morte. L’Emiro fa consegnare il Piperno alla famiglia che ne possa disporre come vuole. Gli eredi invece di farne vendetta perdonano. Perché il perdono avvenisse vi è stato senza alcun dubbio il consiglio dell’Emiro. Questo mi è stato affermato dallo stesso Ministro degli Affari Esteri. Se l’Emiro avesse detto diversamente, o avesse anche soltanto taciuto, la vendetta sarebbe stata compiuta barbaramente: troppe erano le pressioni perché questo avvenisse. Dettaglio importante di questo fu il pagamento del prezzo del sangue, ammesso dal Corano. Se non fosse stata compiuta la cerimonia in questo modo, il fanatismo non sarebbe stato placato, e si sarebbe avuto, come ho detto in rapporti precedenti, un continuo pericolo per tutti gli europei. Il pagamento del prezzo del sangue fu perciò necessario non solo per il Piperno, ma anche e maggiormente nei riguardi di tutta la comunità europea. […]
L’ambasciata italiana a Kabul negli anni Venti
Ancora Cavicchioni: «Esistono qui due leggi se si possono chiamare così: una religiosa ed una civile. La prima contempla la vendetta o pena del taglione che si può in certi casi evitare col pagamento del prezzo del sangue. La seconda, accozzaglia stravagante e discorde di principi, che comporta un periodo di detenzione. Ora mi si dice che vi sono degli articoli sussidiari per i quali è comminata anche la pena di morte. Per questo ho chiesto una copia vidimata della Legge penale. Ho osservato una volta al Ministro degli Esteri che la legge religiosa appare quindi superiore a quella civile: cioè che se gli eredi dell’ucciso non perdonano ed ammazzano l’uccisore, la legge civile verrebbe a perdere ogni sua forza ed ogni suo effetto. Che così i veri punitori sono gli eredi e non la Società o lo Stato: e che questa doppia pena e questa doppia condanna, specialmente quando la prima ha carattere così grave, ripugna ad ogni mente umana. Mi è stato risposto che effettivamente la legge religiosa è la più forte. Ma che soddisfatta questa, quando è possibile, prende forza la seconda. Che la prima riguarda i diritti della famiglia e la seconda quelli della Società. Che esistano qui delle leggi, anche appositamente create, per cui venga inflitta la morte per la morte, si potrebbe anche doverlo subire. Ma in questo disgraziato caso quello che offende ogni sentimento umano e civile è la crudele e spietata condotta di questa gente e precisamente che si sia fatto un processo senza alcuna delle garanzie che anche un colpevole deve avere, e che si sia effettuata improvvisamente una esecuzione capitale senza dare il tempo di ricorrere in grazia e senza dar modo di esprimere le ultime volontà. Se il secondo punto per quanto riguarda la grazia sarebbe forse stato inutile in questo caso, e nella seconda parte risponde soltanto a sentimenti, il primo punto invece, quello che riflette il processo, cozza contro ogni concezione degli stessi diritti dell’uomo».
Una sorta di “caso marò” ante litteram. Come finìsce? Il Duce se la prende, è il caso di dirlo, a morte. Esige scuse ufficiali da Kabul e denaro valutato in 7mila sterline (Perfida Albione sì, ma la moneta sonante dova essere in valuta pregiata, altro che Quota 90!). Metà andrà alle casse statali, metà alla famiglia Piperno. Ancora Cavicchioni a Mussolini il 18 agosto 1925: «Questo Governo ha accettato integralmente condizioni. Oggi ho ricevuto visita del Sottosegretario Affari Esteri che mi ha presentato scuse del Governo afgano con la formula stabilita dall’E.V. Mi ha comunicato destituzione comandante polizia. Mi ha consegnato sei mila sterline contanti in oro. Ho dichiarato in nome del Regio Governo composto conflitto».

Mussolini è ben felice che tutto sia andato a posto (anche se gli afgani si fanno uno sconto di 1000 sterline e ne pagano solo 6mila corredate però anche dalle scuse ufficiali. Risponde a Cavicchioli in giornata. L’onore è salvo, le casse pure, il caso è chiuso e le relazioni ber ristabilite.

Il disegno che riproduce Amanullah è di Alessandro Ferraro

Kabul, il Duce e il caso Piperno. Marò ante litteram

La copertina del libro di Tanzi
alla Biblioteca del Pime a Milano
Nel 1923 il Duce spedì in Afghanistan una missione tecnica guidata da Gastone Tanzi, Dario Piperno e Giuseppe Mazzoli. L’idea era probabilmente quella non solo di un assessment (come si dice oggi) in tema di cooperazione soprattutto tecnico.-sanitaria ma anche quella di un corteggiamento rivolto ad Amanullah Khan, monarca afgano in rotta coi britannici, nemici giurati di Mussolini. La storia di Amanullah l’abbiamo già affrontata e con questa la melina disgustosa che il regime fece con l’ormai ex monarca quando Amanullah dovette prendere la via dell’esilio conclusosi in Italia (in realtà il re morì in Svizzera) dove aveva traslocato con la sua famiglia e dove tutt’ora abitano alcuni dei suoi discendenti diretti. Mi soffermo invece sia  su Gastone Tanzi e sul suo libro di viaggio dove un capitolo è dedicato all’incontro con Amanullah sia su una vicenda che accompagnò la fine di quel soggiorno. Il libro l’ho trovato alla biblioteca del Pime a Milano e gli ho dato una rapida occhiata. Al netto di una serie di luoghi comuni ormai assodati sul Paese ( e che si ripetono negli anni), il libro non presenta un gran interesse e anche la conversazione con il re non dice molto né su Amanullah né sui suoi rapporti con Roma. Ma è uno spaccato di quelle relazioni lontane che Roma tenne con Kabul, capitolo poco noto e piuttosto oscuro visto poi come il Fascismo si comportò con il monarca pashtun:  lo blandì e lo illuse che avrebbe appoggiato il suo ritorno al trono che era però ostacolato dalla Germania nazista che non voleva grane con Londra sul fronte asiatico. Non se ne face nulla e Amanullah morì con l’illusione che gli amici italiani lo avrebbero aiutato.
Dal libro di Tanzi: re Amanullah al centro con il classico
karakuli, lo stesso copricapo amato da Karzai
Interessante è però la vicenda a latere che riguardò l’ingegner Piperno, che era finito in galera per aver ucciso un poliziotto. Non è chiara l’origine della diatriba (ho trovato su un sito destrorso una ricostruzione che gli affibbia un amorazzo afgano che sarebbe stato il casus belli, ma l’articolo è talmente pieno di errori che non ci si può far conto). La storia è invece ben ricostruita dall’Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). In due parole la mette così: «Il 27 luglio 1924, le Autorità afghane arrestavano l’ingegnere italiano Dario Piperno, per aver ucciso un gendarme, tale Mohamed Yasin, che voleva forzarlo a presentarsi al posto di polizia L’Italia non poteva opporsi a che il Piperno fosse sottoposto alla giurisdizione dei tribunali locali, dato che non esisteva in Afghanistan il regime delle capitolazioni. Egli veniva quindi condannato a morte, in prima ed in seconda istanza. Per evitare l’esecuzione, il Governo italiano decideva di pagare il cosiddetto prezzo del sangue, previsto dal diritto consuetudinario musulmano, secondo il quale, in caso di omicidio, spettava alla famiglia dell’ucciso perdonare l’uccisore in cambio di un’indennità. Il perdono dei familiari era una condizione indispensabile perché il Governo dell’Emiro regnante, Amanullah Khan, potesse concedere la grazia».
Il prezzo del sangue
Si fissa la somma di 130.000 lire ai parenti dell’ucciso e Roma tratta per il rimpatrio immediato del Piperno ma il malcapitato pensa bene di evadere dal carcere di Kabul, con l’idea di varcare la frontiera con l’ormai Unione sovietica nel Turkestan, probabilmente l’attuale Turkmenistan. Fatti due conti però, Piperno ci ripensa e si consegna, forse pensando che ormai la trattativa stia andando a buon fine, alle autorità di polizia che lo sbattono in galera. Ma le cose non vanno bene e il «30 maggio 1925, improvvisamente e senza dare alcun preavviso alla Legazione d’Italia, le Autorità afghane lo giustiziavano».
Nel suo rapporto a Mussolini del 31 maggio 1925, Cavicchioni (ministro d’Italia, cioè ambasciatore, a Kabul ndr) fa alcune osservazioni interessanti che riporto per intero:
« Il caso Piperno si può riassumere in tre punti principali: 1. Piperno ha ucciso un gendarme mussulmano, offendendo così la religione, la Società e il corpo di polizia. 2. E’ stato pagato il prezzo del sangue, e sono in tal modo stati soddisfatti i dettami della legge religiosa, la sola che conti in Afghanistan. 3. Piperno è stato giustiziato dall’Autorità civile afghana in modo barbaro e contrariamente ad ogni assicurazione e ad ogni aspettativa. Il primo punto è incontestabile. Ne segue un processo senza difesa, senza interpreti e senza che si permetta di chiamare testimoni che non siano mussulmani, sulla base di una legge che una mente civile non può comprendere applicata ad un cittadino, sia pure colpevole, di una nazione civile. Ne risulta una condanna a morte: cioè la facoltà alla famiglia dell’ucciso di prendere una vendetta che vada fino alla morte. L’Emiro fa consegnare il Piperno alla famiglia che ne possa disporre come vuole. Gli eredi invece di farne vendetta perdonano. Perché il perdono avvenisse vi è stato senza alcun dubbio il consiglio dell’Emiro. Questo mi è stato affermato dallo stesso Ministro degli Affari Esteri. Se l’Emiro avesse detto diversamente, o avesse anche soltanto taciuto, la vendetta sarebbe stata compiuta barbaramente: troppe erano le pressioni perché questo avvenisse. Dettaglio importante di questo fu il pagamento del prezzo del sangue, ammesso dal Corano. Se non fosse stata compiuta la cerimonia in questo modo, il fanatismo non sarebbe stato placato, e si sarebbe avuto, come ho detto in rapporti precedenti, un continuo pericolo per tutti gli europei. Il pagamento del prezzo del sangue fu perciò necessario non solo per il Piperno, ma anche e maggiormente nei riguardi di tutta la comunità europea. […]
L’ambasciata italiana a Kabul negli anni Venti
Ancora Cavicchioni: «Esistono qui due leggi se si possono chiamare così: una religiosa ed una civile. La prima contempla la vendetta o pena del taglione che si può in certi casi evitare col pagamento del prezzo del sangue. La seconda, accozzaglia stravagante e discorde di principi, che comporta un periodo di detenzione. Ora mi si dice che vi sono degli articoli sussidiari per i quali è comminata anche la pena di morte. Per questo ho chiesto una copia vidimata della Legge penale. Ho osservato una volta al Ministro degli Esteri che la legge religiosa appare quindi superiore a quella civile: cioè che se gli eredi dell’ucciso non perdonano ed ammazzano l’uccisore, la legge civile verrebbe a perdere ogni sua forza ed ogni suo effetto. Che così i veri punitori sono gli eredi e non la Società o lo Stato: e che questa doppia pena e questa doppia condanna, specialmente quando la prima ha carattere così grave, ripugna ad ogni mente umana. Mi è stato risposto che effettivamente la legge religiosa è la più forte. Ma che soddisfatta questa, quando è possibile, prende forza la seconda. Che la prima riguarda i diritti della famiglia e la seconda quelli della Società. Che esistano qui delle leggi, anche appositamente create, per cui venga inflitta la morte per la morte, si potrebbe anche doverlo subire. Ma in questo disgraziato caso quello che offende ogni sentimento umano e civile è la crudele e spietata condotta di questa gente e precisamente che si sia fatto un processo senza alcuna delle garanzie che anche un colpevole deve avere, e che si sia effettuata improvvisamente una esecuzione capitale senza dare il tempo di ricorrere in grazia e senza dar modo di esprimere le ultime volontà. Se il secondo punto per quanto riguarda la grazia sarebbe forse stato inutile in questo caso, e nella seconda parte risponde soltanto a sentimenti, il primo punto invece, quello che riflette il processo, cozza contro ogni concezione degli stessi diritti dell’uomo».
Una sorta di “caso marò” ante litteram. Come finìsce? Il Duce se la prende, è il caso di dirlo, a morte. Esige scuse ufficiali da Kabul e denaro valutato in 7mila sterline (Perfida Albione sì, ma la moneta sonante dova essere in valuta pregiata, altro che Quota 90!). Metà andrà alle casse statali, metà alla famiglia Piperno. Ancora Cavicchioni a Mussolini il 18 agosto 1925: «Questo Governo ha accettato integralmente condizioni. Oggi ho ricevuto visita del Sottosegretario Affari Esteri che mi ha presentato scuse del Governo afgano con la formula stabilita dall’E.V. Mi ha comunicato destituzione comandante polizia. Mi ha consegnato sei mila sterline contanti in oro. Ho dichiarato in nome del Regio Governo composto conflitto».

Mussolini è ben felice che tutto sia andato a posto (anche se gli afgani si fanno uno sconto di 1000 sterline e ne pagano solo 6mila corredate però anche dalle scuse ufficiali. Risponde a Cavicchioli in giornata. L’onore è salvo, le casse pure, il caso è chiuso e le relazioni ber ristabilite.

Il disegno che riproduce Amanullah è di Alessandro Ferraro

Ecco quanto vale la vita di un afgano

Quanto vale la vita di un afgano? Quanto costa un cadavere della nazionalità respinta in questi giorni alle eurofrontiere? A giudicare da quanto gli Stati uniti hanno offerto per compensare le vittime dell’ospedale di Kunduz, che agli inizi di ottobre venne fatto segno di un bombardamento mirato che lo ridusse in cenere, la morte di un afgano – anche se con laurea – vale seimila euro. Tremila se è stato solo ferito, anche in modo grave. Lo hanno raccontato all’Associated Press i parenti delle vittime dell’attacco al nosocomio di Msf di Kunduz e la risposta dei Medici sena frontiere, che l’ospedale gestivano con personale soprattutto locale, non si è fatta attendere: Guilhem Molinie, portavoce di Msf in Afghanistan, definisce «ridicolo» il cosiddetto pagamento di “sorry money”. Insufficiente per molte famiglie che avevano nei loro morti l’unico salario con cui sopravvivere. Il Paese della guerra infinita è intanto alle prese col tentativo di rinegoziare l’ennesimo incontro tra governo e talebani mentre ieri due attentati della guerriglia (uno a Kabul, l’altro nella provincia orientale di Kunar) hanno ucciso oltre venti persone, in gran parte civili. Il che rende il negoziato – messo in piedi da una “Commissione quadrilaterale” formata da afgani, pachistani, americani e cinesi – estremamente in salita.

 Guilhem Molinie di Msf: compensazione ridicola

La vicenda di Kunduz e del bombardamento dell’ospedale di Msf è una delle tante vicende della guerra infinita e uno dei capitoli più bui per militari afgani e internazionali, responsabili di mezze ammissioni, scuse e reticenze fustigate anche da un recente rapporto dell’Onu. A quanto si sa, gli americani – che chiamati dagli afgani fecero il raid sull’ospedale – dopo aver espresso le loro condoglianze a oltre 140 famiglie e individui hanno reso noto che la ricompensa sarà per tutto lo staff. Ma al di là dei numeri (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti, 14 altri civili) la cifra sembra per ora quella lamentata dalle vittime – e ritenuta inadeguata e offensiva – quando in altre occasioni (come nel caso del militare “impazzito” che fece una strage nel 2013 andando di casa in casa da solo a fare giustizia sommaria) gli Stati Uniti sborsarono fino a 50mila dollari per ogni vittima. E non c’è solo la questione dei soldi. Secondo l’Ap, un documento congiunto Nato-Usa che l’agenzia ha potuto visionare ammette che un Ac-130 sparò con 211 colpi per mezz’ora prima che ci si rendesse conto del disguido. Il documento dice anche che, contrariamente a quanto sostennero inizialmente le autorità militari di Kabul, non c’era nessuna evidenza che nell’ospedale vi fossero dei guerriglieri. Il raid avrebbe anzi dovuto colpire un edificio a poca distanza: un tragico “errore”. Sarebbe anche pronta l’indagine condotta in proprio dagli americani: un dossier di 3mila pagine che però non è ancora stato reso pubblico. Quanto alla commissione indipendente che Msf ha chiesto per far luce sulla vicenda, niente è successo poiché sarebbero necessarie alcune procedure di indagine che devono ricevere luce verde da Washington e Kabul.

Mullah Omar: dopo di lui il diluvio
tra le fila della guerriglia

E a Kabul intanto si prepara quello che dovrebbe essere il primo vero negoziato tra guerriglia e governo. Il piano, coordinato soprattutto da Islamabad ma col beneplacito di Kabul, Washington e Pechino, prevede un incontro già nei primi giorni di marzo. I pachistani hanno invitato tutti i gruppi e le fazioni della guerriglia ma regna scetticismo: i talebani sono divisi e ognuno sembra andare per proprio conto. Com’è noto l’attuale capo, mullah Mansur, è in contatto con Islamabad ma l’ufficio politico di Doha, che i talebani hanno aperto anni fa proprio per avere un canale diplomatico ufficiale, sostiene di non essere stato consultato. Inoltre è noto che Mansur gode solo dell’appoggio di una parte del movimento. Quanto a Hekmatyar, che controlla la fazione guerrigliera dell’Hezb e Islami (che ha anche un braccio “legale” in parlamento) l’adesione non è ancora arrivata. E infine ci sono una miriade di capi bastone in turbante che non è chiaro a chi rispondano. Senza contare la variabile Daesh che vorrà mettere in piedi nel piatto. Per boicottarlo.

Ecco quanto vale la vita di un afgano

Quanto vale la vita di un afgano? Quanto costa un cadavere della nazionalità respinta in questi giorni alle eurofrontiere? A giudicare da quanto gli Stati uniti hanno offerto per compensare le vittime dell’ospedale di Kunduz, che agli inizi di ottobre venne fatto segno di un bombardamento mirato che lo ridusse in cenere, la morte di un afgano – anche se con laurea – vale seimila euro. Tremila se è stato solo ferito, anche in modo grave. Lo hanno raccontato all’Associated Press i parenti delle vittime dell’attacco al nosocomio di Msf di Kunduz e la risposta dei Medici sena frontiere, che l’ospedale gestivano con personale soprattutto locale, non si è fatta attendere: Guilhem Molinie, portavoce di Msf in Afghanistan, definisce «ridicolo» il cosiddetto pagamento di “sorry money”. Insufficiente per molte famiglie che avevano nei loro morti l’unico salario con cui sopravvivere. Il Paese della guerra infinita è intanto alle prese col tentativo di rinegoziare l’ennesimo incontro tra governo e talebani mentre ieri due attentati della guerriglia (uno a Kabul, l’altro nella provincia orientale di Kunar) hanno ucciso oltre venti persone, in gran parte civili. Il che rende il negoziato – messo in piedi da una “Commissione quadrilaterale” formata da afgani, pachistani, americani e cinesi – estremamente in salita.

 Guilhem Molinie di Msf: compensazione ridicola

La vicenda di Kunduz e del bombardamento dell’ospedale di Msf è una delle tante vicende della guerra infinita e uno dei capitoli più bui per militari afgani e internazionali, responsabili di mezze ammissioni, scuse e reticenze fustigate anche da un recente rapporto dell’Onu. A quanto si sa, gli americani – che chiamati dagli afgani fecero il raid sull’ospedale – dopo aver espresso le loro condoglianze a oltre 140 famiglie e individui hanno reso noto che la ricompensa sarà per tutto lo staff. Ma al di là dei numeri (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti, 14 altri civili) la cifra sembra per ora quella lamentata dalle vittime – e ritenuta inadeguata e offensiva – quando in altre occasioni (come nel caso del militare “impazzito” che fece una strage nel 2013 andando di casa in casa da solo a fare giustizia sommaria) gli Stati Uniti sborsarono fino a 50mila dollari per ogni vittima. E non c’è solo la questione dei soldi. Secondo l’Ap, un documento congiunto Nato-Usa che l’agenzia ha potuto visionare ammette che un Ac-130 sparò con 211 colpi per mezz’ora prima che ci si rendesse conto del disguido. Il documento dice anche che, contrariamente a quanto sostennero inizialmente le autorità militari di Kabul, non c’era nessuna evidenza che nell’ospedale vi fossero dei guerriglieri. Il raid avrebbe anzi dovuto colpire un edificio a poca distanza: un tragico “errore”. Sarebbe anche pronta l’indagine condotta in proprio dagli americani: un dossier di 3mila pagine che però non è ancora stato reso pubblico. Quanto alla commissione indipendente che Msf ha chiesto per far luce sulla vicenda, niente è successo poiché sarebbero necessarie alcune procedure di indagine che devono ricevere luce verde da Washington e Kabul.

Mullah Omar: dopo di lui il diluvio
tra le fila della guerriglia

E a Kabul intanto si prepara quello che dovrebbe essere il primo vero negoziato tra guerriglia e governo. Il piano, coordinato soprattutto da Islamabad ma col beneplacito di Kabul, Washington e Pechino, prevede un incontro già nei primi giorni di marzo. I pachistani hanno invitato tutti i gruppi e le fazioni della guerriglia ma regna scetticismo: i talebani sono divisi e ognuno sembra andare per proprio conto. Com’è noto l’attuale capo, mullah Mansur, è in contatto con Islamabad ma l’ufficio politico di Doha, che i talebani hanno aperto anni fa proprio per avere un canale diplomatico ufficiale, sostiene di non essere stato consultato. Inoltre è noto che Mansur gode solo dell’appoggio di una parte del movimento. Quanto a Hekmatyar, che controlla la fazione guerrigliera dell’Hezb e Islami (che ha anche un braccio “legale” in parlamento) l’adesione non è ancora arrivata. E infine ci sono una miriade di capi bastone in turbante che non è chiaro a chi rispondano. Senza contare la variabile Daesh che vorrà mettere in piedi nel piatto. Per boicottarlo.

L’asso nella manica della Quadrilaterale

L’asso di ora nella briscola
 è un’immagine a due teste. Quelle del nagoziato
afgano sembrano molte di più

Devono avere un asso nella manica i quattro cavalieri della Quadrilaterale, che in rappresentanza di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati uniti han  fatto sapere ieri che il negoziato di pace è vicino, che al tavolo sono invitati ufficialmente i talebani per discutere col governo di Kabul e che c’è anche una data possibile: i primi di marzo. Dove? In Pakistan. Non filtra molto altro per ora: la Quadrilaterale si è incontrata diverse volte tra Kabul e Islamabad e sembrava avesse finora partorito un topolino. Difficile dire quanto sia certa la partecipazione dei talebani (e di quali) ma l’ann8ncio c’è e se è stato fatto è forse qualcosa in più di un manifesto di intenzioni. Per certo c’è che Islamabad ha fatto il possibile per convincere almeno una parte della guerriglia che bisogna negoziare. Ai turbanti armati. che hanno comunque fissato delle precondizioni piuttosto difficili da raggiungere, il momento può forse apparire favorevole: sul terreno hanno una buona posizione di forza e inoltre il movimento attraversa un brutto periodo tanto che forse è meglio serrare i ranghi. Kabul ha fatto la sua parte: ha sostituito il vertice dell’Alto consiglio di pace, cui compete il negoziato, piazzando un vecchio imprenditore  pashtun, religioso, rispettato e considerato a un tempo moderato e nazionalista ancor prima che islamista: Pir Sayed Ahmad Gailani, dove “pir” indica il rango di questo sufi la cui famiglia ha una lunga storia teologica alle spalle. Ha già detto che va coinvolto il clero e questa sembra la direzione su cui Pak e Afg convergono. Era un uomo fedele alla monarchia di Zaher e considerato, all’epoca della lotta contro l’Urss, talmente moderato che il Pakistan gli preferì, tra i gruppi armati pashtun, quello di Gulbuddin Hekmatyar. Ma ora le cose sono cambiate e Gailani può andar bene un po’ a tutti.
 Il processo di pace in Afghanistan ha davvero una storia complessa e forse per ora conviene stare alla finestra con occhio cauto. E vedere se davvero l’asso nella manica c’è o è solo un bluff.

L’asso nella manica della Quadrilaterale

L’asso di ora nella briscola
 è un’immagine a due teste. Quelle del nagoziato
afgano sembrano molte di più

Devono avere un asso nella manica i quattro cavalieri della Quadrilaterale, che in rappresentanza di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati uniti han  fatto sapere ieri che il negoziato di pace è vicino, che al tavolo sono invitati ufficialmente i talebani per discutere col governo di Kabul e che c’è anche una data possibile: i primi di marzo. Dove? In Pakistan. Non filtra molto altro per ora: la Quadrilaterale si è incontrata diverse volte tra Kabul e Islamabad e sembrava avesse finora partorito un topolino. Difficile dire quanto sia certa la partecipazione dei talebani (e di quali) ma l’ann8ncio c’è e se è stato fatto è forse qualcosa in più di un manifesto di intenzioni. Per certo c’è che Islamabad ha fatto il possibile per convincere almeno una parte della guerriglia che bisogna negoziare. Ai turbanti armati. che hanno comunque fissato delle precondizioni piuttosto difficili da raggiungere, il momento può forse apparire favorevole: sul terreno hanno una buona posizione di forza e inoltre il movimento attraversa un brutto periodo tanto che forse è meglio serrare i ranghi. Kabul ha fatto la sua parte: ha sostituito il vertice dell’Alto consiglio di pace, cui compete il negoziato, piazzando un vecchio imprenditore  pashtun, religioso, rispettato e considerato a un tempo moderato e nazionalista ancor prima che islamista: Pir Sayed Ahmad Gailani, dove “pir” indica il rango di questo sufi la cui famiglia ha una lunga storia teologica alle spalle. Ha già detto che va coinvolto il clero e questa sembra la direzione su cui Pak e Afg convergono. Era un uomo fedele alla monarchia di Zaher e considerato, all’epoca della lotta contro l’Urss, talmente moderato che il Pakistan gli preferì, tra i gruppi armati pashtun, quello di Gulbuddin Hekmatyar. Ma ora le cose sono cambiate e Gailani può andar bene un po’ a tutti.
 Il processo di pace in Afghanistan ha davvero una storia complessa e forse per ora conviene stare alla finestra con occhio cauto. E vedere se davvero l’asso nella manica c’è o è solo un bluff.

Armi: chi vende e chi compra

Una bella compagniacliccare sulle mappe per ingrandirleI migliori clientiVai al sito del Sipri e ai nuovi dati forniti oggi dall’organismo che monitora il commercio mondiale

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Libia/Italia: un intervento da evitare

Dopo il recentissimo raid americano nel Nord della Libia lo spettro della guerra si avvicina. Ma quali sono gli obiettivi di una missione spacciata per lotta a Daesh e quali i pericoli di un intervento militare? Sono le domande che si è fatto un gruppo di lavoro di ricercatori e analisti che hanno presentato ieri al Centro Balducci di Zugliano (Udine) un dossier al convegno ““Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla Tavola della pace.

LItalia – dice in sintesi il documento – corre un grosso rischio in caso di intervento in Libia: il quadro politico locale resta confuso, la catena di comando è incerta, le incognite e le variabili sono numerose, la possibilità di perdita di vite umane sul terreno e tra la forza militare internazionale è molto elevata, le alleanze infine fanno riferimento a obiettivi e agende differenti. Il dossier analizza il quadro attuale e – al di là di considerazioni etiche o ideologiche – cerca di capire in che contesto si muoverebbe un eventuale intervento militare, agitato da mesi come spettro ed elemento di pressione e da molti ritenuto imminente anche attraverso azioni mirate unilaterali (di cui abbiamo appena avuto un assaggio ndr) in un contesto dove non è ancora chiaro né chi avrebbe in mano le redini della catena di comando né quale sarebbe il ruolo dell’Italia.

Il documento comincia dallo scenario politico generale nel quale si mescola il desiderio di stabilizzare il Paese con la necessità di mettere in sicurezza le aree petrolifere e di controllare il flusso dei migranti cui non è estraneo un movimento criminale di commercianti di vite umane. Uno scenario nel quale il nuovo esecutivo di al Sarraj per ora sulla carta (che potrebbe richiedere un intervento esterno) è molto debole e isolato e non accettato completamente nemmeno dai due governi di Tobruk e Tripoli. Le cose si complicano per la presenza di Daesh, per la fluttuazione delle alleanze interne al Paese e per la possibile capacità di attrazione, in caso di conflitto, del brand jihadista. Il documento infine mette in guardia sul problema del consenso dell’opinione pubblica libica in caso di intervento esterno e sulle dinamiche politico-militari che questo scatenerebbe. Al secondo punto si analizza l’impegno militare in caso di conflitto con una stima di impiego di uomini per l’Italia di circa 6mila uomini. Il documento sottolinea che al momento non sono chiari gli obiettivi, la struttura della catena di comando, l’effettivo coordinamento delle possibili forze in campo e mette in guardia sul possibile sfaldamento di entrambi i fronti (Tripoli e Tobruk) con conseguente polarizzazione su posizioni non conciliabili di fazioni e gruppi sempre meno uniti (oltre alla già citata variabile Desh). Il terzo punto riguarda invece le alleanze internazionali: fluttuanti, con obiettivi diversi e con un diverso rapporto con il Paese. In questo quadro confuso, il documento ricorda che gran parte di questi Paesi fanno anche parte della filiera del commercio delle armi che si rischia così di alimentare.

Il documento è stato accompagnato da una lunga intervista video ad Angelo Del Boca, registrata a Tornino martedi scorso (e pubblicata ieri sul sito de il manifesto) nella quale lo storico dell’Italia coloniale, già contrario al conflitto che ha spodestato Gheddafi, si dice certo di un fallimento se l’Italia partecipasse a un’iniziativa armata. Per Del Boca, così come per il documento, non ci sono le condizioni, politiche e militari, per un intervento dagli obiettivi confusi e che, dice Del Boca, richiederebbe l’impegno di «almeno 300mila soldati». Al convegno hanno partecipato diversi conoscitori del problema guerra: Kizito Sesana, Fabio Mini; Eric Salerno, Roberto Savio, Raffaele Crocco, Francesco Cavalli e don Pierluigi Di Piazza, Fondatore del Centro Balducci di Zugliano.

Libia/Italia: un intervento da evitare

Dopo il recentissimo raid americano nel Nord della Libia lo spettro della guerra si avvicina. Ma quali sono gli obiettivi di una missione spacciata per lotta a Daesh e quali i pericoli di un intervento militare? Sono le domande che si è fatto un gruppo di lavoro di ricercatori e analisti che hanno presentato ieri al Centro Balducci di Zugliano (Udine) un dossier al convegno ““Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla Tavola della pace.

LItalia – dice in sintesi il documento – corre un grosso rischio in caso di intervento in Libia: il quadro politico locale resta confuso, la catena di comando è incerta, le incognite e le variabili sono numerose, la possibilità di perdita di vite umane sul terreno e tra la forza militare internazionale è molto elevata, le alleanze infine fanno riferimento a obiettivi e agende differenti. Il dossier analizza il quadro attuale e – al di là di considerazioni etiche o ideologiche – cerca di capire in che contesto si muoverebbe un eventuale intervento militare, agitato da mesi come spettro ed elemento di pressione e da molti ritenuto imminente anche attraverso azioni mirate unilaterali (di cui abbiamo appena avuto un assaggio ndr) in un contesto dove non è ancora chiaro né chi avrebbe in mano le redini della catena di comando né quale sarebbe il ruolo dell’Italia.

Il documento comincia dallo scenario politico generale nel quale si mescola il desiderio di stabilizzare il Paese con la necessità di mettere in sicurezza le aree petrolifere e di controllare il flusso dei migranti cui non è estraneo un movimento criminale di commercianti di vite umane. Uno scenario nel quale il nuovo esecutivo di al Sarraj per ora sulla carta (che potrebbe richiedere un intervento esterno) è molto debole e isolato e non accettato completamente nemmeno dai due governi di Tobruk e Tripoli. Le cose si complicano per la presenza di Daesh, per la fluttuazione delle alleanze interne al Paese e per la possibile capacità di attrazione, in caso di conflitto, del brand jihadista. Il documento infine mette in guardia sul problema del consenso dell’opinione pubblica libica in caso di intervento esterno e sulle dinamiche politico-militari che questo scatenerebbe. Al secondo punto si analizza l’impegno militare in caso di conflitto con una stima di impiego di uomini per l’Italia di circa 6mila uomini. Il documento sottolinea che al momento non sono chiari gli obiettivi, la struttura della catena di comando, l’effettivo coordinamento delle possibili forze in campo e mette in guardia sul possibile sfaldamento di entrambi i fronti (Tripoli e Tobruk) con conseguente polarizzazione su posizioni non conciliabili di fazioni e gruppi sempre meno uniti (oltre alla già citata variabile Desh). Il terzo punto riguarda invece le alleanze internazionali: fluttuanti, con obiettivi diversi e con un diverso rapporto con il Paese. In questo quadro confuso, il documento ricorda che gran parte di questi Paesi fanno anche parte della filiera del commercio delle armi che si rischia così di alimentare.

Il documento è stato accompagnato da una lunga intervista video ad Angelo Del Boca, registrata a Tornino martedi scorso (e pubblicata ieri sul sito de il manifesto) nella quale lo storico dell’Italia coloniale, già contrario al conflitto che ha spodestato Gheddafi, si dice certo di un fallimento se l’Italia partecipasse a un’iniziativa armata. Per Del Boca, così come per il documento, non ci sono le condizioni, politiche e militari, per un intervento dagli obiettivi confusi e che, dice Del Boca, richiederebbe l’impegno di «almeno 300mila soldati». Al convegno hanno partecipato diversi conoscitori del problema guerra: Kizito Sesana, Fabio Mini; Eric Salerno, Roberto Savio, Raffaele Crocco, Francesco Cavalli e don Pierluigi Di Piazza, Fondatore del Centro Balducci di Zugliano.

Libia: perché evitare una nuova guerra. Conoscenza, saggezza e buon senso di uno storico

Questa video intervista è stata registrata alla vigilia del seminario nazionale “Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” — che si tiene da stamattina al Centro di accoglienza Ernesto Balducci di Zugliano (Udine) — in cui verrà presentato un documento di analisi sui rischi di un conflitto in Libia frutto della riflessione di un gruppo di lavoro.

Nel video, realizzato col contributo di Alex Rocca per la Tavola della pace, lo storico Angelo Del Boca mette in guardia sul rischio di una “guerra a terra” per cui “non basterebbero 300mila soldati”.

La guerra area per altro – dice Del Boca – si racconta da sola ogni giorno per le vittime innocenti che comporta. Lo storico si augura che prevalga la cautela rispetto a quella che, nel caso di intervento unilaterale, si configurerebbe “come un’aggressione”. Quanto all’Italia, Roma dovrebbe astenersi dal conflitto e semmai sostenere la costruzione di un esercito e polizia nazionali: se ci dev’essere una guerra in Libia, “quella va fatta dai libici non da noi”. Senza contare il fatto che comporterebbe un “costo enorme di vite umane”.

Quanto al quadro politico, è difficile – sostiene lo storico che ha all’attivo 58 libri — che “anche in caso di un accordo tra Tobruk e Tripoli sul piano disegnato dall’Occidente” le cose restino in equilibrio. Nessuno infatti, come aveva fatto Gheddafi (“errore gravissimo abbatterlo”), riesce ora a “tenere unito un Paese con 140 tribù” che il regime tenne assieme per 42 anni. Del Boca ritiene infine che vada recuperato il ruolo del figlio di Gheddafi.

Al seminario di oggi intervengono  tra gli altri:
il missionario comboniano padre Kizito Sesana, il generale Fabio Mini; i giornalisti Eric Salerno, Roberto Savio, Raffaele Crocco (Atlante dei conflitti), Francesco Cavalli, don Pierluigi Di Piazza, Fondatore del Centro Ernesto Balducci di Zugliano; Flavio Lotti, Coordinatore Tavola della pace, Aluisi Tosolini, Coordinatore della Rete Nazionale delle Scuole di Pace; Loredana Panariti, Assessore all’Istruzione della Regione Friuli Venezia Giulia; Pietro Biasiol, Direttore Ufficio Scolastico Regionale FVG, Federico Pirone, Presidente del Coordinamento FVG Enti Locali per la pace e i diritti umani.

Chi paga per questo? Le vittime civili e il costo della guerra

Mentre si scaldano i motori di un intervento in Libia e il Medio Oriente brucia promettendo l’allargamento dei suoi conflitti, la guerra infinita – la “madre di tutte le guerre” del nuovo secolo – ricorda al mondo chi alla fine paga il prezzo più alto. Unama, l’ufficio Onu di Kabul che dal 2007 tiene il conto delle vittime civili, ha reso noti i dati relativi al 2015: numeri che dicono che per i civili in Afghanistan l’anno scorso è stato il peggiore in assoluto. Con numeri in ascesa, dice il Report on Protection of Civilians in Armed Conflict, che vedono aumentare enormemente morti e feriti anche tra donne e bambini.

Vittime civili in Afghanistan: trend in ascesa

Unama documenta nel 2015 11.002 vittime civili (3.545 morti, 7.457 feriti). I dati mostrano un incremento complessivo del 4% rispetto al 2014 con un trend impressionante: solo per i morti, nel 2009 furono 2.412. L’anno dopo 2.794, nel 2011 salivano a 3.133, nel 2012 scendevano a 2.769, l’anno seguente però erano 2.969, nel 2014 ben 3.701 e 3.545 nel 2015. In questi sette anni, i feriti sono passati da 3556 a oltre settemila, più che raddoppiati. Le vittime (morti e feriti) si devono prima di tutto ai combattimenti sul terreno, seguiti da attentati mirati: ordigni esplosivi (Ied) suicidi, attacchi complessi. E sono gli elementi anti-governativi a causare il maggior danno col 62% del totale. C’è una riduzione del 10% rispetto al 2014 ma il rapporto documenta un crescente uso di tattiche che causano intenzionalmente o indiscriminatamente danni ai civili. Tattiche che potrebbe essere responsabili di vittime non attribuibili alla guerriglia o alle forze pro governative (i combattimenti tra le parti in conflitto senza responsabili valgono per il 17% del totale).
Le forze pro governative invece hanno ucciso più dell’anno precedente, un aumento del 28% che ha causato il 17% delle vittime civili (14% da parte delle forze di sicurezza locali, 2% da forze militari internazionali, 1% da gruppi armati filo-governativi). Le battaglie di terra hanno causato 4.137 vittime civili (1.116 morti e 3.021 feriti), con un incremento del 15% rispetto al 2014. Gli Ied, ordigni esplosivi improvvisati, hanno causato 2.368 vittime civili (713 morti e 1.655 feriti). Anche se ciò rappresenta una diminuzione del 20%, resta la seconda causa di vittime civili in Afghanistan. Nel 2015 infine, il rapporto documenta un aumento del 37% tra le donne e del 14% tra i bambini.

I bombardamenti: in totale hanno ucciso 149 persone e ne hanno ferite 147 con un aumento del 9% rispetto all’anno prima. La maggior parte sono strike internazionali, il resto è invece da attribuire alle forze aree afgane. Una menzione particolare nel dossier riguarda la vicenda dell’ospedale di Msf, condita da «una serie di inconsistenti dichiarazioni pubbliche» sia delle forze internazionali sia di quelle locali, sottolinea il rapporto. Il raid sull’ospedale di Kunduz è costato la vita ad «almeno» 42 persone (43 i feriti). Quell’almeno fa riflettere e va forse applicato anche agli altri numeri.

Tirando le somme: in Afghanistan si spara di più e senza troppi riguardi per i civili. Anzi sempre di meno. La gara a chi uccide di più la vincono i talebani ma la nostra responsabilità non sembra minore. “Nostra” è un termine corretto visto che siamo i mentori, quando non gli accompagnatori e i consiglieri, delle forze armate locali. I talebani si distinguono invece per uccidere con tattiche sempre più mirate che, tra attacchi complessi, kamikaze e ordigni, fan loro portare a casa un bilancio di oltre mille morti, alla faccia del codice di condotta che l’emirato spaccia come un manuale dei diritti cui ogni mujahedin dovrebbe attenersi. Ce n’è anche per Daesh: i numeri sono ancora piccoli ma le tattiche efferate. Pure, se il grado di civiltà si desume dalla qualità delle vittime (i civili) e dal loro peso all’obitorio (persone non cose) nessuno si salva.

A fronte di tutto ciò il processo di pace langue mentre la guerra continua a correre. E le iniziative politiche restano a diverse lunghezze dietro a quella militare. L’Unione europea ha convocato una conferenza sull’Afghanistan per il prossimo ottobre cui pensa di invitare anche l’Iran. E’ l’unica notizia (civile) degna di nota.

Addio a Pietro Filacchioni, il "sindaco" di Radio3

Lo chiamavamo “il sindaco” e chissà perché. Chissà chi aveva appioppato a Pietro Filacchioni, vecchia colonna di Radio3, quel termine che rimanda a una funzione che si può declinare nei modi più diversi. Il tratto del carattere – apparentemente mite ma imperioso quando gli giravano le scatole – o l’uomo che vede tutto e tutto sa? Non saprei. Pietro, che se n’è andato in questi giorni, è per me un bellissimo ricordo. E non perché, quando si parte per l’ultimo viaggio, è di rigore un po’ di buonismo caritatevole. Dopo lunghi mesi di assenza dalla radio fu proprio lui a chiamarmi per un servizio su Indira Gandhi. Non so se fosse una sua idea ma sua era la voce e suo, per me, è rimasto il ricordo di chi mi rivoleva al microfono. Per tanti anni ha lavorato a Radio3 mondo, trasmissione che entrambi avevamo nel cuore. Rintanato in un ufficio minimissimo che dava sul balcone e dove era lecito fumare, Pietro curava le scalette musicali: uno di quei lavori oscuri perché l’ascoltatore non sa mai che, dietro a una voce, c’è il lavoro di molte altre ugole silenti: cerca le notizie, scrivi il lancio per i giornali, scegli gli audio di accompagnamento, suggerisci, telefona, trova, rimedia alle mancanze del conduttore….

In questa foto del formidabile Mario Dondero c’è uno dei periodi più fulgidi – almeno per me – di quel programma: ci sono da sinistra in piedi Maria Teresa Sircana e alla sua sinistra, appunto, Pietro; di fianco Giulia Nucci, il fotografo Mario Boccia (che con Mario era venuto in trasmissione) e in prima fila Benedetta Annibali, Cristiana Castellotti – la curatrice – e “Betta” Parisi, per anni e dagli esordi la regista del programma. L’immagine di Pietro è rara; non era uno che amava mettersi in mostra, lo dovevi trascinare. Capace però di sorprese: per il suo credo cinquantesimo compleanno, invitò una marea di gente in un raffinatissimo padiglione a Ponte Milvio da cui uscii storto e rimpinzato e ovviamente, anche un po’ stupito da quel gesto di splendore cui si era presentato con raffinata eleganza. Buon vecchio Pietro, il cielo ti sia leggero  più di quanto non lo sia stata la terra.

Domani (lunedi) dalle 11 alle 14 alcuni amici di Radio3 ed altri si ritrovano alla Camera ardente del Policlinico Gemelli. Prego loro di salutare il sindaco per me.

La guerra infinita pagata dalle vittime civili

Il numero delle vittime civili in Afghanistan nel corso del 2015 è il più elevato  mai registrato. Lo dice Unama, la missione Onu a Kabul nel suo annuale Report on Protection of Civilians in Armed Conflict. Ad aumentare le vittime tra donne e bambini.

Unama documenta 11.002 vittime civili (3.545 morti e 7.457 feriti) nel 2015.  I dati mostrano un incremento complessivo del quattro per cento nel corso dell’anno. Le vittime (morti e feriti) si devono prima di tutto ai combattimenti a terra, seguiti da attentati mirati:  ordigni esplosivi (Ied)  suicidi, attacchi complessi. Elementi anti-governativi continuano  a causare il maggior danno – 62 per cento di tutte le vittime civili – nonostante una riduzione del 10 per cento dal 2014. Nonostante la diminuzione complessiva infatti, il rapporto documenta un crescente uso di alcune tattiche che causano intenzionalmente o indiscriminatamente danni a civili. Tattiche che potrebbe essere responsabili di vittime non attribuibili  alla guerriglia o alle forze pro governative. Queste ultime hanno causato il 17 per cento delle vittime civili – il 14 per cento da parte delle forze di sicurezza afghane, il due per cento da forze militari internazionali, e l’uno per cento da parte dei gruppi armati filo-governativi. Il rapporto documenta un aumento delle vittime civili causate dalle forze filo-governative.I combattimenti tra le parti in conflitto, che hanno causato vittime civili ma non sono attribuibili, valgono invece per il  17 per cento del totale.

Le battaglie di terra  hanno causato 4.137 vittime civili (1.116 morti e 3.021 feriti) – un incremento del 15 per cento rispetto al 2014. Gli Ied, ordigni esplosivi improvvisati, hanno causato 2.368 vittime civili (713 morti e 1.655 feriti). Anche se ciò rappresenta una diminuzione del  20 per cento, resta  la seconda causa di vittime civili in Afghanistan. Nel 2015 infine, il rapporto documenta un aumento del 37 per cento nelle donne vittime e un aumento del 14 per cento delle vittime nei bambini.

Il rapporto completo si può leggere qui

Afghanistan: la Ue batte un colpo

Il segretario generale
della Nato Stoltenberg

Se i militari scaldano i muscoli e da Bruxelles, al  meeting Nato dei ministri della Difesa, il segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg reitera il sostegno a Kabul sino al 2020 (ma il vero focus dell’incontro erano i rifugiati), anche la diplomazia europea si muove. Organizzerà una conferenza sull’Afghanistan per il 4-5 ottobre a Bruxelles.  La vice segretario generale degli Esteri dell’Unione (Eeas)  Helga Maria Schmid (il numero 2 alla direzione generale che risponde a  Federica Mogherini) ha fatto sapere che si sta pensando a invitare l’Iran, per ora l’unica novità rilevante oltre alla notizia in sé (qualche analista suggerisce che dovrebbe partecipare anche Mosca).

 E’ l’unica notizia di rilievo che riguarda l’Europa in questi mesi che sostituisce al brusio militare anche la voce dei civili. Purché il meeting non si risolva a parlare della sola questione sicurezza, la parola chiave ormai protagonista del dibattito anche politico sull’Afghanistan. Interno ed esterno.

Afghanistan, la pace difficile: il quarto passo della Quadrilaterale

Si chiama Quadrilateral Coordination Committee ed  è un organismo composto da afgani, pachistani, statunitensi  e cinesi. Lo scopo della Quadrilaterale  è scrivere l’agenda di un possibile negoziato di pace e di fissare una data per colloqui ufficiali con la guerriglia in turbante. Ci sono già stati tre incontri alternati in Afghanistan e Pakistan: il prossimo è fissato  per il 19 febbraio a Kabul. Secondo gli auspici più ottimisti, per la fine di febbraio dovrebbe saltar fuori una data ufficiale del negoziato. Detta così, la cosa appare abbastanza surreale anche se c’è un evidente aspetto positivo: il cane (Islamabad) e il gatto (Kabul) si parlano e sembrano farlo sul serio. Americani e cinesi spingono e hanno costruito il quadro di reciproca fiducia che ha permesso ai due Paesi di sedersi nuovamente allo stesso  tavolo. Gli interessi infine sembrano per la prima volta gli stessi: anche il Pakistan ha un problema coi talebani (pachistani, il Ttp) e Kabul ha ripagato Islamabad della stesa moneta, dando ospitalità ai talebani pachistani sul suo territorio e obbligando così i pachistani a venire a patti: i pachistani aiuteranno Kabul facendo pressione sui talebani afgani (nei loro santuari sicuri in Pakistan) e Kabul smetterà di chiudere un occhio sui suoi ospiti stranieri in fuga dall’Operazione  Zarb e Azb (come il leader talebano pachistano mullah Fazlullah che si sarebbe rifugiato nelle province orientali afgane). Fin qui tutto bene.

Il fatto è che i talebani, sia afgani sia pachistani, non hanno nessuna intenzione di negoziare. Come spiega bene un analista afgano, l’Afghanistan è  più che mai al centro di un nuovo Grande Gioco dove ogni attore (esterno) appoggia e finanzia i “suoi” talebani. Questi ultimi, anche quelli della shura di Quetta (di quel mullah Mansur che non sarebbe sordo alle pressioni pachistane) non fanno che preparare attentati e colpire la popolazione civile in un quadro che non  è certo quello che può preparare un negoziato. Senza una tregua, senza una posizione chiara di Mansur (che finora rinnega ogni trattativa opponendo una serie di richieste inaccettabili) tutto appare molto in forse. La Quadrilaterale  è orientata a parlare coi talebani “buoni” e fare il muso duro con i “cattivi”. Ma non è chiaro che siano i primi e chi i secondo, Si dice che Islamabad abbia una lista che per ora però non si  vista. Converrà ricordare che il braccio destro di Mansur (buono?) è un Haqqani (cattivo!) e che la stessa leadership di Mansur viene contestata all’interno del movimento.

Anche la Quadrilaterale ha poi un neo piuttosto vistoso e non ha torto l’ex presidente Karzai quando dice che una trattativa ha bisogno di altri comprimari: la Russia, l’ran e l’India. Per parte mia ci aggiungerei l’Arabia saudita, sparita dall’orizzonte ma che è difficile immaginare si stia disinteressando del caso (il famoso ufficio politico dei talebani si trova per altro in Qatar, un Paese del Golfo). Per ora la montagna sembra partorire l’ennesimo topolino. vediamo cosa succederà da qui a dieci giorni. Anche se per ora di segnali positivi se ne vedono pochi.

Giustizia (almeno quella) per Giulio Regeni

Rilanciamo l’appello diffuso da Articolo21: PIENA VERITA’ E GIUSTIZIA PER GIULIO REGENI

Sono ancora troppe le contraddizioni e le oscurità nelle versioni fornite dalle autorità egiziane. E Come denunciano tutte le organizzazioni per i diritti umani e la libertà d’informazione, da Amnesty a Reporters sans Frontieres, in Egitto centinaia di attivisti, sindacalisti, blogger, intellettuali, vengono arrestati ogni giorno, spesso torturati, centinaia di loro scompaiono nel nulla senza che nessuno possa chiederne conto. Vogliamo quindi ridare forza e voce a quelle inchieste per costringere le autorità egiziane a ricercare davvero fino in fondo verità e giustizia, per Giulio e per tutte le vittime della cieca repressione.

Listiamo a lutto i nostri siti, i nostri profili Facebook e Twitter, dedichiamo a Giulio, e non solo oggi, l’apertura e chiediamo a voce alta alle autorità egiziane con un’azione virale attraverso mail, web e social, verità e giustizia per #Giulio Regeni. Insistere nella ricerca della verità e delle responsabilità dei colpevoli.

Ricordare Mario ma non dimenticare il manifesto

Ieri sono stato a un evento organizzato a Milano alla Triennale in onore di Mario Dondero, fotografo speciale ma soprattutto amico. Mi sono ovviamente commosso, sia quando la figlia maggiore Maddalena ha letto un suo bellissimo ricordo di papà, sia quando altri – come Francesco Cito, Angelo Ferracuti e Antonio Ria – hanno fatto fatica a finire i loro discorsi perché il nodo si era troppo stretto in gola. Bella serata, bravi gli organizzatori, belle le parole e le immagini (le proiezioni  di  Comunisti  di Anders Ehnmark, gli estratti da Calma e gesso dell’ottimo  Marco Cruciani e un inedito “famigliare” di Giacomo Bretzel) e bello soprattutto il discorso di Uliano Lucas: Uliano ha ricordato una cosa. Che Mario, e con lui  molti alti fotografi come lui stesso, non erano amati dai giornali italiani se non per rare eccezioni, espressione di una borghesia illuminata (vedi L’Espresso) o della  sinistra. Ora – aggiungo io – tutti celebrano Dondero – grande maestro, fulgido esempio –  ma quando si trattava di pubblicare le sue foto quanti lo hanno fatto? Adesso è facile. Ma prima – come ci ricordava Uliano – chi se lo filava quando era in vita?

Pietro Cheli, che al Diario della settimana di Deaglio era un pilastro della redazione, ha ricordato che quel settimanale pubblicava Mario “perché al Diario potevamo fare quel che ci pareva”. Aggiungo io che Diario scelse Mario proprio  per quel suo modo di fotografare che nella grande stampa italiana non trovava che spazi saltuari. In mezzo a tutto questo parlare di giornali, fotografia, editoria e tutto il resto, non ho però sentito una sola volta nominare la parola “il manifesto”. Forse mi è sfuggito e senz’altro Uliano l’ha sottinteso ma mi sono un po’ stupito che a Milano non ci fosse nessuno a rappresentare il “giornale di Via Tomacelli” (ora Via Bargoni), anche se molti dei presenti ci hanno collaborato e ancora lo fanno. Mi sarebbe piaciuto però che a ricordare Mario ci fosse qualcuno interno al giornale. Chissà forse lo hanno invitato e non poteva. O forse il manifesto è stato dimenticato.

Mario certo non lo aveva dimenticato (Mario ed io ci conoscemmo proprio in Via Tomacelli e l’amicizia volò rapida proprio perché avevamo due collaborazioni in comune: il quotidiano e Diario). Tanto non lo aveva dimenticato che regalò delle sue fotografie in una memorabile (avrebbe detto lui) asta di immagini che si svolse a Roma in un bar di Campo dei fiori per sostenere il giornale. Negli ultimi anni della sua vita furono pochi i quotidiani e magazine  che pubblicarono sue foto: Il Diario, Il manifesto e il Venerdi di Repubblica con poche altre eccezioni (Vanity Fair ad esempio). Vorrei anzi ricordare che il 9 marzo del 2013 proprio Mario ed io scrivemmo a quattro mani  per  il manifesto su quella Torre di controllo del porto di Genova che era appena stata distrutta e disgregata dalla poppa di una nave impazzita. Lo stavo accompagnando per un lavoro sul porto cui partecipavo anch’io, seguendo Mario e la sua enorme capacità di racconto di una realtà tanto complessa. Decidemmo di scrivere quel ricordo e per quale giornale? C’è da chiederlo? Il manifesto. Mi piacerebbe dunque che alla prossima occasione non ci si dimenticasse di un giornale che per Mario era una scelta precisa così come per il  giornale QUEL fotoreporter e i suoi scatti erano una scelta precisa. Non dimenticare il manifesto.

Succede spesso invece a questo giornale (Mario lo definì una “scuola di giornalismo”) che è sempre un po’ scomodo e che, in questi giorni, è addirittura sotto tiro per la vicenda di Giulio Regeni con accuse di sciacallaggio che proprio non capisco. Da tanti anni collaboro con il manifesto e mi sento di difenderlo anche questa volta (non sarà la prima né l’ultima). Sia con l’esperienza di Lettera22 sia come collaboratore singolo, ho sempre avuto rapporti ottimi e corretti con la redazione (e l’amministrazione), dal centralino al direttore: mi stupirebbe un’eccezione nel caso di Giulio. Si possono avere opinioni diverse sul giornale e ci mancherebbe se qualche volta non sbagliasse il tiro: ma il suo obiettivo non è vendere più copie sulla pelle degli altri – non è  il suo stile a differenza di altri – anche se un quotidiano ha il  dovere di pubblicare notizie che purtroppo parlano della morte. La morte di Giulio è un fatto molto doloroso. A  maggior ragione è il caso adesso di concentrarsi sulle responsabilità di chi lo ha prima torturato e  poi ucciso.

Ricordare Mario ma non dimenticare il manifesto

Ieri sono stato a un evento organizzato a Milano alla Triennale in onore di Mario Dondero, fotografo speciale ma soprattutto amico. Mi sono ovviamente commosso, sia quando la figlia maggiore Maddalena ha letto un suo bellissimo ricordo di papà, sia quando altri – come Francesco Cito, Angelo Ferracuti e Antonio Ria – hanno fatto fatica a finire i loro discorsi perché il nodo si era troppo stretto in gola. Bella serata, bravi gli organizzatori, belle le parole e le immagini (le proiezioni  di  Comunisti  di Anders Ehnmark, gli estratti da Calma e gesso dell’ottimo  Marco Cruciani e un inedito “famigliare” di Giacomo Bretzel) e bello soprattutto il discorso di Uliano Lucas: Uliano ha ricordato una cosa. Che Mario, e con lui  molti alti fotografi come lui stesso, non erano amati dai giornali italiani se non per rare eccezioni, espressione di una borghesia illuminata (vedi L’Espresso) o della  sinistra. Ora – aggiungo io – tutti celebrano Dondero – grande maestro, fulgido esempio –  ma quando si trattava di pubblicare le sue foto quanti lo hanno fatto? Adesso è facile. Ma prima – come ci ricordava Uliano – chi se lo filava quando era in vita?


Pietro Cheli, che al Diario della settimana di Deaglio era un pilastro della redazione, ha ricordato che quel settimanale pubblicava Mario “perché al Diario potevamo fare quel che ci pareva”. Aggiungo io che Diario scelse Mario proprio  per quel suo modo di fotografare che nella grande stampa italiana non trovava che spazi saltuari. In mezzo a tutto questo parlare di giornali, fotografia, editoria e tutto il resto, non ho però sentito una sola volta nominare la parola “il manifesto”. Forse mi è sfuggito e senz’altro Uliano l’ha sottinteso ma mi sono un po’ stupito che a Milano non ci fosse nessuno a rappresentare il “giornale di Via Tomacelli” (ora Via Bargoni), anche se molti dei presenti ci hanno collaborato e ancora lo fanno. Mi sarebbe piaciuto però che a ricordare Mario ci fosse qualcuno interno al giornale. Chissà forse lo hanno invitato e non poteva. O forse il manifesto è stato dimenticato.

Mario certo non lo aveva dimenticato (Mario ed io ci conoscemmo proprio in Via Tomacelli e l’amicizia volò rapida proprio perché avevamo due collaborazioni in comune: il quotidiano e Diario). Tanto non lo aveva dimenticato che regalò delle sue fotografie in una memorabile (avrebbe detto lui) asta di immagini che si svolse a Roma in un bar di Campo dei fiori per sostenere il giornale. Negli ultimi anni della sua vita furono pochi i quotidiani e magazine  che pubblicarono sue foto: Il Diario, Il manifesto e il Venerdi di Repubblica con poche altre eccezioni (Vanity Fair ad esempio). Vorrei anzi ricordare che il 9 marzo del 2013 proprio Mario ed io scrivemmo a quattro mani  per  il manifesto su quella Torre di controllo del porto di Genova che era appena stata distrutta e disgregata dalla poppa di una nave impazzita. Lo stavo accompagnando per un lavoro sul porto cui partecipavo anch’io, seguendo Mario e la sua enorme capacità di racconto di una realtà tanto complessa. Decidemmo di scrivere quel ricordo e per quale giornale? C’è da chiederlo? Il manifesto. Mi piacerebbe dunque che alla prossima occasione non ci si dimenticasse di un giornale che per Mario era una scelta precisa così come per il  giornale QUEL fotoreporter e i suoi scatti erano una scelta precisa. Non dimenticare il manifesto.

Succede spesso invece a questo giornale (Mario lo definì una “scuola di giornalismo”) che è sempre un po’ scomodo e che, in questi giorni, è addirittura sotto tiro per la vicenda di Giulio Regeni con accuse di sciacallaggio che proprio non capisco. Da tanti anni collaboro con il manifesto e mi sento di difenderlo anche questa volta (non sarà la prima né l’ultima). Sia con l’esperienza di Lettera22 sia come collaboratore singolo, ho sempre avuto rapporti ottimi e corretti con la redazione (e l’amministrazione), dal centralino al direttore: mi stupirebbe un’eccezione nel caso di Giulio. Si possono avere opinioni diverse sul giornale e ci mancherebbe se qualche volta non sbagliasse il tiro: ma il suo obiettivo non è vendere più copie sulla pelle degli altri – non è  il suo stile a differenza di altri – anche se un quotidiano ha il  dovere di pubblicare notizie che purtroppo parlano della morte. La morte di Giulio è un fatto molto doloroso. A  maggior ragione è il caso adesso di concentrarsi sulle responsabilità di chi lo ha prima torturato e  poi ucciso.

Prossimamente: turbanti neri e turbanti rossi. Chi era Bacha Khan

Chi era Abdul Ghaffar Khan (1890-1988), noto come Bacha Khan o il “Gandhi della Frontiera”? In questo breve passaggio dal film documentario di Teri McLuhan (2009) “Frontier Gandhi Badshah Khan a torch for peace“, alcuni fotogrammi d’epoca e interviste di vecchi Khudai Khidmatgar, servitori di Dio, che formarono l’esercito non violento di questo pacifista della prima ora, alleato del Mahatma e contrario alla Partition.

Bacha Khan era un pashtun (pathan) musulmano convinto che proprio l’islam fosse un messaggio di pace non violento. Sapeva citarne i versetti che sostenevano il suo pensiero (ogni cosa umana o divina può essere interpretata). I suoi uomini disarmati vestivano camice e turbanti rossi e tra le loro schiere vi erano anche donne. Difese sikh e hindu. Un simbolo di tolleranza e apertura poco noto, non a caso appena colpito nel massacro alla scuola a lui intitolata a Charsadda in Pakistan, nel giorno – il 20 gennaio – in cui si ricordava la sua morte nel 1988. Quel giorno mujahedin e soldati sovietici fecero tacere i loro fucili.
A breve su questo blog…

Prossimamente: turbanti neri e turbanti rossi. Chi era Bacha Khan

Chi era Abdul Ghaffar Khan (1890-1988), noto come Bacha Khan o il “Gandhi della Frontiera”? In questo breve passaggio dal film documentario di Teri McLuhan (2009) “Frontier Gandhi Badshah Khan a torch for peace“, alcuni fotogrammi d’epoca e interviste di vecchi Khudai Khidmatgar, servitori di Dio, che formarono l’esercito non violento di questo pacifista della prima ora, alleato del Mahatma e contrario alla Partition.

Bacha Khan era un pashtun (pathan) musulmano convinto che proprio l’islam fosse un messaggio di pace non violento. Sapeva citarne i versetti che sostenevano il suo pensiero (ogni cosa umana o divina può essere interpretata). I suoi uomini disarmati vestivano camice e turbanti rossi e tra le loro schiere vi erano anche donne. Difese sikh e hindu. Un simbolo di tolleranza e apertura poco noto, non a caso appena colpito nel massacro alla scuola a lui intitolata a Charsadda in Pakistan, nel giorno – il 20 gennaio – in cui si ricordava la sua morte nel 1988. Quel giorno mujahedin e soldati sovietici fecero tacere i loro fucili.
A breve su questo blog…

L’altro fronte

La “Voce del califfato”, neonata emittente di Daesh nel Paese dell’Hindukush, sarebbe stata distrutta da un raid aereo americano. La notizia, che cita fonti militari statunitensi e locali, la rilancia la Bbc ma il condizionale resta d’obbligo. E’ ormai da settimane che infuria la polemica sulla radio clandestina che trasmetteva dalla provincia di Nagharar (alla frontiera col Pakistan) da metà dicembre. La stampa afgana non sembra considerarla una notizia degna della prima pagina e per ora non ci sono prove definitive che Daesh sia stato almeno zittito. Quel che merita un posto importante nella gerarchia delle notizie è invece la decisione di Kabul di aderire alla Global Coalition against Daesh che ha già messo insieme una sessantina di Paesi. La preoccupazione di un’espansione delle mire califfali su quel che Daesh chiama già Vilayet Khorasan, “provincia” dai contorni incerti ma che comprende certamente Afghanistan e Pakistan, è forte nonostante i problemi che la leadership di Raqqa incontra fra talebani afgani e pachistani. Non di meno, alcune frange dei due disomogenei movimenti (le varie fazioni afgane e il Therek Taleban Pakistan o Ttp) hanno aderito al progetto insinuando nella guerra infinita un nuovo elemento di disturbo. Altri elementi confondono un quadro sempre più violento e dove si muovono ormai una miriade di protagonisti con agende diverse: un altro fronte oltre a quello mediorientale e libico.

Conviene partire dall’ultima iniziativa volta a creare le premesse di un negoziato con la guerriglia almeno in Afghanistan (in Pakistan i negoziati col Ttp sono morti un anno e mezzo fa e da allora si è optato per la sola soluzione militare). La prende Islamabad in luglio, convocando un incontro in Pakistan dove partecipano guerriglia e governo di Kabul. Ma negli stessi giorni si diffonde la notizia della morte di mullah Omar – seguita da polemiche e scissioni interne – e subito dopo parte una stagione di attentati stragisti che risvegliano sentimenti anti pachistani mai sopiti in Afghanistan e seppelliscono il primo serio tentativo negoziale. Islamabad ci riprova in gennaio, mettendo in piedi con Kabul, Pechino e Washington, una “quadrilaterale” che ha il compito di scrivere una road map negoziale. Nei giorni scorsi infine, Pugwash – organismo internazionale di mediazione di conflitti – organizza la seconda conferenza sull’Afghanistan cui invita i talebani. Questi si presentano con una lista di precondizioni. Molte sono inaccettabili ma è un altro passo avanti. L’altro ieri però, l‘ennesimo attentato nella capitale ammazza una ventina di civili e fa il paio con un eccidio di giornalisti afgani che si consuma alla fine di gennaio sempre a Kabul. Nuovi macigni sul processo negoziale non ancora iniziato e tutte azioni rivendicate dai talebani anche se solo quella contro la televisione Tolo appare sul sito ufficiale della cosiddetta shura di Quetta che fa capo a mullah Mansur il nuovo leader (contestato) dei talebani.

Che sia difficile trattare sotto una salva di bombe e attentati che per di più colpiscono inesorabilmente i civili è piuttosto chiaro. Cosa vuole allora la guerriglia? Chi rema contro? Chi mette in crisi i tentativi di Islamabad di uscire dal ghetto di Paese paria, sempre accusato di dare rifugio al jihadismo globale e, soprattutto, ai talebani afgani?
La domanda resta senza risposta anche se si può azzardare qualche chiave di lettura. Islamabad sembra seriamente intenzionata a far pressione sui talebani che in parte controlla. Ma non può farlo su tutto il movimento. Accanto a Mansur, che pare attento alle richiesta pachistane, c’è Siraj Haqqani, un qaedista da sempre contrario alla mediazione. Intanto dalla scena negoziale sono sorprendentemente spariti i sauditi (attualmente in rotta con Islamabad), che nelle vicende afgano pachistane hanno sempre giocato un ruolo primario. C’è un nuovo balletto delle ombre ai piedi dell’Hindukush. Non estraneo forse al Grande Gioco in corso in Medio oriente.

L’altro fronte

La “Voce del califfato”, neonata emittente di Daesh nel Paese dell’Hindukush, sarebbe stata distrutta da un raid aereo americano. La notizia, che cita fonti militari statunitensi e locali, la rilancia la Bbc ma il condizionale resta d’obbligo. E’ ormai da settimane che infuria la polemica sulla radio clandestina che trasmetteva dalla provincia di Nagharar (alla frontiera col Pakistan) da metà dicembre. La stampa afgana non sembra considerarla una notizia degna della prima pagina e per ora non ci sono prove definitive che Daesh sia stato almeno zittito. Quel che merita un posto importante nella gerarchia delle notizie è invece la decisione di Kabul di aderire alla Global Coalition against Daesh che ha già messo insieme una sessantina di Paesi. La preoccupazione di un’espansione delle mire califfali su quel che Daesh chiama già Vilayet Khorasan, “provincia” dai contorni incerti ma che comprende certamente Afghanistan e Pakistan, è forte nonostante i problemi che la leadership di Raqqa incontra fra talebani afgani e pachistani. Non di meno, alcune frange dei due disomogenei movimenti (le varie fazioni afgane e il Therek Taleban Pakistan o Ttp) hanno aderito al progetto insinuando nella guerra infinita un nuovo elemento di disturbo. Altri elementi confondono un quadro sempre più violento e dove si muovono ormai una miriade di protagonisti con agende diverse: un altro fronte oltre a quello mediorientale e libico.

Conviene partire dall’ultima iniziativa volta a creare le premesse di un negoziato con la guerriglia almeno in Afghanistan (in Pakistan i negoziati col Ttp sono morti un anno e mezzo fa e da allora si è optato per la sola soluzione militare). La prende Islamabad in luglio, convocando un incontro in Pakistan dove partecipano guerriglia e governo di Kabul. Ma negli stessi giorni si diffonde la notizia della morte di mullah Omar – seguita da polemiche e scissioni interne – e subito dopo parte una stagione di attentati stragisti che risvegliano sentimenti anti pachistani mai sopiti in Afghanistan e seppelliscono il primo serio tentativo negoziale. Islamabad ci riprova in gennaio, mettendo in piedi con Kabul, Pechino e Washington, una “quadrilaterale” che ha il compito di scrivere una road map negoziale. Nei giorni scorsi infine, Pugwash – organismo internazionale di mediazione di conflitti – organizza la seconda conferenza sull’Afghanistan cui invita i talebani. Questi si presentano con una lista di precondizioni. Molte sono inaccettabili ma è un altro passo avanti. L’altro ieri però, l‘ennesimo attentato nella capitale ammazza una ventina di civili e fa il paio con un eccidio di giornalisti afgani che si consuma alla fine di gennaio sempre a Kabul. Nuovi macigni sul processo negoziale non ancora iniziato e tutte azioni rivendicate dai talebani anche se solo quella contro la televisione Tolo appare sul sito ufficiale della cosiddetta shura di Quetta che fa capo a mullah Mansur il nuovo leader (contestato) dei talebani.

Che sia difficile trattare sotto una salva di bombe e attentati che per di più colpiscono inesorabilmente i civili è piuttosto chiaro. Cosa vuole allora la guerriglia? Chi rema contro? Chi mette in crisi i tentativi di Islamabad di uscire dal ghetto di Paese paria, sempre accusato di dare rifugio al jihadismo globale e, soprattutto, ai talebani afgani?
La domanda resta senza risposta anche se si può azzardare qualche chiave di lettura. Islamabad sembra seriamente intenzionata a far pressione sui talebani che in parte controlla. Ma non può farlo su tutto il movimento. Accanto a Mansur, che pare attento alle richiesta pachistane, c’è Siraj Haqqani, un qaedista da sempre contrario alla mediazione. Intanto dalla scena negoziale sono sorprendentemente spariti i sauditi (attualmente in rotta con Islamabad), che nelle vicende afgano pachistane hanno sempre giocato un ruolo primario. C’è un nuovo balletto delle ombre ai piedi dell’Hindukush. Non estraneo forse al Grande Gioco in corso in Medio oriente.

Strage di civili (l’ennesima) a Kabul

Arg, il palazzo presidenziale di Kabul

Il bilancio delle vittime non è ancora definitivo ma è sicuro che si tratta in gran parte di civili. Nell’attacco di ieri i morti (almeno una ventina) e i feriti sono in gran parte cittadini di una capitale che ormai quasi ogni giorno vede una strage. Ieri pomeriggio verso le due, poco dopo l’ora di pranzo, un guerrigliero si avvicina a un posto di polizia nel quartiere di Deh Mazang (Forze di ordine pubblico e di frontiera) e cerca di entrare nella base ma viene fermato sull’ingresso. Si fa esplodere e trasforma Kabul nell’ennesimo palcoscenico di una strage. I talebani la rivendicano. E il conto delle vittime continua a crescere: soltanto tra agosto e ottobre 2015 si sono verificati più di 6mila incidenti con un bilancio di 3600 civili uccisi o feriti. Dati ormai superati e che continuano a crescere come quelli degli sfollati interni che – ha denunciato l’Onu appena qualche giorno fa durante un appello per almeno 400 milioni di dollari in aiuto umanitario per il 2016 – nel solo anno passato sono stati almeno 300mila.

Ma nel mirino del terrore non c’è solo la gente comune (benché i talebani abbiano dichiarato di seguire un “codice di condotta” per evitare le vittime civili): in ballo c’è il tentativo – l’ennesimo – di un negoziato di pace. Che non riesce a decollare nonostante i tentativi di Pugwash e quelli della  cosiddetta “Quadrilaterale”, un comitato (Afghanistan, Pakistan, Usa e Cina) che sta cercando di mettere in piedi un’agenda per possibili colloqui. Ma oggi il presidente Ghani ha chiarito che non si tratta con gli stragisti

Strage di civili (l’ennesima) a Kabul

Arg, il palazzo presidenziale di Kabul

Il bilancio delle vittime non è ancora definitivo ma è sicuro che si tratta in gran parte di civili. Nell’attacco di ieri i morti (almeno una ventina) e i feriti sono in gran parte cittadini di una capitale che ormai quasi ogni giorno vede una strage. Ieri pomeriggio verso le due, poco dopo l’ora di pranzo, un guerrigliero si avvicina a un posto di polizia nel quartiere di Deh Mazang (Forze di ordine pubblico e di frontiera) e cerca di entrare nella base ma viene fermato sull’ingresso. Si fa esplodere e trasforma Kabul nell’ennesimo palcoscenico di una strage. I talebani la rivendicano. E il conto delle vittime continua a crescere: soltanto tra agosto e ottobre 2015 si sono verificati più di 6mila incidenti con un bilancio di 3600 civili uccisi o feriti. Dati ormai superati e che continuano a crescere come quelli degli sfollati interni che – ha denunciato l’Onu appena qualche giorno fa durante un appello per almeno 400 milioni di dollari in aiuto umanitario per il 2016 – nel solo anno passato sono stati almeno 300mila.

Ma nel mirino del terrore non c’è solo la gente comune (benché i talebani abbiano dichiarato di seguire un “codice di condotta” per evitare le vittime civili): in ballo c’è il tentativo – l’ennesimo – di un negoziato di pace. Che non riesce a decollare nonostante i tentativi di Pugwash e quelli della  cosiddetta “Quadrilaterale”, un comitato (Afghanistan, Pakistan, Usa e Cina) che sta cercando di mettere in piedi un’agenda per possibili colloqui. Ma oggi il presidente Ghani ha chiarito che non si tratta con gli stragisti

Terrorismo: la sfida pachistana

Tra tre colossi: India, Iran e Cina

E’vero che Islamabad ha cambiato strategia e politica nei confronti dei gruppi jihadisti a lungo coccolati sin dai tempi di Zia Ul Haq? La decisione sembra presa e i fatti in parte lo dimostrano. Un’analisi del nuovo corso pachistano. Tra mille difficoltà e una scomoda eredità.

Il 15 gennaio, dopo il discorso di Barack Obama sullo Stato dell’Unione, i pachistani hanno risposto con sdegno. La frase che non è piaciuta a Islamabad riguarda il futuro di instabilità nel quale il presidente americano ha incluso Afghanistan e Pakistan ma in realtà anche altre parti del pianeta come, evidentemente, il Medio oriente. La risposta piccata, affidata a Sartaj Aziz, il consigliere per la sicurezza del premier Nawaz Sharif e uno dei più influenti funzionari del Paese, dimostra chiaramente il grado di sensibilità che il Pakistan ha in tema di terrorismo. A molti il discorso di Obama può aver dato fastidio. Nei pachistani ha suscitato una reazione persino eccessiva. Proprio perché il problema esiste anche se il Pakistan sta effettivamente tentando di fare della lotta al terrorismo una priorità.

Nelle stesse ore, l’Amministrazione americana trascriveva una nuova sigla nella lista (Fto) delle organizzazioni terroristiche: Isil-K (Isil Khorasan) che, spiega il sito del Dipartimento di Stato, ha annunciato la sua creazione il 10 gennaio 2015. «Il gruppo – argomenta il DoS – ha sede nella regione Afghanistan/Pakistan ed è composto principalmente da ex membri del Tehreek e Taliban Pakistan e da talebani afgani. La leadership di Isil-K ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al Bagdadi, il capo di Isil. Questo impegno è stato accettato a fine gennaio 2015 e da allora Isil-K ha effettuato attentati suicidi, attacchi armati minori e rapimenti nell’Afghanistan orientale contro i civili e l’esercito afgano. Ha inoltre rivendicato gli attacchi contro civili a Karachi, Pakistan, nel maggio 2015». Isil-K, una formazione di cui non si conosce esattamente la forza numerica e la capacità operativa, sarebbe dietro anche al recente assalto contro una missione diplomatica pachistana in Afghanistan. E’ solo l’ultimo atto di una saga infinita cominciata diversi decenni fa.

Uono forte: Raheel  Sharif, a capo
delle Forze armate. Il suo mandato è in scadenza

Il Pakistan, attraverso soprattutto una branca dei suoi servizi segreti (Isi), ha iniziato flirtare coi gruppi islamisti e jihadisti sin dall’epoca di Zia Ul Haq, generale dittatore che, al governo dal 1977 al 1988, voleva trasformare il Pakistan da Stato laico (come il suo fondatore, Jinnah, lo aveva voluto) a Paese islamico a tutti gli effetti. Operazione condotta trasformando la Costituzione e istituendo tribunali che adottavano la sharia. Per Zia i gruppi islamisti radicali potevano essere ben impiegati in Kashmir contro le truppe indiane nella zona controllata da Delhi ma anche contro la minoranza sciita oppure più semplicemente come pedine per far sparire gli oppositori. Negli anni a seguire nessuno governo – fosse quello di Benazir Bhutto, del generale Musharraf o dello stesso Nawaz Sharif (già premier due volte prima del mandato attuale) – ha mai messo i ceppi a movimenti che hanno proliferato a dismisura fino a diventare, negli ultimi anni, una vera minaccia interna. Le cose sono cambiate quando, da semplici pedine di una lotta contro i nemici del Pakistan, molti mujahedin si sono dimostrati protagonisti ricettivi al richiamo di chi individuava nel governo pachistano – reo di aver abbandonato la strada di Zia – il vero obiettivo.

Negli ultimi dieci anni il jihadismo pachistano si è andato trasformando. La svolta definitiva è del 2007 con la nascita del Tehreek e Taliban Pakistan – un cartello fedele agli insegnamento del leader talebano mullah Omar e alle radici teologiche della scuola Deobandi. Il Ttp raggruppava una serie di organizzazioni islamiste e jihadiste, dimostrava simpatia per Al Qaeda e aveva la sua principale base operativa – con azioni che andavano dal Pakistan all’Afghanistan – nell’area tribale (Fata) al confine tra i due Paesi, area abitata in prevalenza da pathan sunniti (il nome pachistano dei pashtun), un popolo diviso dal righello coloniale di sir Mortimer Durand che ne 1893 disegnò la famosa Durand Line che ancora segna il confine (poroso e contestato dai due Paesi) tra le due nazioni a cavallo tra Asia centrale e subcontinente indiano. Il problema connesso al Ttp (una formazione che ha subito scissioni e ha visto continue lotte intestine di successione) era ed è che, da una parte sfuggiva sempre più al controllo dei servizi, dall’altro aveva modificato l’agenda politica: non più e non solo lotta contro gli invasori dell’Afghanistan a sostegno dei fratelli pashtun, ma contro il governo apostata di Islamabad, reo di non voler fare del Pakistan un emirato ma una volgare imitazione delle corrotte democrazie occidentali.

Sostegno e contatto ai gruppi jihadisti (a cui non sono estranei gli aiuti dell’Arabia saudita e dei Paesi del Golfo) sono dunque andati scemando mentre, di contro, il Ttp allargava il suo raggio d’azione fuori dalle aree tribali, con azioni terroristiche in altre zone del Pakistan e tentando la conquista (riuscita per un breve periodo) della valle settentrionale di Swat (dove si è verificato l’attentato a Malala Yusufzai nel 2012).

Il sacro Corano: vocazione islamica
o islamista? Il bivio pachistano

L‘arrivo di Daesh e la necessità di isolare il Ttp ripristinando al contempo buone relazioni con Kabul, hanno accelerato una spinta che le nuove istituzioni civili e democraticamente elette – seguite a una lunga stagione di governi militari golpisti – hanno trasformato in un’azione forte: che inizialmente mirava forse solo a contenere e controllare ma che si è poi trasformata in una vera e propria guerra ai movimenti islamisti, sia nelle zone tribali sia in altre aree del Paese. Quando un anno e mezzo fa il Pakistan ha dato luce verde all’operazione Zarb e Azb (nel mirino la regione tribale del Waziristan al confine con l’Afghanistan) si è capito che Islamabad stava facendo sul serio. Al netto delle polemiche su come la campagna viene condotta (i media sono off limits e i dati sulle vittime civili sono molto incerti senza contare che il Pakistan ha ripristinato la pena capitale che può essere comminata da undici tribunali speciali militari), Zarb e Azb sembra aver assestato un duro colpo ai gruppi terroristici pachistani e stranieri che hanno nel Waziristan del Nord i loro santuari.

Al Bagdadi: progetto Khorasan

Nel dicembre scorso i primi 18 mesi di Zarb e Azb sono stati definiti un grande successo che ha visto circa 30mila soldati impegnati sul terreno col sostegno dell’aviazione. Secondo le forze armate pachistane, dirette dal potente e abile generale Raheel Sharif, 3.400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli ora distrutti grazie a 13.200 operativi militari. Le vittime tra i soldati ammontano a 488 morti e 1.914 feriti. In giugno l’esercito aveva sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili, un’affermazione non verificabile quanto poco credibile anche perché il numero degli sfollati parla chiaro: secondo la stampa pachistana erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione – un milione… su una popolazione del Waziristan stimata tra le 4 e le 5oomila unità. Il 40% degli sfollati sarebbe ora – dice sempre l’esercito – rientrato a casa.

Il cambio di strategia è chiaro. Zarb e Azb è stata accompagnata da una politica di ammorbidimento delle relazioni con Kabul e da un lavoro di pressione sui talebani afgani, che hanno finora sempre goduto del sostegno più o meno diretto di Islamabad. Che li starebbe ora convincendo a trattare. Pugno duro con le organizzazioni islamiste guerrigliere del Kashmir (c’è appena stato un problema con l’India dopo l’attacco in gennaio a una base dell’aviazione a Pathankot dove guerriglieri pachistani hanno impegnato i militari di Delhi per tre giorni) dalle quali Islamabad va prendendo sempre più le distanze. Infine pugno duro anche con le organizzazioni settarie anti sciite, nate durante l’avvento della Repubblica islamica in Iran. Adesso Islamabad mira a buone relazioni con gli iraniani tanto che la sua posizione di semi neutralità nella recente fase di tensione tra Riad e Teheran ha notevolmente irritato i sauditi che già si erano visti opporre un gran rifiuto quando avevano chiesto al Pakistan, l’anno scorso, di fornire uomini e mezzi per la guerra contro la minoranza sciita nello Yemen.

Il problema del terrorismo in Pakistan non si risolverà a breve e, come ha detto Obama, questa resta un’area di instabilità e un vivaio per lo stesso jihad internazionale. Ma la svolta va registrata anche se, dopo anni di connivenza, mettere ora il bavaglio ai jihadisti non sarà impresa facile.

Terrorismo: la sfida pachistana

Tra tre colossi: India, Iran e Cina

E’vero che Islamabad ha cambiato strategia e politica nei confronti dei gruppi jihadisti a lungo coccolati sin dai tempi di Zia Ul Haq? La decisione sembra presa e i fatti in parte lo dimostrano. Un’analisi del nuovo corso pachistano. Tra mille difficoltà e una scomoda eredità.

Il 15 gennaio, dopo il discorso di Barack Obama sullo Stato dell’Unione, i pachistani hanno risposto con sdegno. La frase che non è piaciuta a Islamabad riguarda il futuro di instabilità nel quale il presidente americano ha incluso Afghanistan e Pakistan ma in realtà anche altre parti del pianeta come, evidentemente, il Medio oriente. La risposta piccata, affidata a Sartaj Aziz, il consigliere per la sicurezza del premier Nawaz Sharif e uno dei più influenti funzionari del Paese, dimostra chiaramente il grado di sensibilità che il Pakistan ha in tema di terrorismo. A molti il discorso di Obama può aver dato fastidio. Nei pachistani ha suscitato una reazione persino eccessiva. Proprio perché il problema esiste anche se il Pakistan sta effettivamente tentando di fare della lotta al terrorismo una priorità.

Nelle stesse ore, l’Amministrazione americana trascriveva una nuova sigla nella lista (Fto) delle organizzazioni terroristiche: Isil-K (Isil Khorasan) che, spiega il sito del Dipartimento di Stato, ha annunciato la sua creazione il 10 gennaio 2015. «Il gruppo – argomenta il DoS – ha sede nella regione Afghanistan/Pakistan ed è composto principalmente da ex membri del Tehreek e Taliban Pakistan e da talebani afgani. La leadership di Isil-K ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al Bagdadi, il capo di Isil. Questo impegno è stato accettato a fine gennaio 2015 e da allora Isil-K ha effettuato attentati suicidi, attacchi armati minori e rapimenti nell’Afghanistan orientale contro i civili e l’esercito afgano. Ha inoltre rivendicato gli attacchi contro civili a Karachi, Pakistan, nel maggio 2015». Isil-K, una formazione di cui non si conosce esattamente la forza numerica e la capacità operativa, sarebbe dietro anche al recente assalto contro una missione diplomatica pachistana in Afghanistan. E’ solo l’ultimo atto di una saga infinita cominciata diversi decenni fa.

Uono forte: Raheel  Sharif, a capo
delle Forze armate. Il suo mandato è in scadenza

Il Pakistan, attraverso soprattutto una branca dei suoi servizi segreti (Isi), ha iniziato flirtare coi gruppi islamisti e jihadisti sin dall’epoca di Zia Ul Haq, generale dittatore che, al governo dal 1977 al 1988, voleva trasformare il Pakistan da Stato laico (come il suo fondatore, Jinnah, lo aveva voluto) a Paese islamico a tutti gli effetti. Operazione condotta trasformando la Costituzione e istituendo tribunali che adottavano la sharia. Per Zia i gruppi islamisti radicali potevano essere ben impiegati in Kashmir contro le truppe indiane nella zona controllata da Delhi ma anche contro la minoranza sciita oppure più semplicemente come pedine per far sparire gli oppositori. Negli anni a seguire nessuno governo – fosse quello di Benazir Bhutto, del generale Musharraf o dello stesso Nawaz Sharif (già premier due volte prima del mandato attuale) – ha mai messo i ceppi a movimenti che hanno proliferato a dismisura fino a diventare, negli ultimi anni, una vera minaccia interna. Le cose sono cambiate quando, da semplici pedine di una lotta contro i nemici del Pakistan, molti mujahedin si sono dimostrati protagonisti ricettivi al richiamo di chi individuava nel governo pachistano – reo di aver abbandonato la strada di Zia – il vero obiettivo.

Negli ultimi dieci anni il jihadismo pachistano si è andato trasformando. La svolta definitiva è del 2007 con la nascita del Tehreek e Taliban Pakistan – un cartello fedele agli insegnamento del leader talebano mullah Omar e alle radici teologiche della scuola Deobandi. Il Ttp raggruppava una serie di organizzazioni islamiste e jihadiste, dimostrava simpatia per Al Qaeda e aveva la sua principale base operativa – con azioni che andavano dal Pakistan all’Afghanistan – nell’area tribale (Fata) al confine tra i due Paesi, area abitata in prevalenza da pathan sunniti (il nome pachistano dei pashtun), un popolo diviso dal righello coloniale di sir Mortimer Durand che ne 1893 disegnò la famosa Durand Line che ancora segna il confine (poroso e contestato dai due Paesi) tra le due nazioni a cavallo tra Asia centrale e subcontinente indiano. Il problema connesso al Ttp (una formazione che ha subito scissioni e ha visto continue lotte intestine di successione) era ed è che, da una parte sfuggiva sempre più al controllo dei servizi, dall’altro aveva modificato l’agenda politica: non più e non solo lotta contro gli invasori dell’Afghanistan a sostegno dei fratelli pashtun, ma contro il governo apostata di Islamabad, reo di non voler fare del Pakistan un emirato ma una volgare imitazione delle corrotte democrazie occidentali.

Sostegno e contatto ai gruppi jihadisti (a cui non sono estranei gli aiuti dell’Arabia saudita e dei Paesi del Golfo) sono dunque andati scemando mentre, di contro, il Ttp allargava il suo raggio d’azione fuori dalle aree tribali, con azioni terroristiche in altre zone del Pakistan e tentando la conquista (riuscita per un breve periodo) della valle settentrionale di Swat (dove si è verificato l’attentato a Malala Yusufzai nel 2012).

Il sacro Corano: vocazione islamica
o islamista? Il bivio pachistano

L‘arrivo di Daesh e la necessità di isolare il Ttp ripristinando al contempo buone relazioni con Kabul, hanno accelerato una spinta che le nuove istituzioni civili e democraticamente elette – seguite a una lunga stagione di governi militari golpisti – hanno trasformato in un’azione forte: che inizialmente mirava forse solo a contenere e controllare ma che si è poi trasformata in una vera e propria guerra ai movimenti islamisti, sia nelle zone tribali sia in altre aree del Paese. Quando un anno e mezzo fa il Pakistan ha dato luce verde all’operazione Zarb e Azb (nel mirino la regione tribale del Waziristan al confine con l’Afghanistan) si è capito che Islamabad stava facendo sul serio. Al netto delle polemiche su come la campagna viene condotta (i media sono off limits e i dati sulle vittime civili sono molto incerti senza contare che il Pakistan ha ripristinato la pena capitale che può essere comminata da undici tribunali speciali militari), Zarb e Azb sembra aver assestato un duro colpo ai gruppi terroristici pachistani e stranieri che hanno nel Waziristan del Nord i loro santuari.

Al Bagdadi: progetto Khorasan

Nel dicembre scorso i primi 18 mesi di Zarb e Azb sono stati definiti un grande successo che ha visto circa 30mila soldati impegnati sul terreno col sostegno dell’aviazione. Secondo le forze armate pachistane, dirette dal potente e abile generale Raheel Sharif, 3.400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli ora distrutti grazie a 13.200 operativi militari. Le vittime tra i soldati ammontano a 488 morti e 1.914 feriti. In giugno l’esercito aveva sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili, un’affermazione non verificabile quanto poco credibile anche perché il numero degli sfollati parla chiaro: secondo la stampa pachistana erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione – un milione… su una popolazione del Waziristan stimata tra le 4 e le 5oomila unità. Il 40% degli sfollati sarebbe ora – dice sempre l’esercito – rientrato a casa.

Il cambio di strategia è chiaro. Zarb e Azb è stata accompagnata da una politica di ammorbidimento delle relazioni con Kabul e da un lavoro di pressione sui talebani afgani, che hanno finora sempre goduto del sostegno più o meno diretto di Islamabad. Che li starebbe ora convincendo a trattare. Pugno duro con le organizzazioni islamiste guerrigliere del Kashmir (c’è appena stato un problema con l’India dopo l’attacco in gennaio a una base dell’aviazione a Pathankot dove guerriglieri pachistani hanno impegnato i militari di Delhi per tre giorni) dalle quali Islamabad va prendendo sempre più le distanze. Infine pugno duro anche con le organizzazioni settarie anti sciite, nate durante l’avvento della Repubblica islamica in Iran. Adesso Islamabad mira a buone relazioni con gli iraniani tanto che la sua posizione di semi neutralità nella recente fase di tensione tra Riad e Teheran ha notevolmente irritato i sauditi che già si erano visti opporre un gran rifiuto quando avevano chiesto al Pakistan, l’anno scorso, di fornire uomini e mezzi per la guerra contro la minoranza sciita nello Yemen.

Il problema del terrorismo in Pakistan non si risolverà a breve e, come ha detto Obama, questa resta un’area di instabilità e un vivaio per lo stesso jihad internazionale. Ma la svolta va registrata anche se, dopo anni di connivenza, mettere ora il bavaglio ai jihadisti non sarà impresa facile.

Se un uccello (protetto) cambia la geopolitica

Esemplare di ubara, dall’arabo hubara,
della famiglia degli otididi.
Una sorta di otarda (avis tarda)

La Corte suprema di Islamabad, ribaltando una precedente sentenza, ha annullato venerdi scorso il bando in Pakistan sulla caccia all’ubara, un volatile a rischio di estinzione di cui vanno ghiotti teste coronate ed emiri del Golfo. Ecco come come un piccolo animale è diventato l’emblema di un grande problema di sovranità nazionale

A volte le cose più strane creano conflitti o diventano soluzione di problemi. E’ il caso di un uccello dal piumaggio colorato, di una dinastia di paludati monarchi del Golfo e di un Paese povero dell’Asia meridionale. L’uccello si chiama ubara – in inglese Houbara bustard – ed è un animale grazioso della famiglia conosciuta come Chlamydotis undulata. E’ originario del Nord Africa ma comprende una specie diffusa in Asia, detta MacQueen’s bustard. In origine considerata una sottospecie della famiglia africana, è in realtà il tipo di ubara più numeroso. Ma ha un problema: la caccia. La caccia avviene quando l’ubara migra dalle steppe dell’Asia centrale, predilette dalla famiglia MacQueen, per andare a svernare in India e nel Sud del Pakistan, un Paese cui il caldo non manca mai. E qui abbiam detto dell’uccello e del Paese povero. Ora veniamo ai cacciatori: questi abitano tra Riad e Kuwait City, sono ricchi e appassionati della caccia col falco. Per loro, le steppe dell’Asia centrale son lontane. Il Pakistan invece, è il caso di dire, è a un tiro di schioppo. Ed è anche un Paese dove è facile ottenere il permesso per una specie protetta come è nel caso dell’ubara. Non è però la solita storia del ricco che va a caccia nel giardino del povero infischiandosene della legge. L’ubara è diventato un affare di Stato, anzi di Stati, che finisce a raccontare più di geopolitica che di arte venatoria o di giusta indignazione animalista. E’ una storia che vale la pena di raccontare.

Se la geopolitica fosse fatta solo di confini, accordi diplomatici e, in caso di guerra, di forniture di

armi, mezzi e soldati, la lettura di come va il mondo sarebbe molto semplice. In poche parole, per capire cosa accade tra il Pakistan e l’Arabia saudita, dopo che Islamabad ha prima negato i suoi soldati a Riad nella guerra in Yemen e, recentemente, si è dimostrata molto fredda verso la coalizione anti sciita messa in piedi dai sauditi per contenere l’Iran, basta guardare la carta geografica: il Pakistan confina con l’Iran, Paese a maggioranza sciita con cui ha accordi commerciali importanti e progetti in corso. Il Pakistan è interessato al petrolio e al gas iraniano e infine ospita una minoranza sciita importante. Se volete c’è anche di mezzo l’Afghanistan, Paese in guerra e con cui i nostri due confinano. Si capisce dunque la riluttanza di Islamabad a schierarsi coi sauditi nel loro jihad anti irano-sciita. Ma c’è dell’altro, un uccello appunto. Il nostro, o la nostra, ubara.


Come abbian detto sceicchi, emiri e dignitari della real casa dei Saud sono cacciatori di ubara ma lo sfortunato uccello, un tempo diffuso dal Sinai a tutta la penisola arabica e oltre, in Medio Oriente è ormai praticamente estinto, Non resta dunque che il Pakistan anche se formalmente esiste un divieto di caccia all’ubara. Divieto che però ammette eccezioni ad personam. Si paga e via. Luoghi prediletti: la provincia del Belucistan ma anche Sindh e Punjab. L’ubara sverna pure in India ma laggiù è rigidamente protetto. In Pakistan invece basta pagare. Nel 2014 un articolo del britannico Guardian spiegava che «… quest’anno il Pakistan ha emesso 33 permessi ad altrettanti dignitari per uccidere cento esemplari a testa. La lista delle licenze è un elenco di Vip dei potentati del Golfo che include gli emiri del Kuwait e del Qatar, un principe saudita e il presidente degli Emirati arabi uniti». Uniti nella caccia col falcone. Lo stesso anno però comincia anche a montare la protesta: ambientalisti, animalisti ma anche uomini di legge, normali cittadini. Nel gennaio del 2014, il periodo migliore per la caccia, il principe Fahd bin Sultan bin Abdul Aziz Al Saud ha sforato un po’. Secondo il rapporto del divisional forest officer del Belucistan, il responsabile forestale, tra l’11 e il 21 gennaio, la testa coronata ha cacciato 1977 uccelli mentre altri membri della partita di caccia all’ubara ne han messi nel carniere altri 123. Totale: 2100 volatili. La cosa finisce sui giornali.

A febbraio 2014 l’Alta corte del Punjab – massima autorità provinciale – emette una sentenza che vieta la caccia all’ubara. Faranno lo stesso le altre quattro corti provinciali? La protesta intanto è montata e dilaga (si fa per dire visto che sembra solo un affare per animalisti) sulla stampa internazionale. I pachistani si indignano e si capisce che, dietro l’ubara, c’è un risveglio d’orgoglio nazionale. Ci son già i droni americani a farla da padrone nelle aree tribali. Adesso ci si mettono anche i cugini ricchi con la fauna protetta! Succede insomma che il caso arriva alla Corte suprema che si riunisce con tre giudici e nell’agosto dell’anno scorso emette un bando nazionale. Fine della caccia agli ubara. Il caso è chiuso.

Tra la sentenza del 19 agosto 2015 e il gennaio del 2016 succedono
però una serie di cose. Come abbiamo già detto la tensione tra Islamabad e Riad – ma anche con gli altri Paesi del Golfo – è palpabile. Prima il rifiuto di mandar truppe nello Yemen, dove va in scena il Vietnam saudita nello scontro con gli Houti (sciiti e amici di Teheran), poi la freddezza verso la mega coalizione che i sauditi han messo in piedi allo scopo evidente di contenere l’uscita dall’angolo dell’Iran, favorita dall’accordo che a Vienna ha deciso, sempre nel 2015, che Teheran può tornare a sedersi a tavola con tutti gli altri. Prima Islamabad fa sapere di non esser stata consultata, poi si offre come mediatrice, poi ancora – per stare in equilibrio – reitera (lo aveva gà fatto per lo Yemen) che se – e sottolineo se – la sovranità saudita verrà minacciata, allora interverrà. Alleato, si, ma riluttante. La querelle diplomatica si svolge in un contesto di viaggi, degli uni e degli altri, nelle rispettive capitali. Il dossier scotta: il Golfo trabocca di manovali pachistani che aiutano la stentata economia nazionale con le loro rimesse. E Riad finanzia progetti e infrastrutture. Non si vorrà mettere a rischio tutto questo!…. Come va a finire? Ci viene in soccorso la satira che rivela un particolare che porta, sul tavolo delle trattative, anche l’ubara. Il quotidiano progressista The Dawn pubblica il 14 gennaio una specie di fotoromanzo in cui si vede un incontro tra il premier Nawaz Sharif, il capo dell’esercito generale Raheel e un emissario della casa regnante saudita. Questo chiede a Raheel e Nawaz di armi e soldati ma loro glissano. E’ ora di pranzo, dice il primo ministro, ma al principe preme la risposta militare. Il premier allora accenna al menù che comprende un ubara arrosto… Ecco ci siamo, la conversazione scifta dunque sui famosi permessi di caccia. E quando Nawaz ricorda all’ospite che c’è da sistemare la faccenda militare, è il saudita che glissa. “Ma quali truppe”? A tavola! La questione è risolta.

Il “fotoromanzo” satirico tratto da The Dawn *

Si, risolta. Già in ottobre, il governo federale aveva chiesto alla Corte suprema di rivedere il suo giudizio. C’è voluto un po’ ma ecco che un nuovo verdetto arriva venerdi 22 gennaio. La Corte suprema si è questa volta riunita con cinque giudici, istanza superiore e più che suprema. Decreta che il bando di agosto viene revocato perché, dice il testo della sentenza, c’è evidentemente stato un «errore» e del resto alla giustizia «compete di interpretare le leggi, non di legiferare». La Corte suprema riconosce solo che questa specie è a rischio e che dunque bisogna sforzarsi di preservarla. Come? I sauditi hanno già pronta la ricetta: allevamenti e studi biologici per la conservazione della specie. E della caccia. Non sia mai che anche questa sia in via d’estinzione.

* Principe:“Allora generale,     pronti per mandarci le truppe”?
   Raheel: “Ne avete bisogno per cacciare l’ubara”?

Questo articolo è uscito ieri su il manifesto

Se un uccello (protetto) cambia la geopolitica

Esemplare di ubara, dall’arabo hubara,
della famiglia degli otididi.
Una sorta di otarda (avis tarda)

La Corte suprema di Islamabad, ribaltando una precedente sentenza, ha annullato venerdi scorso il bando in Pakistan sulla caccia all’ubara, un volatile a rischio di estinzione di cui vanno ghiotti teste coronate ed emiri del Golfo. Ecco come come un piccolo animale è diventato l’emblema di un grande problema di sovranità nazionale

A volte le cose più strane creano conflitti o diventano soluzione di problemi. E’ il caso di un uccello dal piumaggio colorato, di una dinastia di paludati monarchi del Golfo e di un Paese povero dell’Asia meridionale. L’uccello si chiama ubara – in inglese Houbara bustard – ed è un animale grazioso della famiglia conosciuta come Chlamydotis undulata. E’ originario del Nord Africa ma comprende una specie diffusa in Asia, detta MacQueen’s bustard. In origine considerata una sottospecie della famiglia africana, è in realtà il tipo di ubara più numeroso. Ma ha un problema: la caccia. La caccia avviene quando l’ubara migra dalle steppe dell’Asia centrale, predilette dalla famiglia MacQueen, per andare a svernare in India e nel Sud del Pakistan, un Paese cui il caldo non manca mai. E qui abbiam detto dell’uccello e del Paese povero. Ora veniamo ai cacciatori: questi abitano tra Riad e Kuwait City, sono ricchi e appassionati della caccia col falco. Per loro, le steppe dell’Asia centrale son lontane. Il Pakistan invece, è il caso di dire, è a un tiro di schioppo. Ed è anche un Paese dove è facile ottenere il permesso per una specie protetta come è nel caso dell’ubara. Non è però la solita storia del ricco che va a caccia nel giardino del povero infischiandosene della legge. L’ubara è diventato un affare di Stato, anzi di Stati, che finisce a raccontare più di geopolitica che di arte venatoria o di giusta indignazione animalista. E’ una storia che vale la pena di raccontare.

Se la geopolitica fosse fatta solo di confini, accordi diplomatici e, in caso di guerra, di forniture di

armi, mezzi e soldati, la lettura di come va il mondo sarebbe molto semplice. In poche parole, per capire cosa accade tra il Pakistan e l’Arabia saudita, dopo che Islamabad ha prima negato i suoi soldati a Riad nella guerra in Yemen e, recentemente, si è dimostrata molto fredda verso la coalizione anti sciita messa in piedi dai sauditi per contenere l’Iran, basta guardare la carta geografica: il Pakistan confina con l’Iran, Paese a maggioranza sciita con cui ha accordi commerciali importanti e progetti in corso. Il Pakistan è interessato al petrolio e al gas iraniano e infine ospita una minoranza sciita importante. Se volete c’è anche di mezzo l’Afghanistan, Paese in guerra e con cui i nostri due confinano. Si capisce dunque la riluttanza di Islamabad a schierarsi coi sauditi nel loro jihad anti irano-sciita. Ma c’è dell’altro, un uccello appunto. Il nostro, o la nostra, ubara.


Come abbian detto sceicchi, emiri e dignitari della real casa dei Saud sono cacciatori di ubara ma lo sfortunato uccello, un tempo diffuso dal Sinai a tutta la penisola arabica e oltre, in Medio Oriente è ormai praticamente estinto, Non resta dunque che il Pakistan anche se formalmente esiste un divieto di caccia all’ubara. Divieto che però ammette eccezioni ad personam. Si paga e via. Luoghi prediletti: la provincia del Belucistan ma anche Sindh e Punjab. L’ubara sverna pure in India ma laggiù è rigidamente protetto. In Pakistan invece basta pagare. Nel 2014 un articolo del britannico Guardian spiegava che «… quest’anno il Pakistan ha emesso 33 permessi ad altrettanti dignitari per uccidere cento esemplari a testa. La lista delle licenze è un elenco di Vip dei potentati del Golfo che include gli emiri del Kuwait e del Qatar, un principe saudita e il presidente degli Emirati arabi uniti». Uniti nella caccia col falcone. Lo stesso anno però comincia anche a montare la protesta: ambientalisti, animalisti ma anche uomini di legge, normali cittadini. Nel gennaio del 2014, il periodo migliore per la caccia, il principe Fahd bin Sultan bin Abdul Aziz Al Saud ha sforato un po’. Secondo il rapporto del divisional forest officer del Belucistan, il responsabile forestale, tra l’11 e il 21 gennaio, la testa coronata ha cacciato 1977 uccelli mentre altri membri della partita di caccia all’ubara ne han messi nel carniere altri 123. Totale: 2100 volatili. La cosa finisce sui giornali.

A febbraio 2014 l’Alta corte del Punjab – massima autorità provinciale – emette una sentenza che vieta la caccia all’ubara. Faranno lo stesso le altre quattro corti provinciali? La protesta intanto è montata e dilaga (si fa per dire visto che sembra solo un affare per animalisti) sulla stampa internazionale. I pachistani si indignano e si capisce che, dietro l’ubara, c’è un risveglio d’orgoglio nazionale. Ci son già i droni americani a farla da padrone nelle aree tribali. Adesso ci si mettono anche i cugini ricchi con la fauna protetta! Succede insomma che il caso arriva alla Corte suprema che si riunisce con tre giudici e nell’agosto dell’anno scorso emette un bando nazionale. Fine della caccia agli ubara. Il caso è chiuso.

Tra la sentenza del 19 agosto 2015 e il gennaio del 2016 succedono
però una serie di cose. Come abbiamo già detto la tensione tra Islamabad e Riad – ma anche con gli altri Paesi del Golfo – è palpabile. Prima il rifiuto di mandar truppe nello Yemen, dove va in scena il Vietnam saudita nello scontro con gli Houti (sciiti e amici di Teheran), poi la freddezza verso la mega coalizione che i sauditi han messo in piedi allo scopo evidente di contenere l’uscita dall’angolo dell’Iran, favorita dall’accordo che a Vienna ha deciso, sempre nel 2015, che Teheran può tornare a sedersi a tavola con tutti gli altri. Prima Islamabad fa sapere di non esser stata consultata, poi si offre come mediatrice, poi ancora – per stare in equilibrio – reitera (lo aveva gà fatto per lo Yemen) che se – e sottolineo se – la sovranità saudita verrà minacciata, allora interverrà. Alleato, si, ma riluttante. La querelle diplomatica si svolge in un contesto di viaggi, degli uni e degli altri, nelle rispettive capitali. Il dossier scotta: il Golfo trabocca di manovali pachistani che aiutano la stentata economia nazionale con le loro rimesse. E Riad finanzia progetti e infrastrutture. Non si vorrà mettere a rischio tutto questo!…. Come va a finire? Ci viene in soccorso la satira che rivela un particolare che porta, sul tavolo delle trattative, anche l’ubara. Il quotidiano progressista The Dawn pubblica il 14 gennaio una specie di fotoromanzo in cui si vede un incontro tra il premier Nawaz Sharif, il capo dell’esercito generale Raheel e un emissario della casa regnante saudita. Questo chiede a Raheel e Nawaz di armi e soldati ma loro glissano. E’ ora di pranzo, dice il primo ministro, ma al principe preme la risposta militare. Il premier allora accenna al menù che comprende un ubara arrosto… Ecco ci siamo, la conversazione scifta dunque sui famosi permessi di caccia. E quando Nawaz ricorda all’ospite che c’è da sistemare la faccenda militare, è il saudita che glissa. “Ma quali truppe”? A tavola! La questione è risolta.

Il “fotoromanzo” satirico tratto da The Dawn *

Si, risolta. Già in ottobre, il governo federale aveva chiesto alla Corte suprema di rivedere il suo giudizio. C’è voluto un po’ ma ecco che un nuovo verdetto arriva venerdi 22 gennaio. La Corte suprema si è questa volta riunita con cinque giudici, istanza superiore e più che suprema. Decreta che il bando di agosto viene revocato perché, dice il testo della sentenza, c’è evidentemente stato un «errore» e del resto alla giustizia «compete di interpretare le leggi, non di legiferare». La Corte suprema riconosce solo che questa specie è a rischio e che dunque bisogna sforzarsi di preservarla. Come? I sauditi hanno già pronta la ricetta: allevamenti e studi biologici per la conservazione della specie. E della caccia. Non sia mai che anche questa sia in via d’estinzione.

* Principe:“Allora generale,     pronti per mandarci le truppe”?
   Raheel: “Ne avete bisogno per cacciare l’ubara”?

Questo articolo è uscito ieri su il manifesto

Nato/Afghanistan: cambio della guardia al vertice

Nicholson, un esperto
per operazioni sul terreno

Se la decisione del Pentagono sarà confermato dal Senato americano, il generale  John Nicholson succederà a  John Campbell, comandante di Resolute (missione Nato nel Paese) support dal 2014 e che il primo di marzo termina il suo mandato. Nicholson è già alla Nato (alla guida dell’ Allied Land Command) e ha una lunga esperienza afgana (vice comandante generale per l’Afghanistan dal 2010 al 2012). Sotto il suo comando ci sono anche i 9.800 soldati americani che per tutto il 2016 resteranno nel Paese (dovrebbero scendere a 5.500 entro il 2017).

Intanto Unama (Onu) e altre organizzazioni umanitarie hanno lanciato il  2016 Humanitarian Response Plan for Afghanistan. Secondo le Nazioni unite  servono almeno 393 milioni di dollari per il 2016. Nel 2015 300mila afgani si sono nella condizione di sfollati interni a causa della guerra e 130mila dovuti a eventi naturali straordinari. La guerra ha colpito l’anno scorso oltre sei milioni di afgani (circa uno su cinque).

Nato/Afghanistan: cambio della guardia al vertice

Nicholson, un esperto
per operazioni sul terreno

Se la decisione del Pentagono sarà confermato dal Senato americano, il generale  John Nicholson succederà a  John Campbell, comandante di Resolute (missione Nato nel Paese) support dal 2014 e che il primo di marzo termina il suo mandato. Nicholson è già alla Nato (alla guida dell’ Allied Land Command) e ha una lunga esperienza afgana (vice comandante generale per l’Afghanistan dal 2010 al 2012). Sotto il suo comando ci sono anche i 9.800 soldati americani che per tutto il 2016 resteranno nel Paese (dovrebbero scendere a 5.500 entro il 2017).

Intanto Unama (Onu) e altre organizzazioni umanitarie hanno lanciato il  2016 Humanitarian Response Plan for Afghanistan. Secondo le Nazioni unite  servono almeno 393 milioni di dollari per il 2016. Nel 2015 300mila afgani si sono nella condizione di sfollati interni a causa della guerra e 130mila dovuti a eventi naturali straordinari. La guerra ha colpito l’anno scorso oltre sei milioni di afgani (circa uno su cinque).

Personaggi del giorno: Christiane Taubira

La ministra francese della Giustizia Christiane Taubira si è dimessa dopo la proposta del suo presidente (come lei socialista) di revocare le cittadinanza a chi, avendone una doppia, sia accusato di terrorismo. Tutta d’un pezzo

Personaggi del giorno: Christiane Taubira

La ministra francese della Giustizia Christiane Taubira si è dimessa dopo la proposta del suo presidente (come lei socialista) di revocare le cittadinanza a chi, avendone una doppia, sia accusato di terrorismo. Tutta d’un pezzo

Pace in Afghanistan: le precondizioni dei talebani (aggiornato)

Il  logo dell’Emirato talebano: apertura?

La creazione di una sede ufficiale per l’Emirato islamico, la rimozione della lista nera e il decongelamento dei beni, il rilascio dei prigionieri e la fine della “propaganda velenosa” contro l’Emirato. Così il sito ufficiale dei talebani (legati a mullah Mansur)  dà conto delle precondizioni che i talebani pongono per il riavvio del negoziato di pace con Kabul. Condizioni presentate a Doha (Qatar) durante il secondo incontro informale promosso da  Pugwash, un organizzazione internazionale per la risoluzione pacifica dei conflitti. E condizioni respinte al mittente oggi dal governo di Kabul.

Nel documento, redatto mentre era in corso l’incontro, i talebani ribadiscono che solo l’Ufficio di Doha (aperto nel 2013 ma poi chiuso dopo le rimostranze di Kabul perché la sede talebana aveva issato lo stendardo dell’emirato) ha le carte in regola per trattare e negoziare. Una puntualizzazione che sembra ribadire che l’interlocutore può essere uno solo (e non la miriade di gruppi in cui si va dividendo il movimento).

Dunque rappresentanti talebani    si sono incontrati con persone vicine al governo afgano sabato e domenica: un incontro non ufficiale di due giorni organizzato da Pugwash Conferences on Science and World Affairs. L’incontro di Doha non fa  parte del processo di pace ufficiale, che ha già visto due incontri a Islamabad e Kabul ma che per ora si svolge senza talebano ma solo tra  funzionari di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti, impegnati a tracciare una possibile tabella di marcia per la pace. Le precondizioni per aderire sembrano però un passo avanti.

Pugwash aveva organizzato una prima riunione non ufficiale sulla sicurezza in Afghanistan a Doha il 2-3 maggio 2015. L’incontro aveva coinvolto più di 40 partecipanti, che però rappresentavano solo  opinioni personali. Questa volta sembra che si sia andati un po’ più in là ma l’incontro arriva in un momento difficile dopo la strage di giornalisti avvenuta a Kabul mercoledi scorso in serata e rivendicata dai talebani. Ferita difficile da rimarginare

* aggiornato il 25 gennaio alle 17.00

Pace in Afghanistan: le precondizioni dei talebani (aggiornato)

Il  logo dell’Emirato talebano: apertura?

La creazione di una sede ufficiale per l’Emirato islamico, la rimozione della lista nera e il decongelamento dei beni, il rilascio dei prigionieri e la fine della “propaganda velenosa” contro l’Emirato. Così il sito ufficiale dei talebani (legati a mullah Mansur)  dà conto delle precondizioni che i talebani pongono per il riavvio del negoziato di pace con Kabul. Condizioni presentate a Doha (Qatar) durante il secondo incontro informale promosso da  Pugwash, un organizzazione internazionale per la risoluzione pacifica dei conflitti. E condizioni respinte al mittente oggi dal governo di Kabul.

Nel documento, redatto mentre era in corso l’incontro, i talebani ribadiscono che solo l’Ufficio di Doha (aperto nel 2013 ma poi chiuso dopo le rimostranze di Kabul perché la sede talebana aveva issato lo stendardo dell’emirato) ha le carte in regola per trattare e negoziare. Una puntualizzazione che sembra ribadire che l’interlocutore può essere uno solo (e non la miriade di gruppi in cui si va dividendo il movimento).

Dunque rappresentanti talebani    si sono incontrati con persone vicine al governo afgano sabato e domenica: un incontro non ufficiale di due giorni organizzato da Pugwash Conferences on Science and World Affairs. L’incontro di Doha non fa  parte del processo di pace ufficiale, che ha già visto due incontri a Islamabad e Kabul ma che per ora si svolge senza talebano ma solo tra  funzionari di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti, impegnati a tracciare una possibile tabella di marcia per la pace. Le precondizioni per aderire sembrano però un passo avanti.

Pugwash aveva organizzato una prima riunione non ufficiale sulla sicurezza in Afghanistan a Doha il 2-3 maggio 2015. L’incontro aveva coinvolto più di 40 partecipanti, che però rappresentavano solo  opinioni personali. Questa volta sembra che si sia andati un po’ più in là ma l’incontro arriva in un momento difficile dopo la strage di giornalisti avvenuta a Kabul mercoledi scorso in serata e rivendicata dai talebani. Ferita difficile da rimarginare

* aggiornato il 25 gennaio alle 17.00

I media nel mirino

L’autobus distrutto dall’auto bomba (foto da ToloNews)

Ricoverati all’ospedale di Emergency a Kabul, la maggior parte dei feriti dell’attacco di mercoledi sera nella capitale cerca di uscire dall’incubo di una giornata che la Federazione afgana dei giornalisti (Ajf) ha definito il “Mercoledi nero” della storia dei media locali. Era già buio quando un’auto piena di esplosivo ha colpito un autobus privato con a bordo oltre trenta persone che provenivano dal centro di produzione Kaboora Production, un gruppo collegato a Tolo Tv, la più nota emittente afgana, ma che lavora anche per altri media. L’obiettivo era però però proprio Tolo Tv, non importa se giornalisti, autisti, membri dello staff. L’esplosione ha ucciso sette perone e ne ha ferite 26, alcune delle quali sono ancora in gravi condizioni. Considerato dai giornalisti afgani un crimine contro l’umanità, l’attentato dei talebani voleva punire un’emittente che – spiegava ieri il comunicato ufficiale sul sito della guerriglia in turbante – «…è la più grande rete del Paese e promuove oscenità, laicità, cultura straniera e nudità. L’Emirato islamico – prosegue la nota con un distinguo che, più che rassicurare, diventa pura intimidazione – vuole chiarire che l’attacco a Tolo non era diretto ai media, ma a una rete di intelligence avversa alla nostra unità nazionale e ai nostri valori religiosi e nazionali».

La condanna, nazionale e internazionale, da Human Rights Watch alla missione dell’Onu a Kabul (Unama) alle organizzazioni di giornalisti, non si fa attendere mentre i talebani alzano il tiro con quello che è un attentato senza precedenti nella storia del Paese: singoli individui sono stati presi di mira, rapiti, intimiditi e anche uccisi. Ma questa è una strage che indica un salto di qualità preoccupante. Che non convince però nemmeno gli ulema e diversi teologi prendono posizione definendo «sacra» la professione del giornalista e l’attentato un «crimine contro l’umanità e contro l’islam». Il governo, non in grado di garantire la sicurezza, assicura almeno la sua solidarietà e rivela che le indagini dimostrano come la quantità di esplosivo utilizzata fosse enorme: per produrre il più alto numero di vittime. Questi i nomi dei giornalisti uccisi: Mohammad Jawad Hussaini, Zainab Mirzaee, Mehri Azizi, Mariam Ibrahimi, Mohammad Hussain, Mohammad Ali Mohammadi, Hussain Amiri.

Intanto, faticosamente, si cerca di mettere in piedi un processo negoziale coi talebani che gli attentati non aiutano. Si sono già svolte due riunioni “quadrilaterali” con Pakistan, Afghanistan, Cina e Stati Uniti e ieri il pachistano Nawaz Sharif e l’afgano Ashraf Ghani hanno incontrato in “trilaterale” il vicepresidente americano Joe Biden a Davos per dar forza all’iniziativa. Per ora cosparsa di sangue

I media nel mirino

L’autobus distrutto dall’auto bomba (foto da ToloNews)

Ricoverati all’ospedale di Emergency a Kabul, la maggior parte dei feriti dell’attacco di mercoledi sera nella capitale cerca di uscire dall’incubo di una giornata che la Federazione afgana dei giornalisti (Ajf) ha definito il “Mercoledi nero” della storia dei media locali. Era già buio quando un’auto piena di esplosivo ha colpito un autobus privato con a bordo oltre trenta persone che provenivano dal centro di produzione Kaboora Production, un gruppo collegato a Tolo Tv, la più nota emittente afgana, ma che lavora anche per altri media. L’obiettivo era però però proprio Tolo Tv, non importa se giornalisti, autisti, membri dello staff. L’esplosione ha ucciso sette perone e ne ha ferite 26, alcune delle quali sono ancora in gravi condizioni. Considerato dai giornalisti afgani un crimine contro l’umanità, l’attentato dei talebani voleva punire un’emittente che – spiegava ieri il comunicato ufficiale sul sito della guerriglia in turbante – «…è la più grande rete del Paese e promuove oscenità, laicità, cultura straniera e nudità. L’Emirato islamico – prosegue la nota con un distinguo che, più che rassicurare, diventa pura intimidazione – vuole chiarire che l’attacco a Tolo non era diretto ai media, ma a una rete di intelligence avversa alla nostra unità nazionale e ai nostri valori religiosi e nazionali».

La condanna, nazionale e internazionale, da Human Rights Watch alla missione dell’Onu a Kabul (Unama) alle organizzazioni di giornalisti, non si fa attendere mentre i talebani alzano il tiro con quello che è un attentato senza precedenti nella storia del Paese: singoli individui sono stati presi di mira, rapiti, intimiditi e anche uccisi. Ma questa è una strage che indica un salto di qualità preoccupante. Che non convince però nemmeno gli ulema e diversi teologi prendono posizione definendo «sacra» la professione del giornalista e l’attentato un «crimine contro l’umanità e contro l’islam». Il governo, non in grado di garantire la sicurezza, assicura almeno la sua solidarietà e rivela che le indagini dimostrano come la quantità di esplosivo utilizzata fosse enorme: per produrre il più alto numero di vittime. Questi i nomi dei giornalisti uccisi: Mohammad Jawad Hussaini, Zainab Mirzaee, Mehri Azizi, Mariam Ibrahimi, Mohammad Hussain, Mohammad Ali Mohammadi, Hussain Amiri.

Intanto, faticosamente, si cerca di mettere in piedi un processo negoziale coi talebani che gli attentati non aiutano. Si sono già svolte due riunioni “quadrilaterali” con Pakistan, Afghanistan, Cina e Stati Uniti e ieri il pachistano Nawaz Sharif e l’afgano Ashraf Ghani hanno incontrato in “trilaterale” il vicepresidente americano Joe Biden a Davos per dar forza all’iniziativa. Per ora cosparsa di sangue

Pakistan, ancora una strage a scuola

Simbolo pacifista: Abdul Ghaffār Khān,
 detto anche Fakhr-e Afghān (orgoglio degli afghani),
 noto col nomignolo di Bāchā Khān (re dei capi)
 e conosciuto anche come
 Gandhi della frontiera o Gandhi musulmano

A distanza di poco più di un anno da quando un commando talebano ha attaccato una scuola militare a Peshawar uccidendo oltre 140 persone, lo scenario si ripete. Questa volta siamo alla Bacha Khan University di Charsadda, sempre nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa di cui Peshawar è la capitale. L’università è intitolata al pashtun della Frontiera del Nord Ovest (così si chiamava la provincia nel Raj britannico): un uomo che, alla fine degli anni Venti del secolo scorso, aveva fondato un movimento non violento ancor prima di Gandhi, anche se è ricordato come il “Gandhi musulmano”. Gli studenti stanno proprio commemorando il personaggio che è dunque un simbolo anche della lotta pacifista e di un islam non combattente. Il commando entra nell’ateneo: sarebbero in una decina a scalare le mura dell’edifico. Hanno armi automatiche e cinture esplosive (quest’ultima ipotesi è poi stata smentita dalle autorità: i guerriglieri volevano fuggire dopo l’attacco). Il massacro va in onda poco dopo anche se assai più contenuto rispetto alle aspettative. I morti tra chi era nell’istituto sarebbero (finora) almeno 21 ma non è chiaro se nel conto ci siano quattro guerriglieri che l’esercito sostiene di aver ucciso.
La battaglia dura ore e la resistenza dei mujaheddin viene vinta con difficoltà. Ma il rapido intervento delle forze di sicurezza sembra aver ridotto l’impatto che i terroristi volevano ottenere. La rivendicazione non tarda ad arrivare anche se con un giallo sulla firma. Si fa vivo lo stesso personaggio che già aveva rivendicato la strage di Peshawar, quell’Umar Mansur del Tehreek Taliban Pakistan (Ttp), i talebani pachistani. E’ il capo della fazione Geedar del cartello nato nel 2007 e la rivendicazione la posta sui social network. Ma, dopo qualche ora, arriva la smentita di uno dei portavoce storici del movimento, Mohammad Khorasani, che anzi condanna l’azione come contraria alla legge coranica. Le cose, come spesso accade, si confondono: dal 2014, dopo la morte di Hakimullah Meshud, il Ttp si è diviso in diverse fazioni e ha visto secessioni, espulsioni, lotte intestine. La smentita vuol dire che Mansur è fuori o che Khorasani non controlla più il cartello? E chi è uscito da che parte sta? Alcuni membri del Ttp sono passati a Daesh. Mansur a chi fa capo?

Intanto la polizia e l’esercito procedono ai riconoscimenti dei cadaveri e cercano di ricostruire le conversazioni telefoniche. Spunta – era già avvenuto per Peshawar – una pista afgana che, in effetti, porta a Mansur che nel vicino Paese avrebbe la sua base operativa. Un brutto colpo al tentativo che Pakistan e Afghanistan, con l’aiuto di Cina e Usa, stanno mettendo in piedi per creare le condizioni di un negoziato tra Kabul e i talebani afgani. Il fatto che il Ttp o una sua fazione più o meno in linea agiscano dall’Afghanistan non può che guastare i lavori già in salita di questa “Quadrilaterale” che si è già riunita a Islamabad e Kabul e che ha in agenda una nuova riunione a breve. Tutto si basa, per cominciare, sul tentativo di ristabilire buoni rapporti tra Islamabad e Kabul.

L’azione è comunque una risposta all’operazione Zarb e Azb, un chiodo fisso per Mansur che vuole punire militari traditori e politici apostati. Proprio nel dicembre scorso, i primi 18 mesi di Zarb e Azb – il cui compito era spazzare via la guerriglia locale e straniera dal Waziristan – sono stati definiti un grande successo che ha visto circa 30mila soldati impegnati nell’area tribale col sostegno dell’aviazione. Secondo le forze armate pachistane son stati uccisi 3.400 terroristi e distrutti 837 nascondigli. Oltre 13mila gli operativi militari. Le vittime tra i soldati ammontano a 488 morti e 1.914 feriti. Delle vittime civili invece non si sa nulla: nessuna secondo i militari, affermazione non verificabile. Quanto al numero degli sfollati, nel luglio 2014 erano – dice la stampa locale -– un milione… su una popolazione del Waziristan stimata tra le 4 e le 5oomila unità. Il 40% degli sfollati sarebbe ora – dice sempre l’esercito – rientrato a casa.

Zarb e Azb è stata accompagnata da una politica di ammorbidimento delle relazioni con Kabul e da un lavoro di pressione sui talebani afgani, che hanno finora sempre goduto del sostegno più o meno diretto di Islamabad che adesso invece li starebbe convincendo a trattare. Ma ecco che da quando questa politica è iniziata, stragi, attentati, attacchi sono aumentati e spesso senza firma o con firme e responsabilità confuse. Quest’attacco fa parte della strategia che vuole minare gli sforzi di pace? Possibilissimo e cosa c’è di meglio che far notizia ammazzando giovani studenti. Nell’università del Gandhi pachistano.

Pakistan, ancora una strage a scuola

Simbolo pacifista: Abdul Ghaffār Khān,
 detto anche Fakhr-e Afghān (orgoglio degli afghani),
 noto col nomignolo di Bāchā Khān (re dei capi)
 e conosciuto anche come
 Gandhi della frontiera o Gandhi musulmano

A distanza di poco più di un anno da quando un commando talebano ha attaccato una scuola militare a Peshawar uccidendo oltre 140 persone, lo scenario si ripete. Questa volta siamo alla Bacha Khan University di Charsadda, sempre nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa di cui Peshawar è la capitale. L’università è intitolata al pashtun della Frontiera del Nord Ovest (così si chiamava la provincia nel Raj britannico): un uomo che, alla fine degli anni Venti del secolo scorso, aveva fondato un movimento non violento ancor prima di Gandhi, anche se è ricordato come il “Gandhi musulmano”. Gli studenti stanno proprio commemorando il personaggio che è dunque un simbolo anche della lotta pacifista e di un islam non combattente. Il commando entra nell’ateneo: sarebbero in una decina a scalare le mura dell’edifico. Hanno armi automatiche e cinture esplosive (quest’ultima ipotesi è poi stata smentita dalle autorità: i guerriglieri volevano fuggire dopo l’attacco). Il massacro va in onda poco dopo anche se assai più contenuto rispetto alle aspettative. I morti tra chi era nell’istituto sarebbero (finora) almeno 21 ma non è chiaro se nel conto ci siano quattro guerriglieri che l’esercito sostiene di aver ucciso.
La battaglia dura ore e la resistenza dei mujaheddin viene vinta con difficoltà. Ma il rapido intervento delle forze di sicurezza sembra aver ridotto l’impatto che i terroristi volevano ottenere. La rivendicazione non tarda ad arrivare anche se con un giallo sulla firma. Si fa vivo lo stesso personaggio che già aveva rivendicato la strage di Peshawar, quell’Umar Mansur del Tehreek Taliban Pakistan (Ttp), i talebani pachistani. E’ il capo della fazione Geedar del cartello nato nel 2007 e la rivendicazione la posta sui social network. Ma, dopo qualche ora, arriva la smentita di uno dei portavoce storici del movimento, Mohammad Khorasani, che anzi condanna l’azione come contraria alla legge coranica. Le cose, come spesso accade, si confondono: dal 2014, dopo la morte di Hakimullah Meshud, il Ttp si è diviso in diverse fazioni e ha visto secessioni, espulsioni, lotte intestine. La smentita vuol dire che Mansur è fuori o che Khorasani non controlla più il cartello? E chi è uscito da che parte sta? Alcuni membri del Ttp sono passati a Daesh. Mansur a chi fa capo?

Intanto la polizia e l’esercito procedono ai riconoscimenti dei cadaveri e cercano di ricostruire le conversazioni telefoniche. Spunta – era già avvenuto per Peshawar – una pista afgana che, in effetti, porta a Mansur che nel vicino Paese avrebbe la sua base operativa. Un brutto colpo al tentativo che Pakistan e Afghanistan, con l’aiuto di Cina e Usa, stanno mettendo in piedi per creare le condizioni di un negoziato tra Kabul e i talebani afgani. Il fatto che il Ttp o una sua fazione più o meno in linea agiscano dall’Afghanistan non può che guastare i lavori già in salita di questa “Quadrilaterale” che si è già riunita a Islamabad e Kabul e che ha in agenda una nuova riunione a breve. Tutto si basa, per cominciare, sul tentativo di ristabilire buoni rapporti tra Islamabad e Kabul.

L’azione è comunque una risposta all’operazione Zarb e Azb, un chiodo fisso per Mansur che vuole punire militari traditori e politici apostati. Proprio nel dicembre scorso, i primi 18 mesi di Zarb e Azb – il cui compito era spazzare via la guerriglia locale e straniera dal Waziristan – sono stati definiti un grande successo che ha visto circa 30mila soldati impegnati nell’area tribale col sostegno dell’aviazione. Secondo le forze armate pachistane son stati uccisi 3.400 terroristi e distrutti 837 nascondigli. Oltre 13mila gli operativi militari. Le vittime tra i soldati ammontano a 488 morti e 1.914 feriti. Delle vittime civili invece non si sa nulla: nessuna secondo i militari, affermazione non verificabile. Quanto al numero degli sfollati, nel luglio 2014 erano – dice la stampa locale -– un milione… su una popolazione del Waziristan stimata tra le 4 e le 5oomila unità. Il 40% degli sfollati sarebbe ora – dice sempre l’esercito – rientrato a casa.

Zarb e Azb è stata accompagnata da una politica di ammorbidimento delle relazioni con Kabul e da un lavoro di pressione sui talebani afgani, che hanno finora sempre goduto del sostegno più o meno diretto di Islamabad che adesso invece li starebbe convincendo a trattare. Ma ecco che da quando questa politica è iniziata, stragi, attentati, attacchi sono aumentati e spesso senza firma o con firme e responsabilità confuse. Quest’attacco fa parte della strategia che vuole minare gli sforzi di pace? Possibilissimo e cosa c’è di meglio che far notizia ammazzando giovani studenti. Nell’università del Gandhi pachistano.

Filantropo con un occhio al mercato

Umanitari ma con l’occhio al mercato. Universali ma con un’agenda personale. Filantropi ma un po’ pelosi. E’ questo il quadro che emerge da una ricerca di Global Policy Forum, “watchdog” indipendente che studia le politiche di Onu, governi e privati e che si interroga sugli effetti della recente ondata filantropica ( Philanthropic Power and Development. Who shapes the agenda?). Per dirla in altre parole, quanto costa a governi e Nazioni Unite il buon cuore dei privati?

«Negli ultimi decenni – scrivono i ricercatori Jens Martens e Karolin Seitz – globalizzazione, deregulation e privatizzazioni hanno facilitato e aumentato il potere di attori privati, in particolarmente delle grandi multinazionali… aziende con attività in decine di Paesi e fatturati miliardari hanno acquisito sia grande influenza sul sistema economico globale sia significativo peso politico». La loro influenza, dice il rapporto, è cresciuta anche sui temi del dibattito politico internazionale, dall’eliminazione della povertà, allo sviluppo sostenibile, i cambiamenti climatici, la tutela dei diritti umani. Quando i governi sembrano incapaci di risolvere le sfide globali, questi attori emergenti si presentano come alternativa operativa come «modello che finge di essere più flessibile, efficiente e non burocratico».


Effettivamente, gli ultimi anni hanno visto crescere l’influenza dei sempre sorridenti Bill e Melissa Gates e le stesse Nazioni Unite, così come le agenzie nazionali di cooperazione (è anche il caso dell’Italia) ormai inseriscono sempre il “settore privato” come partner ineludibile: quando non c’è, bisogna trovarlo a ogni costo. Ma questa filantropica invasione è a costo zero ? Porta solo benefici?

Il rapporto racconta di quel 5 giugno 2013 quando a New York si riunirono oltre 150 invitati per l’incontro organizzato dalla rivista Forbes sulla filantropia. Evento aperto dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon: ci sono i Gates, Bono, la Rockefeller Foundation, il miliardario americano Warren Buffett e molti altri. Credit Suisse come sponsor. I partecipanti, che rappresentavano una bella fetta della ricchezza mondiale «hanno discusso – scriveva il magazine – di come usare denaro, fama e talento imprenditoriale per sradicare la povertà». Alla fine del meeting, Forbes ha pubblicato uno speciale dal titolo “Gli imprenditori possono salvare il mondo.”

Di che ricchezza parliamo? Con un patrimonio di più di 360 miliardi di dollari, le 27 più grandi fondazioni del pianeta (19 sono americane) danno circa 15 miliardi di dollari ogni anno in beneficenza. Di gran lunga, il principale donatore è la Bill e Melinda Gates Foundation, che ha un esborso medio di 2 miliardi di dollari l’anno. Poi ci sono i singoli: 137 miliardari provenienti da 14 Paesi (anche africani). C”è l’ex sindaco della grande Mela Michael Bloomberg, il regista statunitense George Lucas il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg o il tycoon cinese Li Ka-shing. In che settori? Soprattutto salute, epidemie, alimentazione e agricoltura.

Verrebbe da dire: che c’è di male? Se non si può cambiare il mondo si faccia almeno la carità. E in effetti quei soldi son messi sul piatto apparentemente a fin di bene. Ma c’è un però. La nascita della filantropia è antica. Data dall’inizio del 1900. Ma i grandi assegni si firmano solo da un paio di decenni. Questi nuovi assegni non vanno solo ai programmi per la povertà ma anche a investimenti nel settore privato: tecnologico, biomedico, agricolo. Alla fine sono anche le corporation a beneficiarne. Si certo, per nuovi vaccini ma anche per promuovere campagne opinabili come quella per gli Ogm: semi “migliorati” che, dicono i critici citati dal dossier «sotto l’apparenza di eliminare la fame in Africa, aprono i mercati africani all’agro-business».

I punti oscuri secondo gli autori sono l’assenza di un quadro dei risultati a lungo termine e la possibilità che i programmi dei privati rispondano più alle loro esigenze che a quelle fissate da Onu, governi e organismi intergovernativi. Col rischio di minare la credibilità degli organi decisionali responsabili pubblicamente e di indebolire la governance democratica. Par di capire che molti donatori privati guardino al pianeta non solo come un insieme di persone da aiutare ma anche come un grande mercato da sviluppare. A fin di bene ovviamente.

Filantropo con un occhio al mercato

Umanitari ma con l’occhio al mercato. Universali ma con un’agenda personale. Filantropi ma un po’ pelosi. E’ questo il quadro che emerge da una ricerca di Global Policy Forum, “watchdog” indipendente che studia le politiche di Onu, governi e privati e che si interroga sugli effetti della recente ondata filantropica ( Philanthropic Power and Development. Who shapes the agenda?). Per dirla in altre parole, quanto costa a governi e Nazioni Unite il buon cuore dei privati?

«Negli ultimi decenni – scrivono i ricercatori Jens Martens e Karolin Seitz – globalizzazione, deregulation e privatizzazioni hanno facilitato e aumentato il potere di attori privati, in particolarmente delle grandi multinazionali… aziende con attività in decine di Paesi e fatturati miliardari hanno acquisito sia grande influenza sul sistema economico globale sia significativo peso politico». La loro influenza, dice il rapporto, è cresciuta anche sui temi del dibattito politico internazionale, dall’eliminazione della povertà, allo sviluppo sostenibile, i cambiamenti climatici, la tutela dei diritti umani. Quando i governi sembrano incapaci di risolvere le sfide globali, questi attori emergenti si presentano come alternativa operativa come «modello che finge di essere più flessibile, efficiente e non burocratico».


Effettivamente, gli ultimi anni hanno visto crescere l’influenza dei sempre sorridenti Bill e Melissa Gates e le stesse Nazioni Unite, così come le agenzie nazionali di cooperazione (è anche il caso dell’Italia) ormai inseriscono sempre il “settore privato” come partner ineludibile: quando non c’è, bisogna trovarlo a ogni costo. Ma questa filantropica invasione è a costo zero ? Porta solo benefici?

Il rapporto racconta di quel 5 giugno 2013 quando a New York si riunirono oltre 150 invitati per l’incontro organizzato dalla rivista Forbes sulla filantropia. Evento aperto dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon: ci sono i Gates, Bono, la Rockefeller Foundation, il miliardario americano Warren Buffett e molti altri. Credit Suisse come sponsor. I partecipanti, che rappresentavano una bella fetta della ricchezza mondiale «hanno discusso – scriveva il magazine – di come usare denaro, fama e talento imprenditoriale per sradicare la povertà». Alla fine del meeting, Forbes ha pubblicato uno speciale dal titolo “Gli imprenditori possono salvare il mondo.”

Di che ricchezza parliamo? Con un patrimonio di più di 360 miliardi di dollari, le 27 più grandi fondazioni del pianeta (19 sono americane) danno circa 15 miliardi di dollari ogni anno in beneficenza. Di gran lunga, il principale donatore è la Bill e Melinda Gates Foundation, che ha un esborso medio di 2 miliardi di dollari l’anno. Poi ci sono i singoli: 137 miliardari provenienti da 14 Paesi (anche africani). C”è l’ex sindaco della grande Mela Michael Bloomberg, il regista statunitense George Lucas il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg o il tycoon cinese Li Ka-shing. In che settori? Soprattutto salute, epidemie, alimentazione e agricoltura.

Verrebbe da dire: che c’è di male? Se non si può cambiare il mondo si faccia almeno la carità. E in effetti quei soldi son messi sul piatto apparentemente a fin di bene. Ma c’è un però. La nascita della filantropia è antica. Data dall’inizio del 1900. Ma i grandi assegni si firmano solo da un paio di decenni. Questi nuovi assegni non vanno solo ai programmi per la povertà ma anche a investimenti nel settore privato: tecnologico, biomedico, agricolo. Alla fine sono anche le corporation a beneficiarne. Si certo, per nuovi vaccini ma anche per promuovere campagne opinabili come quella per gli Ogm: semi “migliorati” che, dicono i critici citati dal dossier «sotto l’apparenza di eliminare la fame in Africa, aprono i mercati africani all’agro-business».

I punti oscuri secondo gli autori sono l’assenza di un quadro dei risultati a lungo termine e la possibilità che i programmi dei privati rispondano più alle loro esigenze che a quelle fissate da Onu, governi e organismi intergovernativi. Col rischio di minare la credibilità degli organi decisionali responsabili pubblicamente e di indebolire la governance democratica. Par di capire che molti donatori privati guardino al pianeta non solo come un insieme di persone da aiutare ma anche come un grande mercato da sviluppare. A fin di bene ovviamente.

Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L‘Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora – nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E’ in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L‘Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora – nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E’ in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L‘Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora – nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E’ in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

Giacarta come Parigi? Si fa presto a dire Daesh

Con i brand, le attribuzioni, le sigle la prudenza è una buona consigliera – anche in presenza di una rivendicazione – quando il gioco si fa duro. Si fa duro nel quartiere dello shopping e degli affari di Giacarta dove, al centro commerciale Sarinah, van le coppiette a bere frullati e le mamme a far spesa per i figlioli. Si fa duro e non è la prima volta se è vero che, sotto Natale, la polizia indonesiana ha arrestato un gruppo di probabili attivisti di Daesh, probabili responsabili di una bomba davanti alla casa di un sindaco e di un piano per colpire la capitale e altre città. Piano che sarebbe stato, e il condizionale resta d’obbligo, finanziato direttamente con risorse siriane: cash proveniente da Raqqa per accendere la miccia jihadista nel Paese musulmano più popoloso del pianeta. Può bastare per dire che sì, Giacarta è come Parigi e Istanbul e il califfo è sbarcato a Oriente del profeta?

Continua su Pagina99

Giacarta come Parigi? Si fa presto a dire Daesh

Con i brand, le attribuzioni, le sigle la prudenza è una buona consigliera – anche in presenza di una rivendicazione – quando il gioco si fa duro. Si fa duro nel quartiere dello shopping e degli affari di Giacarta dove, al centro commerciale Sarinah, van le coppiette a bere frullati e le mamme a far spesa per i figlioli. Si fa duro e non è la prima volta se è vero che, sotto Natale, la polizia indonesiana ha arrestato un gruppo di probabili attivisti di Daesh, probabili responsabili di una bomba davanti alla casa di un sindaco e di un piano per colpire la capitale e altre città. Piano che sarebbe stato, e il condizionale resta d’obbligo, finanziato direttamente con risorse siriane: cash proveniente da Raqqa per accendere la miccia jihadista nel Paese musulmano più popoloso del pianeta. Può bastare per dire che sì, Giacarta è come Parigi e Istanbul e il califfo è sbarcato a Oriente del profeta?

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Giacarta come Parigi? Si fa presto a dire Daesh

Con i brand, le attribuzioni, le sigle la prudenza è una buona consigliera – anche in presenza di una rivendicazione – quando il gioco si fa duro. Si fa duro nel quartiere dello shopping e degli affari di Giacarta dove, al centro commerciale Sarinah, van le coppiette a bere frullati e le mamme a far spesa per i figlioli. Si fa duro e non è la prima volta se è vero che, sotto Natale, la polizia indonesiana ha arrestato un gruppo di probabili attivisti di Daesh, probabili responsabili di una bomba davanti alla casa di un sindaco e di un piano per colpire la capitale e altre città. Piano che sarebbe stato, e il condizionale resta d’obbligo, finanziato direttamente con risorse siriane: cash proveniente da Raqqa per accendere la miccia jihadista nel Paese musulmano più popoloso del pianeta. Può bastare per dire che sì, Giacarta è come Parigi e Istanbul e il califfo è sbarcato a Oriente del profeta?

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Compleanni: i vent’anni della Tavola della pace

La Tavola della pace, quel collettivo di uomini e donne che ogni anno organizzano la marcia Perugia Assisi e che continuano a preoccuparsi dei diritti di tutti, compie vent’anni. 20 anni. Il compleanno lo ha festeggiato a Senigallia  qualche giorno fa dove aveva organizzato un percorso formativo sui conflitti per docenti della scuola secondaria (previsti 150 ma arrivati in 250!). La Tavola ha avuto, specie in tempi recenti, momenti difficili e sopratutto li ha avuti il suo referente storico, Flavio Lotti, accusato persino di aver distratto fondi! Lui – e la gente che tutti i giorni gli dà una mano come sua moglie Randa o Emanuela o Ivetta e tanti altri – è finito a un certo punto nella macchina del fango dopo aver scelto di candidarsi alle politiche (improvvidamente forse ma solo – in realtà –  perché non è stato eletto e in politica perdere diventa subito un peccato di superbia). Tant’è, quel periodo è forse alle spalle. Molti non lo hanno mai abbandonato, altri adesso sono meno concentrati su di lui, altri ancora – saggiamente – preferiscono mettere una pietra sopra a una vicenda triste che ha diviso ancora di più il movimento per la pace. La Tavola adesso continua comunque ad andare avanti e in un processo che coinvolge enti locali, scuole, associazioni di base, cattoliche e non, cittadini senza sigle.

A Kabul con la bandiera della pace sulla collina
che sovrasta la capitale afgana

Per quel che mi riguarda sono da diversi anni un suo sostenitore pur essendo un laico impenitente. Durante le mie battaglie per l’Afghanistan, la Tavola non ha mai mancato di fornirmi aiuto e sostegno e non posso dimenticarlo. Con una decina fra loro andammo a Kabul a sventolare, sulla città martire, la bandiera multicolore. E’ ovviamente la cosa che ricordo con maggior commozione. Ma al di là dell’Afghanistan ne condivido gli obiettivi generali e mi pace far parte di questa comunità allargata che rappresenta specificità diverse. Per saperne di più posto qui un link che fa un po’ la storia della Tavola. Una storia in divenire ovviamente.
Come Senigallia, nel week end appena trascorso, ha ampiamente dimostrato.

Leggere: Com’è nata la Tavola della pace

A Senigallia con la bandiera della pace qualche giorno fa. Sullo sfondo la famosa rotonda dove si è tenuto il meeting

Il processo di pace "must go on" (per ora senza i talebani)

Pace in salita. La scalata
la guida il Pakistan

Per adesso la montagna ha partorito un topolino ma non era immaginabile andare oltre. Riunitosi ieri per la prima volta a Islamabad, il Quadrilateral Coordination Committee, che comprende Afghanistan, Pakistan, Cina e Usa, ha fissato il suo secondo incontro a Kabul fra una settimana e ha sopratutto messo nero su bianco che il negoziato di pace coi talebani deve andare avanti. Come? Si vedrà.

Alla riunione c’erano per il Pakistan il ministro degli Esteri Aizaz Ahmad Chaudhry e Sartaj Aziz, ascoltato consigliere del premier Nawaz Sharif, per l’Afghanistan il vice ministro degli esteri Hekmat Khalil Karzai, e gli inviati speciali americano e cinese: Richard Olson e Deng Xijun. Dietro le quinte, il potentissimo capo delle forze armate pachistane Raheel Sharif, l’architetto di questa nuova stagione negoziale. Tutti favorevoli al processo di pace ma, per ora, senza i talebani, rimasti il convitato di pietra di questo incontro quadrangolare dove erano presenti i principali protagonisti della guerra afgana. Un incontro (il primo) tra governo e talebani si era tenuto in Pakistan in luglio ma tutto era poi collassato sia per l’annuncio della morte di mullah Omar sia per le polemiche interne ai talebani sull’opportunità di parteciparvi. Infine, ai colloqui era seguita un’ondata di attentati e stragi, spesso senza rivendicazione, che avevano fatto montare un fortissimo sentimento anti pachistano negli afgani: clima che ha richiesto mesi per ricucire lo strappo.

L’inviato speciale per l’Afghanistan
ambasciatore Deng Xijun.
I cinesi stanno giocando la partita

Per ora dunque c’è almeno un accordo di principio e una “road map” da negoziare il 18 gennaio assieme forse a una lista top secret in cui il Pakistan avrebbe messo i nomi dei talebani disposti al dialogo. Tra loro ci sarebbe anche il capo, mullah Mansur, che viene considerato più malleabile di Omar.
 Ma sono solo illazioni e per ora restano una notizia  senza conferme da parte del movimento in turbante.

Alla vigilia dell’appuntamento di Islamabad ha intanto visto la luce l’ennesimo rapporto sulla situazione militare. Si tratta, ha scritto il magazine tedesco Der Spiegel, di un dossier “segreto” della Nato di cui il settimanale è venuto in possesso. Il rapporto, in totale controtendenza rispetto a quello del Pentagono presentato al Congresso americano a fine anno, non risparmia nulla alle forze di sicurezza afgane, incapaci, secondo la Nato, di far fronte alla minaccia talebana. Spiegel scrive che secondo l’Alleanza solo uno dei 101 battaglioni di fanteria è “pronto per il combattimento” e che dieci battaglioni non sarebbero nemmeno in grado di essere operativi. Benzina sul fuoco poi ce la mette proprio un americano, il generale John Campbell che dall’agosto 2014 è al comando della missione Resolute Support che ha sostituito Isaf con soli compiti di addestramento. I talebani avrebbero il controllo di fette di Paese sempre più vaste mentre – aggiunge il rapporto – e continua a salire il numero dei morti: nel solo 2015 oltre 8mila vittime militari afgane (una media di 22 al giorno) con perdite aumentate del 42% rispetto all’anno prima.

Alla Nato non sono soddisfatti: mirano
a far crescere Resolute Support?

I conti non tornano se il rapporto del Pentagono era assai più moderato nel giudizio e se la stessa missione di sostegno e formazione della Nato finisce, indirettamente, per ammettere di non essere in grado di fornire l’addestramento necessario. Viene da chiedersi se dietro al dossier “top secret”, che è però finito sui giornali, non ci sia il desiderio di aumentare Resolute Support chiedendo ai Paesi aderenti di far crescere i propri contingenti. Certo il problema esiste: proprio ieri il presidente della Commissione sicurezza dalla Camera, Mirdad Nejrabi, ha accusato il governo di non essere in grado di gestire la guerra. Accusa accompagnata dalle rivelazioni di Karim Atal a capo del Consiglio provinciale dell’Helmand del Sud secondo cui il 40% dei soldati di stanza nell’area sarebbero “fantasmi” i cui salari andrebbero nelle tasche dei comandanti. E ce n’è ancora per il presidente Ghani, sotto schiaffo perché accusato di mettere in piedi commissioni di indagine che non approdano a nulla, come nel caso della caduta di Kunduz in mano ai talebani l’anno scorso sulla quale ancora si aspetta un rapporto dettagliato. Inverno difficile e una primavera che rischia di portare, con la stagione secca, nuovi guai sul piano militare e su quello politico.

Il processo di pace "must go on" (per ora senza i talebani)

Pace in salita. La scalata
la guida il Pakistan

Per adesso la montagna ha partorito un topolino ma non era immaginabile andare oltre. Riunitosi ieri per la prima volta a Islamabad, il Quadrilateral Coordination Committee, che comprende Afghanistan, Pakistan, Cina e Usa, ha fissato il suo secondo incontro a Kabul fra una settimana e ha sopratutto messo nero su bianco che il negoziato di pace coi talebani deve andare avanti. Come? Si vedrà.

Alla riunione c’erano per il Pakistan il ministro degli Esteri Aizaz Ahmad Chaudhry e Sartaj Aziz, ascoltato consigliere del premier Nawaz Sharif, per l’Afghanistan il vice ministro degli esteri Hekmat Khalil Karzai, e gli inviati speciali americano e cinese: Richard Olson e Deng Xijun. Dietro le quinte, il potentissimo capo delle forze armate pachistane Raheel Sharif, l’architetto di questa nuova stagione negoziale. Tutti favorevoli al processo di pace ma, per ora, senza i talebani, rimasti il convitato di pietra di questo incontro quadrangolare dove erano presenti i principali protagonisti della guerra afgana. Un incontro (il primo) tra governo e talebani si era tenuto in Pakistan in luglio ma tutto era poi collassato sia per l’annuncio della morte di mullah Omar sia per le polemiche interne ai talebani sull’opportunità di parteciparvi. Infine, ai colloqui era seguita un’ondata di attentati e stragi, spesso senza rivendicazione, che avevano fatto montare un fortissimo sentimento anti pachistano negli afgani: clima che ha richiesto mesi per ricucire lo strappo.

L’inviato speciale per l’Afghanistan
ambasciatore Deng Xijun.
I cinesi stanno giocando la partita

Per ora dunque c’è almeno un accordo di principio e una “road map” da negoziare il 18 gennaio assieme forse a una lista top secret in cui il Pakistan avrebbe messo i nomi dei talebani disposti al dialogo. Tra loro ci sarebbe anche il capo, mullah Mansur, che viene considerato più malleabile di Omar.
 Ma sono solo illazioni e per ora restano una notizia  senza conferme da parte del movimento in turbante.

Alla vigilia dell’appuntamento di Islamabad ha intanto visto la luce l’ennesimo rapporto sulla situazione militare. Si tratta, ha scritto il magazine tedesco Der Spiegel, di un dossier “segreto” della Nato di cui il settimanale è venuto in possesso. Il rapporto, in totale controtendenza rispetto a quello del Pentagono presentato al Congresso americano a fine anno, non risparmia nulla alle forze di sicurezza afgane, incapaci, secondo la Nato, di far fronte alla minaccia talebana. Spiegel scrive che secondo l’Alleanza solo uno dei 101 battaglioni di fanteria è “pronto per il combattimento” e che dieci battaglioni non sarebbero nemmeno in grado di essere operativi. Benzina sul fuoco poi ce la mette proprio un americano, il generale John Campbell che dall’agosto 2014 è al comando della missione Resolute Support che ha sostituito Isaf con soli compiti di addestramento. I talebani avrebbero il controllo di fette di Paese sempre più vaste mentre – aggiunge il rapporto – e continua a salire il numero dei morti: nel solo 2015 oltre 8mila vittime militari afgane (una media di 22 al giorno) con perdite aumentate del 42% rispetto all’anno prima.

Alla Nato non sono soddisfatti: mirano
a far crescere Resolute Support?

I conti non tornano se il rapporto del Pentagono era assai più moderato nel giudizio e se la stessa missione di sostegno e formazione della Nato finisce, indirettamente, per ammettere di non essere in grado di fornire l’addestramento necessario. Viene da chiedersi se dietro al dossier “top secret”, che è però finito sui giornali, non ci sia il desiderio di aumentare Resolute Support chiedendo ai Paesi aderenti di far crescere i propri contingenti. Certo il problema esiste: proprio ieri il presidente della Commissione sicurezza dalla Camera, Mirdad Nejrabi, ha accusato il governo di non essere in grado di gestire la guerra. Accusa accompagnata dalle rivelazioni di Karim Atal a capo del Consiglio provinciale dell’Helmand del Sud secondo cui il 40% dei soldati di stanza nell’area sarebbero “fantasmi” i cui salari andrebbero nelle tasche dei comandanti. E ce n’è ancora per il presidente Ghani, sotto schiaffo perché accusato di mettere in piedi commissioni di indagine che non approdano a nulla, come nel caso della caduta di Kunduz in mano ai talebani l’anno scorso sulla quale ancora si aspetta un rapporto dettagliato. Inverno difficile e una primavera che rischia di portare, con la stagione secca, nuovi guai sul piano militare e su quello politico.

Il processo di pace "must go on" (per ora senza i talebani)

Pace in salita. La scalata
la guida il Pakistan

Per adesso la montagna ha partorito un topolino ma non era immaginabile andare oltre. Riunitosi ieri per la prima volta a Islamabad, il Quadrilateral Coordination Committee, che comprende Afghanistan, Pakistan, Cina e Usa, ha fissato il suo secondo incontro a Kabul fra una settimana e ha sopratutto messo nero su bianco che il negoziato di pace coi talebani deve andare avanti. Come? Si vedrà.

Alla riunione c’erano per il Pakistan il ministro degli Esteri Aizaz Ahmad Chaudhry e Sartaj Aziz, ascoltato consigliere del premier Nawaz Sharif, per l’Afghanistan il vice ministro degli esteri Hekmat Khalil Karzai, e gli inviati speciali americano e cinese: Richard Olson e Deng Xijun. Dietro le quinte, il potentissimo capo delle forze armate pachistane Raheel Sharif, l’architetto di questa nuova stagione negoziale. Tutti favorevoli al processo di pace ma, per ora, senza i talebani, rimasti il convitato di pietra di questo incontro quadrangolare dove erano presenti i principali protagonisti della guerra afgana. Un incontro (il primo) tra governo e talebani si era tenuto in Pakistan in luglio ma tutto era poi collassato sia per l’annuncio della morte di mullah Omar sia per le polemiche interne ai talebani sull’opportunità di parteciparvi. Infine, ai colloqui era seguita un’ondata di attentati e stragi, spesso senza rivendicazione, che avevano fatto montare un fortissimo sentimento anti pachistano negli afgani: clima che ha richiesto mesi per ricucire lo strappo.

L’inviato speciale per l’Afghanistan
ambasciatore Deng Xijun.
I cinesi stanno giocando la partita

Per ora dunque c’è almeno un accordo di principio e una “road map” da negoziare il 18 gennaio assieme forse a una lista top secret in cui il Pakistan avrebbe messo i nomi dei talebani disposti al dialogo. Tra loro ci sarebbe anche il capo, mullah Mansur, che viene considerato più malleabile di Omar.
 Ma sono solo illazioni e per ora restano una notizia  senza conferme da parte del movimento in turbante.

Alla vigilia dell’appuntamento di Islamabad ha intanto visto la luce l’ennesimo rapporto sulla situazione militare. Si tratta, ha scritto il magazine tedesco Der Spiegel, di un dossier “segreto” della Nato di cui il settimanale è venuto in possesso. Il rapporto, in totale controtendenza rispetto a quello del Pentagono presentato al Congresso americano a fine anno, non risparmia nulla alle forze di sicurezza afgane, incapaci, secondo la Nato, di far fronte alla minaccia talebana. Spiegel scrive che secondo l’Alleanza solo uno dei 101 battaglioni di fanteria è “pronto per il combattimento” e che dieci battaglioni non sarebbero nemmeno in grado di essere operativi. Benzina sul fuoco poi ce la mette proprio un americano, il generale John Campbell che dall’agosto 2014 è al comando della missione Resolute Support che ha sostituito Isaf con soli compiti di addestramento. I talebani avrebbero il controllo di fette di Paese sempre più vaste mentre – aggiunge il rapporto – e continua a salire il numero dei morti: nel solo 2015 oltre 8mila vittime militari afgane (una media di 22 al giorno) con perdite aumentate del 42% rispetto all’anno prima.

Alla Nato non sono soddisfatti: mirano
a far crescere Resolute Support?

I conti non tornano se il rapporto del Pentagono era assai più moderato nel giudizio e se la stessa missione di sostegno e formazione della Nato finisce, indirettamente, per ammettere di non essere in grado di fornire l’addestramento necessario. Viene da chiedersi se dietro al dossier “top secret”, che è però finito sui giornali, non ci sia il desiderio di aumentare Resolute Support chiedendo ai Paesi aderenti di far crescere i propri contingenti. Certo il problema esiste: proprio ieri il presidente della Commissione sicurezza dalla Camera, Mirdad Nejrabi, ha accusato il governo di non essere in grado di gestire la guerra. Accusa accompagnata dalle rivelazioni di Karim Atal a capo del Consiglio provinciale dell’Helmand del Sud secondo cui il 40% dei soldati di stanza nell’area sarebbero “fantasmi” i cui salari andrebbero nelle tasche dei comandanti. E ce n’è ancora per il presidente Ghani, sotto schiaffo perché accusato di mettere in piedi commissioni di indagine che non approdano a nulla, come nel caso della caduta di Kunduz in mano ai talebani l’anno scorso sulla quale ancora si aspetta un rapporto dettagliato. Inverno difficile e una primavera che rischia di portare, con la stagione secca, nuovi guai sul piano militare e su quello politico.

A Oriente del Califfo: Daesh e il Paese dei Thai /2

Benvenuti in Thailandia: un’immagine
di serenità offerta dalla compagnia di bandiera

Agli inizi del dicembre scorso i giornali tailandesi hanno reso pubblico un memo che risaliva al 27 novembre con cui l’anti terrorismo avvisava i comandi di polizia che, secondo l’intelligence di Mosca (Fsb), tra la metà e la fine di ottobre alcuni militanti siriani erano entrati in Thailandia allo scopo di attaccare turisti russi. La polizia non deve aver preso molto alla lettera le informazioni del Fsb o perlomeno, come ha poi spiegato pubblicamente, non era in grado di confermare la minaccia. Eppure il Fsb era stato molto preciso: si trattava di una decina di uomini che viaggiavano separatamente. Due si erano diretti a Bangkok, due a Phuket, altri due verso una destinazione sconosciuta e altri quattro a Pattaya, con Puket una delle più note località turistiche del Paese. Le presenze russe in Thailandia superano largamente il milione di turisti l’anno. Nel 2013 ne son venuti un milione e mezzo.

Per ora non è successo nulla ai visitatori russi e anche l’attentato che in agosto ha ucciso a Bangkok una ventina di persone – in un tempietto nel centro della capitale frequentato dai turisti – non sarebbe stato organizzato da islamisti ma da musulmani uiguri (della regione occidentale cinese dove è forte un movimento separatista) che però non sarebbero legati a movimenti politici ma al traffico di persone. Già dalle prime ore la polizia aveva escluso la pista islamica ma non è chiaro se ciò non risponda più al desiderio di tenere bassa l’attenzione che non alla realtà dei fatti. Sono troppo vicine le ferite di una guerra con la minoranza musulmana che abita le province del Sud, anche se ormai è passato qualche anno da una stagione violentissima di attentati, assalti e durissima repressione, pur se la tensione resta elevata. Per Bangkok il movimento islamico autonomista del Sud rimane un pericolo ed è abbastanza chiaro il timore che quella regione possa essere un possibile bacino di reclutamenti e nuovi problemi.

Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat, le cinque province dove
 vive una minoranza musulmana per lo più
 di origine malese: circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi 

La storia è vecchia, anzi antica. Nel Sud della Thailandia ci sono cinque province (Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat) dove vive una minoranza musulmana per lo più di origine malese, circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi per l’80% thai e per il 95% buddisti. Yala, Pattani e Narathiwat – aree, che con altre oggi sotto la Malaysia, formavano il sultanato semi indipendente di Pattani dal 1909 definitivamente tailandese – sono le più turbolente: lì sono nati i primi movimenti indipendentisti nella seconda metà del Novecento anche se si deve arrivare al 2001 per vedere un risveglio recente del separatismo. Con azioni cui il governo nel 2005 (e dopo una durissima repressione) ha risposto con la legge marziale e i pieni poteri nel 2006 all’esercito. Alternando bastone a carota, Bangkok ha ricompensato nel 2012 i familiari delle vittime di un’ondata di violenze che, benché non abbia più visto azioni eclatanti, non è affatto diminuita. Il Bangkok Post, nel 2012, ha reso note le stime delle vittime di quasi dieci anni di guerra: otre 5.200 morti e quasi 9mila feriti. Tra i decessi: 4.215 civili, 351 soldati, 280 poliziotti, sette monaci e 242 “sospetti insorgenti”. Una guerra che potrebbe piacere a Daesh.

La prima puntata è  uscita ieri

A Oriente del Califfo: Daesh e il Paese dei Thai /2

Benvenuti in Thailandia: un’immagine
di serenità offerta dalla compagnia di bandiera

Agli inizi del dicembre scorso i giornali tailandesi hanno reso pubblico un memo che risaliva al 27 novembre con cui l’anti terrorismo avvisava i comandi di polizia che, secondo l’intelligence di Mosca (Fsb), tra la metà e la fine di ottobre alcuni militanti siriani erano entrati in Thailandia allo scopo di attaccare turisti russi. La polizia non deve aver preso molto alla lettera le informazioni del Fsb o perlomeno, come ha poi spiegato pubblicamente, non era in grado di confermare la minaccia. Eppure il Fsb era stato molto preciso: si trattava di una decina di uomini che viaggiavano separatamente. Due si erano diretti a Bangkok, due a Phuket, altri due verso una destinazione sconosciuta e altri quattro a Pattaya, con Puket una delle più note località turistiche del Paese. Le presenze russe in Thailandia superano largamente il milione di turisti l’anno. Nel 2013 ne son venuti un milione e mezzo.

Per ora non è successo nulla ai visitatori russi e anche l’attentato che in agosto ha ucciso a Bangkok una ventina di persone – in un tempietto nel centro della capitale frequentato dai turisti – non sarebbe stato organizzato da islamisti ma da musulmani uiguri (della regione occidentale cinese dove è forte un movimento separatista) che però non sarebbero legati a movimenti politici ma al traffico di persone. Già dalle prime ore la polizia aveva escluso la pista islamica ma non è chiaro se ciò non risponda più al desiderio di tenere bassa l’attenzione che non alla realtà dei fatti. Sono troppo vicine le ferite di una guerra con la minoranza musulmana che abita le province del Sud, anche se ormai è passato qualche anno da una stagione violentissima di attentati, assalti e durissima repressione, pur se la tensione resta elevata. Per Bangkok il movimento islamico autonomista del Sud rimane un pericolo ed è abbastanza chiaro il timore che quella regione possa essere un possibile bacino di reclutamenti e nuovi problemi.

Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat, le cinque province dove
 vive una minoranza musulmana per lo più
 di origine malese: circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi 

La storia è vecchia, anzi antica. Nel Sud della Thailandia ci sono cinque province (Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat) dove vive una minoranza musulmana per lo più di origine malese, circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi per l’80% thai e per il 95% buddisti. Yala, Pattani e Narathiwat – aree, che con altre oggi sotto la Malaysia, formavano il sultanato semi indipendente di Pattani dal 1909 definitivamente tailandese – sono le più turbolente: lì sono nati i primi movimenti indipendentisti nella seconda metà del Novecento anche se si deve arrivare al 2001 per vedere un risveglio recente del separatismo. Con azioni cui il governo nel 2005 (e dopo una durissima repressione) ha risposto con la legge marziale e i pieni poteri nel 2006 all’esercito. Alternando bastone a carota, Bangkok ha ricompensato nel 2012 i familiari delle vittime di un’ondata di violenze che, benché non abbia più visto azioni eclatanti, non è affatto diminuita. Il Bangkok Post, nel 2012, ha reso note le stime delle vittime di quasi dieci anni di guerra: otre 5.200 morti e quasi 9mila feriti. Tra i decessi: 4.215 civili, 351 soldati, 280 poliziotti, sette monaci e 242 “sospetti insorgenti”. Una guerra che potrebbe piacere a Daesh.

La prima puntata è  uscita ieri

A Oriente del Califfo: Daesh e il Paese dei Thai /2

Benvenuti in Thailandia: un’immagine
di serenità offerta dalla compagnia di bandiera

Agli inizi del dicembre scorso i giornali tailandesi hanno reso pubblico un memo che risaliva al 27 novembre con cui l’anti terrorismo avvisava i comandi di polizia che, secondo l’intelligence di Mosca (Fsb), tra la metà e la fine di ottobre alcuni militanti siriani erano entrati in Thailandia allo scopo di attaccare turisti russi. La polizia non deve aver preso molto alla lettera le informazioni del Fsb o perlomeno, come ha poi spiegato pubblicamente, non era in grado di confermare la minaccia. Eppure il Fsb era stato molto preciso: si trattava di una decina di uomini che viaggiavano separatamente. Due si erano diretti a Bangkok, due a Phuket, altri due verso una destinazione sconosciuta e altri quattro a Pattaya, con Puket una delle più note località turistiche del Paese. Le presenze russe in Thailandia superano largamente il milione di turisti l’anno. Nel 2013 ne son venuti un milione e mezzo.

Per ora non è successo nulla ai visitatori russi e anche l’attentato che in agosto ha ucciso a Bangkok una ventina di persone – in un tempietto nel centro della capitale frequentato dai turisti – non sarebbe stato organizzato da islamisti ma da musulmani uiguri (della regione occidentale cinese dove è forte un movimento separatista) che però non sarebbero legati a movimenti politici ma al traffico di persone. Già dalle prime ore la polizia aveva escluso la pista islamica ma non è chiaro se ciò non risponda più al desiderio di tenere bassa l’attenzione che non alla realtà dei fatti. Sono troppo vicine le ferite di una guerra con la minoranza musulmana che abita le province del Sud, anche se ormai è passato qualche anno da una stagione violentissima di attentati, assalti e durissima repressione, pur se la tensione resta elevata. Per Bangkok il movimento islamico autonomista del Sud rimane un pericolo ed è abbastanza chiaro il timore che quella regione possa essere un possibile bacino di reclutamenti e nuovi problemi.

Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat, le cinque province dove
 vive una minoranza musulmana per lo più
 di origine malese: circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi 

La storia è vecchia, anzi antica. Nel Sud della Thailandia ci sono cinque province (Satun, Songkhla Yala, Pattani e Narathiwat) dove vive una minoranza musulmana per lo più di origine malese, circa il 5 % dei 68 milioni di tailandesi per l’80% thai e per il 95% buddisti. Yala, Pattani e Narathiwat – aree, che con altre oggi sotto la Malaysia, formavano il sultanato semi indipendente di Pattani dal 1909 definitivamente tailandese – sono le più turbolente: lì sono nati i primi movimenti indipendentisti nella seconda metà del Novecento anche se si deve arrivare al 2001 per vedere un risveglio recente del separatismo. Con azioni cui il governo nel 2005 (e dopo una durissima repressione) ha risposto con la legge marziale e i pieni poteri nel 2006 all’esercito. Alternando bastone a carota, Bangkok ha ricompensato nel 2012 i familiari delle vittime di un’ondata di violenze che, benché non abbia più visto azioni eclatanti, non è affatto diminuita. Il Bangkok Post, nel 2012, ha reso note le stime delle vittime di quasi dieci anni di guerra: otre 5.200 morti e quasi 9mila feriti. Tra i decessi: 4.215 civili, 351 soldati, 280 poliziotti, sette monaci e 242 “sospetti insorgenti”. Una guerra che potrebbe piacere a Daesh.

La prima puntata è  uscita ieri

A Oriente del Califfo: l’Asia nella strategia di Daesh/1

«Amirul-Mu’minin ha detto: O musulmani…alzate la testa che oggi – per grazia di Allah – disponete di un Califfato che restituirà la vostra dignità, i vostri diritti e che vi dà una leadership. E’ uno Stato in cui sono fratelli l’arabo e il non arabo, il bianco e il nero, l’orientale e l’occidentale. Un Califfato per il caucasico, l’indiano, il cinese, il siriano, l’iracheno, lo yemenita, l’egiziano, il magrebino, l’americano, il francese, il tedesco e l’australiano».

Il messaggio è chiaro e affidato a Dabiq, il magazine mensile di Daesh che non è solo un foglio di propaganda patinata ma anche la summa teoretica dello Stato islamico. Uno Stato i cui confini non sono chiari ma che, stando a queste parole, coinvolge tutti i bravi musulmani ovunque abitino, da Tunisi a Dacca, da Parigi a Giacarta. Non di meno il suo progetto di espansione territoriale non è molto chiaro. Il cuore del califfato sta a Raqqa, nello “Sham”, e i territori amministrati sono per ora solo tra Irak e Siria. Spiega però ancora Dabiq: «Lo Stato islamico è qui per restare. In Sham e in Iraq. Nel Khorasan e in Al Qawqaz (parti dell’Asia centrale e del Caucaso)… dalla Tunisia fino al Bengala, anche se i murtaddin (eretici) lo disprezzano. Il Khilafah (Califfato) continuerà ad espandersi ulteriormente fino a quando la sua ombra si estenderà… su tutte le terre raggiunte dal giorno e dalla notte»*. Il riferimento è appena un po’ più chiaro e comprende aree già conquistate e altre più lontane: il Magreb, il Bengala (quindi il Bangladesh?) e il Khorasan, i cui confini non sono granché delineati.

Espansione a Est

La rivista teorica di Daesh: non solo
propaganda. Sopra Al Bagdadi

Quel che è certo è che c’è un piano di espansione a Est e a Ovest di Raqqa. E’ facile immaginare che i luoghi dove già è in corso un conflitto e dove la tensione è molto alta (il confine afgano pachistano, la Libia, il Sinai o le regioni dominate da Boko Haram in Africa) siano i luoghi prescelti dove accendere la miccia di un nuovo jihad, spodestando quel che resta di Al Qaeda e infiltrando i vari movimenti jihadisti. Ma la scintilla deve accendersi anche altrove: dove esistono conflitti più o meno dormienti, come nel Caucaso, e dove sono attivi gruppi jihadsiti storici, come nelle Filippine. Ed forse proprio in quest’area – a Oriente del califfo – che vale la pena di guardare: lì dove ci sono le tre aree musulmane più popolose del pianeta (l’Indonesia, l’India e il Pakistan), dove può esser facile reclutare e dove i foreign fighter, una volta tornati a casa, possono diffondere il verbo di Al Bagdadi. Del resto, scrive Katy Oh Hassig nell’introduzione all’Asian Conflict Report 2015 dedicato all’Isis dal Centro per le politiche della sicurezza di Ginevra (Gcsp): «… la minaccia dell’estremismo violento è ovunque. I confini politici e regionali, che una volta fornivano la barriera naturale e istituzionale alla diffusione di ideologie estremiste, sono ormai storia. E’ la globalizzazione del crimine e del terrorismo». Del terrore senza frontiere.

Il Grande Khorasan: Afghanistan, Pakistan, Asia centrale

Una veccia mappa della Durand Line tra Afghanistan
e  Pakistan: luogo di  elezione

In realtà il califfato dell’antichità non è mai arrivato tanto lontano quanto vorrebbe Al Bagdadi: non c’erano bengalesi o indonesiani nelle mappe delle regioni orientali che la Storia identifica col “Grande Khorasan”, una regione storica (quella geografica sta oggi nell’odierno Iran) che si sarebbe spinta sin nella valle dell’Indo e nel Sind, oggi provincia pachistana. Dal Khorasan partirebbe la conquista asiatica del califfo di Raqqa che vorrebbe però andar oltre quella vasta area che si estendeva dall’odierno Iran alle terre dei Pashtun e, a Nord, in alcune ex repubbliche sovietiche oggi indipendenti e alla riscoperta dell’islam delle origini. Da lì a unire la lotta di liberazione nel Caucaso dall’ateismo del regime di Putin il passo sarebbe breve. E’ una zona sotto osservazione ovviamente e dove Daesh comincia a essere presente sopratutto in Pakistan e Afghanistan. Ma nonostante una presenza che ha già rivendicato attentati e piccole azioni dimostrative, Daesh ha anche molti nemici. Innanzi tutto i talebani afgani, decisamente contrari ai piani espansivi di Daesh che recluta soprattutto tra i guerriglieri che il movimento ha cacciato per devianza criminale più che ideologica. Bacino di reclutamento sono anche i combattenti centroasiatici, caucasici e cinesi rifugiatisi in Pakistan ma adesso sotto schiaffo da un operativo militare di Islamabad il cui obiettivo è, da un anno e mezzo, quello di smantellare gli insediamenti della guerriglia straniera. Quanto ai gruppi jihadisti pachistani, Daesh è riuscito a spaccare i talebani del Tehrek e Taleban Pakistan (Ttp) ma per ora i consensi sono pochi. Secondo il ricercatore asiatico Abdul Basit, in Pakistan ci sono tre categorie di militanti: chi apertamente è contrario a Daesh (Al Qaeda nel subcontinente indiano e la leadership del Ttp); chi lo abbraccia (come i fuoriusciti dal Ttp Jamaatul Ahrar e Jundullah Pakistan); e quelli che per ora stanno a guardare, come alcuni gruppi attivi anche in Kashmir: Lashkar e Taiba e Jaish e Muhammad. Più, aggiungiamo noi, i gruppi settari anti sciiti, molto ricettivi al messaggio di Daesh.

India e Bangladesh

Il grande colosso asiatico, patria di 180 milioni di musulmani, si è svegliato quando nell’agosto del

2014 si è saputo che quattro abitanti del Maharashtra, lo Stato di Mumbay, avevano raggiunto la Siria. Ma visto che nemmeno Al Qaeda aveva fatto molti proseliti, il califfato non è sembrata una preoccupazione. Semmai, dice qualche analista, un altro modo per accusare il Pakistan che ne sarebbe il vero incubatore. Stando ai giornali indiani, non sarebbero infatti che un paio di dozzine i foreign fighter dell’Unione che combattono in Siria anche se, nonostante il numero esiguo, avrebbero già contabilizzato molte vittime: una notizia che caldeggia l’ipotesi che gli arabi di Raqqa si servano dei non arabi per le operazioni più rischiose, considerandoli – alla fine – dei musulmani di serie B. Qualche simpatia per Daesh comunque potrebbe serpeggiare tra i membri di organizzazioni filo pachistane come gli Indian Mujahedin o tra gli attivisti dello Students Islamic Movement of India. Ma Daesh più che una minaccia – anche se documenti del califfato dimostrerebbero l’intenzione di investire molto in India – sembra solo una remota possibilità. Diverse le cose in Bangladesh, dove Daesh ha rivendicato l’assassinio dell’italiano Cesare Tavella e del giapponese Kunio Hoshi, anche se non è chiaro quanto il califfato, che si è attribuito anche l’attentato al sacerdote italiano Piero Parolari, abbia un legame reale tra i movimenti jihadisti o se qualcuno fra loro si sia soltanto appropriato del brand. Dabiq ha dedicato un luno articolo al Bengala in cui sottolinea la distanza tra i veri mujahedin e la Jamaat e islami, partito islamista istituzionale. Alcuni gruppi al bando (Ansarullah Bangla Team e Jamaat ul Mujahidden Bangladesh) potrebbero esserne i referenti. Ma Dabiq non li menziona.

Malaysia e Singapore

Da un anno e mezzo Daesh avrebbe istituito in Siria un’unità malese-indonesiana chiamata Khatibah Nusantara e una scuola di formazione per ragazzi che parlano malese. I materiali in questa lingua sul web si sprecano e i governi han preso contro misure. In Malaysia (i foreign fighter malesi sarebbero un centinaio e secondo l’intelligence nel Paese ci sarebbero 50mila simpatizzanti di Daesh) il governo è corso ai ripari col pugno duro: decine di arresti per supposti legami con Daesh, la denuncia di un attentato sventato a Kuala Lumpur ma soprattutto una nuova legge mirata che permette arresti indiscriminati, la Prevention of Terrorism Act (Pota), criticata perché fotocopia di una vecchia altrettanto severa e appena abolita nel 2012. Un’altra legge consente la revoca del passaporto. La tensione è salita dopo il sequestro e l’uccisione di un uomo d’affari malaysiano giustiziato dal gruppo filippino Abu Sayyaf. La preoccupazione è forte.
Quanto alla piccola città Stato di Singapore, i numeri sono piccolissimi: due famiglie soltanto sarebbero state “coinvolte” da Daesh.

Isole nella corrente: Filippine, Indonesia, Maldive

Il Califfato omayyde nel 750 dc. Ispirazione, ma il progetto
di Daesh va ben oltre, a Ovest e a Est

Dei 30mila non arabi che pare combattano per Daesh, quelli del Sudest asiatico non sono tanti e in molti casi i Paesi di provenienza ritenevano che le stagioni qaediste (vedi la bomba a Bali nel 2002) fossero acqua passata. Il Council for Asian Terrorism Research (Catr), fondato nel 2005 con aiuto americano e contributi da diversi Paesi asiatici, non è stato più rifinanziato; il caso tailandese (vedi articolo a fianco) sembrava rientrato e nelle Filippine si era finalmente avviato un processo di pace. Ma i 5 o 600 combattenti indonesiani che avrebbero raggiunto Raqqa, lo stallo del processo negoziale a Manila e la ripresa dei sequestri nel Sud delle Filippine, i numeri della violenza in Thailandia e gli attentati sventati in Malaysia, hanno fatto riemergere la paura di un contagio. Da alcuni sfruttato politicamente (è il caso dei nazionalisti birmani), da altri temuto come le scintilla di una nuova minaccia che potrebbe tornare col rientro dei foreign fighter dal campo di battaglia. Gli indonesiani ad esempio han scelto la linea dura: chi va in Siria non potrà più tornare a casa e i maldiviani si apprestano a fare altrettanto. Per ora però nel Paese delle 13mila isole non si è andati più in là di manifestazioni pubbliche di sostegno a Daesh – come quella organizzata a Giacarta dal gruppo Islamic Sharia Activists Forum (Faksi) – o dell’adesione di vecchi maestri di jihadismo che hanno sposato ufficialmente Daesh: è il caso di Abu Bakar Bashir, l’ex leader – in prigione – della Jemaah Islamiyah. Una scelta che non è piaciuta a tutti i membri del vecchio gruppo qaedista. Ad occuparsi di questi problemi c’è comunque Densus 88, un gruppo d’élite anti terrorismo con la mano pesante e che in passato è stato accusato di gravi violazioni. Ma non c’è solo repressione. L’Indonesia ha una tradizione di islam moderato che vede i gruppi più importanti del Paese condannare Daesh e venir coinvolti dal governo per evitare che il contagio degeneri.

Nelle Filippine le cose son più complicate: nelle isole meridionali, dove è forte il sentimento indipendentista, lo stallo nel negoziato tra governo e separatisti islamici finisce per lasciar spazio ai gruppi islamisti più marginali e agguerriti che spesso sconfinano nel banditismo, come Abu Sayyaf o il Bangsamoro Islamic Freedom Fighters, che in un video hanno dichiarato l’adesione a Daesh. Quanto i legami siano forti e reali resta da dimostrare, ma certo l’area dove sono attivi si presta a nascondigli e campi di addestramento, Un centinaio gli “expat” verso il Medio oriente.

Australia

L‘Australia infine, per niente musulmana ma terra d’immigrazione. Oltre un centinaio i reclutati da Daesh, alcune decine dei quali rimasti sul terreno. Oggi, se si è legati a gruppi terroristici, si perde la doppia nazionalità e l’eccesso di zelo non manca. Quando il governo ha messo nel mirino il gruppo islamista non violento Hizb ut Tahir, c’è chi l’ha tacciato di paranoia ingiustificata. Mettere tutti nello stesso sacco non serve. Specie se gruppi come Hizb ut Tahir, sotto accusa anche in Asia centrale dov’è molto attiva, possono essere uno degli antidoti a Daesh, perlomeno sul piano della dottrina.
(segue:  domani Daesh e il Paese dei Thai)

* Le parentesi sono nel testo originale

Questo articolo è usciato anche su Pagina99

A Oriente del Califfo: l’Asia nella strategia di Daesh/1

«Amirul-Mu’minin ha detto: O musulmani…alzate la testa che oggi – per grazia di Allah – disponete di un Califfato che restituirà la vostra dignità, i vostri diritti e che vi dà una leadership. E’ uno Stato in cui sono fratelli l’arabo e il non arabo, il bianco e il nero, l’orientale e l’occidentale. Un Califfato per il caucasico, l’indiano, il cinese, il siriano, l’iracheno, lo yemenita, l’egiziano, il magrebino, l’americano, il francese, il tedesco e l’australiano».

Il messaggio è chiaro e affidato a Dabiq, il magazine mensile di Daesh che non è solo un foglio di propaganda patinata ma anche la summa teoretica dello Stato islamico. Uno Stato i cui confini non sono chiari ma che, stando a queste parole, coinvolge tutti i bravi musulmani ovunque abitino, da Tunisi a Dacca, da Parigi a Giacarta. Non di meno il suo progetto di espansione territoriale non è molto chiaro. Il cuore del califfato sta a Raqqa, nello “Sham”, e i territori amministrati sono per ora solo tra Irak e Siria. Spiega però ancora Dabiq: «Lo Stato islamico è qui per restare. In Sham e in Iraq. Nel Khorasan e in Al Qawqaz (parti dell’Asia centrale e del Caucaso)… dalla Tunisia fino al Bengala, anche se i murtaddin (eretici) lo disprezzano. Il Khilafah (Califfato) continuerà ad espandersi ulteriormente fino a quando la sua ombra si estenderà… su tutte le terre raggiunte dal giorno e dalla notte»*. Il riferimento è appena un po’ più chiaro e comprende aree già conquistate e altre più lontane: il Magreb, il Bengala (quindi il Bangladesh?) e il Khorasan, i cui confini non sono granché delineati.

Espansione a Est

La rivista teorica di Daesh: non solo
propaganda. Sopra Al Bagdadi

Quel che è certo è che c’è un piano di espansione a Est e a Ovest di Raqqa. E’ facile immaginare che i luoghi dove già è in corso un conflitto e dove la tensione è molto alta (il confine afgano pachistano, la Libia, il Sinai o le regioni dominate da Boko Haram in Africa) siano i luoghi prescelti dove accendere la miccia di un nuovo jihad, spodestando quel che resta di Al Qaeda e infiltrando i vari movimenti jihadisti. Ma la scintilla deve accendersi anche altrove: dove esistono conflitti più o meno dormienti, come nel Caucaso, e dove sono attivi gruppi jihadsiti storici, come nelle Filippine. Ed forse proprio in quest’area – a Oriente del califfo – che vale la pena di guardare: lì dove ci sono le tre aree musulmane più popolose del pianeta (l’Indonesia, l’India e il Pakistan), dove può esser facile reclutare e dove i foreign fighter, una volta tornati a casa, possono diffondere il verbo di Al Bagdadi. Del resto, scrive Katy Oh Hassig nell’introduzione all’Asian Conflict Report 2015 dedicato all’Isis dal Centro per le politiche della sicurezza di Ginevra (Gcsp): «… la minaccia dell’estremismo violento è ovunque. I confini politici e regionali, che una volta fornivano la barriera naturale e istituzionale alla diffusione di ideologie estremiste, sono ormai storia. E’ la globalizzazione del crimine e del terrorismo». Del terrore senza frontiere.

Il Grande Khorasan: Afghanistan, Pakistan, Asia centrale

Una veccia mappa della Durand Line tra Afghanistan
e  Pakistan: luogo di  elezione

In realtà il califfato dell’antichità non è mai arrivato tanto lontano quanto vorrebbe Al Bagdadi: non c’erano bengalesi o indonesiani nelle mappe delle regioni orientali che la Storia identifica col “Grande Khorasan”, una regione storica (quella geografica sta oggi nell’odierno Iran) che si sarebbe spinta sin nella valle dell’Indo e nel Sind, oggi provincia pachistana. Dal Khorasan partirebbe la conquista asiatica del califfo di Raqqa che vorrebbe però andar oltre quella vasta area che si estendeva dall’odierno Iran alle terre dei Pashtun e, a Nord, in alcune ex repubbliche sovietiche oggi indipendenti e alla riscoperta dell’islam delle origini. Da lì a unire la lotta di liberazione nel Caucaso dall’ateismo del regime di Putin il passo sarebbe breve. E’ una zona sotto osservazione ovviamente e dove Daesh comincia a essere presente sopratutto in Pakistan e Afghanistan. Ma nonostante una presenza che ha già rivendicato attentati e piccole azioni dimostrative, Daesh ha anche molti nemici. Innanzi tutto i talebani afgani, decisamente contrari ai piani espansivi di Daesh che recluta soprattutto tra i guerriglieri che il movimento ha cacciato per devianza criminale più che ideologica. Bacino di reclutamento sono anche i combattenti centroasiatici, caucasici e cinesi rifugiatisi in Pakistan ma adesso sotto schiaffo da un operativo militare di Islamabad il cui obiettivo è, da un anno e mezzo, quello di smantellare gli insediamenti della guerriglia straniera. Quanto ai gruppi jihadisti pachistani, Daesh è riuscito a spaccare i talebani del Tehrek e Taleban Pakistan (Ttp) ma per ora i consensi sono pochi. Secondo il ricercatore asiatico Abdul Basit, in Pakistan ci sono tre categorie di militanti: chi apertamente è contrario a Daesh (Al Qaeda nel subcontinente indiano e la leadership del Ttp); chi lo abbraccia (come i fuoriusciti dal Ttp Jamaatul Ahrar e Jundullah Pakistan); e quelli che per ora stanno a guardare, come alcuni gruppi attivi anche in Kashmir: Lashkar e Taiba e Jaish e Muhammad. Più, aggiungiamo noi, i gruppi settari anti sciiti, molto ricettivi al messaggio di Daesh.

India e Bangladesh

Il grande colosso asiatico, patria di 180 milioni di musulmani, si è svegliato quando nell’agosto del

2014 si è saputo che quattro abitanti del Maharashtra, lo Stato di Mumbay, avevano raggiunto la Siria. Ma visto che nemmeno Al Qaeda aveva fatto molti proseliti, il califfato non è sembrata una preoccupazione. Semmai, dice qualche analista, un altro modo per accusare il Pakistan che ne sarebbe il vero incubatore. Stando ai giornali indiani, non sarebbero infatti che un paio di dozzine i foreign fighter dell’Unione che combattono in Siria anche se, nonostante il numero esiguo, avrebbero già contabilizzato molte vittime: una notizia che caldeggia l’ipotesi che gli arabi di Raqqa si servano dei non arabi per le operazioni più rischiose, considerandoli – alla fine – dei musulmani di serie B. Qualche simpatia per Daesh comunque potrebbe serpeggiare tra i membri di organizzazioni filo pachistane come gli Indian Mujahedin o tra gli attivisti dello Students Islamic Movement of India. Ma Daesh più che una minaccia – anche se documenti del califfato dimostrerebbero l’intenzione di investire molto in India – sembra solo una remota possibilità. Diverse le cose in Bangladesh, dove Daesh ha rivendicato l’assassinio dell’italiano Cesare Tavella e del giapponese Kunio Hoshi, anche se non è chiaro quanto il califfato, che si è attribuito anche l’attentato al sacerdote italiano Piero Parolari, abbia un legame reale tra i movimenti jihadisti o se qualcuno fra loro si sia soltanto appropriato del brand. Dabiq ha dedicato un luno articolo al Bengala in cui sottolinea la distanza tra i veri mujahedin e la Jamaat e islami, partito islamista istituzionale. Alcuni gruppi al bando (Ansarullah Bangla Team e Jamaat ul Mujahidden Bangladesh) potrebbero esserne i referenti. Ma Dabiq non li menziona.

Malaysia e Singapore

Da un anno e mezzo Daesh avrebbe istituito in Siria un’unità malese-indonesiana chiamata Khatibah Nusantara e una scuola di formazione per ragazzi che parlano malese. I materiali in questa lingua sul web si sprecano e i governi han preso contro misure. In Malaysia (i foreign fighter malesi sarebbero un centinaio e secondo l’intelligence nel Paese ci sarebbero 50mila simpatizzanti di Daesh) il governo è corso ai ripari col pugno duro: decine di arresti per supposti legami con Daesh, la denuncia di un attentato sventato a Kuala Lumpur ma soprattutto una nuova legge mirata che permette arresti indiscriminati, la Prevention of Terrorism Act (Pota), criticata perché fotocopia di una vecchia altrettanto severa e appena abolita nel 2012. Un’altra legge consente la revoca del passaporto. La tensione è salita dopo il sequestro e l’uccisione di un uomo d’affari malaysiano giustiziato dal gruppo filippino Abu Sayyaf. La preoccupazione è forte.
Quanto alla piccola città Stato di Singapore, i numeri sono piccolissimi: due famiglie soltanto sarebbero state “coinvolte” da Daesh.

Isole nella corrente: Filippine, Indonesia, Maldive

Il Califfato omayyde nel 750 dc. Ispirazione, ma il progetto
di Daesh va ben oltre, a Ovest e a Est

Dei 30mila non arabi che pare combattano per Daesh, quelli del Sudest asiatico non sono tanti e in molti casi i Paesi di provenienza ritenevano che le stagioni qaediste (vedi la bomba a Bali nel 2002) fossero acqua passata. Il Council for Asian Terrorism Research (Catr), fondato nel 2005 con aiuto americano e contributi da diversi Paesi asiatici, non è stato più rifinanziato; il caso tailandese (vedi articolo a fianco) sembrava rientrato e nelle Filippine si era finalmente avviato un processo di pace. Ma i 5 o 600 combattenti indonesiani che avrebbero raggiunto Raqqa, lo stallo del processo negoziale a Manila e la ripresa dei sequestri nel Sud delle Filippine, i numeri della violenza in Thailandia e gli attentati sventati in Malaysia, hanno fatto riemergere la paura di un contagio. Da alcuni sfruttato politicamente (è il caso dei nazionalisti birmani), da altri temuto come le scintilla di una nuova minaccia che potrebbe tornare col rientro dei foreign fighter dal campo di battaglia. Gli indonesiani ad esempio han scelto la linea dura: chi va in Siria non potrà più tornare a casa e i maldiviani si apprestano a fare altrettanto. Per ora però nel Paese delle 13mila isole non si è andati più in là di manifestazioni pubbliche di sostegno a Daesh – come quella organizzata a Giacarta dal gruppo Islamic Sharia Activists Forum (Faksi) – o dell’adesione di vecchi maestri di jihadismo che hanno sposato ufficialmente Daesh: è il caso di Abu Bakar Bashir, l’ex leader – in prigione – della Jemaah Islamiyah. Una scelta che non è piaciuta a tutti i membri del vecchio gruppo qaedista. Ad occuparsi di questi problemi c’è comunque Densus 88, un gruppo d’élite anti terrorismo con la mano pesante e che in passato è stato accusato di gravi violazioni. Ma non c’è solo repressione. L’Indonesia ha una tradizione di islam moderato che vede i gruppi più importanti del Paese condannare Daesh e venir coinvolti dal governo per evitare che il contagio degeneri.

Nelle Filippine le cose son più complicate: nelle isole meridionali, dove è forte il sentimento indipendentista, lo stallo nel negoziato tra governo e separatisti islamici finisce per lasciar spazio ai gruppi islamisti più marginali e agguerriti che spesso sconfinano nel banditismo, come Abu Sayyaf o il Bangsamoro Islamic Freedom Fighters, che in un video hanno dichiarato l’adesione a Daesh. Quanto i legami siano forti e reali resta da dimostrare, ma certo l’area dove sono attivi si presta a nascondigli e campi di addestramento, Un centinaio gli “expat” verso il Medio oriente.

Australia

L‘Australia infine, per niente musulmana ma terra d’immigrazione. Oltre un centinaio i reclutati da Daesh, alcune decine dei quali rimasti sul terreno. Oggi, se si è legati a gruppi terroristici, si perde la doppia nazionalità e l’eccesso di zelo non manca. Quando il governo ha messo nel mirino il gruppo islamista non violento Hizb ut Tahir, c’è chi l’ha tacciato di paranoia ingiustificata. Mettere tutti nello stesso sacco non serve. Specie se gruppi come Hizb ut Tahir, sotto accusa anche in Asia centrale dov’è molto attiva, possono essere uno degli antidoti a Daesh, perlomeno sul piano della dottrina.
(segue:  domani Daesh e il Paese dei Thai)

* Le parentesi sono nel testo originale

Questo articolo è usciato anche su Pagina99

A Oriente del Califfo: l’Asia nella strategia di Daesh/1

«Amirul-Mu’minin ha detto: O musulmani…alzate la testa che oggi – per grazia di Allah – disponete di un Califfato che restituirà la vostra dignità, i vostri diritti e che vi dà una leadership. E’ uno Stato in cui sono fratelli l’arabo e il non arabo, il bianco e il nero, l’orientale e l’occidentale. Un Califfato per il caucasico, l’indiano, il cinese, il siriano, l’iracheno, lo yemenita, l’egiziano, il magrebino, l’americano, il francese, il tedesco e l’australiano».

Il messaggio è chiaro e affidato a Dabiq, il magazine mensile di Daesh che non è solo un foglio di propaganda patinata ma anche la summa teoretica dello Stato islamico. Uno Stato i cui confini non sono chiari ma che, stando a queste parole, coinvolge tutti i bravi musulmani ovunque abitino, da Tunisi a Dacca, da Parigi a Giacarta. Non di meno il suo progetto di espansione territoriale non è molto chiaro. Il cuore del califfato sta a Raqqa, nello “Sham”, e i territori amministrati sono per ora solo tra Irak e Siria. Spiega però ancora Dabiq: «Lo Stato islamico è qui per restare. In Sham e in Iraq. Nel Khorasan e in Al Qawqaz (parti dell’Asia centrale e del Caucaso)… dalla Tunisia fino al Bengala, anche se i murtaddin (eretici) lo disprezzano. Il Khilafah (Califfato) continuerà ad espandersi ulteriormente fino a quando la sua ombra si estenderà… su tutte le terre raggiunte dal giorno e dalla notte»*. Il riferimento è appena un po’ più chiaro e comprende aree già conquistate e altre più lontane: il Magreb, il Bengala (quindi il Bangladesh?) e il Khorasan, i cui confini non sono granché delineati.

Espansione a Est

La rivista teorica di Daesh: non solo
propaganda. Sopra Al Bagdadi

Quel che è certo è che c’è un piano di espansione a Est e a Ovest di Raqqa. E’ facile immaginare che i luoghi dove già è in corso un conflitto e dove la tensione è molto alta (il confine afgano pachistano, la Libia, il Sinai o le regioni dominate da Boko Haram in Africa) siano i luoghi prescelti dove accendere la miccia di un nuovo jihad, spodestando quel che resta di Al Qaeda e infiltrando i vari movimenti jihadisti. Ma la scintilla deve accendersi anche altrove: dove esistono conflitti più o meno dormienti, come nel Caucaso, e dove sono attivi gruppi jihadsiti storici, come nelle Filippine. Ed forse proprio in quest’area – a Oriente del califfo – che vale la pena di guardare: lì dove ci sono le tre aree musulmane più popolose del pianeta (l’Indonesia, l’India e il Pakistan), dove può esser facile reclutare e dove i foreign fighter, una volta tornati a casa, possono diffondere il verbo di Al Bagdadi. Del resto, scrive Katy Oh Hassig nell’introduzione all’Asian Conflict Report 2015 dedicato all’Isis dal Centro per le politiche della sicurezza di Ginevra (Gcsp): «… la minaccia dell’estremismo violento è ovunque. I confini politici e regionali, che una volta fornivano la barriera naturale e istituzionale alla diffusione di ideologie estremiste, sono ormai storia. E’ la globalizzazione del crimine e del terrorismo». Del terrore senza frontiere.

Il Grande Khorasan: Afghanistan, Pakistan, Asia centrale

Una veccia mappa della Durand Line tra Afghanistan
e  Pakistan: luogo di  elezione

In realtà il califfato dell’antichità non è mai arrivato tanto lontano quanto vorrebbe Al Bagdadi: non c’erano bengalesi o indonesiani nelle mappe delle regioni orientali che la Storia identifica col “Grande Khorasan”, una regione storica (quella geografica sta oggi nell’odierno Iran) che si sarebbe spinta sin nella valle dell’Indo e nel Sind, oggi provincia pachistana. Dal Khorasan partirebbe la conquista asiatica del califfo di Raqqa che vorrebbe però andar oltre quella vasta area che si estendeva dall’odierno Iran alle terre dei Pashtun e, a Nord, in alcune ex repubbliche sovietiche oggi indipendenti e alla riscoperta dell’islam delle origini. Da lì a unire la lotta di liberazione nel Caucaso dall’ateismo del regime di Putin il passo sarebbe breve. E’ una zona sotto osservazione ovviamente e dove Daesh comincia a essere presente sopratutto in Pakistan e Afghanistan. Ma nonostante una presenza che ha già rivendicato attentati e piccole azioni dimostrative, Daesh ha anche molti nemici. Innanzi tutto i talebani afgani, decisamente contrari ai piani espansivi di Daesh che recluta soprattutto tra i guerriglieri che il movimento ha cacciato per devianza criminale più che ideologica. Bacino di reclutamento sono anche i combattenti centroasiatici, caucasici e cinesi rifugiatisi in Pakistan ma adesso sotto schiaffo da un operativo militare di Islamabad il cui obiettivo è, da un anno e mezzo, quello di smantellare gli insediamenti della guerriglia straniera. Quanto ai gruppi jihadisti pachistani, Daesh è riuscito a spaccare i talebani del Tehrek e Taleban Pakistan (Ttp) ma per ora i consensi sono pochi. Secondo il ricercatore asiatico Abdul Basit, in Pakistan ci sono tre categorie di militanti: chi apertamente è contrario a Daesh (Al Qaeda nel subcontinente indiano e la leadership del Ttp); chi lo abbraccia (come i fuoriusciti dal Ttp Jamaatul Ahrar e Jundullah Pakistan); e quelli che per ora stanno a guardare, come alcuni gruppi attivi anche in Kashmir: Lashkar e Taiba e Jaish e Muhammad. Più, aggiungiamo noi, i gruppi settari anti sciiti, molto ricettivi al messaggio di Daesh.

India e Bangladesh

Il grande colosso asiatico, patria di 180 milioni di musulmani, si è svegliato quando nell’agosto del

2014 si è saputo che quattro abitanti del Maharashtra, lo Stato di Mumbay, avevano raggiunto la Siria. Ma visto che nemmeno Al Qaeda aveva fatto molti proseliti, il califfato non è sembrata una preoccupazione. Semmai, dice qualche analista, un altro modo per accusare il Pakistan che ne sarebbe il vero incubatore. Stando ai giornali indiani, non sarebbero infatti che un paio di dozzine i foreign fighter dell’Unione che combattono in Siria anche se, nonostante il numero esiguo, avrebbero già contabilizzato molte vittime: una notizia che caldeggia l’ipotesi che gli arabi di Raqqa si servano dei non arabi per le operazioni più rischiose, considerandoli – alla fine – dei musulmani di serie B. Qualche simpatia per Daesh comunque potrebbe serpeggiare tra i membri di organizzazioni filo pachistane come gli Indian Mujahedin o tra gli attivisti dello Students Islamic Movement of India. Ma Daesh più che una minaccia – anche se documenti del califfato dimostrerebbero l’intenzione di investire molto in India – sembra solo una remota possibilità. Diverse le cose in Bangladesh, dove Daesh ha rivendicato l’assassinio dell’italiano Cesare Tavella e del giapponese Kunio Hoshi, anche se non è chiaro quanto il califfato, che si è attribuito anche l’attentato al sacerdote italiano Piero Parolari, abbia un legame reale tra i movimenti jihadisti o se qualcuno fra loro si sia soltanto appropriato del brand. Dabiq ha dedicato un luno articolo al Bengala in cui sottolinea la distanza tra i veri mujahedin e la Jamaat e islami, partito islamista istituzionale. Alcuni gruppi al bando (Ansarullah Bangla Team e Jamaat ul Mujahidden Bangladesh) potrebbero esserne i referenti. Ma Dabiq non li menziona.

Malaysia e Singapore

Da un anno e mezzo Daesh avrebbe istituito in Siria un’unità malese-indonesiana chiamata Khatibah Nusantara e una scuola di formazione per ragazzi che parlano malese. I materiali in questa lingua sul web si sprecano e i governi han preso contro misure. In Malaysia (i foreign fighter malesi sarebbero un centinaio e secondo l’intelligence nel Paese ci sarebbero 50mila simpatizzanti di Daesh) il governo è corso ai ripari col pugno duro: decine di arresti per supposti legami con Daesh, la denuncia di un attentato sventato a Kuala Lumpur ma soprattutto una nuova legge mirata che permette arresti indiscriminati, la Prevention of Terrorism Act (Pota), criticata perché fotocopia di una vecchia altrettanto severa e appena abolita nel 2012. Un’altra legge consente la revoca del passaporto. La tensione è salita dopo il sequestro e l’uccisione di un uomo d’affari malaysiano giustiziato dal gruppo filippino Abu Sayyaf. La preoccupazione è forte.
Quanto alla piccola città Stato di Singapore, i numeri sono piccolissimi: due famiglie soltanto sarebbero state “coinvolte” da Daesh.

Isole nella corrente: Filippine, Indonesia, Maldive

Il Califfato omayyde nel 750 dc. Ispirazione, ma il progetto
di Daesh va ben oltre, a Ovest e a Est

Dei 30mila non arabi che pare combattano per Daesh, quelli del Sudest asiatico non sono tanti e in molti casi i Paesi di provenienza ritenevano che le stagioni qaediste (vedi la bomba a Bali nel 2002) fossero acqua passata. Il Council for Asian Terrorism Research (Catr), fondato nel 2005 con aiuto americano e contributi da diversi Paesi asiatici, non è stato più rifinanziato; il caso tailandese (vedi articolo a fianco) sembrava rientrato e nelle Filippine si era finalmente avviato un processo di pace. Ma i 5 o 600 combattenti indonesiani che avrebbero raggiunto Raqqa, lo stallo del processo negoziale a Manila e la ripresa dei sequestri nel Sud delle Filippine, i numeri della violenza in Thailandia e gli attentati sventati in Malaysia, hanno fatto riemergere la paura di un contagio. Da alcuni sfruttato politicamente (è il caso dei nazionalisti birmani), da altri temuto come le scintilla di una nuova minaccia che potrebbe tornare col rientro dei foreign fighter dal campo di battaglia. Gli indonesiani ad esempio han scelto la linea dura: chi va in Siria non potrà più tornare a casa e i maldiviani si apprestano a fare altrettanto. Per ora però nel Paese delle 13mila isole non si è andati più in là di manifestazioni pubbliche di sostegno a Daesh – come quella organizzata a Giacarta dal gruppo Islamic Sharia Activists Forum (Faksi) – o dell’adesione di vecchi maestri di jihadismo che hanno sposato ufficialmente Daesh: è il caso di Abu Bakar Bashir, l’ex leader – in prigione – della Jemaah Islamiyah. Una scelta che non è piaciuta a tutti i membri del vecchio gruppo qaedista. Ad occuparsi di questi problemi c’è comunque Densus 88, un gruppo d’élite anti terrorismo con la mano pesante e che in passato è stato accusato di gravi violazioni. Ma non c’è solo repressione. L’Indonesia ha una tradizione di islam moderato che vede i gruppi più importanti del Paese condannare Daesh e venir coinvolti dal governo per evitare che il contagio degeneri.

Nelle Filippine le cose son più complicate: nelle isole meridionali, dove è forte il sentimento indipendentista, lo stallo nel negoziato tra governo e separatisti islamici finisce per lasciar spazio ai gruppi islamisti più marginali e agguerriti che spesso sconfinano nel banditismo, come Abu Sayyaf o il Bangsamoro Islamic Freedom Fighters, che in un video hanno dichiarato l’adesione a Daesh. Quanto i legami siano forti e reali resta da dimostrare, ma certo l’area dove sono attivi si presta a nascondigli e campi di addestramento, Un centinaio gli “expat” verso il Medio oriente.

Australia

L‘Australia infine, per niente musulmana ma terra d’immigrazione. Oltre un centinaio i reclutati da Daesh, alcune decine dei quali rimasti sul terreno. Oggi, se si è legati a gruppi terroristici, si perde la doppia nazionalità e l’eccesso di zelo non manca. Quando il governo ha messo nel mirino il gruppo islamista non violento Hizb ut Tahir, c’è chi l’ha tacciato di paranoia ingiustificata. Mettere tutti nello stesso sacco non serve. Specie se gruppi come Hizb ut Tahir, sotto accusa anche in Asia centrale dov’è molto attiva, possono essere uno degli antidoti a Daesh, perlomeno sul piano della dottrina.
(segue:  domani Daesh e il Paese dei Thai)

* Le parentesi sono nel testo originale

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La giornata nera di Narendra Modi e Nawaz Sharif (aggiornato)

Quella di ieri è stata sicuramente la peggior giornata del 2016 per il premier indiano Narendra Modi. Un sisma nella zona orientale del Paese e, a Ovest, l’attacco a un consolato indiano a Mazar, in Afghanistan, che al calar del sole non era ancora terminato (ci sono volute 25 ore per chiudere le partita). Ma al calar del sole non era nemmeno terminato il terzo giorno di battaglia tra un manipolo di guerriglieri e una delle maggiori potenze militari del pianeta. Alle tre del mattino di sabato, dopo aver sequestrato alcune persone, almeno sei guerriglieri che fanno capo all’Ujc (il “cartello” kshmiro Consiglio unito del jihad) e a una fantomatica “Highway Squad”, di cui finora non si era avuto notizia, sono riusciti a penetrare in una base dell’aviazione indiana che sorveglia il confine pachistano – a qualche decina di chilometri in linea d’aria – e l’area del Kashmir, ferita mai rimarginatasi dopo la Partition del 1947 che ha diviso il Raj britannico tra India e Pakistan con tutte le malattie che ne sono derivate.

Sabato pomeriggio, il governo aveva annunciato una fatidica “missione compiuta” ma prima che ieri scoccassero le sei di sera, lo stesso ministro dell’Interno che aveva dato per chiusa la partita di Pathankot, dove ha sede la base, doveva ammettere di aver detto sabato una bestiata, dettata forse dalla fretta e dall’imbarazzo di aver faticato – allora – 12 ore per averla vinta. Salvo scoprire che alcuni sabotatori erano ancora all’interno della base e ancora non è chiaro se la partita sia davvero chiusa (i guerriglieri morti sono sei e oggi la cosa può dirsi definitivamente finita). Dalla vicenda afgana, che riguarda comunque un problema di sicurezza dell’apparato consolare, alla brutta storia di Pathankot, per il decisionista Modi son ore dure. E non solo per la morte di sette “jawan”, come in gergo sono chiamati i militari. Ma perché la vicenda di Pathankot è piena di buchi e soprattutto, dice qualcuno, quei buchi si devono proprio a un uomo che ha accentrato poteri e decisioni. Scelte che, in casi come questo, fan venire al pettine più di un nodo.

Oltre alla bagarre interna, al problema di mettere in sicurezza una base militare molto ampia e l’apparato diplomatico all’estero, c’è poi la questione tutta politica dei rapporti col Pakistan. Pathankot e Mazar sono strettamente legati: che siano talebani in un caso (non c’è ancora una rivendicazione) e mujahedin kashmiri nell’altro, la fobia per il Pakistan non può che aumentare. E benché il comunicato dell’Ujc prenda le distanze da Islamabad sostenendo che i guerriglieri stanno agendo in autonomia per la secessione del Kashmir, tutto ciò non può che suonare alle orecchie dei falchi indiani come l’ennesima provocazione di un Pakistan percepito più come il vero grande nemico che non come il gemello con cui è bene riconciliarsi. Riconciliazione difficile e appena iniziata col viaggio di Modi in Pakistan nel dicembre scorso e ora a rischio. E’ pur vero che Islamabad ha condannato l’attacco di Pathankot e che Delhi ha fatto sapere che un attentato non basta a far deragliare il dialogo, ma è anche vero che gli attentati adesso sono due, uno dei quali ha impegnato i soldati indiani per giorni. Delhi ha intanto reso noto che, del possibile incontro dei ministri degli Esteri – passo fondamentale per dar luce verde al dialogo tra i due colossi –, se ne riparlerà a operazione veramente conclusa, quando su Pathankot (e indagini correlate) sarà scritta la parola fine.

Per Islamabad l’imbarazzo non è meno grande e in un momento difficile nei rapporti internazionali. Uno dei suoi alleati per eccellenza, la retriva e ricca monarchia dei Saud – che non ha mai mancato di dare il suo sostanziale appoggio al governo pachistano e alle varie bande jihadiste del Paese – sta scaldando i motori contro Teheran. L’ultima avventura cui Islamabad vorrebbe partecipare: il Pakistan aveva già irritato i Saud quando, all’inizio della guerra nello Yemen, aveva risposto con una certa freddezza alla chiamata di Riad, limitandosi a frasi di rito ma rifiutando di inviare soldati. Poi, quando i Saud si sono inventati la coalizione islamica anti terrorismo, il Pakistan ha addirittura fatto sapere di non essere stato consultato. Mentre cerca di evitare una guerra a oriente Riad glene propone una a occidente. Anche qui son nodi al pettine.

aggiornato alle 14 del 5 dicembre

La giornata nera di Narendra Modi e Nawaz Sharif (aggiornato)

Quella di ieri è stata sicuramente la peggior giornata del 2016 per il premier indiano Narendra Modi. Un sisma nella zona orientale del Paese e, a Ovest, l’attacco a un consolato indiano a Mazar, in Afghanistan, che al calar del sole non era ancora terminato (ci sono volute 25 ore per chiudere le partita). Ma al calar del sole non era nemmeno terminato il terzo giorno di battaglia tra un manipolo di guerriglieri e una delle maggiori potenze militari del pianeta. Alle tre del mattino di sabato, dopo aver sequestrato alcune persone, almeno sei guerriglieri che fanno capo all’Ujc (il “cartello” kshmiro Consiglio unito del jihad) e a una fantomatica “Highway Squad”, di cui finora non si era avuto notizia, sono riusciti a penetrare in una base dell’aviazione indiana che sorveglia il confine pachistano – a qualche decina di chilometri in linea d’aria – e l’area del Kashmir, ferita mai rimarginatasi dopo la Partition del 1947 che ha diviso il Raj britannico tra India e Pakistan con tutte le malattie che ne sono derivate.

Sabato pomeriggio, il governo aveva annunciato una fatidica “missione compiuta” ma prima che ieri scoccassero le sei di sera, lo stesso ministro dell’Interno che aveva dato per chiusa la partita di Pathankot, dove ha sede la base, doveva ammettere di aver detto sabato una bestiata, dettata forse dalla fretta e dall’imbarazzo di aver faticato – allora – 12 ore per averla vinta. Salvo scoprire che alcuni sabotatori erano ancora all’interno della base e ancora non è chiaro se la partita sia davvero chiusa (i guerriglieri morti sono sei e oggi la cosa può dirsi definitivamente finita). Dalla vicenda afgana, che riguarda comunque un problema di sicurezza dell’apparato consolare, alla brutta storia di Pathankot, per il decisionista Modi son ore dure. E non solo per la morte di sette “jawan”, come in gergo sono chiamati i militari. Ma perché la vicenda di Pathankot è piena di buchi e soprattutto, dice qualcuno, quei buchi si devono proprio a un uomo che ha accentrato poteri e decisioni. Scelte che, in casi come questo, fan venire al pettine più di un nodo.

Oltre alla bagarre interna, al problema di mettere in sicurezza una base militare molto ampia e l’apparato diplomatico all’estero, c’è poi la questione tutta politica dei rapporti col Pakistan. Pathankot e Mazar sono strettamente legati: che siano talebani in un caso (non c’è ancora una rivendicazione) e mujahedin kashmiri nell’altro, la fobia per il Pakistan non può che aumentare. E benché il comunicato dell’Ujc prenda le distanze da Islamabad sostenendo che i guerriglieri stanno agendo in autonomia per la secessione del Kashmir, tutto ciò non può che suonare alle orecchie dei falchi indiani come l’ennesima provocazione di un Pakistan percepito più come il vero grande nemico che non come il gemello con cui è bene riconciliarsi. Riconciliazione difficile e appena iniziata col viaggio di Modi in Pakistan nel dicembre scorso e ora a rischio. E’ pur vero che Islamabad ha condannato l’attacco di Pathankot e che Delhi ha fatto sapere che un attentato non basta a far deragliare il dialogo, ma è anche vero che gli attentati adesso sono due, uno dei quali ha impegnato i soldati indiani per giorni. Delhi ha intanto reso noto che, del possibile incontro dei ministri degli Esteri – passo fondamentale per dar luce verde al dialogo tra i due colossi –, se ne riparlerà a operazione veramente conclusa, quando su Pathankot (e indagini correlate) sarà scritta la parola fine.

Per Islamabad l’imbarazzo non è meno grande e in un momento difficile nei rapporti internazionali. Uno dei suoi alleati per eccellenza, la retriva e ricca monarchia dei Saud – che non ha mai mancato di dare il suo sostanziale appoggio al governo pachistano e alle varie bande jihadiste del Paese – sta scaldando i motori contro Teheran. L’ultima avventura cui Islamabad vorrebbe partecipare: il Pakistan aveva già irritato i Saud quando, all’inizio della guerra nello Yemen, aveva risposto con una certa freddezza alla chiamata di Riad, limitandosi a frasi di rito ma rifiutando di inviare soldati. Poi, quando i Saud si sono inventati la coalizione islamica anti terrorismo, il Pakistan ha addirittura fatto sapere di non essere stato consultato. Mentre cerca di evitare una guerra a oriente Riad glene propone una a occidente. Anche qui son nodi al pettine.

aggiornato alle 14 del 5 dicembre

La giornata nera di Narendra Modi e Nawaz Sharif (aggiornato)

Quella di ieri è stata sicuramente la peggior giornata del 2016 per il premier indiano Narendra Modi. Un sisma nella zona orientale del Paese e, a Ovest, l’attacco a un consolato indiano a Mazar, in Afghanistan, che al calar del sole non era ancora terminato (ci sono volute 25 ore per chiudere le partita). Ma al calar del sole non era nemmeno terminato il terzo giorno di battaglia tra un manipolo di guerriglieri e una delle maggiori potenze militari del pianeta. Alle tre del mattino di sabato, dopo aver sequestrato alcune persone, almeno sei guerriglieri che fanno capo all’Ujc (il “cartello” kshmiro Consiglio unito del jihad) e a una fantomatica “Highway Squad”, di cui finora non si era avuto notizia, sono riusciti a penetrare in una base dell’aviazione indiana che sorveglia il confine pachistano – a qualche decina di chilometri in linea d’aria – e l’area del Kashmir, ferita mai rimarginatasi dopo la Partition del 1947 che ha diviso il Raj britannico tra India e Pakistan con tutte le malattie che ne sono derivate.

Sabato pomeriggio, il governo aveva annunciato una fatidica “missione compiuta” ma prima che ieri scoccassero le sei di sera, lo stesso ministro dell’Interno che aveva dato per chiusa la partita di Pathankot, dove ha sede la base, doveva ammettere di aver detto sabato una bestiata, dettata forse dalla fretta e dall’imbarazzo di aver faticato – allora – 12 ore per averla vinta. Salvo scoprire che alcuni sabotatori erano ancora all’interno della base e ancora non è chiaro se la partita sia davvero chiusa (i guerriglieri morti sono sei e oggi la cosa può dirsi definitivamente finita). Dalla vicenda afgana, che riguarda comunque un problema di sicurezza dell’apparato consolare, alla brutta storia di Pathankot, per il decisionista Modi son ore dure. E non solo per la morte di sette “jawan”, come in gergo sono chiamati i militari. Ma perché la vicenda di Pathankot è piena di buchi e soprattutto, dice qualcuno, quei buchi si devono proprio a un uomo che ha accentrato poteri e decisioni. Scelte che, in casi come questo, fan venire al pettine più di un nodo.

Oltre alla bagarre interna, al problema di mettere in sicurezza una base militare molto ampia e l’apparato diplomatico all’estero, c’è poi la questione tutta politica dei rapporti col Pakistan. Pathankot e Mazar sono strettamente legati: che siano talebani in un caso (non c’è ancora una rivendicazione) e mujahedin kashmiri nell’altro, la fobia per il Pakistan non può che aumentare. E benché il comunicato dell’Ujc prenda le distanze da Islamabad sostenendo che i guerriglieri stanno agendo in autonomia per la secessione del Kashmir, tutto ciò non può che suonare alle orecchie dei falchi indiani come l’ennesima provocazione di un Pakistan percepito più come il vero grande nemico che non come il gemello con cui è bene riconciliarsi. Riconciliazione difficile e appena iniziata col viaggio di Modi in Pakistan nel dicembre scorso e ora a rischio. E’ pur vero che Islamabad ha condannato l’attacco di Pathankot e che Delhi ha fatto sapere che un attentato non basta a far deragliare il dialogo, ma è anche vero che gli attentati adesso sono due, uno dei quali ha impegnato i soldati indiani per giorni. Delhi ha intanto reso noto che, del possibile incontro dei ministri degli Esteri – passo fondamentale per dar luce verde al dialogo tra i due colossi –, se ne riparlerà a operazione veramente conclusa, quando su Pathankot (e indagini correlate) sarà scritta la parola fine.

Per Islamabad l’imbarazzo non è meno grande e in un momento difficile nei rapporti internazionali. Uno dei suoi alleati per eccellenza, la retriva e ricca monarchia dei Saud – che non ha mai mancato di dare il suo sostanziale appoggio al governo pachistano e alle varie bande jihadiste del Paese – sta scaldando i motori contro Teheran. L’ultima avventura cui Islamabad vorrebbe partecipare: il Pakistan aveva già irritato i Saud quando, all’inizio della guerra nello Yemen, aveva risposto con una certa freddezza alla chiamata di Riad, limitandosi a frasi di rito ma rifiutando di inviare soldati. Poi, quando i Saud si sono inventati la coalizione islamica anti terrorismo, il Pakistan ha addirittura fatto sapere di non essere stato consultato. Mentre cerca di evitare una guerra a oriente Riad glene propone una a occidente. Anche qui son nodi al pettine.

aggiornato alle 14 del 5 dicembre

Attentato al dialogo tra India e Pakistan (aggiornato)

Pathankot, venti chilometri dal confine pachistano, venti dal confine col Kashmir. E’ qui che si trova una base aerea che ospita i caccia indiani che controllano le due aree per Delhi più sensibili nel subcontinente indiano. Ed è qui che ieri all’alba, verso le 3.30 ora locale, cinque guerriglieri travestiti da soldati, forse del gruppo estremista pachistano Jaish-e-Mohammad, hanno messo a rischio il neonato dialogo tra India e Pakistan assaltando la base dell’Indian Air Force. Aver ragione di loro non è stato facile e ha richiesto più di mezza giornata. Poi, alle 7.45 di ieri sera, il ministro dell’Interno Rajnath Singh ha confermato che tutti e cinque gli assalitori erano stati uccisi. Con loro tre soldati (quattro ieri secondo la stampa pachistana che confermava anche tre vittime civili.  Stamane il bilancio sarebbe salito a sette militari indiani uccisi). Operazione conclusa (in realtà per niente: il 4 la crisi entrava nel suo terzo giorno).

Nawaz Sharif: condanna immediata

Attacchi della guerriglia prokashmira non sono inusuali in India (il JeM è un gruppo nato proprio per riunificare sotto la bandiera di Islamabad il Kashmir ora diviso tra le due nazioni) e nel luglio scorso sette uomini erano stati uccisi in un attacco simile in una stazione di polizia del vicino distretto di Gurdaspur. Ma questa volta in ballo c’era una posta ben più grossa che non una semplice azione di disturbo e non solo per l’importanza strategico militare della base. Solo qualche giorno fa, il 25 dicembre, il premier indiano Narendra Modi ha fatto una visita “a sorpresa” in Pakistan, atterrando a Lahore dopo un viaggio in Russia e in Afghanistan. Non una visita qualunque ma la prima di un premier indiano in oltre dieci anni. E Nawaz Sharif l’ha ricevuto col tappeto rosso. La visita “a sorpresa” era evidentemente preparata da tempo ma in discreto silenzio benché ci fossero stati alcuni segnali (Nawaz Sharif era stato in India per l’insediamento di Modi e recentemente è stato siglato un accordo importante che regola questioni logistiche tra i due Paesi). Ma è anche vero che, oltre alla mai risolta questione del Kashmir, i pachistani sono infastiditi dall’influenza che Delhi ha guadagnato a Kabul e da accordi con gli Stati Uniti che permettono all’India vantaggi sul piano del nucleare; gli indiani accusano il Pakistan di terrorismo di Stato e, negli ultimi tre anni, sono ricominciati gli incidenti alla frontiera: meno noti degli attentati terroristici o delle dispute sulla Loc (la linea di controllo in Kashmir tra India e Pakistan) hanno continuato a ripetersi con vittime dalle due parti, anche tra i civili. Dunque la visita ha acquistato una rilevanza quasi impensabile e forse la “sorpresa” era per evitare che i falchi dalle due parti della frontiera potessero intralciare l’ennesimo tentativo di riavvicinamento (purtroppo non il primo e al netto di almeno quattro conflitti maggiori e diversi incidenti minori tra i due Paesi che hanno spesso tirato l’acqua al mulino di una nuova guerra).

Questa volta però le reazioni immediate di Islamabad e Delhi fanno ben sperare. Nel pomeriggio di ieri – e in perfetta sintonia temporale – il Bjp, il partito di Modi, ha fatto sapere che il dialogo appena avviato non può certo essere messo in crisi da un attentato e ha anzi accusato chi nel Congresso intende politicizzare l’incidente di Pathankot. Contemporaneamente arrivava un comunicato ufficiale di Islamabad, che univa alle condoglianze per le vittime una dura condanna dell’accaduto. La preoccupazione è dunque dalle due parti ed è condivisa da chi guarda con attenzione ai rapporti tra i due colossi nucleari. Come il vice segretario di Stato americano Antony Blinken che ha confidato a The Indian Express i timori di un possibile conflitto non intenzionale ma innescato da incidenti come quello di Pathankot. La corda resta tesa ma non si è spezzata.

aggiornato alle 11 del 3/1

Attentato al dialogo tra India e Pakistan (aggiornato)

Pathankot, venti chilometri dal confine pachistano, venti dal confine col Kashmir. E’ qui che si trova una base aerea che ospita i caccia indiani che controllano le due aree per Delhi più sensibili nel subcontinente indiano. Ed è qui che ieri all’alba, verso le 3.30 ora locale, cinque guerriglieri travestiti da soldati, forse del gruppo estremista pachistano Jaish-e-Mohammad, hanno messo a rischio il neonato dialogo tra India e Pakistan assaltando la base dell’Indian Air Force. Aver ragione di loro non è stato facile e ha richiesto più di mezza giornata. Poi, alle 7.45 di ieri sera, il ministro dell’Interno Rajnath Singh ha confermato che tutti e cinque gli assalitori erano stati uccisi. Con loro tre soldati (quattro ieri secondo la stampa pachistana che confermava anche tre vittime civili.  Stamane il bilancio sarebbe salito a sette militari indiani uccisi). Operazione conclusa (in realtà per niente: il 4 la crisi entrava nel suo terzo giorno).

Nawaz Sharif: condanna immediata

Attacchi della guerriglia prokashmira non sono inusuali in India (il JeM è un gruppo nato proprio per riunificare sotto la bandiera di Islamabad il Kashmir ora diviso tra le due nazioni) e nel luglio scorso sette uomini erano stati uccisi in un attacco simile in una stazione di polizia del vicino distretto di Gurdaspur. Ma questa volta in ballo c’era una posta ben più grossa che non una semplice azione di disturbo e non solo per l’importanza strategico militare della base. Solo qualche giorno fa, il 25 dicembre, il premier indiano Narendra Modi ha fatto una visita “a sorpresa” in Pakistan, atterrando a Lahore dopo un viaggio in Russia e in Afghanistan. Non una visita qualunque ma la prima di un premier indiano in oltre dieci anni. E Nawaz Sharif l’ha ricevuto col tappeto rosso. La visita “a sorpresa” era evidentemente preparata da tempo ma in discreto silenzio benché ci fossero stati alcuni segnali (Nawaz Sharif era stato in India per l’insediamento di Modi e recentemente è stato siglato un accordo importante che regola questioni logistiche tra i due Paesi). Ma è anche vero che, oltre alla mai risolta questione del Kashmir, i pachistani sono infastiditi dall’influenza che Delhi ha guadagnato a Kabul e da accordi con gli Stati Uniti che permettono all’India vantaggi sul piano del nucleare; gli indiani accusano il Pakistan di terrorismo di Stato e, negli ultimi tre anni, sono ricominciati gli incidenti alla frontiera: meno noti degli attentati terroristici o delle dispute sulla Loc (la linea di controllo in Kashmir tra India e Pakistan) hanno continuato a ripetersi con vittime dalle due parti, anche tra i civili. Dunque la visita ha acquistato una rilevanza quasi impensabile e forse la “sorpresa” era per evitare che i falchi dalle due parti della frontiera potessero intralciare l’ennesimo tentativo di riavvicinamento (purtroppo non il primo e al netto di almeno quattro conflitti maggiori e diversi incidenti minori tra i due Paesi che hanno spesso tirato l’acqua al mulino di una nuova guerra).

Questa volta però le reazioni immediate di Islamabad e Delhi fanno ben sperare. Nel pomeriggio di ieri – e in perfetta sintonia temporale – il Bjp, il partito di Modi, ha fatto sapere che il dialogo appena avviato non può certo essere messo in crisi da un attentato e ha anzi accusato chi nel Congresso intende politicizzare l’incidente di Pathankot. Contemporaneamente arrivava un comunicato ufficiale di Islamabad, che univa alle condoglianze per le vittime una dura condanna dell’accaduto. La preoccupazione è dunque dalle due parti ed è condivisa da chi guarda con attenzione ai rapporti tra i due colossi nucleari. Come il vice segretario di Stato americano Antony Blinken che ha confidato a The Indian Express i timori di un possibile conflitto non intenzionale ma innescato da incidenti come quello di Pathankot. La corda resta tesa ma non si è spezzata.

aggiornato alle 11 del 3/1

Attentato al dialogo tra India e Pakistan (aggiornato)

Pathankot, venti chilometri dal confine pachistano, venti dal confine col Kashmir. E’ qui che si trova una base aerea che ospita i caccia indiani che controllano le due aree per Delhi più sensibili nel subcontinente indiano. Ed è qui che ieri all’alba, verso le 3.30 ora locale, cinque guerriglieri travestiti da soldati, forse del gruppo estremista pachistano Jaish-e-Mohammad, hanno messo a rischio il neonato dialogo tra India e Pakistan assaltando la base dell’Indian Air Force. Aver ragione di loro non è stato facile e ha richiesto più di mezza giornata. Poi, alle 7.45 di ieri sera, il ministro dell’Interno Rajnath Singh ha confermato che tutti e cinque gli assalitori erano stati uccisi. Con loro tre soldati (quattro ieri secondo la stampa pachistana che confermava anche tre vittime civili.  Stamane il bilancio sarebbe salito a sette militari indiani uccisi). Operazione conclusa (in realtà per niente: il 4 la crisi entrava nel suo terzo giorno).

Nawaz Sharif: condanna immediata

Attacchi della guerriglia prokashmira non sono inusuali in India (il JeM è un gruppo nato proprio per riunificare sotto la bandiera di Islamabad il Kashmir ora diviso tra le due nazioni) e nel luglio scorso sette uomini erano stati uccisi in un attacco simile in una stazione di polizia del vicino distretto di Gurdaspur. Ma questa volta in ballo c’era una posta ben più grossa che non una semplice azione di disturbo e non solo per l’importanza strategico militare della base. Solo qualche giorno fa, il 25 dicembre, il premier indiano Narendra Modi ha fatto una visita “a sorpresa” in Pakistan, atterrando a Lahore dopo un viaggio in Russia e in Afghanistan. Non una visita qualunque ma la prima di un premier indiano in oltre dieci anni. E Nawaz Sharif l’ha ricevuto col tappeto rosso. La visita “a sorpresa” era evidentemente preparata da tempo ma in discreto silenzio benché ci fossero stati alcuni segnali (Nawaz Sharif era stato in India per l’insediamento di Modi e recentemente è stato siglato un accordo importante che regola questioni logistiche tra i due Paesi). Ma è anche vero che, oltre alla mai risolta questione del Kashmir, i pachistani sono infastiditi dall’influenza che Delhi ha guadagnato a Kabul e da accordi con gli Stati Uniti che permettono all’India vantaggi sul piano del nucleare; gli indiani accusano il Pakistan di terrorismo di Stato e, negli ultimi tre anni, sono ricominciati gli incidenti alla frontiera: meno noti degli attentati terroristici o delle dispute sulla Loc (la linea di controllo in Kashmir tra India e Pakistan) hanno continuato a ripetersi con vittime dalle due parti, anche tra i civili. Dunque la visita ha acquistato una rilevanza quasi impensabile e forse la “sorpresa” era per evitare che i falchi dalle due parti della frontiera potessero intralciare l’ennesimo tentativo di riavvicinamento (purtroppo non il primo e al netto di almeno quattro conflitti maggiori e diversi incidenti minori tra i due Paesi che hanno spesso tirato l’acqua al mulino di una nuova guerra).

Questa volta però le reazioni immediate di Islamabad e Delhi fanno ben sperare. Nel pomeriggio di ieri – e in perfetta sintonia temporale – il Bjp, il partito di Modi, ha fatto sapere che il dialogo appena avviato non può certo essere messo in crisi da un attentato e ha anzi accusato chi nel Congresso intende politicizzare l’incidente di Pathankot. Contemporaneamente arrivava un comunicato ufficiale di Islamabad, che univa alle condoglianze per le vittime una dura condanna dell’accaduto. La preoccupazione è dunque dalle due parti ed è condivisa da chi guarda con attenzione ai rapporti tra i due colossi nucleari. Come il vice segretario di Stato americano Antony Blinken che ha confidato a The Indian Express i timori di un possibile conflitto non intenzionale ma innescato da incidenti come quello di Pathankot. La corda resta tesa ma non si è spezzata.

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Afghanistan, il bilancio del Pentagono

Nel rapporto che il Pentagono ha presentato al Congresso degli Stati Uniti per la fine dell’anno
(Enhancing Security and Stability in Afghanistan), i militari americani sono costretti ad ammettere che le cose non vanno bene. “Costretti” sembra un termine appropriato perché lo stile del rapporto mira sia ad assicurare che le forze di sicurezza afgane sono in grado di maneggiare la guerra infinita sia a dare un senso alla scelta di lasciare in Afghanistan quasi diecimila soldati (9.800) anziché i 5.500 che a fine 2016 avrebbero dovuto restare. Una scelta che Obama aveva fatto dopo l’eclatante presa di Kunduz da parte dei talebani tre mesi fa (nota soprattutto per il bombardamento dell’ospedale di Msf). Seppur obtorto collo, il rapporto dà conto di un peggioramento della guerra infinita: tra gennaio e novembre gli attacchi mortali sono aumentati del 4% e sono aumentati quelli con fuoco diretto (rispetto a mine e Ied); i talebani godono, nonostante tutto, di buona salute, Daesh continua a crescere e Al Qaeda non è affatto scomparsa. Solo il 28% degli afgani si sente nel 2015 “al sicuro”, rispetto al 35% nel 2014 e al 45% del 2013. «Collettivamente – conclude il rapporto – terroristi e gruppi insurrezionalisti continuano a presentare una sfida formidabile per gli afgani, gli Usa e la forze della coalizione» (a novembre circa 11.385 uomini).

Le poche righe destinate ai seguaci di bin Laden e Al Zawahiri hanno però attirato l’attenzione della stampa americana e soprattutto del New York Times: che il Paese non sia pacificato ci può stare, ma che Al Qaeda sia in forma è un altro discorso visto che, morto Osama, la missione nell’area doveva ritenersi tecnicamente conclusa. Il rapporto invece rende nota la “resilienza” della rete anche se vi dedica poche righe e tende a derubricarla come l’effetto di un’emigrazione verso l’Afghanistan dovuta all’operativo pachistano Zarb e Azb, che da diciotto mesi martella le postazioni degli stranieri (ceceni, uiguri, uzbeki) con domicilio in Waziristan (area tribale del Pakistan) e che sono i maggiori sostenitori del progetto qaedista. Non solo loro però: il rapporto ammette la preoccupazione per la scelta di mullah Mansur (il nuovo leader dei talebani o, almeno, della fazione più forte) di chiamare come suo vice Siraj Haqqani – l’erede della famosa famiglia afgana jihado-qaedista con residenza in Pakistan e forti legami coi servizi locali. Paradossalmente invece, nota ancora la stampa americana, il rapporto non fa menzione dei rapporti tra Zawahiri (nemmeno citato) e Mansur. Il primo, dopo la proclamazione a luglio del nuovo leader dei talebani aveva registrato un audio messaggio in cui giurava fedeltà al nuovo capo. E qualche giorno dopo, sul sito dei talebani campeggiava l’accettazione del giuramento da parte di Mansur (è anche vero che la pagina è poi scomparsa).

Il rapporto non menziona nemmeno quella che deve invece dev’essere considerata un’altra preoccupazione e non di natura insurrezionalistica: i movimenti al confine tra Afghanistan e repubbliche ex sovietiche, dove il dispositivo di sicurezza congiunto è stato potentemente rafforzato da Mosca dopo la presa di Kunduz tra settembre e ottobre da parte dei talebani che ha molto preoccupato i russi. Non è una novità che stiano guardando nuovamente con attenzione all’area da cui se ne sono andati nel 1989 con ignominia. Ed è di ieri la notizia che Mosca fornirà agli afgani 10mila Kalashnikov, l’arma da combattimento per eccellenza e nota in gergo come Ak47. Il Grande Gioco torna in tutta la sua potenza mentre per ora il processo di pace langue. Al netto di una riunione con americani, cinesi e pachistani che Kabul ospiterà a giorni ma a cui i talebani non parteciperanno.

Afghanistan, il bilancio del Pentagono

Nel rapporto che il Pentagono ha presentato al Congresso degli Stati Uniti per la fine dell’anno
(Enhancing Security and Stability in Afghanistan), i militari americani sono costretti ad ammettere che le cose non vanno bene. “Costretti” sembra un termine appropriato perché lo stile del rapporto mira sia ad assicurare che le forze di sicurezza afgane sono in grado di maneggiare la guerra infinita sia a dare un senso alla scelta di lasciare in Afghanistan quasi diecimila soldati (9.800) anziché i 5.500 che a fine 2016 avrebbero dovuto restare. Una scelta che Obama aveva fatto dopo l’eclatante presa di Kunduz da parte dei talebani tre mesi fa (nota soprattutto per il bombardamento dell’ospedale di Msf). Seppur obtorto collo, il rapporto dà conto di un peggioramento della guerra infinita: tra gennaio e novembre gli attacchi mortali sono aumentati del 4% e sono aumentati quelli con fuoco diretto (rispetto a mine e Ied); i talebani godono, nonostante tutto, di buona salute, Daesh continua a crescere e Al Qaeda non è affatto scomparsa. Solo il 28% degli afgani si sente nel 2015 “al sicuro”, rispetto al 35% nel 2014 e al 45% del 2013. «Collettivamente – conclude il rapporto – terroristi e gruppi insurrezionalisti continuano a presentare una sfida formidabile per gli afgani, gli Usa e la forze della coalizione» (a novembre circa 11.385 uomini).

Le poche righe destinate ai seguaci di bin Laden e Al Zawahiri hanno però attirato l’attenzione della stampa americana e soprattutto del New York Times: che il Paese non sia pacificato ci può stare, ma che Al Qaeda sia in forma è un altro discorso visto che, morto Osama, la missione nell’area doveva ritenersi tecnicamente conclusa. Il rapporto invece rende nota la “resilienza” della rete anche se vi dedica poche righe e tende a derubricarla come l’effetto di un’emigrazione verso l’Afghanistan dovuta all’operativo pachistano Zarb e Azb, che da diciotto mesi martella le postazioni degli stranieri (ceceni, uiguri, uzbeki) con domicilio in Waziristan (area tribale del Pakistan) e che sono i maggiori sostenitori del progetto qaedista. Non solo loro però: il rapporto ammette la preoccupazione per la scelta di mullah Mansur (il nuovo leader dei talebani o, almeno, della fazione più forte) di chiamare come suo vice Siraj Haqqani – l’erede della famosa famiglia afgana jihado-qaedista con residenza in Pakistan e forti legami coi servizi locali. Paradossalmente invece, nota ancora la stampa americana, il rapporto non fa menzione dei rapporti tra Zawahiri (nemmeno citato) e Mansur. Il primo, dopo la proclamazione a luglio del nuovo leader dei talebani aveva registrato un audio messaggio in cui giurava fedeltà al nuovo capo. E qualche giorno dopo, sul sito dei talebani campeggiava l’accettazione del giuramento da parte di Mansur (è anche vero che la pagina è poi scomparsa).

Il rapporto non menziona nemmeno quella che deve invece dev’essere considerata un’altra preoccupazione e non di natura insurrezionalistica: i movimenti al confine tra Afghanistan e repubbliche ex sovietiche, dove il dispositivo di sicurezza congiunto è stato potentemente rafforzato da Mosca dopo la presa di Kunduz tra settembre e ottobre da parte dei talebani che ha molto preoccupato i russi. Non è una novità che stiano guardando nuovamente con attenzione all’area da cui se ne sono andati nel 1989 con ignominia. Ed è di ieri la notizia che Mosca fornirà agli afgani 10mila Kalashnikov, l’arma da combattimento per eccellenza e nota in gergo come Ak47. Il Grande Gioco torna in tutta la sua potenza mentre per ora il processo di pace langue. Al netto di una riunione con americani, cinesi e pachistani che Kabul ospiterà a giorni ma a cui i talebani non parteciperanno.

Afghanistan, il bilancio del Pentagono

Nel rapporto che il Pentagono ha presentato al Congresso degli Stati Uniti per la fine dell’anno
(Enhancing Security and Stability in Afghanistan), i militari americani sono costretti ad ammettere che le cose non vanno bene. “Costretti” sembra un termine appropriato perché lo stile del rapporto mira sia ad assicurare che le forze di sicurezza afgane sono in grado di maneggiare la guerra infinita sia a dare un senso alla scelta di lasciare in Afghanistan quasi diecimila soldati (9.800) anziché i 5.500 che a fine 2016 avrebbero dovuto restare. Una scelta che Obama aveva fatto dopo l’eclatante presa di Kunduz da parte dei talebani tre mesi fa (nota soprattutto per il bombardamento dell’ospedale di Msf). Seppur obtorto collo, il rapporto dà conto di un peggioramento della guerra infinita: tra gennaio e novembre gli attacchi mortali sono aumentati del 4% e sono aumentati quelli con fuoco diretto (rispetto a mine e Ied); i talebani godono, nonostante tutto, di buona salute, Daesh continua a crescere e Al Qaeda non è affatto scomparsa. Solo il 28% degli afgani si sente nel 2015 “al sicuro”, rispetto al 35% nel 2014 e al 45% del 2013. «Collettivamente – conclude il rapporto – terroristi e gruppi insurrezionalisti continuano a presentare una sfida formidabile per gli afgani, gli Usa e la forze della coalizione» (a novembre circa 11.385 uomini).

Le poche righe destinate ai seguaci di bin Laden e Al Zawahiri hanno però attirato l’attenzione della stampa americana e soprattutto del New York Times: che il Paese non sia pacificato ci può stare, ma che Al Qaeda sia in forma è un altro discorso visto che, morto Osama, la missione nell’area doveva ritenersi tecnicamente conclusa. Il rapporto invece rende nota la “resilienza” della rete anche se vi dedica poche righe e tende a derubricarla come l’effetto di un’emigrazione verso l’Afghanistan dovuta all’operativo pachistano Zarb e Azb, che da diciotto mesi martella le postazioni degli stranieri (ceceni, uiguri, uzbeki) con domicilio in Waziristan (area tribale del Pakistan) e che sono i maggiori sostenitori del progetto qaedista. Non solo loro però: il rapporto ammette la preoccupazione per la scelta di mullah Mansur (il nuovo leader dei talebani o, almeno, della fazione più forte) di chiamare come suo vice Siraj Haqqani – l’erede della famosa famiglia afgana jihado-qaedista con residenza in Pakistan e forti legami coi servizi locali. Paradossalmente invece, nota ancora la stampa americana, il rapporto non fa menzione dei rapporti tra Zawahiri (nemmeno citato) e Mansur. Il primo, dopo la proclamazione a luglio del nuovo leader dei talebani aveva registrato un audio messaggio in cui giurava fedeltà al nuovo capo. E qualche giorno dopo, sul sito dei talebani campeggiava l’accettazione del giuramento da parte di Mansur (è anche vero che la pagina è poi scomparsa).

Il rapporto non menziona nemmeno quella che deve invece dev’essere considerata un’altra preoccupazione e non di natura insurrezionalistica: i movimenti al confine tra Afghanistan e repubbliche ex sovietiche, dove il dispositivo di sicurezza congiunto è stato potentemente rafforzato da Mosca dopo la presa di Kunduz tra settembre e ottobre da parte dei talebani che ha molto preoccupato i russi. Non è una novità che stiano guardando nuovamente con attenzione all’area da cui se ne sono andati nel 1989 con ignominia. Ed è di ieri la notizia che Mosca fornirà agli afgani 10mila Kalashnikov, l’arma da combattimento per eccellenza e nota in gergo come Ak47. Il Grande Gioco torna in tutta la sua potenza mentre per ora il processo di pace langue. Al netto di una riunione con americani, cinesi e pachistani che Kabul ospiterà a giorni ma a cui i talebani non parteciperanno.

Promemoria per Mario Dondero. La bella idea di Loretta Veri

Mario Dondero “chez soi” a Fermo. Foto di Luigi Burroni

L’Associazione di volontariato Promemoria – e mi scuso del colpevole ritardo con cui scrivo questa notizia – ha deciso di aiutare gli amici dell’Associazione Altidona Belvedere che stanno lavorando da tempo (e non senza fatica) all’Archivio fotografico Mario Dondero.

L’iniziativa è stata lanciata da Loretta Veri che ha aperto con altri un  gruppo su Facebook: “Mario Dondero e i suoi compagni – et ses camarades”. Attraverso questa pagina si trovano un mucchio di notizie su Mario, i suoi amici, le mostre, le iniziative, l’archivio. Avete un’idea? Un ricordo? Una cosa da condividere? Iscrivetevi al gruppo (azione consigliata…come si dice).

Dalle pagine di Promemoria è possibile effettuare direttamente una donazione destinata all’Archivio fotografico Mario Dondero. Si può aderire tramite PayPal, carta di credito o bonifico bancario. Promemoria è una onlus di diritto e quindi le donazioni sono detraibili a norma di legge ed è sufficiente portare in dichiarazione dei redditi la ricevuta del versamento. Le donazioni si possono fare nelle varie forme da questa pagina.  “Bel colpo”, avrebbe detto Dondi. “Formidabile idea” aggiungo io.

Promemoria per Mario Dondero. La bella idea di Loretta Veri

Mario Dondero “chez soi” a Fermo. Foto di Luigi Burroni

L’Associazione di volontariato Promemoria – e mi scuso del colpevole ritardo con cui scrivo questa notizia – ha deciso di aiutare gli amici dell’Associazione Altidona Belvedere che stanno lavorando da tempo (e non senza fatica) all’Archivio fotografico Mario Dondero.

L’iniziativa è stata lanciata da Loretta Veri che ha aperto con altri un  gruppo su Facebook: “Mario Dondero e i suoi compagni – et ses camarades”. Attraverso questa pagina si trovano un mucchio di notizie su Mario, i suoi amici, le mostre, le iniziative, l’archivio. Avete un’idea? Un ricordo? Una cosa da condividere? Iscrivetevi al gruppo (azione consigliata…come si dice).

Dalle pagine di Promemoria è possibile effettuare direttamente una donazione destinata all’Archivio fotografico Mario Dondero. Si può aderire tramite PayPal, carta di credito o bonifico bancario. Promemoria è una onlus di diritto e quindi le donazioni sono detraibili a norma di legge ed è sufficiente portare in dichiarazione dei redditi la ricevuta del versamento. Le donazioni si possono fare nelle varie forme da questa pagina.  “Bel colpo”, avrebbe detto Dondi. “Formidabile idea” aggiungo io.

Promemoria per Mario Dondero. La bella idea di Loretta Veri

Mario Dondero “chez soi” a Fermo. Foto di Luigi Burroni

L’Associazione di volontariato Promemoria – e mi scuso del colpevole ritardo con cui scrivo questa notizia – ha deciso di aiutare gli amici dell’Associazione Altidona Belvedere che stanno lavorando da tempo (e non senza fatica) all’Archivio fotografico Mario Dondero.

L’iniziativa è stata lanciata da Loretta Veri che ha aperto con altri un  gruppo su Facebook: “Mario Dondero e i suoi compagni – et ses camarades”. Attraverso questa pagina si trovano un mucchio di notizie su Mario, i suoi amici, le mostre, le iniziative, l’archivio. Avete un’idea? Un ricordo? Una cosa da condividere? Iscrivetevi al gruppo (azione consigliata…come si dice).

Dalle pagine di Promemoria è possibile effettuare direttamente una donazione destinata all’Archivio fotografico Mario Dondero. Si può aderire tramite PayPal, carta di credito o bonifico bancario. Promemoria è una onlus di diritto e quindi le donazioni sono detraibili a norma di legge ed è sufficiente portare in dichiarazione dei redditi la ricevuta del versamento. Le donazioni si possono fare nelle varie forme da questa pagina.  “Bel colpo”, avrebbe detto Dondi. “Formidabile idea” aggiungo io.

Mario, il bosco e il risotto (alla miladonderiese)

Furbetti del quartierino (nel bosco):
 Mario Dondero e Monika Bulaj

Complice l’autunno ancora mite del 2013 eravamo andati nel bosco. Monika Bulaj, Mario Dondero ed io: a Crema, bassa padana, nebbie (sempre meno presenti) e odore di funghi, profumi di risotti con lo zafferano e, ovviamente, col midollo. Mario aveva una teoria speciale per il risotto alla milanese sul quale si riteneva, non a torto, un maître indiscusso. Prima di tutto il midollo, acquisito nella macelleria di Erminio dove era avvenuto da poco un scambio in natura: midollo e salsiccia contro la foto di un esemplare stupefacente di razza chianina nella quale il bestione sopravanza l’uomo che lo tiene legato. Una foto che tutti i macellai d’Europa hanno visto sulle riviste dedicate e che è uno dei tanti capolavori “minori” di Mario. Dopo il midollo, la cipolla bianca tagliata un po’ grossa va rosolata in… olio di semi. Si, di semi, perché il risotto va avvolto in quel condimento proletario snobbato dagli chef. Infine lo zafferano (due bustine), a fine cottura, amalgamato nel burro e parmigiano.

Riesco a ricordare Mario Dondero solo così. Anche perché il ricordo dell’uomo non è mai distinto dal fotografo. E il ricordo del maestro dello scatto non è mai disgiunto dalla sua curiosa e golosa umanità. Nelle piccole e grandi foto. Grandi come quella sul Nouveau roman, che gli diede fama internazionale, piccole come quella dell’enorme toro toscano. L’una coccolata dalle élite. L’altra adorata dai macellai. Entrambe scoperta di un’epoca, letteraria o culinaria. Sempre umana. Come l’uomo nel bosco che, prima del risotto, calzando stivaloni e impermeabile, libera dall’edera una pianta approfittando della linfa che, d’autunno, si ritira modesta in vista dell’inverno.

A Crema stavamo lavorando a “Lo scatto umano”, un libro che Laterza ci aveva chiesto dopo una fortunata produzione di chiacchierate radiofoniche sul fotogiornalismo in cui Mario, frugando tra i ricordi e ricomponendo un puzzle che si andava costruendo tra le due guerre mondiali, aveva messo insieme una breve storia dell’inizio di un lavoro mitico – quello del fotoreporter – cominciato a Budapest (lo avreste detto?) e poi diventato grande in Germania e da lì, inseguito dagli strali del nazismo (quei fotoreporter erano per lo più ebrei, ungheresi e comunisti), a Londra, Parigi, New York. Nel mettere assieme il libro, che era una storia del fotogiornalismo ma anche la summa dell’interpretazione di “Dondi”, io non ero altro che il dattilografo di un fiume in piena che andava, al più, contenuto. Era un lavoro poco impegnativo in realtà, sia per il fascino dei racconti, sia perché Mario aveva le idee chiarissime, sia perché intervallavamo la scrittura al risotto, al bosco, ad amene letture scovate nella biblioteca di casa. Come quel romanzo sulla vita di Casanova che aveva appassionato il Mario letterato e il Dondero dongiovanni. E viaggi, naturalmente. E “trattoriole”, come Mario le definiva. Penso così, che sulla strada per l’ignoto Mario si sia fermato in quella “formidabile trattoriola” che sta tra l’Inferno e il Paradiso. Dove fanno quel risotto… Mannaggia a San Pietro, senza l’olio di semi.


Questo articolo è uscito su Pagina99 in edicola per due settimane. Per gustarvi le foto di Monika Bulaj (il valore aggiunto di questo breve ricordo) dovete prendere il giornale

Mario, il bosco e il risotto (alla miladonderiese)

Furbetti del quartierino (nel bosco):
 Mario Dondero e Monika Bulaj

Complice l’autunno ancora mite del 2013 eravamo andati nel bosco. Monika Bulaj, Mario Dondero ed io: a Crema, bassa padana, nebbie (sempre meno presenti) e odore di funghi, profumi di risotti con lo zafferano e, ovviamente, col midollo. Mario aveva una teoria speciale per il risotto alla milanese sul quale si riteneva, non a torto, un maître indiscusso. Prima di tutto il midollo, acquisito nella macelleria di Erminio dove era avvenuto da poco un scambio in natura: midollo e salsiccia contro la foto di un esemplare stupefacente di razza chianina nella quale il bestione sopravanza l’uomo che lo tiene legato. Una foto che tutti i macellai d’Europa hanno visto sulle riviste dedicate e che è uno dei tanti capolavori “minori” di Mario. Dopo il midollo, la cipolla bianca tagliata un po’ grossa va rosolata in… olio di semi. Si, di semi, perché il risotto va avvolto in quel condimento proletario snobbato dagli chef. Infine lo zafferano (due bustine), a fine cottura, amalgamato nel burro e parmigiano.

Riesco a ricordare Mario Dondero solo così. Anche perché il ricordo dell’uomo non è mai distinto dal fotografo. E il ricordo del maestro dello scatto non è mai disgiunto dalla sua curiosa e golosa umanità. Nelle piccole e grandi foto. Grandi come quella sul Nouveau roman, che gli diede fama internazionale, piccole come quella dell’enorme toro toscano. L’una coccolata dalle élite. L’altra adorata dai macellai. Entrambe scoperta di un’epoca, letteraria o culinaria. Sempre umana. Come l’uomo nel bosco che, prima del risotto, calzando stivaloni e impermeabile, libera dall’edera una pianta approfittando della linfa che, d’autunno, si ritira modesta in vista dell’inverno.

A Crema stavamo lavorando a “Lo scatto umano”, un libro che Laterza ci aveva chiesto dopo una fortunata produzione di chiacchierate radiofoniche sul fotogiornalismo in cui Mario, frugando tra i ricordi e ricomponendo un puzzle che si andava costruendo tra le due guerre mondiali, aveva messo insieme una breve storia dell’inizio di un lavoro mitico – quello del fotoreporter – cominciato a Budapest (lo avreste detto?) e poi diventato grande in Germania e da lì, inseguito dagli strali del nazismo (quei fotoreporter erano per lo più ebrei, ungheresi e comunisti), a Londra, Parigi, New York. Nel mettere assieme il libro, che era una storia del fotogiornalismo ma anche la summa dell’interpretazione di “Dondi”, io non ero altro che il dattilografo di un fiume in piena che andava, al più, contenuto. Era un lavoro poco impegnativo in realtà, sia per il fascino dei racconti, sia perché Mario aveva le idee chiarissime, sia perché intervallavamo la scrittura al risotto, al bosco, ad amene letture scovate nella biblioteca di casa. Come quel romanzo sulla vita di Casanova che aveva appassionato il Mario letterato e il Dondero dongiovanni. E viaggi, naturalmente. E “trattoriole”, come Mario le definiva. Penso così, che sulla strada per l’ignoto Mario si sia fermato in quella “formidabile trattoriola” che sta tra l’Inferno e il Paradiso. Dove fanno quel risotto… Mannaggia a San Pietro, senza l’olio di semi.


Questo articolo è uscito su Pagina99 in edicola per due settimane. Per gustarvi le foto di Monika Bulaj (il valore aggiunto di questo breve ricordo) dovete prendere il giornale

Mario, il bosco e il risotto (alla miladonderiese)

Furbetti del quartierino (nel bosco):
 Mario Dondero e Monika Bulaj

Complice l’autunno ancora mite del 2013 eravamo andati nel bosco. Monika Bulaj, Mario Dondero ed io: a Crema, bassa padana, nebbie (sempre meno presenti) e odore di funghi, profumi di risotti con lo zafferano e, ovviamente, col midollo. Mario aveva una teoria speciale per il risotto alla milanese sul quale si riteneva, non a torto, un maître indiscusso. Prima di tutto il midollo, acquisito nella macelleria di Erminio dove era avvenuto da poco un scambio in natura: midollo e salsiccia contro la foto di un esemplare stupefacente di razza chianina nella quale il bestione sopravanza l’uomo che lo tiene legato. Una foto che tutti i macellai d’Europa hanno visto sulle riviste dedicate e che è uno dei tanti capolavori “minori” di Mario. Dopo il midollo, la cipolla bianca tagliata un po’ grossa va rosolata in… olio di semi. Si, di semi, perché il risotto va avvolto in quel condimento proletario snobbato dagli chef. Infine lo zafferano (due bustine), a fine cottura, amalgamato nel burro e parmigiano.

Riesco a ricordare Mario Dondero solo così. Anche perché il ricordo dell’uomo non è mai distinto dal fotografo. E il ricordo del maestro dello scatto non è mai disgiunto dalla sua curiosa e golosa umanità. Nelle piccole e grandi foto. Grandi come quella sul Nouveau roman, che gli diede fama internazionale, piccole come quella dell’enorme toro toscano. L’una coccolata dalle élite. L’altra adorata dai macellai. Entrambe scoperta di un’epoca, letteraria o culinaria. Sempre umana. Come l’uomo nel bosco che, prima del risotto, calzando stivaloni e impermeabile, libera dall’edera una pianta approfittando della linfa che, d’autunno, si ritira modesta in vista dell’inverno.

A Crema stavamo lavorando a “Lo scatto umano”, un libro che Laterza ci aveva chiesto dopo una fortunata produzione di chiacchierate radiofoniche sul fotogiornalismo in cui Mario, frugando tra i ricordi e ricomponendo un puzzle che si andava costruendo tra le due guerre mondiali, aveva messo insieme una breve storia dell’inizio di un lavoro mitico – quello del fotoreporter – cominciato a Budapest (lo avreste detto?) e poi diventato grande in Germania e da lì, inseguito dagli strali del nazismo (quei fotoreporter erano per lo più ebrei, ungheresi e comunisti), a Londra, Parigi, New York. Nel mettere assieme il libro, che era una storia del fotogiornalismo ma anche la summa dell’interpretazione di “Dondi”, io non ero altro che il dattilografo di un fiume in piena che andava, al più, contenuto. Era un lavoro poco impegnativo in realtà, sia per il fascino dei racconti, sia perché Mario aveva le idee chiarissime, sia perché intervallavamo la scrittura al risotto, al bosco, ad amene letture scovate nella biblioteca di casa. Come quel romanzo sulla vita di Casanova che aveva appassionato il Mario letterato e il Dondero dongiovanni. E viaggi, naturalmente. E “trattoriole”, come Mario le definiva. Penso così, che sulla strada per l’ignoto Mario si sia fermato in quella “formidabile trattoriola” che sta tra l’Inferno e il Paradiso. Dove fanno quel risotto… Mannaggia a San Pietro, senza l’olio di semi.


Questo articolo è uscito su Pagina99 in edicola per due settimane. Per gustarvi le foto di Monika Bulaj (il valore aggiunto di questo breve ricordo) dovete prendere il giornale

Ttp vs Al Bagdadi: non sei il califfo. I talebani pachistani si smarcano da Daesh

Baghdadi is not Khalifa (caliph) because in Islam, Khalifa means that he has command over all the Muslim world, while Baghdadi has no such command; he has command over a specific people and territory. 

Dice così senza trope perifrasi il comunicato del Tehreek-e-Taleban Pakistan (talebani pachistani) che ieri ha preso ufficialmente le distanza da Daesh e dal suo “califfo” Al Bagdadi. Il comunicato del gruppo, che appare oggi sulla stampa pachistana, cerca così di porre tardivamente rimedio alle secessioni verso il califfato di cui la più nota è quella di Shahidullah Shahid, il  portavoce del gruppo espulso con altri secessionisti nell’ottobre del 2014 proprio per l’adesione al cosiddetto Stato islamico. I talebani afgani hanno preso le distanze da tempo. Entrambi condannano la “barbarie” dei mezzi usati dall’Is. I talebani afgani avevano chiarito ad Al Bagdad, con una lettera indirizzata al capo di Daesh, che nel Paese c’è posto “per una sola bandiera”. Bagdadi si tenesse la sua.

Ttp vs Al Bagdadi: non sei il califfo. I talebani pachistani si smarcano da Daesh

Baghdadi is not Khalifa (caliph) because in Islam, Khalifa means that he has command over all the Muslim world, while Baghdadi has no such command; he has command over a specific people and territory. 

Dice così senza trope perifrasi il comunicato del Tehreek-e-Taleban Pakistan (talebani pachistani) che ieri ha preso ufficialmente le distanza da Daesh e dal suo “califfo” Al Bagdadi. Il comunicato del gruppo, che appare oggi sulla stampa pachistana, cerca così di porre tardivamente rimedio alle secessioni verso il califfato di cui la più nota è quella di Shahidullah Shahid, il  portavoce del gruppo espulso con altri secessionisti nell’ottobre del 2014 proprio per l’adesione al cosiddetto Stato islamico. I talebani afgani hanno preso le distanze da tempo. Entrambi condannano la “barbarie” dei mezzi usati dall’Is. I talebani afgani avevano chiarito ad Al Bagdad, con una lettera indirizzata al capo di Daesh, che nel Paese c’è posto “per una sola bandiera”. Bagdadi si tenesse la sua.

Ttp vs Al Bagdadi: non sei il califfo. I talebani pachistani si smarcano da Daesh

Baghdadi is not Khalifa (caliph) because in Islam, Khalifa means that he has command over all the Muslim world, while Baghdadi has no such command; he has command over a specific people and territory. 

Dice così senza trope perifrasi il comunicato del Tehreek-e-Taleban Pakistan (talebani pachistani) che ieri ha preso ufficialmente le distanza da Daesh e dal suo “califfo” Al Bagdadi. Il comunicato del gruppo, che appare oggi sulla stampa pachistana, cerca così di porre tardivamente rimedio alle secessioni verso il califfato di cui la più nota è quella di Shahidullah Shahid, il  portavoce del gruppo espulso con altri secessionisti nell’ottobre del 2014 proprio per l’adesione al cosiddetto Stato islamico. I talebani afgani hanno preso le distanze da tempo. Entrambi condannano la “barbarie” dei mezzi usati dall’Is. I talebani afgani avevano chiarito ad Al Bagdad, con una lettera indirizzata al capo di Daesh, che nel Paese c’è posto “per una sola bandiera”. Bagdadi si tenesse la sua.

Mario Dondero, il mio ricordo e la fotografia

No, non era la fotografia e la capacità di scatto, la qualità più grande di Mario Dondero. Non so se sia il più grande fotografo italiano del secolo, se sia un maestro dell’arte fotografica europea. Non lo so perché di fotografia (questo l’ho imparato stando vicino a Mario e a Monika Bulaj) non capisco nulla: è un ‘arte complessa e piena di sfaccettature. E dunque non era per le sue foto che ho amato Mario. La qualità principale era la sua umanità che, come tutti han detto, si rifletteva nelle sue immagini. Ma cos’è l’umanità al di là della simpatia, del fascino, del saper stare in mezzo alla gente? Mario era certo un gran corteggiatore, un uomo raffinato ed educato nei rapporti con le persone. Uno capace di attaccar bottone con tutti perché di tutti era curioso. Ma la sua altra grande qualità era avere la schiena dritta. Esser simpatico e affabile non basta se non c’è dietro anche un’elaborazione intellettuale della tua umanità che, per Mario, era impegno sociale e politico. Al contempo quest’uomo di saldi, saldissimi principi, era molto libertario. Perdonava ad altri ciò che a lui non si sarebbe mai perdonato. Non faceva compromessi. Capperi, questo coniugare umanità e schiena dritta mi pare la sua qualità essenziale, quella per cui lo ricordo. E poi, certo, anche quella capacità di viaggiare, di perdersi via nel vento delle cose e delle passioni che fanno deviare dalla strada maestra. Infine era fotografo, storico della fotografia, interprete curioso dei cambiamenti («sono un partigiano dell’analogico ma sono affascinato dalle nuove possibilità del video…»). Ma non mi mancheranno le sue foto. Mancherà lui, una persona la cui cifra umana mi sembra irraggiungibile e un modello cui attenersi.

Mario d’Oltralpe

Qui da Franceinter  un articolo dedicato a lui e a una piece teatrale in Francia costruita a partire da una sua famosissima fotografia. Ci sono anche diverse sue immagini

Questo video anche: Mario Dondero, tentative d’interview par Michel Puech

Qui un’intervista a Mario registrata il 23 settembre 2014, a Bologna a presentare Lo scatto umano.  Mario fa un riassunto perfetto del libro. Un bel regalo di Radio Città del Capo e di  Piero Santi (il conduttore).  C’è tutto: gli esordi, gli ungheresi e, naturalmente, Robert Capa. Era il suo  mito. Il mio, ca va sans dire, è Mario Dondero

Domani su Pagina99 il ricordo  di Monika e mio di Mario

Mario Dondero, il mio ricordo e la fotografia

No, non era la fotografia e la capacità di scatto, la qualità più grande di Mario Dondero. Non so se sia il più grande fotografo italiano del secolo, se sia un maestro dell’arte fotografica europea. Non lo so perché di fotografia (questo l’ho imparato stando vicino a Mario e a Monika Bulaj) non capisco nulla: è un ‘arte complessa e piena di sfaccettature. E dunque non era per le sue foto che ho amato Mario. La qualità principale era la sua umanità che, come tutti han detto, si rifletteva nelle sue immagini. Ma cos’è l’umanità al di là della simpatia, del fascino, del saper stare in mezzo alla gente? Mario era certo un gran corteggiatore, un uomo raffinato ed educato nei rapporti con le persone. Uno capace di attaccar bottone con tutti perché di tutti era curioso. Ma la sua altra grande qualità era avere la schiena dritta. Esser simpatico e affabile non basta se non c’è dietro anche un’elaborazione intellettuale della tua umanità che, per Mario, era impegno sociale e politico. Al contempo quest’uomo di saldi, saldissimi principi, era molto libertario. Perdonava ad altri ciò che a lui non si sarebbe mai perdonato. Non faceva compromessi. Capperi, questo coniugare umanità e schiena dritta mi pare la sua qualità essenziale, quella per cui lo ricordo. E poi, certo, anche quella capacità di viaggiare, di perdersi via nel vento delle cose e delle passioni che fanno deviare dalla strada maestra. Infine era fotografo, storico della fotografia, interprete curioso dei cambiamenti («sono un partigiano dell’analogico ma sono affascinato dalle nuove possibilità del video…»). Ma non mi mancheranno le sue foto. Mancherà lui, una persona la cui cifra umana mi sembra irraggiungibile e un modello cui attenersi.

Mario d’Oltralpe

Qui da Franceinter  un articolo dedicato a lui e a una piece teatrale in Francia costruita a partire da una sua famosissima fotografia. Ci sono anche diverse sue immagini

Questo video anche: Mario Dondero, tentative d’interview par Michel Puech

Qui un’intervista a Mario registrata il 23 settembre 2014, a Bologna a presentare Lo scatto umano.  Mario fa un riassunto perfetto del libro. Un bel regalo di Radio Città del Capo e di  Piero Santi (il conduttore).  C’è tutto: gli esordi, gli ungheresi e, naturalmente, Robert Capa. Era il suo  mito. Il mio, ca va sans dire, è Mario Dondero

Domani su Pagina99 il ricordo  di Monika e mio di Mario

Mario Dondero, il mio ricordo e la fotografia

No, non era la fotografia e la capacità di scatto, la qualità più grande di Mario Dondero. Non so se sia il più grande fotografo italiano del secolo, se sia un maestro dell’arte fotografica europea. Non lo so perché di fotografia (questo l’ho imparato stando vicino a Mario e a Monika Bulaj) non capisco nulla: è un ‘arte complessa e piena di sfaccettature. E dunque non era per le sue foto che ho amato Mario. La qualità principale era la sua umanità che, come tutti han detto, si rifletteva nelle sue immagini. Ma cos’è l’umanità al di là della simpatia, del fascino, del saper stare in mezzo alla gente? Mario era certo un gran corteggiatore, un uomo raffinato ed educato nei rapporti con le persone. Uno capace di attaccar bottone con tutti perché di tutti era curioso. Ma la sua altra grande qualità era avere la schiena dritta. Esser simpatico e affabile non basta se non c’è dietro anche un’elaborazione intellettuale della tua umanità che, per Mario, era impegno sociale e politico. Al contempo quest’uomo di saldi, saldissimi principi, era molto libertario. Perdonava ad altri ciò che a lui non si sarebbe mai perdonato. Non faceva compromessi. Capperi, questo coniugare umanità e schiena dritta mi pare la sua qualità essenziale, quella per cui lo ricordo. E poi, certo, anche quella capacità di viaggiare, di perdersi via nel vento delle cose e delle passioni che fanno deviare dalla strada maestra. Infine era fotografo, storico della fotografia, interprete curioso dei cambiamenti («sono un partigiano dell’analogico ma sono affascinato dalle nuove possibilità del video…»). Ma non mi mancheranno le sue foto. Mancherà lui, una persona la cui cifra umana mi sembra irraggiungibile e un modello cui attenersi.

Mario d’Oltralpe

Qui da Franceinter  un articolo dedicato a lui e a una piece teatrale in Francia costruita a partire da una sua famosissima fotografia. Ci sono anche diverse sue immagini

Questo video anche: Mario Dondero, tentative d’interview par Michel Puech

Qui un’intervista a Mario registrata il 23 settembre 2014, a Bologna a presentare Lo scatto umano.  Mario fa un riassunto perfetto del libro. Un bel regalo di Radio Città del Capo e di  Piero Santi (il conduttore).  C’è tutto: gli esordi, gli ungheresi e, naturalmente, Robert Capa. Era il suo  mito. Il mio, ca va sans dire, è Mario Dondero

Domani su Pagina99 il ricordo  di Monika e mio di Mario

Zarb- e-Azb: a che punto siamo (aggiornato)

Raheel Sharif comandante in campo
 delle FF AA pachistane. Uomo forte

Qualche giorno fa, l’esercito pachistano ha dato i risultati dell’operativo Zarb-e-Azb che, da un anno e mezzo, tempesta le postazioni talebane in Waziristan del Nord. Viene definito un grande successo. Con circa 30mila soldati impegnati sul terreno e il sostegno dell’aviazione, l’operazione compie adesso 18 mesi di attività.

3,400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli ora distrutti con  13,200 Ibo’s (operativi militari).  I morti tra i militari sono 488  (Pakistan Army, Frontier Corps (FC) e Sindh Rangers)  1,914 i feriti. Sono in funzione 11 corti militari che hanno in mano 142 casi di cui 55 risolti. 31 i terroristi giudicati colpevoli dalle corti militari (sono state autorizzate dopo l’inizio dell’operativo e possono condannare a morte perché Islamabad ha sospeso la moratoria). Alcuni sono già stati impiccati

Gli effetti sui civili

In giugno l’esercito ha sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili. Purtroppo non ci sono né dati né stime indipendenti anche perché la zona è off limits per giornalisti e ricercatori. Gli sfollati possono però dare un’idea. Secondo la stampa pachistana gli sfollati erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione –   circa un milione ( 929,859Idp’s – internally displaced persons – da  80,302 famiglie registrate). Tenuto conto che la popolazione stimata del Nord Wazirista è tra i 4-500mila….Entro dicembre (adesso) l’esercito contava di rimpatriare nei luoghi d’origine tutti gli sfollati. Secondo fonti militari (che hanno reso nota la cifra il 19 dicembre), il totale delle famiglie sfollate assommava a 291.827; ma solo il 40% di queste  (108.503) avrebbe fatto ritorno a casa. Aggiungo qualche piccola nota a margine.

Terrorismo e politica estera: i rapporti con Riad

Islamabad ha intanto aderito alla coalizione di 34 Paesi musulmani (la stragrande maggioranza anche se con parecchi distinguo: Giacarta ha espresso sostegno ma non ha aderito) messa in piedi da Riad. Ha messo però qualche paletto sull’estensione della sua partecipazione. Il Pakistan è un Paese nucleare e quindi la sua presenza è rilevante. Ma è anche una nazione non araba e che confina col vicino Iran, escluso a priori dalla coalizione con Siria e Irak.  In marzo, Islamabad si era rifiutata invece di aderire alla coalizione armata contro lo Yemen, cosa che aveva molto irritato Riad. Possibile che Islamabad tenga conto dell’appoggio che il Golfo ha garantito, almeno all’inizio, a Desh che sta crescendo e aumentando i problemi interni.

La radio di Daesh in Afghanistan

Si è infatti aggiunta la minaccia di Daesh che sta rafforzando le sue posizioni in Pakistan e Afghanistan. In questi giorni una Radio del Califfato trasmette nella provincia di confine del Nangarhar, dove è nota la presenza di Daesh. Ma non è chiaro se l’emittente ha i suoi studi nell’area di Jalalabad (capoluogo) o oltre confine

Ultimo aggiornamento 19/12/2015

Zarb- e-Azb: a che punto siamo (aggiornato)

Raheel Sharif comandante in campo
 delle FF AA pachistane. Uomo forte

Qualche giorno fa, l’esercito pachistano ha dato i risultati dell’operativo Zarb-e-Azb che, da un anno e mezzo, tempesta le postazioni talebane in Waziristan del Nord. Viene definito un grande successo. Con circa 30mila soldati impegnati sul terreno e il sostegno dell’aviazione, l’operazione compie adesso 18 mesi di attività.

3,400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli ora distrutti con  13,200 Ibo’s (operativi militari).  I morti tra i militari sono 488  (Pakistan Army, Frontier Corps (FC) e Sindh Rangers)  1,914 i feriti. Sono in funzione 11 corti militari che hanno in mano 142 casi di cui 55 risolti. 31 i terroristi giudicati colpevoli dalle corti militari (sono state autorizzate dopo l’inizio dell’operativo e possono condannare a morte perché Islamabad ha sospeso la moratoria). Alcuni sono già stati impiccati

Gli effetti sui civili

In giugno l’esercito ha sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili. Purtroppo non ci sono né dati né stime indipendenti anche perché la zona è off limits per giornalisti e ricercatori. Gli sfollati possono però dare un’idea. Secondo la stampa pachistana gli sfollati erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione –   circa un milione ( 929,859Idp’s – internally displaced persons – da  80,302 famiglie registrate). Tenuto conto che la popolazione stimata del Nord Wazirista è tra i 4-500mila….Entro dicembre (adesso) l’esercito contava di rimpatriare nei luoghi d’origine tutti gli sfollati. Secondo fonti militari (che hanno reso nota la cifra il 19 dicembre), il totale delle famiglie sfollate assommava a 291.827; ma solo il 40% di queste  (108.503) avrebbe fatto ritorno a casa. Aggiungo qualche piccola nota a margine.

Terrorismo e politica estera: i rapporti con Riad

Islamabad ha intanto aderito alla coalizione di 34 Paesi musulmani (la stragrande maggioranza anche se con parecchi distinguo: Giacarta ha espresso sostegno ma non ha aderito) messa in piedi da Riad. Ha messo però qualche paletto sull’estensione della sua partecipazione. Il Pakistan è un Paese nucleare e quindi la sua presenza è rilevante. Ma è anche una nazione non araba e che confina col vicino Iran, escluso a priori dalla coalizione con Siria e Irak.  In marzo, Islamabad si era rifiutata invece di aderire alla coalizione armata contro lo Yemen, cosa che aveva molto irritato Riad. Possibile che Islamabad tenga conto dell’appoggio che il Golfo ha garantito, almeno all’inizio, a Desh che sta crescendo e aumentando i problemi interni.

La radio di Daesh in Afghanistan

Si è infatti aggiunta la minaccia di Daesh che sta rafforzando le sue posizioni in Pakistan e Afghanistan. In questi giorni una Radio del Califfato trasmette nella provincia di confine del Nangarhar, dove è nota la presenza di Daesh. Ma non è chiaro se l’emittente ha i suoi studi nell’area di Jalalabad (capoluogo) o oltre confine

Ultimo aggiornamento 19/12/2015

Ricordando Mario Dondero

Il dolore è profondo e temo, per certi versi, inconsolabile. Soprattutto per chi Mario lo ha conosciuto e ne ha tratto non pochi insegnamenti così che ora quel vuoto è maledettamente profondo e incolmabile.

 Tant’è: è bello come Mario viene ricordato. Tra le tante cose uscite (le tre pagine sul manifesto ad esempio coi bei pezzi, tra gli altri, di Tommaso di Francesco, Angelo Ferrracuti, Mastrandrea e Boccia ma anche Gnoli e Smargiassi su Repubblica), segnalo un po’ di cosette: il delicato e completo ricordo  dedicatogli da Valentina Redaelli su radiopopolare.it; il video montato da pagina99 (che sabato esce con delle foto inedite scattategli da Monika Bulaj due anni fa) e che riproduco qui sotto*:

Infine alcuni sonori di Mario con Goffredo Fofi (erano molto amici) che trovate qui sul sito de Lo Straniero (da cui è tratta l’immagine in alto a destra).

Qui sotto invece una delle “preferite” di Mario: Le deserteur di Boris Vian, cantata da Marcel Mouloudji

E ancora questa versione jazz di “Odio l’estate” (che Mario adorava anche nell’originale di Bruno Martino). Si passavan ore su Youtube a trovare colonne sonore per cucinare al meglio il risotto

Un forte abbraccio a Laura che lo ha accompagnato sino alla fine e ai suoi tre figli

Le immagini con cui è stato realizzato questo video sono tratte dal documentario Calma e gesso, di Marco Cruciani

Ricordando Mario Dondero

Il dolore è profondo e temo, per certi versi, inconsolabile. Soprattutto per chi Mario lo ha conosciuto e ne ha tratto non pochi insegnamenti così che ora quel vuoto è maledettamente profondo e incolmabile.

 Tant’è: è bello come Mario viene ricordato. Tra le tante cose uscite (le tre pagine sul manifesto ad esempio coi bei pezzi, tra gli altri, di Tommaso di Francesco, Angelo Ferrracuti, Mastrandrea e Boccia ma anche Gnoli e Smargiassi su Repubblica), segnalo un po’ di cosette: il delicato e completo ricordo  dedicatogli da Valentina Redaelli su radiopopolare.it; il video montato da pagina99 (che sabato esce con delle foto inedite scattategli da Monika Bulaj due anni fa) e che riproduco qui sotto*:

Infine alcuni sonori di Mario con Goffredo Fofi (erano molto amici) che trovate qui sul sito de Lo Straniero (da cui è tratta l’immagine in alto a destra).

Qui sotto invece una delle “preferite” di Mario: Le deserteur di Boris Vian, cantata da Marcel Mouloudji

E ancora questa versione jazz di “Odio l’estate” (che Mario adorava anche nell’originale di Bruno Martino). Si passavan ore su Youtube a trovare colonne sonore per cucinare al meglio il risotto

Un forte abbraccio a Laura che lo ha accompagnato sino alla fine e ai suoi tre figli

Le immagini con cui è stato realizzato questo video sono tratte dal documentario Calma e gesso, di Marco Cruciani

Ricordando Mario Dondero

Il dolore è profondo e temo, per certi versi, inconsolabile. Soprattutto per chi Mario lo ha conosciuto e ne ha tratto non pochi insegnamenti così che ora quel vuoto è maledettamente profondo e incolmabile.

 Tant’è: è bello come Mario viene ricordato. Tra le tante cose uscite (le tre pagine sul manifesto ad esempio coi bei pezzi, tra gli altri, di Tommaso di Francesco, Angelo Ferrracuti, Mastrandrea e Boccia ma anche Gnoli e Smargiassi su Repubblica), segnalo un po’ di cosette: il delicato e completo ricordo  dedicatogli da Valentina Redaelli su radiopopolare.it; il video montato da pagina99 (che sabato esce con delle foto inedite scattategli da Monika Bulaj due anni fa) e che riproduco qui sotto*:

Infine alcuni sonori di Mario con Goffredo Fofi (erano molto amici) che trovate qui sul sito de Lo Straniero (da cui è tratta l’immagine in alto a destra).

Qui sotto invece una delle “preferite” di Mario: Le deserteur di Boris Vian, cantata da Marcel Mouloudji

E ancora questa versione jazz di “Odio l’estate” (che Mario adorava anche nell’originale di Bruno Martino). Si passavan ore su Youtube a trovare colonne sonore per cucinare al meglio il risotto

Un forte abbraccio a Laura che lo ha accompagnato sino alla fine e ai suoi tre figli

Le immagini con cui è stato realizzato questo video sono tratte dal documentario Calma e gesso, di Marco Cruciani

Ciao Mario

Se n’è andato stasera Mario Dondero, grande  fotografo e ancor più grande amico, per ignota destinazione. Confido che, lungo la strada, si sia fermato “in quella trattoriola” dove fanno una zuppa particolare di fagioli dal sapore genovese. Mancherà a tanti

A Ca’ delle mosche, con Monika Bulaj (che mi prestò la macchina) mentre preparavamo
Lo scatto umano  nell’autunno del 2013

Ciao Mario

Se n’è andato stasera Mario Dondero, grande  fotografo e ancor più grande amico, per ignota destinazione. Confido che, lungo la strada, si sia fermato “in quella trattoriola” dove fanno una zuppa particolare di fagioli dal sapore genovese. Mancherà a tanti

A Ca’ delle mosche, con Monika Bulaj (che mi prestò la macchina) mentre preparavamo
Lo scatto umano  nell’autunno del 2013

Mansur: son vivo, ci sono e lotto insieme a voi

Dopo aver aspettato alcuni giorni, mullah Mansur, il capo dei talebani della Shura di Quetta che era stato per morto o gravemente ferito, si fa sentire con un audio postato sul sito dei guerriglieri in turbante. Un audio è meglio di niente. Un video sarebbe stato meglio perché in molti – a cominciare dla governo di Kabul, ne mettono in dubbio la veridicità, come avvenne per i molti audio di Osama bin Laden che a un certo punto smise di apparire. L’audio dura quasi 17 minuti.

Mansur: son vivo, ci sono e lotto insieme a voi

Dopo aver aspettato alcuni giorni, mullah Mansur, il capo dei talebani della Shura di Quetta che era stato per morto o gravemente ferito, si fa sentire con un audio postato sul sito dei guerriglieri in turbante. Un audio è meglio di niente. Un video sarebbe stato meglio perché in molti – a cominciare dla governo di Kabul, ne mettono in dubbio la veridicità, come avvenne per i molti audio di Osama bin Laden che a un certo punto smise di apparire. L’audio dura quasi 17 minuti.

Dead or Alive: Rasul vs Mansur e il giallo del capo talebano

 Il logo dell’emirato islamico d’Afghanistan

Ancora non è chiaro cosa sia successo  a Quetta o dintorni, in Pakistan. Ma i rumors che da qualche giorno circondano la possibile morte o  il ferimento di mullah Mansur (Mansoor o Mansour se preferite) – il successore assai contestato di mullah Omar – stanno facendo il giro dei media  afgani e internazionali (qui sotto un reportage della tv afgana). Nello scontro tra talebani  (in una riunione, in un agguato?) avvenuto nelle vicinanze o nella stessa Quetta (una delle possibili residenze dei capi talebani e sede della omonima shura), Mansur sarebbe dunque stato ferito gravemente (così sostiene un twitter del capo dell’esecutivo afgano Abdullah) se non addirittura ucciso.

Conferme non ce ne sono e c’è da registrare la smentita della shura di Quetta ma è anche vero che al momento non c’è alcuna dichiarazione, scritta o audio video, dal capo talebano, eletto con difficoltà questa estate dopo l’annuncio della morte di mullah Omar. A quanto sembra di capire ci sarebbe stato uno scontro tra fazioni:  tra la sua è quella di mullah Mohammad Rasul (Rassoul se preferite) Noorzay al cui fianco sono schierate vecchie conoscenze come mullah Mansur Dadullah  (qualche giorno fa si era diffusa la notizia anche della sua morte),  fratello del vecchio comandante Dadullah (quello che sequestrò Daniele Mastrogiacomo)  ucciso anni fa forse da un raid Nato, forse da un agguato dei suoi stessi colleghi in turbante.


Alla base delle divergenze c’è una questione di trasparenza sulla nomina del successore di Omar, un problema di lotte intestine per il potere e una diversa visione politica sul ruolo del Pakistan che, dicono i suoi accusatori, manovrerebbe  Mansur come un burattino. Per ora sul sito ufficiale dei talebani c’è solo una tiepida smentita di poche righe che se la prende con l’agenzia Pajhwok, già nel mirino dei talebani e oggetto in passato di rappresaglie. Non resta che aspettare che mullah Mansur si palesi. A volerlo morto sono in tanti. Daesh, intanto, ringrazia.

Dead or Alive: Rasul vs Mansur e il giallo del capo talebano

 Il logo dell’emirato islamico d’Afghanistan

Ancora non è chiaro cosa sia successo  a Quetta o dintorni, in Pakistan. Ma i rumors che da qualche giorno circondano la possibile morte o  il ferimento di mullah Mansur (Mansoor o Mansour se preferite) – il successore assai contestato di mullah Omar – stanno facendo il giro dei media  afgani e internazionali (qui sotto un reportage della tv afgana). Nello scontro tra talebani  (in una riunione, in un agguato?) avvenuto nelle vicinanze o nella stessa Quetta (una delle possibili residenze dei capi talebani e sede della omonima shura), Mansur sarebbe dunque stato ferito gravemente (così sostiene un twitter del capo dell’esecutivo afgano Abdullah) se non addirittura ucciso.

Conferme non ce ne sono e c’è da registrare la smentita della shura di Quetta ma è anche vero che al momento non c’è alcuna dichiarazione, scritta o audio video, dal capo talebano, eletto con difficoltà questa estate dopo l’annuncio della morte di mullah Omar. A quanto sembra di capire ci sarebbe stato uno scontro tra fazioni:  tra la sua è quella di mullah Mohammad Rasul (Rassoul se preferite) Noorzay al cui fianco sono schierate vecchie conoscenze come mullah Mansur Dadullah  (qualche giorno fa si era diffusa la notizia anche della sua morte),  fratello del vecchio comandante Dadullah (quello che sequestrò Daniele Mastrogiacomo)  ucciso anni fa forse da un raid Nato, forse da un agguato dei suoi stessi colleghi in turbante.


Alla base delle divergenze c’è una questione di trasparenza sulla nomina del successore di Omar, un problema di lotte intestine per il potere e una diversa visione politica sul ruolo del Pakistan che, dicono i suoi accusatori, manovrerebbe  Mansur come un burattino. Per ora sul sito ufficiale dei talebani c’è solo una tiepida smentita di poche righe che se la prende con l’agenzia Pajhwok, già nel mirino dei talebani e oggetto in passato di rappresaglie. Non resta che aspettare che mullah Mansur si palesi. A volerlo morto sono in tanti. Daesh, intanto, ringrazia.

Transumanza e letteratura sulla Durand Line

Necessità, tradizione, mito e scrittura. La migrazione di vecchi e nuovi nomadi tra narrazione epica e antichi movimenti transfrontalieri. Uno sguardo sulla frontiera maledetta

La Durand Line e in particolare i suoi passaggi, di cui il più famoso è quello di Khyber, sono sempre stati una grande attrazione per i viaggiatori occidentali a partire dalla sua creazione. Ma molto prima e molto dopo, sia quando quel confine non esisteva, sia dopo che il righello di Mortimer Durand l’aveva tracciato, un’enorme massa di persone aveva attraversato, e continua a farlo, la frontiera geografica segnata dai monti Suleiman. Per commercianti, trafficanti, eserciti, contrabbandieri, guerriglieri, i passi che attraversano quella linea più o meno immaginaria sono l’accesso al subcontinente o l’uscita verso l’Asia centrale. Di questi protagonisti si è detto molto ma minor attenzione si è prestata a quanti, nei secoli e in parte ancora oggi, la attraversano in una migrazione nomadica che spinge a varcare quella soglia in cerca di un clima meno rigido e pascoli più rigogliosi. Anche vecchi e nuovi nomadi (per scelta economica – nel caso della transumanza – per scelta obbligata – nel caso dei migranti in fuga dalla guerra – per scelta logistica nel caso dei viaggiatori) sono dunque tra i grandi protagonisti della frontiera più porosa del pianeta. Ma se i viaggiatori occidentali hanno soprattutto raccontato sé stessi e del fascino del Khyber Pass, i pastori non si raccontano e sono ancor meno sono raccontati di quanto non lo siano profughi e sfollati, obbligati a un nomadismo senza futuro dalle contingenze belliche. I pastori nomadi attraversano da secoli una frontiera che è per loro essenzialmente geografica. I nomadi “moderni” – i viaggiatori – ne sono invece stati attratti dall’idea di un passaggio culturale – molto mitizzato – tra due mondi.

Kuchi

Monile kuchi. Si può comprare
su ebay per meno di otto dollari


Della migrazione dei nomadi afgani che attraversano stagionalmente il confine non si conosce
molto, come poco si sa della loro storia e persino delle loro origini. Tanto meno dell’estrema fluidità con cui un gruppo può passare da una vita nomade a una seminomade o addirittura sedentaria per poi riprendere nuovamente la strada. In Afghanistan i nomadi vengono denominati Kuchi, un termine che indica soprattutto (ma non solo) la realtà pashtun1. In effetti le maggior parte delle comunità nomadi o seminomadi sono pashtun ma vi sono gruppi, benché minori, di origine beluci, araba, turcmena e così via. Il nomadismo è prevalentemente legato alle esigenze del pascolo e per molti Kuchi le pianure al di là dei Suleiman erano una meta importante: non solo per la ricerca di pascoli ma per commerciare il surplus (bestiame, carne, lana, capelli, pelli, frutta ma anche artigianato – tappeti – scambiati per sale, tè, zucchero, abiti, ferro e, in tempi recenti, cherosene). Largamente tollerati dai britannici – che quando potevano tassavano le carovane – i nomadi hanno visto complicarsi le cose con le frizioni di frontiera tra Pakistan e Afghanistan, sia per la questione del “Pasthunistan”, sia per la necessità più recente di controllare il flusso transfrontaliero, specie se non passa da valichi stradali. Alle difficoltà di attraversare la frontiera – passaggio garantito dalla conoscenza del terreno e dalla rete delle parentele – si è aggiunto il problema della sicurezza (guerra, mine, bombardamenti) e la ricerca di lavori sedentari in Afghanistan: elementi che hanno ridotto sempre di più – dagli anni Sessanta del secolo scorso – il flusso tra le due frontiere, tanto che oggi la transumanza transfrontaliera, fortemente scoraggiata, è ormai un fenomeno residuale in quel milione e mezzo di nomadi Kuchi (2,5 milioni in totale), di cui oggi si registrano soprattutto le contese con vecchi e nuovi proprietari terrieri sull’utilizzo dei pascoli afgani.

Nuovi nomadi

Nicolas Bouvier, in viaggio
con la Topolino

Il flusso dei nomadi per vocazione letteraria, di ricerca o piacere del viaggio, non sono elemento recente anche se fu l’epoca del Raj britannico, che aveva la sua frontiera più occidentale nei turbolenti territori sikh e afgani, a far guardare oltre la Durand Line prima e dopo che fosse tracciata. Si può citare per tutti sir Olaf Caroe e la sua storia dei Pathan, lungo racconto di stili di vita e codici consuetudinari ammantato del fascino che le genti delle aree tribali avevano sull’ultimo governatore del Raj nella Provincia della frontiera. Giornalisti e scrittori, fuori dal circolo strettamente accademico, si sono esercitati – da Karl Meyer a Peter Hopkirk – sull’epopea britannico zarista del Great Game, locuzione che la vulgata attribuisce erroneamente a Rudyard Kipling, narratore delle avventure del piccolo Kim, circondate dal mito del fiero guerriero afgano e del compassionevole monaco buddista. Del resto anche Giuseppe Tucci racconta di quel fascino che circonda vallate e pianure «in quelle contrade dove prosperò l’arte del Gandhara». Incantato dalla storia del passo di Khyber, in epoca più recente, lo scozzese Paddy Doncherty vi ha passato mesi per raccontare un luogo dove, a ogni piè sospinto, si ricorda l’epopea militare del Raj che pende dalle pareti rocciose negli stemmi del Dorset Regiment o dei South Wales Borderer. Gli scrittori non mancano: dai maledetti, come la svizzera Annemarie Schwarzenbach accompagnata da Ella Mailart, ai semplici osservatori alla Nicolas Bouvier – anche lui svizzero – che con Thyerry Vernet attraversa il Khyber con una Fiat Topolino. L’attenzione ai nomadi locali – i protagonisti nascosti dell’attraversamento della frontiera – è però rara: si ritrova in un libro appena dato alle stampe della scrittrice e fotografa Monika Bulaj o nel romanzo di Jamil Ahmad, scrittore pachistano che, forse per questo, cede meno al fascino orientalistico che inevitabilmente colpisce il viaggiatore occidentale.

Opere citate

Ahmad J., L’acqua più dolce del mondo, Bollati Boringhieri, 2012
Bouvier N., L’oeil du voyage, Hoëbeke, 2001
Bulaj M., La luce nascosta dell’Afghanistan, Electa, 2013
Caroe O., The Pathans, Oxford University Press, 1996
Docherty P., Khyber Pass, ilSaggiatore, 2007
Foschini F., The Social Wandering of the Afghan Kuchis, AAN, Kabul, 2013
Hopkirk P., Il Grande Gioco, Adelphi, 2004
Maillart E., La via crudele, EDT, 1993
Meyer K., La polvere dell’impero, Corbaccio, 2004
Schwarzenbach A., La via per Kabul, assaggiatore, 2009
Tucci G., La via dello Svat, Leonardo da Vinci Editirce, 1963
Wily L. A., Land, People, and the State in Afghanistan 2002-2012, Areu, 2013

Transumanza e letteratura sulla Durand Line

Necessità, tradizione, mito e scrittura. La migrazione di vecchi e nuovi nomadi tra narrazione epica e antichi movimenti transfrontalieri. Uno sguardo sulla frontiera maledetta

La Durand Line e in particolare i suoi passaggi, di cui il più famoso è quello di Khyber, sono sempre stati una grande attrazione per i viaggiatori occidentali a partire dalla sua creazione. Ma molto prima e molto dopo, sia quando quel confine non esisteva, sia dopo che il righello di Mortimer Durand l’aveva tracciato, un’enorme massa di persone aveva attraversato, e continua a farlo, la frontiera geografica segnata dai monti Suleiman. Per commercianti, trafficanti, eserciti, contrabbandieri, guerriglieri, i passi che attraversano quella linea più o meno immaginaria sono l’accesso al subcontinente o l’uscita verso l’Asia centrale. Di questi protagonisti si è detto molto ma minor attenzione si è prestata a quanti, nei secoli e in parte ancora oggi, la attraversano in una migrazione nomadica che spinge a varcare quella soglia in cerca di un clima meno rigido e pascoli più rigogliosi. Anche vecchi e nuovi nomadi (per scelta economica – nel caso della transumanza – per scelta obbligata – nel caso dei migranti in fuga dalla guerra – per scelta logistica nel caso dei viaggiatori) sono dunque tra i grandi protagonisti della frontiera più porosa del pianeta. Ma se i viaggiatori occidentali hanno soprattutto raccontato sé stessi e del fascino del Khyber Pass, i pastori non si raccontano e sono ancor meno sono raccontati di quanto non lo siano profughi e sfollati, obbligati a un nomadismo senza futuro dalle contingenze belliche. I pastori nomadi attraversano da secoli una frontiera che è per loro essenzialmente geografica. I nomadi “moderni” – i viaggiatori – ne sono invece stati attratti dall’idea di un passaggio culturale – molto mitizzato – tra due mondi.

Kuchi

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molto, come poco si sa della loro storia e persino delle loro origini. Tanto meno dell’estrema fluidità con cui un gruppo può passare da una vita nomade a una seminomade o addirittura sedentaria per poi riprendere nuovamente la strada. In Afghanistan i nomadi vengono denominati Kuchi, un termine che indica soprattutto (ma non solo) la realtà pashtun1. In effetti le maggior parte delle comunità nomadi o seminomadi sono pashtun ma vi sono gruppi, benché minori, di origine beluci, araba, turcmena e così via. Il nomadismo è prevalentemente legato alle esigenze del pascolo e per molti Kuchi le pianure al di là dei Suleiman erano una meta importante: non solo per la ricerca di pascoli ma per commerciare il surplus (bestiame, carne, lana, capelli, pelli, frutta ma anche artigianato – tappeti – scambiati per sale, tè, zucchero, abiti, ferro e, in tempi recenti, cherosene). Largamente tollerati dai britannici – che quando potevano tassavano le carovane – i nomadi hanno visto complicarsi le cose con le frizioni di frontiera tra Pakistan e Afghanistan, sia per la questione del “Pasthunistan”, sia per la necessità più recente di controllare il flusso transfrontaliero, specie se non passa da valichi stradali. Alle difficoltà di attraversare la frontiera – passaggio garantito dalla conoscenza del terreno e dalla rete delle parentele – si è aggiunto il problema della sicurezza (guerra, mine, bombardamenti) e la ricerca di lavori sedentari in Afghanistan: elementi che hanno ridotto sempre di più – dagli anni Sessanta del secolo scorso – il flusso tra le due frontiere, tanto che oggi la transumanza transfrontaliera, fortemente scoraggiata, è ormai un fenomeno residuale in quel milione e mezzo di nomadi Kuchi (2,5 milioni in totale), di cui oggi si registrano soprattutto le contese con vecchi e nuovi proprietari terrieri sull’utilizzo dei pascoli afgani.

Nuovi nomadi

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Il flusso dei nomadi per vocazione letteraria, di ricerca o piacere del viaggio, non sono elemento recente anche se fu l’epoca del Raj britannico, che aveva la sua frontiera più occidentale nei turbolenti territori sikh e afgani, a far guardare oltre la Durand Line prima e dopo che fosse tracciata. Si può citare per tutti sir Olaf Caroe e la sua storia dei Pathan, lungo racconto di stili di vita e codici consuetudinari ammantato del fascino che le genti delle aree tribali avevano sull’ultimo governatore del Raj nella Provincia della frontiera. Giornalisti e scrittori, fuori dal circolo strettamente accademico, si sono esercitati – da Karl Meyer a Peter Hopkirk – sull’epopea britannico zarista del Great Game, locuzione che la vulgata attribuisce erroneamente a Rudyard Kipling, narratore delle avventure del piccolo Kim, circondate dal mito del fiero guerriero afgano e del compassionevole monaco buddista. Del resto anche Giuseppe Tucci racconta di quel fascino che circonda vallate e pianure «in quelle contrade dove prosperò l’arte del Gandhara». Incantato dalla storia del passo di Khyber, in epoca più recente, lo scozzese Paddy Doncherty vi ha passato mesi per raccontare un luogo dove, a ogni piè sospinto, si ricorda l’epopea militare del Raj che pende dalle pareti rocciose negli stemmi del Dorset Regiment o dei South Wales Borderer. Gli scrittori non mancano: dai maledetti, come la svizzera Annemarie Schwarzenbach accompagnata da Ella Mailart, ai semplici osservatori alla Nicolas Bouvier – anche lui svizzero – che con Thyerry Vernet attraversa il Khyber con una Fiat Topolino. L’attenzione ai nomadi locali – i protagonisti nascosti dell’attraversamento della frontiera – è però rara: si ritrova in un libro appena dato alle stampe della scrittrice e fotografa Monika Bulaj o nel romanzo di Jamil Ahmad, scrittore pachistano che, forse per questo, cede meno al fascino orientalistico che inevitabilmente colpisce il viaggiatore occidentale.

Opere citate

Ahmad J., L’acqua più dolce del mondo, Bollati Boringhieri, 2012
Bouvier N., L’oeil du voyage, Hoëbeke, 2001
Bulaj M., La luce nascosta dell’Afghanistan, Electa, 2013
Caroe O., The Pathans, Oxford University Press, 1996
Docherty P., Khyber Pass, ilSaggiatore, 2007
Foschini F., The Social Wandering of the Afghan Kuchis, AAN, Kabul, 2013
Hopkirk P., Il Grande Gioco, Adelphi, 2004
Maillart E., La via crudele, EDT, 1993
Meyer K., La polvere dell’impero, Corbaccio, 2004
Schwarzenbach A., La via per Kabul, assaggiatore, 2009
Tucci G., La via dello Svat, Leonardo da Vinci Editirce, 1963
Wily L. A., Land, People, and the State in Afghanistan 2002-2012, Areu, 2013

Daesh alla conquista del Khorasan

La guerra in Afghanistan gli equilibri regionali e il congelamento del processo di pace: protagonisti e comprimari. Movimenti jihadisti e l’ombra di Daesh. Repressione e confusione*

In Afghanistan l’unica cosa che non è in fase di stallo è la guerra. L’economia langue, è in difficoltà e in calo costante di consensi il nuovo esecutivo – frutto di un accordo perverso che accanto al presidente ha istituito una specie di pari grado con ampi poteri –, la diplomazia nazionale è gravemente ammalata di una sindrome anti pachistana che sfiora l’isteria collettiva. La guerra è invece in piena forma. E su più fronti. Il fronte classico che oppone la disomogenea galassia talebana al governo di Ashraf Ghani (si veda la presa di Kunduz tra novembre e ottobre) e un campo di battaglia interno alla guerriglia: che oppone i talebani – divisi dopo l’annuncio della morte di mullah Omar in luglio – a Daesh, per ora forse rappresentato solo da un manipolo di uomini ma in grado già di controllare, seppur a macchia di leopardo, alcune realtà del territorio.

 Gli attori internazionali – Pakistan e Iran prima di tutto, ma anche Stati uniti, India, Cina e Paesi della Nato, non sembrano avere per ora né una posizione univoca né forse una vera e propria posizione. La Nato e gli americani sono indecisi sulla qualità e quantità dell’impegno futuro e non sembrano aver deciso con esattezza se appoggiare con forza l’ipotesi pachistana (quella cioè di un negoziato interafgano purché in qualche modo si tenga sotto l’egida di Islamabad) o ritentare un’ipotesi di colloqui diretti con la guerriglia, bypassando – come già in passato – gli emissari di Kabul. Teheran è forse meno preoccupata, dopo gli accordi di Vienna, del suo fronte orientale, impegnata com’è a guerreggiare sul fronte occidentale e a difendersi da una politica aggressiva dei sauditi che in Afghanistan però non sembra passare dai talebani ma semmai da Daesh e che per ora si è limitata solo ad alcune esecuzioni eclatanti1. Quanto a Islamabad, i suoi sforzi per avviare il negoziato sono in stallo totale (una prima riunione si è tenuta nell’estate in Pakistan ma poi il processo si è fermato). Dopo le bombe seguite al primo round negoziale2 anche la faticosa costruzione di una fiducia bilaterale con Kabul – messa in opera con l’appoggio di Ghani – è completamente crollata dopo l’ondata di stragi estive e l’Afghanistan è per ora completamente schierato contro il Pakistan, un’opzione alimentata soprattutto dal capo dell’esecutivo Abdullah e dai circoli vicini all’ex presidente Karzai. Gli unici Paesi in cui si nota una certa vitalità diplomatico militare sono a Nord di Kabul, lungo il confine con l’ex Urss dove proprio in questi giorni – avverte un reportage dell’emittente afgana Tolo3 – i russi stanno rafforzando il loro sistema di sorveglianza sui suoi ex confini meridionali e avrebbero sostenuto i tajiki nella decisione di chiudere i passaggi transfrontalieri con l’Afghanistan. In fin dei conti la Russia non ha mai perso la speranza di tornare ad avere un controllo seppur indiretto su questo crocevia interasiatico, sul traffico di droga e sui travasi jihadisti che da lì provengono, con un controllo dunque sulle frontiere delle tre ex repubbliche sovietiche (Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan) che confinano con l’Afghanistan e che non sono meno preoccupate di Mosca dalla continua ebollizione di un Paese che, col Pakistan, ospita cellule terroristiche e combattenti che provengono dai loro territori e a cui i due Paesi garantiscono, oltre confine, santuari e protezione nonché la possibilità di organizzarsi per progettare azioni di disturbo nelle patrie di origine. Putin si è mosso con prudenza in questi anni ma si è mosso. Probabilmente resta preoccupato dalla permanenza dei soldati americani e della Nato (che a fine anno avrebbero dovuto sensibilmente diminuire e che invece resteranno) e la vicenda di Kunduz (dista 250 km da Dushambe e 200 dalla frontiera uzbeka) non ha che rafforzato le preoccupazioni e fornito il destro per offrire collaborazione alle ex repubbliche sorelle.

Fig. 1 L’espansione di Daesh disegnata da un simpatizzante

Qualcosa che ha a che vedere con le repubbliche centroasiatiche e con le comunità che ci vivono (e che in Afghanistan sono importanti minoranze) è accaduto anche tra i talebani. Ne dà notizia l’agenzia afgana Pajhwok4 sostenendo che un vertice dei turbanti neri ha dato il via a un rimpasto del Consiglio della shura di Quetta che ha cooptato tre mullah che provengono dalla comunità tagica, uzbeca e turcmena. La mossa non va letta come una raffinata scelta in chiave diplomatica per ingraziarsi le tre repubbliche ma come una decisione che risponde a tre obiettivi: il primo (interno) per dare il via a un rimpasto che ha così eliminato possibili dissidenti nella shura; il secondo risponde al desidero di aumentare la percezione che i talebani non siano una guerriglia pashtun ma afgana; il terzo infine riguarda invece probabilmente Daesh. Per i talebani Daesh costituisce un problema non meno serio di quanto non lo sia nella testa del governo di Kabul, di Mosca o di Dushambe. Il ruolo politico di Daesh non è ancora chiaro (anche se si potrebbe propendere a una lettura che vede un riposizionamento forte dei Paesi arabi del Golfo nel conflitto afgano attraverso un soggetto a loro molto affine e violentemente antisciita). E’ però abbastanza chiaro che Daesh mira sia a far saltare il processo negoziale (è un movimento che può svilupparsi bene solo in una fase di conflitto permanente), a sabotare le faticose costruzioni negoziali e di fiducia tra attori locali e a scardinare sia ciò che resta di Al Qaeda, sia il movimento stesso dei talebani. Daesh è riuscita ad attrarre un certo numero di combattenti puntando sull’incapacità dei talebani di fare conquiste territoriali (in questo senso forse la presa di Kunduz mirava nella testa dei talebani a dimostrare il contrario), facendo leva sulla disillusone ormai provocata da quindici anni di guerra senza evidenti risultati dalla caduta dell’emirato di Omar. Ha inoltre reclutato talebani espulsi per ruberie e probabilmente fuorilegge vagamente ideologizzati in cerca di nuove protezioni. La sua base armata è per ora piccola e fortemente combattuta dai talebani ma riesce comunque sia a essere un’ennesima fonte di preoccupazione, sia il sabotatore del benché minimo passo negoziale, ricorrendo a operazioni di terrore che contribuiscono a minare il già scarso consenso al governo e, in talune zone, il fragile equilibrio di potere su cui si basano i talebani.

Il sedicente neo califfato è dunque una preoccupazione per gli afgani non meno che per i vicini di casa: dal Pakistan alla Russia e così via sino alle ex repubbliche dell’Urss ora indipendenti e per questo oggetto di attenzioni particolari da parte di attori diversi e in lotta o in difficile equilibrio tra loro. Il progetto di Daesh è infatti globale e con confini non ben definiti. Del resto, spiega la rivista teorica mensile Dabiq5, «The Islamic State is here to stay. It is here to stay in Sham and Iraq. It is here to stay in Khurasan and Al Qawqaz (parts of central Asia and Caucasus). And it is here to stay from Tunisia all the way to Bengal even if the murtaddin (heretics) despise such. The Khilafah (Caliphate) will continue to expand further until its shade covers the entire earth, all the lands where the day and night reach».

Per quel che qui ci interessa, vale la pena di cercare di capire cosa intende Daesh per controllo territoriale del califfato, un progetto che comprende oltre al Caucaso, l’Asia centrale ex sovietica e naturalmente l’Afghanistan anche altre aree del mondo, dal Maghreb al Bengala. Non di meno le cose sono abbastanza confuse. Vi sono diverse mappature che tentano di ricostruirne le aspirazioni globali6 ma ci interessa qui capire quali siano, almeno nell’ordine di un più vasto progetto di controllo territoriale, gli obiettivi di controllo territoriali di Daesh in Asia centrale e come reagiscono i singoli Paesi. Partiamo dal progetto generale.

La nascita ufficiale del Califfato disegnato da Al Bagdadi è della fine di giugno del 2014 e in quell’epoca già circolava sul web una mappa delle ambizioni territoriali di Daesh (figura 1). Non è chiaro chi l’abbia compilata7 e si tratta probabilmente dell’opera di qualche simpatizzante8, oltretutto a digiuno di Storia visto che la mappa include il Nord della Spagna, la Slovacchia o l’Austria (mai state sotto dominazione islamica) e vi esclude ad esempio la Sicilia. La mappa riproduce però a grandi linee le ambizioni espansive di un “impero” islamico che dall’Occidente europeo si spinge sino al Khorasan (geograficamente l’altipiano iranico e zone limitrofe) che però nell’ipotesi di Daesh sembra includere anche il subcontinente indiano in una sorta di “Grande Khorasan”. Questa stessa mappa esclude invece il meridione del Sudest asiatico dove Indonesia, Malaysia, Brunei e Sud della Thailandia contano oltre 250 milioni di musulmani. Ma al di là della mappa, l’interesse per l’area abitata prevalentemente da musulmani in Asia meridionale è sicuramente di un certo interesse visto che un recente numero di Dabiq ha dedicato al Bengala (il Bangladesh) un articolo che ne decanta la rinascita jihadista. Nell’ultimo numero di Dabiq9, l’articolo sul Bengala (che rilancia l’esecuzione dell’italiano Cesare Tavella) chiarisce ad esempio le differenze ideologiche tra i vari gruppi islamisti del Paese anche se i redattori non menzionano nessuna organizzazione amica – nemmeno il famigerato Ansarullah Bangla Team, ritenuto l’erede di Daesh in Bangladesh, o il gruppo anch’esso al bando Jamaat ul Mujahiden Bangladesh- ma citano genericamente la presenza di mujahedin fedeli al califfato. Non di meno, nel primo numero della stessa rivista – in sostanza il lancio del programma – si diceva che: «Amirul-Mu’minin said: “O Muslims everywhere, glad tidings to you and expect good. Raise your head high, for today – by Allah’s grace – you have a state and Khilafah, which will return your dignity, might, rights, and leadership. It is a state where the Arab and non-Arab, the white man and black man, the easterner and westerner are all brothers. It is a Khilafah that gathered the Caucasian, Indian, Chinese, Shami, Iraqi, Yemeni, Egyptian, Maghribi (North African), American, French, German, and Australian.10. Arabi e non arabi, bianchi e neri, dal Maghreb…all’Australia. Un progetto onnicomprensivo che estende dunque all’infinito i confini del califfato, anzi praticamente li abolisce.

Fig.2 Il califfato secondo Hizb ut Tahir. Una vecchia idea
ben prima della nascita di Daesh

Eppure, secondo un rapporto dell’inteligence citato recentemente dalla stampa indiana11, i puristi di Daesh applicherebbero a rovescio una regola fondamentale e caposaldo dell’islam ossia l’eguaglianza degli appartenenti alla Umma davanti a Dio e agli uomini. Stando al rapporto cui avrebbero contribuito ricercatori di diversi Paesi occidentali, Daesh considererebbe la non provenienza da un Paese arabo – o di antica assimilazione araba – lo spartiacque per dividere i combattenti del califfato in musulmani di serie A e B. Rientrerebbero nella categoria B soprattutto indiani e pachistani ma anche cinesi, indonesiani e africani. Non è chiaro se la regola valga anche per il Caucaso e i combattenti che provengono dall’Asia centrale, che di solito sono ritenuti ottimi guerriglieri, ma i soldati non arabi sarebbero comunque meno affidabili: a loro non solo non sarebbero riservato il rango di “ufficiali” o la possibilità di entrare nella “military police” di Daesh (riservata a tunisini, palestinesi, sauditi, iracheni e siriani), ma vivrebbero in baracche meno accoglienti, non sarebbero ben armati, godrebbero di un salario inferiore e verrebbero addirittura utilizzati come carne da macello: spediti sulla linea del fronte, davanti ai guerriglieri etnicamente puri, a far da kamikaze senza saperlo, su jeep imbottite di esplosivo che saltano dopo che l’inconsapevole autista ha ottemperato al comando di comporre un certo numero al cellulare…

Sebbene sia sempre meglio essere diffidenti su questi rapporti dove la ricerca può sconfinare nella volontà o meno di sottolineare e ingigantire certi aspetti, la cosa sarebbe suffragata da almeno tre elementi. Uno quantitativo, uno culturale e uno ideologico religioso. Per quel che riguarda gli indiani, ad esempio, il loro numero tra i foreign fighter sarebbe abbastanza ridotto: solo ventitré. Ma di questi ne sarebbero già morti sei, ossia uno ogni quattro, che è molto. L’altro elemento – come molti altri mediati dalla terra dei Saud, vedi alla voce decapitazione – riguarda il trattamento che in Arabia saudita o nel Golfo viene riservato a indiani, pachistani, bangladesi o indonesiani: camerieri e muratori senza diritti, relegati nelle periferie delle città e pagati una miseria. Decapitati o frustati se incorrono in qualche supposta malefatta. Questi musulmani di serie B, evidentemente ritenuti oltre che meno abili guerrieri anche meno affidabili sul piano della fedeltà, sarebbero sotto stretta sorveglianza da parte della polizia di Daesh. Infine c’è anche un problema dottrinario: Daesh abbraccia la scuola giuridica (madhaab) hanbalita, una delle quattro seguite dai musulmani in tema di giurisprudenza coranica (fiqh). Centroasiatici, afgani, pachistani, indiani e bangladesi seguono soprattutto quella hanafita (la più antica e diffusa) vista con diffidenza da wahabiti e salafiti, per non parlare di quella shafita (diffusa in Indonesia, India, Africa orientale).

Il quadro è confuso. E, per tornare alle mappe, potremmo allora prendere in prestito quella di un altra organizzazione che aspira alla ricostituzione del califfato e che sembra avere le idee più chiare. E’ la mappa preparata da Hizb ut-Tahrir12 e non scegliamo questo gruppo per caso perché ci aiuta a introdurre un altro tema). Questa mappa (figura 2) appare storicamente più corretta ed estende i confini del califfato da ex possedimenti europei (la Spagna ma escludendo la parte settentrionale e includendo invece la Sicilia) sino al mondo malese indonesiano, ossia su tutte le aree dove esiste una rilevante presenza musulmana. In sostanza una riedizione del califfato tra vecchie e nuove frontiere. Gruppi come Hizb ut-Tahrir (che è nata negli anni Cinquanta del secolo scorso), che non hanno almeno nelle intenzioni il desiderio di combattere in armi per la costituzione del califfato, sono (non meno di Al Qaeda) i principali nemici del progetto di Al Bagdadi13 con la differenza che il discrimine è la violenza. Ma, confusione per confusione, queste organizzazioni (anti democratiche ma non rivoluzionarie) vengono spesso assimilate alle ambizioni di Daesh o Al Qaeda o ritenute possibili alleati così che il gruppo è fuorilegge in molte delle aree che ci interessano14: in Russia è al bando dal febbraio 2003; in Azerbaijan la consistenza del gruppo è contenuta ma diversi membri sono stati arrestati e così in Tagikistan; in Kazakistan è al bando dal 2005; in Uzbekistan Hizb ut-Tahrir è stato accusato di attentati con conseguenti arresti indiscriminati (e persino pratiche di tortura) denunciate da organismi di tutela dei dirtti umani e da diplomatici occidentali; in Pakistan il gruppo è stato messo al bando nel 2004. In Afghanistan, le ultime dichiarazioni dal capo dell’esecutivo Abdullah suggeriscono una stretta imminente se non una messa al bando dell’organizzazione che agisce nel Paese con una struttura informale15.

La confusione che regna nelle analisi sulla capacità di penetrazione di Daesh dunque, sembra pertanto trasferirsi molto spesso in un’indiscriminata politica aggressiva nei confronti di movimenti radicali islamisti che non sempre sono identificabili col progetto armato jihadista (quando non lo osteggiano apertamente) anche se possono ovviamente aiutare a generare cotesti ideologici pericolosi e filo terroristi. Non di meno, un’analisi più attenta potrebbe persino portare a utilizzare certi gruppi nel sostenere la battaglia ideologica e dottrinale nei confronti di Daesh e della sua deviazione dai precetti coranici che viene criticata sul piano della teoria (come nel caso di Hizb ut-Tahrir) quando non sul piano strategico militare (come fanno talebani e qaedisti).

1 W/ 20 Bus Passengers Kidnapped in Afghanistan, Voa, 21 novembre 2015 http://urly.it/217vx

In particolare l’attentato dell’agosto 2015 con decine di morti in un quartiere popolare di Kabul con un carico di esplosivo che ha creato un cratere di oltre dieci metri di profondità e che è tutt’ora senza rivendicazione ma che gli afgani hanno attribuito ai servizi pachistani
3 W/ Russia Increases Focus On Afghan-Central Asia Borders, ToloNews, 26 novembre 2015 http://urly.it/217v9
4 W/ Taliban appoint new central council, ousting dissidents, Pajhwok News Agency 26 novembre 2015 http://urly.it/217v8
5 La rivista ideologica e di propaganda di Daesh si può leggere sul sito http://jihadology.net oppure su http://www.clarionproject.org/

6 Si veda ad esempio la mappa preparata da Site Intelligence Group https://ent.siteintelgroup.com/
7 W/ Lewis M., The Islamic State’s Aspirational Map? 18 settembre 2014 http://urly.it/217rq
8 Lo sostiene ad esempio Aaron Zelin, ricercatore e studioso dei movimenti jihadisti e autore del sito http://jihadology.net/
9  W/ Dabiq issue 12, The revival of Jjhad in Benagl, http://urly.it/217rx
10 W/Dabiq issue 1 http://urly.it/217rv
11 W/ IS fighters from S Asia face racial bias, are tricked into suicide missions: report, Asia Times, 23 novembre 2015. Si veda anche: W/ ISIS considers Indian fighters inferior to Arab jihadis, The Times of India, 24 novembre 2015

12 W/ http://english.hizbuttahrir.org/

13 Si veda l’articolo di William Scates Frances W/ Why ban Hizb ut-Tahrir? They’re not Isis – they’re Isis’s whipping boys, The Guardian, 12 febbraio 2015, http://urly.it/217s1

14 Si veda ad esempio il sito di globalsecurity http://urly.it/217s6
15 W/ Abdullah Speaks Out Against Hizb ut-Tahrir, 23 novembre 2015, Tolonews

* CONVEGNO DI STUDI SULL’AZERBAIGIAN E LA REGIONE DEL CASPIO
Levico Terme 27-28 novembre 2015 Centro studi sull’Azerbaijan, Csseo, Centro studi sul Caspio

 

Daesh alla conquista del Khorasan

La guerra in Afghanistan gli equilibri regionali e il congelamento del processo di pace: protagonisti e comprimari. Movimenti jihadisti e l’ombra di Daesh. Repressione e confusione*

In Afghanistan l’unica cosa che non è in fase di stallo è la guerra. L’economia langue, è in difficoltà e in calo costante di consensi il nuovo esecutivo – frutto di un accordo perverso che accanto al presidente ha istituito una specie di pari grado con ampi poteri –, la diplomazia nazionale è gravemente ammalata di una sindrome anti pachistana che sfiora l’isteria collettiva. La guerra è invece in piena forma. E su più fronti. Il fronte classico che oppone la disomogenea galassia talebana al governo di Ashraf Ghani (si veda la presa di Kunduz tra novembre e ottobre) e un campo di battaglia interno alla guerriglia: che oppone i talebani – divisi dopo l’annuncio della morte di mullah Omar in luglio – a Daesh, per ora forse rappresentato solo da un manipolo di uomini ma in grado già di controllare, seppur a macchia di leopardo, alcune realtà del territorio.

 Gli attori internazionali – Pakistan e Iran prima di tutto, ma anche Stati uniti, India, Cina e Paesi della Nato, non sembrano avere per ora né una posizione univoca né forse una vera e propria posizione. La Nato e gli americani sono indecisi sulla qualità e quantità dell’impegno futuro e non sembrano aver deciso con esattezza se appoggiare con forza l’ipotesi pachistana (quella cioè di un negoziato interafgano purché in qualche modo si tenga sotto l’egida di Islamabad) o ritentare un’ipotesi di colloqui diretti con la guerriglia, bypassando – come già in passato – gli emissari di Kabul. Teheran è forse meno preoccupata, dopo gli accordi di Vienna, del suo fronte orientale, impegnata com’è a guerreggiare sul fronte occidentale e a difendersi da una politica aggressiva dei sauditi che in Afghanistan però non sembra passare dai talebani ma semmai da Daesh e che per ora si è limitata solo ad alcune esecuzioni eclatanti1. Quanto a Islamabad, i suoi sforzi per avviare il negoziato sono in stallo totale (una prima riunione si è tenuta nell’estate in Pakistan ma poi il processo si è fermato). Dopo le bombe seguite al primo round negoziale2 anche la faticosa costruzione di una fiducia bilaterale con Kabul – messa in opera con l’appoggio di Ghani – è completamente crollata dopo l’ondata di stragi estive e l’Afghanistan è per ora completamente schierato contro il Pakistan, un’opzione alimentata soprattutto dal capo dell’esecutivo Abdullah e dai circoli vicini all’ex presidente Karzai. Gli unici Paesi in cui si nota una certa vitalità diplomatico militare sono a Nord di Kabul, lungo il confine con l’ex Urss dove proprio in questi giorni – avverte un reportage dell’emittente afgana Tolo3 – i russi stanno rafforzando il loro sistema di sorveglianza sui suoi ex confini meridionali e avrebbero sostenuto i tajiki nella decisione di chiudere i passaggi transfrontalieri con l’Afghanistan. In fin dei conti la Russia non ha mai perso la speranza di tornare ad avere un controllo seppur indiretto su questo crocevia interasiatico, sul traffico di droga e sui travasi jihadisti che da lì provengono, con un controllo dunque sulle frontiere delle tre ex repubbliche sovietiche (Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan) che confinano con l’Afghanistan e che non sono meno preoccupate di Mosca dalla continua ebollizione di un Paese che, col Pakistan, ospita cellule terroristiche e combattenti che provengono dai loro territori e a cui i due Paesi garantiscono, oltre confine, santuari e protezione nonché la possibilità di organizzarsi per progettare azioni di disturbo nelle patrie di origine. Putin si è mosso con prudenza in questi anni ma si è mosso. Probabilmente resta preoccupato dalla permanenza dei soldati americani e della Nato (che a fine anno avrebbero dovuto sensibilmente diminuire e che invece resteranno) e la vicenda di Kunduz (dista 250 km da Dushambe e 200 dalla frontiera uzbeka) non ha che rafforzato le preoccupazioni e fornito il destro per offrire collaborazione alle ex repubbliche sorelle.

Fig. 1 L’espansione di Daesh disegnata da un simpatizzante

Qualcosa che ha a che vedere con le repubbliche centroasiatiche e con le comunità che ci vivono (e che in Afghanistan sono importanti minoranze) è accaduto anche tra i talebani. Ne dà notizia l’agenzia afgana Pajhwok4 sostenendo che un vertice dei turbanti neri ha dato il via a un rimpasto del Consiglio della shura di Quetta che ha cooptato tre mullah che provengono dalla comunità tagica, uzbeca e turcmena. La mossa non va letta come una raffinata scelta in chiave diplomatica per ingraziarsi le tre repubbliche ma come una decisione che risponde a tre obiettivi: il primo (interno) per dare il via a un rimpasto che ha così eliminato possibili dissidenti nella shura; il secondo risponde al desidero di aumentare la percezione che i talebani non siano una guerriglia pashtun ma afgana; il terzo infine riguarda invece probabilmente Daesh. Per i talebani Daesh costituisce un problema non meno serio di quanto non lo sia nella testa del governo di Kabul, di Mosca o di Dushambe. Il ruolo politico di Daesh non è ancora chiaro (anche se si potrebbe propendere a una lettura che vede un riposizionamento forte dei Paesi arabi del Golfo nel conflitto afgano attraverso un soggetto a loro molto affine e violentemente antisciita). E’ però abbastanza chiaro che Daesh mira sia a far saltare il processo negoziale (è un movimento che può svilupparsi bene solo in una fase di conflitto permanente), a sabotare le faticose costruzioni negoziali e di fiducia tra attori locali e a scardinare sia ciò che resta di Al Qaeda, sia il movimento stesso dei talebani. Daesh è riuscita ad attrarre un certo numero di combattenti puntando sull’incapacità dei talebani di fare conquiste territoriali (in questo senso forse la presa di Kunduz mirava nella testa dei talebani a dimostrare il contrario), facendo leva sulla disillusone ormai provocata da quindici anni di guerra senza evidenti risultati dalla caduta dell’emirato di Omar. Ha inoltre reclutato talebani espulsi per ruberie e probabilmente fuorilegge vagamente ideologizzati in cerca di nuove protezioni. La sua base armata è per ora piccola e fortemente combattuta dai talebani ma riesce comunque sia a essere un’ennesima fonte di preoccupazione, sia il sabotatore del benché minimo passo negoziale, ricorrendo a operazioni di terrore che contribuiscono a minare il già scarso consenso al governo e, in talune zone, il fragile equilibrio di potere su cui si basano i talebani.

Il sedicente neo califfato è dunque una preoccupazione per gli afgani non meno che per i vicini di casa: dal Pakistan alla Russia e così via sino alle ex repubbliche dell’Urss ora indipendenti e per questo oggetto di attenzioni particolari da parte di attori diversi e in lotta o in difficile equilibrio tra loro. Il progetto di Daesh è infatti globale e con confini non ben definiti. Del resto, spiega la rivista teorica mensile Dabiq5, «The Islamic State is here to stay. It is here to stay in Sham and Iraq. It is here to stay in Khurasan and Al Qawqaz (parts of central Asia and Caucasus). And it is here to stay from Tunisia all the way to Bengal even if the murtaddin (heretics) despise such. The Khilafah (Caliphate) will continue to expand further until its shade covers the entire earth, all the lands where the day and night reach».

Per quel che qui ci interessa, vale la pena di cercare di capire cosa intende Daesh per controllo territoriale del califfato, un progetto che comprende oltre al Caucaso, l’Asia centrale ex sovietica e naturalmente l’Afghanistan anche altre aree del mondo, dal Maghreb al Bengala. Non di meno le cose sono abbastanza confuse. Vi sono diverse mappature che tentano di ricostruirne le aspirazioni globali6 ma ci interessa qui capire quali siano, almeno nell’ordine di un più vasto progetto di controllo territoriale, gli obiettivi di controllo territoriali di Daesh in Asia centrale e come reagiscono i singoli Paesi. Partiamo dal progetto generale.

La nascita ufficiale del Califfato disegnato da Al Bagdadi è della fine di giugno del 2014 e in quell’epoca già circolava sul web una mappa delle ambizioni territoriali di Daesh (figura 1). Non è chiaro chi l’abbia compilata7 e si tratta probabilmente dell’opera di qualche simpatizzante8, oltretutto a digiuno di Storia visto che la mappa include il Nord della Spagna, la Slovacchia o l’Austria (mai state sotto dominazione islamica) e vi esclude ad esempio la Sicilia. La mappa riproduce però a grandi linee le ambizioni espansive di un “impero” islamico che dall’Occidente europeo si spinge sino al Khorasan (geograficamente l’altipiano iranico e zone limitrofe) che però nell’ipotesi di Daesh sembra includere anche il subcontinente indiano in una sorta di “Grande Khorasan”. Questa stessa mappa esclude invece il meridione del Sudest asiatico dove Indonesia, Malaysia, Brunei e Sud della Thailandia contano oltre 250 milioni di musulmani. Ma al di là della mappa, l’interesse per l’area abitata prevalentemente da musulmani in Asia meridionale è sicuramente di un certo interesse visto che un recente numero di Dabiq ha dedicato al Bengala (il Bangladesh) un articolo che ne decanta la rinascita jihadista. Nell’ultimo numero di Dabiq9, l’articolo sul Bengala (che rilancia l’esecuzione dell’italiano Cesare Tavella) chiarisce ad esempio le differenze ideologiche tra i vari gruppi islamisti del Paese anche se i redattori non menzionano nessuna organizzazione amica – nemmeno il famigerato Ansarullah Bangla Team, ritenuto l’erede di Daesh in Bangladesh, o il gruppo anch’esso al bando Jamaat ul Mujahiden Bangladesh- ma citano genericamente la presenza di mujahedin fedeli al califfato. Non di meno, nel primo numero della stessa rivista – in sostanza il lancio del programma – si diceva che: «Amirul-Mu’minin said: “O Muslims everywhere, glad tidings to you and expect good. Raise your head high, for today – by Allah’s grace – you have a state and Khilafah, which will return your dignity, might, rights, and leadership. It is a state where the Arab and non-Arab, the white man and black man, the easterner and westerner are all brothers. It is a Khilafah that gathered the Caucasian, Indian, Chinese, Shami, Iraqi, Yemeni, Egyptian, Maghribi (North African), American, French, German, and Australian.10. Arabi e non arabi, bianchi e neri, dal Maghreb…all’Australia. Un progetto onnicomprensivo che estende dunque all’infinito i confini del califfato, anzi praticamente li abolisce.

Fig.2 Il califfato secondo Hizb ut Tahir. Una vecchia idea
ben prima della nascita di Daesh

Eppure, secondo un rapporto dell’inteligence citato recentemente dalla stampa indiana11, i puristi di Daesh applicherebbero a rovescio una regola fondamentale e caposaldo dell’islam ossia l’eguaglianza degli appartenenti alla Umma davanti a Dio e agli uomini. Stando al rapporto cui avrebbero contribuito ricercatori di diversi Paesi occidentali, Daesh considererebbe la non provenienza da un Paese arabo – o di antica assimilazione araba – lo spartiacque per dividere i combattenti del califfato in musulmani di serie A e B. Rientrerebbero nella categoria B soprattutto indiani e pachistani ma anche cinesi, indonesiani e africani. Non è chiaro se la regola valga anche per il Caucaso e i combattenti che provengono dall’Asia centrale, che di solito sono ritenuti ottimi guerriglieri, ma i soldati non arabi sarebbero comunque meno affidabili: a loro non solo non sarebbero riservato il rango di “ufficiali” o la possibilità di entrare nella “military police” di Daesh (riservata a tunisini, palestinesi, sauditi, iracheni e siriani), ma vivrebbero in baracche meno accoglienti, non sarebbero ben armati, godrebbero di un salario inferiore e verrebbero addirittura utilizzati come carne da macello: spediti sulla linea del fronte, davanti ai guerriglieri etnicamente puri, a far da kamikaze senza saperlo, su jeep imbottite di esplosivo che saltano dopo che l’inconsapevole autista ha ottemperato al comando di comporre un certo numero al cellulare…

Sebbene sia sempre meglio essere diffidenti su questi rapporti dove la ricerca può sconfinare nella volontà o meno di sottolineare e ingigantire certi aspetti, la cosa sarebbe suffragata da almeno tre elementi. Uno quantitativo, uno culturale e uno ideologico religioso. Per quel che riguarda gli indiani, ad esempio, il loro numero tra i foreign fighter sarebbe abbastanza ridotto: solo ventitré. Ma di questi ne sarebbero già morti sei, ossia uno ogni quattro, che è molto. L’altro elemento – come molti altri mediati dalla terra dei Saud, vedi alla voce decapitazione – riguarda il trattamento che in Arabia saudita o nel Golfo viene riservato a indiani, pachistani, bangladesi o indonesiani: camerieri e muratori senza diritti, relegati nelle periferie delle città e pagati una miseria. Decapitati o frustati se incorrono in qualche supposta malefatta. Questi musulmani di serie B, evidentemente ritenuti oltre che meno abili guerrieri anche meno affidabili sul piano della fedeltà, sarebbero sotto stretta sorveglianza da parte della polizia di Daesh. Infine c’è anche un problema dottrinario: Daesh abbraccia la scuola giuridica (madhaab) hanbalita, una delle quattro seguite dai musulmani in tema di giurisprudenza coranica (fiqh). Centroasiatici, afgani, pachistani, indiani e bangladesi seguono soprattutto quella hanafita (la più antica e diffusa) vista con diffidenza da wahabiti e salafiti, per non parlare di quella shafita (diffusa in Indonesia, India, Africa orientale).

Il quadro è confuso. E, per tornare alle mappe, potremmo allora prendere in prestito quella di un altra organizzazione che aspira alla ricostituzione del califfato e che sembra avere le idee più chiare. E’ la mappa preparata da Hizb ut-Tahrir12 e non scegliamo questo gruppo per caso perché ci aiuta a introdurre un altro tema). Questa mappa (figura 2) appare storicamente più corretta ed estende i confini del califfato da ex possedimenti europei (la Spagna ma escludendo la parte settentrionale e includendo invece la Sicilia) sino al mondo malese indonesiano, ossia su tutte le aree dove esiste una rilevante presenza musulmana. In sostanza una riedizione del califfato tra vecchie e nuove frontiere. Gruppi come Hizb ut-Tahrir (che è nata negli anni Cinquanta del secolo scorso), che non hanno almeno nelle intenzioni il desiderio di combattere in armi per la costituzione del califfato, sono (non meno di Al Qaeda) i principali nemici del progetto di Al Bagdadi13 con la differenza che il discrimine è la violenza. Ma, confusione per confusione, queste organizzazioni (anti democratiche ma non rivoluzionarie) vengono spesso assimilate alle ambizioni di Daesh o Al Qaeda o ritenute possibili alleati così che il gruppo è fuorilegge in molte delle aree che ci interessano14: in Russia è al bando dal febbraio 2003; in Azerbaijan la consistenza del gruppo è contenuta ma diversi membri sono stati arrestati e così in Tagikistan; in Kazakistan è al bando dal 2005; in Uzbekistan Hizb ut-Tahrir è stato accusato di attentati con conseguenti arresti indiscriminati (e persino pratiche di tortura) denunciate da organismi di tutela dei dirtti umani e da diplomatici occidentali; in Pakistan il gruppo è stato messo al bando nel 2004. In Afghanistan, le ultime dichiarazioni dal capo dell’esecutivo Abdullah suggeriscono una stretta imminente se non una messa al bando dell’organizzazione che agisce nel Paese con una struttura informale15.

La confusione che regna nelle analisi sulla capacità di penetrazione di Daesh dunque, sembra pertanto trasferirsi molto spesso in un’indiscriminata politica aggressiva nei confronti di movimenti radicali islamisti che non sempre sono identificabili col progetto armato jihadista (quando non lo osteggiano apertamente) anche se possono ovviamente aiutare a generare cotesti ideologici pericolosi e filo terroristi. Non di meno, un’analisi più attenta potrebbe persino portare a utilizzare certi gruppi nel sostenere la battaglia ideologica e dottrinale nei confronti di Daesh e della sua deviazione dai precetti coranici che viene criticata sul piano della teoria (come nel caso di Hizb ut-Tahrir) quando non sul piano strategico militare (come fanno talebani e qaedisti).

1 W/ 20 Bus Passengers Kidnapped in Afghanistan, Voa, 21 novembre 2015 http://urly.it/217vx

In particolare l’attentato dell’agosto 2015 con decine di morti in un quartiere popolare di Kabul con un carico di esplosivo che ha creato un cratere di oltre dieci metri di profondità e che è tutt’ora senza rivendicazione ma che gli afgani hanno attribuito ai servizi pachistani
3 W/ Russia Increases Focus On Afghan-Central Asia Borders, ToloNews, 26 novembre 2015 http://urly.it/217v9
4 W/ Taliban appoint new central council, ousting dissidents, Pajhwok News Agency 26 novembre 2015 http://urly.it/217v8
5 La rivista ideologica e di propaganda di Daesh si può leggere sul sito http://jihadology.net oppure su http://www.clarionproject.org/

6 Si veda ad esempio la mappa preparata da Site Intelligence Group https://ent.siteintelgroup.com/
7 W/ Lewis M., The Islamic State’s Aspirational Map? 18 settembre 2014 http://urly.it/217rq
8 Lo sostiene ad esempio Aaron Zelin, ricercatore e studioso dei movimenti jihadisti e autore del sito http://jihadology.net/
9  W/ Dabiq issue 12, The revival of Jjhad in Benagl, http://urly.it/217rx
10 W/Dabiq issue 1 http://urly.it/217rv
11 W/ IS fighters from S Asia face racial bias, are tricked into suicide missions: report, Asia Times, 23 novembre 2015. Si veda anche: W/ ISIS considers Indian fighters inferior to Arab jihadis, The Times of India, 24 novembre 2015

12 W/ http://english.hizbuttahrir.org/

13 Si veda l’articolo di William Scates Frances W/ Why ban Hizb ut-Tahrir? They’re not Isis – they’re Isis’s whipping boys, The Guardian, 12 febbraio 2015, http://urly.it/217s1

14 Si veda ad esempio il sito di globalsecurity http://urly.it/217s6
15 W/ Abdullah Speaks Out Against Hizb ut-Tahrir, 23 novembre 2015, Tolonews

* CONVEGNO DI STUDI SULL’AZERBAIGIAN E LA REGIONE DEL CASPIO
Levico Terme 27-28 novembre 2015 Centro studi sull’Azerbaijan, Csseo, Centro studi sul Caspio

 

Razzisti in nome di Allah: come Daesh tradisce il profeta

Uno degli elementi di forza dell’espansione islamica in Asia è sempre stata la percezione, per i nuovi adepti alla parola del profeta, di poter godere di pari diritti davanti a Dio e davanti ai tribunali. Uno status che non era garantito in territori come l’India o l’Indonesia, dominati dalla regola delle caste. L’uguaglianza era invece una garanzia del Corano al convertito al di là della comunità di provenienza, della lingua, del colore della pelle. E’ dunque abbastanza bizzarro che i puristi di Daesh applichino al contrario questa regola su cui si fonda uno dei capisaldi della diffusione dell’islam. Stando a un rapporto d’intelligence cui avrebbero contribuito ricercatori di diversi Paesi e citato in questi giorni diffusamente dalla stampa indiana, Daesh agirebbe proprio in direzione opposta: considerando la non provenienza da un Paese arabo – o di antica assimilazione araba – lo spartiacque per dividere i combattenti del califfato in musulmani di serie A e B.
Rientrerebbero nella categoria B soprattutto indiani e pachistani ma anche cinesi, indonesiani e africani. Chissà, ma il rapporto non sembra dirlo, se ciò vale anche per il Caucaso e i combattenti che provengono dall’Asia centrale e che di solito sono ritenuti ottimi guerriglieri. I “soldati” dell’Asia meridionale e orientale sarebbero comunque i meno affidabili: a loro non solo non sarebbero riservato il rango di “ufficiali” o la possibilità di entrare nella “military police” di Daesh (riservata a tunisini, palestinesi, sauditi, iracheni e siriani), ma vivrebbero in baracche meno accoglienti, non sarebbero ben armati, godrebbero di un salario inferiore e verrebbero addirittura utilizzati come carne da macello: spediti sulla linea del fronte, davanti ai guerriglieri etnicamente puri, a far da kamikaze senza saperlo, su jeep imbottite di esplosivo che saltano dopo che l’inconsapevole autista ha ottemperato al comando di comporre un certo numero al cellulare…
Sebbene sia sempre meglio essere diffidenti anche su questi rapporti di intelligence più o meno segreti, la cosa sarebbe suffragata da almeno tre elementi. Uno quantitativo, uno culturale e uno ideologico religioso. Per quel che riguarda gli indiani, ad esempio, il loro numero tra i foreign fighter sarebbe abbastanza ridotto: solo ventitré. Ma di questi ne sarebbero già morti sei, ossia uno ogni quattro, che è molto. L’altro elemento – come molti altri mediati dalla terra dei Saud, vedi alla voce decapitazione – riguarda il trattamento che in Arabia saudita o nel Golfo viene riservato a indiani, pachistani, bangladesi o indonesiani: camerieri e muratori senza diritti, relegati nelle periferie delle città e pagati una miseria. Decapitati o frustati se incorrono in qualche supposta malefatta. Questi musulmani di serie B, evidentemente ritenuti oltre che meno abili guerrieri anche meno affidabili sul piano della fedeltà, sarebbero sotto stretta sorveglianza da parte della polizia di Daesh.

Infine c’è anche un problema dottrinario: Daesh abbraccia la scuola giuridica (madhaab) hanbalita, una delle quattro seguite dai musulmani in tema di giurisprudenza coranica (fiqh). Centroasiatici, afgani, pachistani, indiani e bangladesi seguono soprattutto quella hanafita (la più antica e diffusa) vista con diffidenza da wahabiti e salafiti, per non parlare di quella shafita (diffusa in Indonesia, India, Africa orientale). Si ritorna dunque alla penisola arabica dove la scuola hanbalita – fu fondata a Bagdad da Ahmad ibn Hanbal – si è poi confinata. Ribadisce la supremazia dei testi sacri sul ragionamento personale, rifiuta l’analogia come fonte del diritto ed è la base giuridica dei movimenti wahabiti e salafiti.

Le scuole giuridiche dell’islam. Mappa della diffusione geografica

La diffusione delle quattro scuole di pensiero giuridico dell’islam.  I punti di riferimento scolastici sono Aḥmad ibn Ḥanbal di Bagdad (780-855), Ibn Taymiyya (1263–1328) nato a Harran (Turchia) e morto a Damasco e Muḥammad ibn Abd al-Wahhāb (1703-1792) nato a Najd (odierna Arabia saudita). Il wahabismo è un movimento che si è espanso soprattutto nella penisola arabica
. Il salafismo sarebbe nato in Egitto nella seconda metà del XIX secolo. Salafismo e wahabismo sono spesso usati erroneamente
 come sinonimi.
 L’hanbalismo è la madhaab abbracciata da Daesh. FonteMadhhab Map3/Peaceworld111 /Opera propria

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Uno degli elementi di forza dell’espansione islamica in Asia è sempre stata la percezione, per i nuovi adepti alla parola del profeta, di poter godere di pari diritti davanti a Dio e davanti ai tribunali. Uno status che non era garantito in territori come l’India o l’Indonesia, dominati dalla regola delle caste. L’uguaglianza era invece una garanzia del Corano al convertito al di là della comunità di provenienza, della lingua, del colore della pelle. E’ dunque abbastanza bizzarro che i puristi di Daesh applichino al contrario questa regola su cui si fonda uno dei capisaldi della diffusione dell’islam. Stando a un rapporto d’intelligence cui avrebbero contribuito ricercatori di diversi Paesi e citato in questi giorni diffusamente dalla stampa indiana, Daesh agirebbe proprio in direzione opposta: considerando la non provenienza da un Paese arabo – o di antica assimilazione araba – lo spartiacque per dividere i combattenti del califfato in musulmani di serie A e B.
Rientrerebbero nella categoria B soprattutto indiani e pachistani ma anche cinesi, indonesiani e africani. Chissà, ma il rapporto non sembra dirlo, se ciò vale anche per il Caucaso e i combattenti che provengono dall’Asia centrale e che di solito sono ritenuti ottimi guerriglieri. I “soldati” dell’Asia meridionale e orientale sarebbero comunque i meno affidabili: a loro non solo non sarebbero riservato il rango di “ufficiali” o la possibilità di entrare nella “military police” di Daesh (riservata a tunisini, palestinesi, sauditi, iracheni e siriani), ma vivrebbero in baracche meno accoglienti, non sarebbero ben armati, godrebbero di un salario inferiore e verrebbero addirittura utilizzati come carne da macello: spediti sulla linea del fronte, davanti ai guerriglieri etnicamente puri, a far da kamikaze senza saperlo, su jeep imbottite di esplosivo che saltano dopo che l’inconsapevole autista ha ottemperato al comando di comporre un certo numero al cellulare…
Sebbene sia sempre meglio essere diffidenti anche su questi rapporti di intelligence più o meno segreti, la cosa sarebbe suffragata da almeno tre elementi. Uno quantitativo, uno culturale e uno ideologico religioso. Per quel che riguarda gli indiani, ad esempio, il loro numero tra i foreign fighter sarebbe abbastanza ridotto: solo ventitré. Ma di questi ne sarebbero già morti sei, ossia uno ogni quattro, che è molto. L’altro elemento – come molti altri mediati dalla terra dei Saud, vedi alla voce decapitazione – riguarda il trattamento che in Arabia saudita o nel Golfo viene riservato a indiani, pachistani, bangladesi o indonesiani: camerieri e muratori senza diritti, relegati nelle periferie delle città e pagati una miseria. Decapitati o frustati se incorrono in qualche supposta malefatta. Questi musulmani di serie B, evidentemente ritenuti oltre che meno abili guerrieri anche meno affidabili sul piano della fedeltà, sarebbero sotto stretta sorveglianza da parte della polizia di Daesh.

Infine c’è anche un problema dottrinario: Daesh abbraccia la scuola giuridica (madhaab) hanbalita, una delle quattro seguite dai musulmani in tema di giurisprudenza coranica (fiqh). Centroasiatici, afgani, pachistani, indiani e bangladesi seguono soprattutto quella hanafita (la più antica e diffusa) vista con diffidenza da wahabiti e salafiti, per non parlare di quella shafita (diffusa in Indonesia, India, Africa orientale). Si ritorna dunque alla penisola arabica dove la scuola hanbalita – fu fondata a Bagdad da Ahmad ibn Hanbal – si è poi confinata. Ribadisce la supremazia dei testi sacri sul ragionamento personale, rifiuta l’analogia come fonte del diritto ed è la base giuridica dei movimenti wahabiti e salafiti.

Le scuole giuridiche dell’islam. Mappa della diffusione geografica

La diffusione delle quattro scuole di pensiero giuridico dell’islam.  I punti di riferimento scolastici sono Aḥmad ibn Ḥanbal di Bagdad (780-855), Ibn Taymiyya (1263–1328) nato a Harran (Turchia) e morto a Damasco e Muḥammad ibn Abd al-Wahhāb (1703-1792) nato a Najd (odierna Arabia saudita). Il wahabismo è un movimento che si è espanso soprattutto nella penisola arabica
. Il salafismo sarebbe nato in Egitto nella seconda metà del XIX secolo. Salafismo e wahabismo sono spesso usati erroneamente
 come sinonimi.
 L’hanbalismo è la madhaab abbracciata da Daesh. FonteMadhhab Map3/Peaceworld111 /Opera propria

Razzisti in nome di Allah: la pecca nera di Daesh

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Rientrerebbero nella categoria B soprattutto indiani e pachistani ma anche cinesi, indonesiani e africani. Chissà, ma il rapporto non sembra dirlo, se ciò vale anche per il Caucaso e i combattenti che provengono dall’Asia centrale e che di solito sono ritenuti ottimi guerriglieri. I “soldati” dell’Asia meridionale e orientale sarebbero comunque i meno affidabili: a loro non solo non sarebbero riservato il rango di “ufficiali” o la possibilità di entrare nella “military police” di Daesh (riservata a tunisini, palestinesi, sauditi, iracheni e siriani), ma vivrebbero in baracche meno accoglienti, non sarebbero ben armati, godrebbero di un salario inferiore e verrebbero addirittura utilizzati come carne da macello: spediti sulla linea del fronte, davanti ai guerriglieri etnicamente puri, a far da kamikaze senza saperlo, su jeep imbottite di esplosivo che saltano dopo che l’inconsapevole autista ha ottemperato al comando di comporre un certo numero al cellulare…
Sebbene sia sempre meglio essere diffidenti anche su questi rapporti di intelligence più o meno segreti, la cosa sarebbe suffragata da almeno tre elementi. Uno quantitativo, uno culturale e uno ideologico religioso. Per quel che riguarda gli indiani, ad esempio, il loro numero tra i foreign fighter sarebbe abbastanza ridotto: solo ventitré. Ma di questi ne sarebbero già morti sei, ossia uno ogni quattro, che è molto. L’altro elemento – come molti altri mediati dalla terra dei Saud, vedi alla voce decapitazione – riguarda il trattamento che in Arabia saudita o nel Golfo viene riservato a indiani, pachistani, bangladesi o indonesiani: camerieri e muratori senza diritti, relegati nelle periferie delle città e pagati una miseria. Decapitati o frustati se incorrono in qualche supposta malefatta. Questi musulmani di serie B, evidentemente ritenuti oltre che meno abili guerrieri anche meno affidabili sul piano della fedeltà, sarebbero sotto stretta sorveglianza da parte della polizia di Daesh.

Infine c’è anche un problema dottrinario: Daesh abbraccia la scuola giuridica (madhaab) hanbalita, una delle quattro seguite dai musulmani in tema di giurisprudenza coranica (fiqh). Centroasiatici, afgani, pachistani, indiani e bangladesi seguono soprattutto quella hanafita (la più antica e diffusa) vista con diffidenza da wahabiti e salafiti, per non parlare di quella shafita (diffusa in Indonesia, India, Africa orientale). Si ritorna dunque alla penisola arabica dove la scuola hanbalita – fu fondata a Bagdad da Ahmad ibn Hanbal – si è poi confinata. Ribadisce la supremazia dei testi sacri sul ragionamento personale, rifiuta l’analogia come fonte del diritto ed è la base giuridica dei movimenti wahabiti e salafiti.

Le scuole giuridiche dell’islam. Mappa della diffusione geografica

La diffusione delle quattro scuole di pensiero giuridico dell’islam.  I punti di riferimento scolastici sonoAḥmad ibn Ḥanbal di Bagdad (780-855), Ibn Taymiyya (1263–1328) nato a Harran (Turchia) e morto a Damasco e Muḥammad ibn Abd al-Wahhāb (1703-1792) nato a Najd (odierna Arabia saudita). Il wahabismo è un movimento che si è espanso soprattutto nella penisola arabica
. Il salafismo sarebbe nato in Egitto nella seconda metà del XIX secolo. Salafismo e wahabismo sono spesso usati erroneamente
 come sinonimi.
 L’hanbalismo è la madhaab abbracciato da Daesh. FonteMadhhab Map3/Peaceworld111 /Opera propria

Bangla-daesh: la rivendicazione per Parolari

La rivendicazione (Site)

La rivendicazione di Daesh è arrivata ieri, in arabo e con un lungo messaggio. Forse da prendere con le molle ma comunque da registrare. Padre Piero Parolari, salvo ma ferito gravemente l’altro ieri in una sparatoria nella cittadina bangladese di Dinajpur quando tre uomini in moto gli hanno sparato, sarebbe stato colpito da militanti di Daesh che ha anche rivendicato un attentato a un membro della comunità Bahai e l’assassinio di un uomo politico locale. La stampa del Bangladesh dà risalto al messaggio che, secondo il Daily Star di Dacca, è arrivato via twitter. Ma secondo il sito di analisi “Site” esiste un testo ben più lungo di 140 caratteri e rilanciato dall’agenzia Amaq News in cui si ricostruisce l’attentato a Parolari, definito un “crociato” nel gergo classico di Daesh. Nelle stesse ore per altro, il video “Paris before Rome”, diffuso sempre dai jihadisti di Al Bagdadi, rilanciava proprio l’Italia tra gli obiettivi del califfato benché poi il video si concentri su Stati uniti e nuovamente la Francia.

Per il caso Parolari la polizia ha intanto operato una serie di arresti tra cui quello di Mahbubur

La rivista di Daesh: un articolo
 sulla  “rinascita” in Bangladesh

Rahman Bhutto, segretario generale della sezione di Dinajpur della Jamaat-e-islami (partito islamista ma che Daesh considera deviazionista e traditore della causa jihadista), il cui ramo giovanile studentesco potrebbe avere legami con organizzazioni fuori legge e affiliati a Daesh.

Nell’ultimo numero di Dabiq, la pubblicazione mensile di Daesh, un articolo sul Bengala (che rilancia l’esecuzione di Cesare Tavella) chiarisce proprio le differenze ideologiche tra i vari gruppi del Paese anche se i redattori non menzionano nessuna organizzazione amica – nemmeno il famigerato Ansarullah Bangla Team, ritenuto l’erede di Daesh in Bangladesh, o il gruppo anch’esso al bando Jamaat ul Mujahidden Bangladesh – ma la presenza, genericamente, di mujahedin fedeli al califfato.

Bangla-daesh: la rivendicazione per Parolari

La rivendicazione (Site)

La rivendicazione di Daesh è arrivata ieri, in arabo e con un lungo messaggio. Forse da prendere con le molle ma comunque da registrare. Padre Piero Parolari, salvo ma ferito gravemente l’altro ieri in una sparatoria nella cittadina bangladese di Dinajpur quando tre uomini in moto gli hanno sparato, sarebbe stato colpito da militanti di Daesh che ha anche rivendicato un attentato a un membro della comunità Bahai e l’assassinio di un uomo politico locale. La stampa del Bangladesh dà risalto al messaggio che, secondo il Daily Star di Dacca, è arrivato via twitter. Ma secondo il sito di analisi “Site” esiste un testo ben più lungo di 140 caratteri e rilanciato dall’agenzia Amaq News in cui si ricostruisce l’attentato a Parolari, definito un “crociato” nel gergo classico di Daesh. Nelle stesse ore per altro, il video “Paris before Rome”, diffuso sempre dai jihadisti di Al Bagdadi, rilanciava proprio l’Italia tra gli obiettivi del califfato benché poi il video si concentri su Stati uniti e nuovamente la Francia.

Per il caso Parolari la polizia ha intanto operato una serie di arresti tra cui quello di Mahbubur

La rivista di Daesh: un articolo
 sulla  “rinascita” in Bangladesh

Rahman Bhutto, segretario generale della sezione di Dinajpur della Jamaat-e-islami (partito islamista ma che Daesh considera deviazionista e traditore della causa jihadista), il cui ramo giovanile studentesco potrebbe avere legami con organizzazioni fuori legge e affiliati a Daesh.

Nell’ultimo numero di Dabiq, la pubblicazione mensile di Daesh, un articolo sul Bengala (che rilancia l’esecuzione di Cesare Tavella) chiarisce proprio le differenze ideologiche tra i vari gruppi del Paese anche se i redattori non menzionano nessuna organizzazione amica – nemmeno il famigerato Ansarullah Bangla Team, ritenuto l’erede di Daesh in Bangladesh, o il gruppo anch’esso al bando Jamaat ul Mujahidden Bangladesh – ma la presenza, genericamente, di mujahedin fedeli al califfato.

Il Bangladesh e l’ombra di Daesh

Parolari al’ospedale in un’immagine di ieri del Daily Star

E’ andato a vuoto il tentativo di omicidio in Bangladesh ai danni del missionario italiano Piero Parolari, ferito mentre era in bicicletta a Dinajpur, 350 chilometri a Nord di Dacca dove svolge, oltre al servizio pastorale, anche l’attività di medico nell’ospedale della missione locale e come volontario al Dinajpur Medical College Hospital. Tre uomini in moto gli avrebbero sparato ma nessun proiettile è andato a segno anche se Parolari ha ferite alla testa. Ora è ricoverato a Dacca e se la caverà. E’ andata molto peggio ad altri due stranieri uccisi meno di due mesi fa e la cui morte è stata rivendicata da Daesh: il cooperante Cesare Tavella, ucciso nella capitale il 29 settembre, e Kunio Hoshi, giapponese, ammazzato a Rangpur il 3 ottobre Il 5 invece, un prete battista bengalese, Luke Sarkar, era riuscito a fuggire dopo essere stato accoltellato da uomini entrati nella sua chiesa a Pabna.

Un frame dalla tv bangladese

Per ora una rivendicazione non c’è e il governo del Bangladesh ha sempre negato che Daesh esista nel Paese anche se è nota l’attività di un’organizzazione in particolare (di sei messe al bando): Ansarullah Bangla Team, un gruppo di ispirazione qaedista nato diversi anni fa, poi sparito ma ora riaffacciatosi sulla scena. Le sue rivendicazioni per ora sono tre: l’uccisione dei due stranieri e un attacco simultaneo contro templi sciiti a Dacca. Inoltre, poco prima dell’attentato a Tavella, Abt aveva pubblicato una lista di blogger e attivisti minacciandoli di morte (bangladesi espatriati e non e altri nel mondo). Abt potrebbe essere responsabile delle uccisioni di diversi blogger per le quali sono stati eseguiti molti arresti e processi. Ma spesso i legami sono confusi: Al-Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis) ne ha rivendicati e la polizia ha arrestato, sempre per la vicenda blogger o editori laici, persone legate al Jamaat-e-Islami, la maggior organizzazione islamista del Paese la cui costola giovanile studentesca, Chatra Shibir, non sarebbe estranea alle attività dell’Abt.

Blogger, editori, attivisti sono nel mirino degli islamisti anche per le vicende che riguardano le condanne a morte di islamisti che si macchiarono di crimini durante la guerra per la separazione dal Pakistan negli anni Settanta. Un capitolo difficile del Bangladesh con continue condanne a morte per i fatti dell’epoca che hanno provocato reazioni e su cui gli islamisti pensano di far leva.

Il Bangladesh e l’ombra di Daesh

Parolari al’ospedale in un’immagine di ieri del Daily Star

E’ andato a vuoto il tentativo di omicidio in Bangladesh ai danni del missionario italiano Piero Parolari, ferito mentre era in bicicletta a Dinajpur, 350 chilometri a Nord di Dacca dove svolge, oltre al servizio pastorale, anche l’attività di medico nell’ospedale della missione locale e come volontario al Dinajpur Medical College Hospital. Tre uomini in moto gli avrebbero sparato ma nessun proiettile è andato a segno anche se Parolari ha ferite alla testa. Ora è ricoverato a Dacca e se la caverà. E’ andata molto peggio ad altri due stranieri uccisi meno di due mesi fa e la cui morte è stata rivendicata da Daesh: il cooperante Cesare Tavella, ucciso nella capitale il 29 settembre, e Kunio Hoshi, giapponese, ammazzato a Rangpur il 3 ottobre Il 5 invece, un prete battista bengalese, Luke Sarkar, era riuscito a fuggire dopo essere stato accoltellato da uomini entrati nella sua chiesa a Pabna.

Un frame dalla tv bangladese

Per ora una rivendicazione non c’è e il governo del Bangladesh ha sempre negato che Daesh esista nel Paese anche se è nota l’attività di un’organizzazione in particolare (di sei messe al bando): Ansarullah Bangla Team, un gruppo di ispirazione qaedista nato diversi anni fa, poi sparito ma ora riaffacciatosi sulla scena. Le sue rivendicazioni per ora sono tre: l’uccisione dei due stranieri e un attacco simultaneo contro templi sciiti a Dacca. Inoltre, poco prima dell’attentato a Tavella, Abt aveva pubblicato una lista di blogger e attivisti minacciandoli di morte (bangladesi espatriati e non e altri nel mondo). Abt potrebbe essere responsabile delle uccisioni di diversi blogger per le quali sono stati eseguiti molti arresti e processi. Ma spesso i legami sono confusi: Al-Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis) ne ha rivendicati e la polizia ha arrestato, sempre per la vicenda blogger o editori laici, persone legate al Jamaat-e-Islami, la maggior organizzazione islamista del Paese la cui costola giovanile studentesca, Chatra Shibir, non sarebbe estranea alle attività dell’Abt.

Blogger, editori, attivisti sono nel mirino degli islamisti anche per le vicende che riguardano le condanne a morte di islamisti che si macchiarono di crimini durante la guerra per la separazione dal Pakistan negli anni Settanta. Un capitolo difficile del Bangladesh con continue condanne a morte per i fatti dell’epoca che hanno provocato reazioni e su cui gli islamisti pensano di far leva.

Afghanistan: insicuri, insoddisfatti, preoccupati. Il rapporto di Asia Foundation

Il rapporto sull’Afghanistan di quest’anno di Asia Foundation, rilanciato dai media locali, dice che più della metà degli afgani (57,5%) sostiene che il Paese si sta muovendo nella direzione sbagliata mentre Il numero di afgani che dicono di aver paura per la loro sicurezza personale è al più alto livello registrato (67,4%) da quando l’indagine è iniziata. Il sondaggio rivela anche la stragrande maggioranza degli afgani ritiene che le forze di sicurezza nazionali abbiamo bisogno di sostegno straniero per operare ( l’82,8% degli afgani dice che l’esercito nazionale avrebbe bisogno di sostegno esterno; l’80,1% dice che la polizia nazionale afgana ha bisogno di assistenza; il 70,4% dice che anche  la polizia locale ha bisogno di sostegno esterno). Infine  il sondaggio rileva che Daesh ha avuto un impatto sulla percezione afgani per quel che riguarda la loro sicurezza: quasi tre su quattro intervistati dicono di aver sentito parlare di Daesh e il  40,3% di tutti gli afgani sostiene che il gruppo costituisce una minaccia. Secondo i risultati dell’indagine, l’economia e la disoccupazione emergono come principali preoccupazioni, in particolare per i giovani e le donne.

Il rapporto è scaricabile qui

Afghanistan: insicuri, insoddisfatti, preoccupati. Il rapporto di Asia Foundation

Il rapporto sull’Afghanistan di quest’anno di Asia Foundation, rilanciato dai media locali, dice che più della metà degli afgani (57,5%) sostiene che il Paese si sta muovendo nella direzione sbagliata mentre Il numero di afgani che dicono di aver paura per la loro sicurezza personale è al più alto livello registrato (67,4%) da quando l’indagine è iniziata. Il sondaggio rivela anche la stragrande maggioranza degli afgani ritiene che le forze di sicurezza nazionali abbiamo bisogno di sostegno straniero per operare ( l’82,8% degli afgani dice che l’esercito nazionale avrebbe bisogno di sostegno esterno; l’80,1% dice che la polizia nazionale afgana ha bisogno di assistenza; il 70,4% dice che anche  la polizia locale ha bisogno di sostegno esterno). Infine  il sondaggio rileva che Daesh ha avuto un impatto sulla percezione afgani per quel che riguarda la loro sicurezza: quasi tre su quattro intervistati dicono di aver sentito parlare di Daesh e il  40,3% di tutti gli afgani sostiene che il gruppo costituisce una minaccia. Secondo i risultati dell’indagine, l’economia e la disoccupazione emergono come principali preoccupazioni, in particolare per i giovani e le donne.

Il rapporto è scaricabile qui

Myanmar, a che punto siamo

Nella tabella i seggi alla Camera bassa (440) e le percentuali relative. La vittoria della Lega (NLD) è
nettissima con quasi i due terzi dell’Assemblea. I militari hanno 110 seggi garantiti dalla Costituzione. La Lega ha detto che non farà un governo di coalizione e il presidente in carica si è impegnato a  garantire la transizione. Si notino i due partiti etnici Shan e Arakan, gli unici due con una sostanziale rappresentanza mentre gli altri partiti  etnici (comunità diverse dai birmani contano per circa la metà dei 50 milioni di abitanti del Myanmar) restano stabili. La Lega avrebbe in mente di affidare una delle due vicepresidenze (vengono espresse da Camera alta e bassa) a un non birmano. Aung San Suu Kyi (oggi ha fatto il suo ingresso in parlamento con due rose in mano) sarebbe il premier del nuovo governo ma non potrà correre alla poltrona di presidente che andrà ovviamente a un personaggio della Lega. I ministeri chiave (Difesa, economia) resterebbero comunque belle mani dei militari

Party
Seats Before
Seats Won
+/-
%
USDP
Union Solidarity and Development Party
217
29
6.6
Mil
Military
110
110
25
NLD
National League for Democracy
38
255
217
58
SNLD
Shan Nationalities League for Democracy
12
12
2.7
ANP
Arakan National Party
7
12
5
2.7
NUP
National Unity Party
12
SNDP
Shan Nationalities Democratic Party
17
NDF
National Democratic Force
6
AMDP
All Mon Region Democracy Party
3
CNDP
Chin National Democratic Party
2
KPP
Karen Peoples Party
1
NDP
National Development Party
MFDP
Myanmar Farmers Development Party
MNP
Mon National Party
KSDP
Kachin State Democracy Party
TNDP
Tai-Leng Nationalities Development Party
Ethn
Other Party (Ethnic)
12
12
2.7
Non-E
Other Party (Non-Ethnic)
3
Ind
Independent
1
1
0.2

Fonte: Irrawaddy basato su dati provvisori

Ascolta l’intervista di Veronica Di Benedetto Montaccini per Radio Vaticana

Salvate Mes Aynak

The award-winning film SAVING MES AYNAK follows archaeologist Qadir Temori as he races against time to save a 5,000-year-old Buddhist archeological site in Afghanistan from imminent demolition by a Chinese State-owned mining company, who plan to destro…

Il progetto globale di Daesh


La nascita ufficiale del Califfato lanciata da Al Bagdadi è del 29 giugno 2014. Ma già da diverso tempo prima  circolava su internet una mappa delle ambizioni territoriali di Daesh. Non è chiaro chi l’abbia compilata e, secondo alcuni studiosi, si tratta dell’opera di qualche simpatizzante, oltretutto a digiuno di Storia visto che vi includeva il Nord della Spagna, la Slovacchia o l’Austria (mai state sotto dominazione islamica) e vi escludeva ad esempio la Sicilia. La mappa riproduce però a grandi linee le ambizioni espansive di un “impero” islamico che dall’Occidente europeo si spinge sino al Khorasan (geograficamente l’altipiano iranico e zone limitrofe) che però nell’ipotesi di Daesh include anche il subcontinente indiano. Una mappa che invece esclude il meridione del Sudest asiatico dove Indonesia, Malaysia, Brunei e Sud della Thailandia contano oltre 250 milioni di musulmani (si veda la mappa più sensata del gruppo Hizb ut-Tahrir riprodotta qui sotto a sinistra).

Ma al di là delle mappe e delle ambizioni, dov’è la forza reale dell’auto proclamato Stato islamico? Il suo cuore pulsante sta, com’è noto, tra la Siria e l’Irak dove oltre a combattere Daesh ha anche un vero e proprio controllo territoriale. Nel resto del mondo si va da piccole zone a macchia di leopardo a cellule più o meno attive e mobili. In questo momento, la minaccia più reale si potrebbe collocare a cavallo di Pakistan e Afghanistan, dove Daesh guadagna terreno anche grazie ai reclutamenti tra movimenti islamisti attivi nel Nord del Caucaso o nelle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche che, quando non hanno cellule attive nei propri Paesi, forniscono combattenti.

A Ovest di Raqqa (Siria) – la capitale ufficiale per il momento – il califfato proietta la sua ombra su una vasta area che comprende l’Egitto, dove Daesh può contare soprattutto sulla regione del Sinai (Ansar Bayt al-Maqdis e Jund al Khilafah Kinana), il Nord della Libia (Ansar al Sharia), l’Algeria (Jund al Khilafah). Più a Sud la mira è su una vasta area africana che si estende dalla Somalia alla Nigeria dove Daesh può far leva soprattutto su Boko Haram (Wilayat Gharb Afriqiyah) vicino alle sue posizioni dal luglio 2014. Nella penisola arabica c’è invece Al Qaeda in the Arabian Peninsula che ha aderito a Daesh nell’agosto 2014.

L’espansione di Daesh secondo qualche simpatizzante
. In alto la traduzione dall’arabo

A Est del cuore del Califfato le cose si fanno più confuse: in Afghanistan si va dall’Hezb islami del vecchio signore della guerra Hekmatyar, la cui simpatia verso Daesh sembra in realtà solo un modo per distanziarsi dai Talebani di mullah Mansur, a varie formazioni minori che attraggono talebani insoddisfatti e che sono attive nell’area orientale del Paese a cavallo col Pakistan dove parte dei talebani locali del Therek Taleban Pakistan appoggiano – ma al prezzo di forti divisioni interne – lo Stato islamico. Fan da corollario piccole nuove formazioni o vecchie organizzazioni settarie anti sciite molto ben viste da Desh. Infine c’è la galassia jihadista centroasiatica – attiva sia nei propri Paesi di origine sia in Afghanistan, Pakistan, Siria, Irak – tra cui l’organizzazione più nota è il  Movimento islamico dell’Uzbekistan, alleato dal 2015.

In India Daesh non fa molta strada se si esclude la cellula di Ansar-ut Tawhid fi Bilad al-Hind, attiva dal 2013 ma solo sul piano di propaganda e reclutamento mentre in Bangladesh (va menzionato il caso dell’uccisione dell’italiano Cesare Tavella) sono fuori legge almeno sei gruppi islamisti tra cui Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh o Ansarullah Bangla, di cui non sono chiari i collegamenti con Daesh: il Paese rimane comunque una possibile area di reclutamento. Più ci si sposta a Est e a Sud meno l’influenza di Al Bagdadi si fa sentire anche se Filippine e Indonesia sono due Paesi a rischio: nel primo l’area turbolenta di Mindanao è piena di gruppuscoli contrari a far pace col governo e dunque sensibili ai richiami di Daesh. mentre nell’arcipelago indonesiano alcune centinaia di islamisti avrebbero ascoltato il richiamo jihadista per andare a combattere in Iraq e Siria.

Il quadro è dunque in via di definizione ma il contagio è tutt’altro che contenuto: secondo il centro studi Jane’s, solo negli ultimi mesi di quest’anno gli attacchi di Daesh sono aumentati a dismisura: 1.086 tra luglio e settembre e cioè circa 12 al giorno contro gli 8 registrati tra aprile e giugno. 2.978 vittime con un salto di oltre l’80% rispetto a un anno prima.

Terrore a Parigi

François Hollande : ” l’état d’urgence est… di lemondefr

Un primo bilancio all’alba dopo la notte di fuoco accanto allo stadio e in pieno centro città: oltre 120 vittime. Sei esplosioni e fuoco sulla folla da almeno otto terroristi tutti morti negli attacchi a Parigi nella notte di ieri. Almeno sei di loro si sono fatti esplodere con la cintura esplosiva mentre gli altri quattro sono morti durante l’irruzione della polizia al teatro Bataclan (tre si sono fatti saltare con la cintura esplosiva, uno è stato ucciso)dove i terroristi hanno sparato sugli spettatori. Rivendicazione di Daesh su Dabiq France (sito dello Stato islamico). Rohani annulla il suo viaggio europeo. La Francia chiude le frontiere. Solidarietà dal mondo

Myanmar, il tempo del negoziato

Mentre anche il presidente in carica Thein Sein ammette apertamente la sconfitta congratulandosi ufficialmente con Aung San Suu Kyi, il futuro premier birmano prende carta e penna e gli scrive una lettera che manda anche al capo delle Forze armate Min Aung Hlaing e allo speaker uscente del parlamento Shwe Mann (un ex generale dello stesso partito di Sein). Invita insomma a sedere a uno stesso tavolo i tre protagonisti politici del Myanmar – tutti militari – per discutere del futuro. La risposta ancora non c’è ma le congratulazioni di Thein Sein, il generale che potrebbe passare alla Storia come l’uomo che ha garantito la transizione, parlano chiaro sebbene il suo portavoce abbia chiarito che l’agenda si discuterà solo dopo i risultati: Sein, dicono alla Lega, avrebbe promesso un trasferimento pacifico del potere e, nel messaggio ricevuto dal ministro dell’Informazione Ye Htut a nome del presidente, Thein Sein si sarebbe congratulato con la Nobel e la Lega per il risultato. Un risultato, che a parte le contestazioni di regola su chi avesse più o meno diritto a presentarsi, per ora non ha registrato che plausi: dagli osservatori europei e dalla Fondazione Carter, capitanata da Jason, primogenito dell’ex presidente americano. Le congratulazioni dei vari leader e governi stanno arrivando puntali.

In effetti la vittoria è macroscopica. Con la conta dei voti ancora a metà delle schede, la Bbc valuta che la Lega di Suu Kyi abbia ottenuto il 90% dei voti. Irrawaddy, il giornale online dell’opposizione storica al regime militare (seppur da anni ormai in abiti civili) attribuiva ieri sera alla Lnd 179 seggi alla Camera bassa (dove ne aveva 38) con una rappresentanza del 47%. Secondi sono i militari che hanno 110 seggi per default su 440 garantiti dalla Costituzione (25%); solo 17 seggi per ora al Partito di Thein Sein (3,9%). Alla Camera Alta la Lega ha per ora 77 dei 224 seggi (ne aveva…5), 56 i militari e solo 4 Thein Sein (ne aveva …122).

Non è la prima volta che Aung San Suu Kyi tenta un abboccamento ma prima, rilevano gli osservatori, la situazione parlamentare del suo Partito, boicottato in ogni modo alle passate tornate elettorali, era troppo fragile perché potessero anche solo darle ascolto. Adesso invece le posizioni di forza si sono ribaltate anche se la quota di militari nominati e i seggi comunque guadagnati dal Partito della solidarietà e Sviluppo di Sein conservano all’esercito un ruolo che resta importante. Se il voto resta costante i numeri potrebbero però dare alla Lega una maggioranza schiacciante che l’ex opposizione valuta attorno al 70%: tanto, tantissimo e sufficiente a nominare il premier ed esprimere la candidatura a presidente (carica che al momento Suu Kyi non può rivestire) ma non abbastanza per cambiare la Costituzione perché gli emendamenti alla Carta suprema richiedono oltre il 75% dei parlamentari. Solo un negoziato coi militari e i partiti minori dunque – ciò che la Nobel intende fare – potrebbe aprire la strada a una riforma della Carta per togliere il veto che grava sul candidato presidente se è sposato con uno straniero (suo marito era un professore britannico morto alcuni anni fa da cui ha avuto due figli ).

Negoziare dunque come per altro la Lega e la sua leader hanno sempre cercato di fare: non più tardi di qualche mese, in settembre, la Lega pubblicò sul suo sito internet un messaggio video di Aung San Suu Kyi in cui la Nobel faceva mostra di considerare con tutte le attenzioni Tatmadaw, le Forze armate birmane, un esercito che utilizza oltre due miliardi di dollari del budget nazionale e formato da 350mila soldati in gran parte volontari (teoricamente perché la coscrizione può esser resa obbligatoria).

Negoziare dunque e con prudenza: la Lega nazionale per la democrazia ha esortato i suoi sostenitori a evitare grandi celebrazioni almeno fino ai risultati definitivi che la Commissione elettorale rilascia col contagocce. Troppo entusiasmo, dicono alla Lnd, sarebbe rischioso. Non è un caso se in un’intervista alla Bbc martedì scorso – due giorni dopo il voto – Suu Kyi ha detto che il voto è stato libero (free) ma non equo (fair): ci sono state «intimidazioni». Il passato non è ancora passato.

Myanmar, il tempo del negoziato

Mentre anche il presidente in carica Thein Sein ammette apertamente la sconfitta congratulandosi ufficialmente con Aung San Suu Kyi, il futuro premier birmano prende carta e penna e gli scrive una lettera che manda anche al capo delle Forze armate Min Aung Hlaing e allo speaker uscente del parlamento Shwe Mann (un ex generale dello stesso partito di Sein). Invita insomma a sedere a uno stesso tavolo i tre protagonisti politici del Myanmar – tutti militari – per discutere del futuro. La risposta ancora non c’è ma le congratulazioni di Thein Sein, il generale che potrebbe passare alla Storia come l’uomo che ha garantito la transizione, parlano chiaro sebbene il suo portavoce abbia chiarito che l’agenda si discuterà solo dopo i risultati: Sein, dicono alla Lega, avrebbe promesso un trasferimento pacifico del potere e, nel messaggio ricevuto dal ministro dell’Informazione Ye Htut a nome del presidente, Thein Sein si sarebbe congratulato con la Nobel e la Lega per il risultato. Un risultato, che a parte le contestazioni di regola su chi avesse più o meno diritto a presentarsi, per ora non ha registrato che plausi: dagli osservatori europei e dalla Fondazione Carter, capitanata da Jason, primogenito dell’ex presidente americano. Le congratulazioni dei vari leader e governi stanno arrivando puntali.

In effetti la vittoria è macroscopica. Con la conta dei voti ancora a metà delle schede, la Bbc valuta che la Lega di Suu Kyi abbia ottenuto il 90% dei voti. Irrawaddy, il giornale online dell’opposizione storica al regime militare (seppur da anni ormai in abiti civili) attribuiva ieri sera alla Lnd 179 seggi alla Camera bassa (dove ne aveva 38) con una rappresentanza del 47%. Secondi sono i militari che hanno 110 seggi per default su 440 garantiti dalla Costituzione (25%); solo 17 seggi per ora al Partito di Thein Sein (3,9%). Alla Camera Alta la Lega ha per ora 77 dei 224 seggi (ne aveva…5), 56 i militari e solo 4 Thein Sein (ne aveva …122).


Non è la prima volta che Aung San Suu Kyi tenta un abboccamento ma prima, rilevano gli osservatori, la situazione parlamentare del suo Partito, boicottato in ogni modo alle passate tornate elettorali, era troppo fragile perché potessero anche solo darle ascolto. Adesso invece le posizioni di forza si sono ribaltate anche se la quota di militari nominati e i seggi comunque guadagnati dal Partito della solidarietà e Sviluppo di Sein conservano all’esercito un ruolo che resta importante. Se il voto resta costante i numeri potrebbero però dare alla Lega una maggioranza schiacciante che l’ex opposizione valuta attorno al 70%: tanto, tantissimo e sufficiente a nominare il premier ed esprimere la candidatura a presidente (carica che al momento Suu Kyi non può rivestire) ma non abbastanza per cambiare la Costituzione perché gli emendamenti alla Carta suprema richiedono oltre il 75% dei parlamentari. Solo un negoziato coi militari e i partiti minori dunque – ciò che la Nobel intende fare – potrebbe aprire la strada a una riforma della Carta per togliere il veto che grava sul candidato presidente se è sposato con uno straniero (suo marito era un professore britannico morto alcuni anni fa da cui ha avuto due figli ).

Negoziare dunque come per altro la Lega e la sua leader hanno sempre cercato di fare: non più tardi di qualche mese, in settembre, la Lega pubblicò sul suo sito internet un messaggio video di Aung San Suu Kyi in cui la Nobel faceva mostra di considerare con tutte le attenzioni Tatmadaw, le Forze armate birmane, un esercito che utilizza oltre due miliardi di dollari del budget nazionale e formato da 350mila soldati in gran parte volontari (teoricamente perché la coscrizione può esser resa obbligatoria).

Negoziare dunque e con prudenza: la Lega nazionale per la democrazia ha esortato i suoi sostenitori a evitare grandi celebrazioni almeno fino ai risultati definitivi che la Commissione elettorale rilascia col contagocce. Troppo entusiasmo, dicono alla Lnd, sarebbe rischioso. Non è un caso se in un’intervista alla Bbc martedì scorso – due giorni dopo il voto – Suu Kyi ha detto che il voto è stato libero (free) ma non equo (fair): ci sono state «intimidazioni». Il passato non è ancora passato.

Tutti gli scenari del dopo voto birmano

Anche se bisognerà aspettare ancora diversi giorni per conoscere i risultati definitivi, la vittoria a grandi numeri per la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi è ormai una certezza. Ma una certezza non definitiva e dunque non priva di rischi. Anche se gli osservatori della Ue hanno confermato che i seggi elettorali birmani sono stati gestiti con correttezza, non hanno ad esempio potuto visitare quelli nelle caserme e la Lega stessa, per bocca del suo portavoce Win Htien, teme qualche colpo di coda: «La Commissione elettorale rilascia intenzionalmente i risultati col contagocce – ha detto ai reporter – e forse sta covando l’idea di qualche trucco o qualcosa di simile: non c’è infatti nessun senso nel dare i risultati un po’ alla volta. Non dovrebbe essere così». I risultati un po’ alla volta finiscono anche col ridimensionare qualche aspettativa creando così l’idea che i militari, che comunque per legge hanno diritto al 25% dei seggi delle due Camere, possano alla fine far girare i risultati a loro piacimento.

Irrawaddy, uno dei più noti siti d’opposizione (clandestino durante il regime militare) prova a fare due conti: secondo la Lega, il partito di Aung San Suu Kyi avrebbe in mano almeno 380 seggi nei due rami del parlamento (su 433 seggi alla Camera Bassa e 224 nell’Alta) il che le consegnerebbe la maggioranza. I militari ne hanno 166 ma sul totale degli scranni in parlamento (657) ne bastano comunque 329 per poter contare tanto da esprimere il premier, e i due candidati (uno per Camera) sia alla presidenza sia alla vice presidenza: quella della presidenza è una poltrona che in Birmania conta più di quella del primo ministro ed è fondamentale per formare il governo. E qui si entra nel campo delle speculazioni: la prima è che la Lega dovrebbe scegliere un altro candidato che non la sua leader visto che la Nobel ha tutte le carte in regola ma non quelle formali perché è stata sposata con uno straniero e stranieri sono i suoi figli, clausola studiata apposta per sbarrarle la strada. Ma Suu Kyi come primo ministro potrebbe anche cercare un accordo coi militari (come fa capire nel video postato sul sito della Lega già il 22 settembre scorso e come ha detto stamane chiedendo un incontro con Tatmadaw) e altri partiti per arrivare a cambiare la Costituzione, cosa non molto facile perché serve una maggioranza che la Lega da sola non può raggiungere visto che è necessario avere il 75% più uno dei voti dell’intero parlamento. Altro scenario è che si negozi un candidato terzo che vada bene ai militari e alla Lega prendendo tempo. Insomma, scenari apertissimi e sempre che tutto fili liscio.

Gli analisti birmani suggeriscono comunque anche un altro scenario: quello in cui i militari non solo resterebbero nelle loro baracche ma si laverebbero le mani della questione governo purché a loro siano riservati i ministeri chiave di Difesa e Interno, senza contare che tutte le leve dell’economia sono in loro potere. Un governo di facciata insomma, tanto per evitare sanzioni e salvare la faccia davanti al mondo. Continuando a guidare il Paese dal backstage.

* Nel video della Lnd, Aung San Suu Kyi  parla della possibile collaborazione tra la Lega e Tatmadaw, le Forze armate. Postato in settembre

Tutti gli scenari del dopo voto birmano

Anche se bisognerà aspettare ancora diversi giorni per conoscere i risultati definitivi, la vittoria a grandi numeri per la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi è ormai una certezza. Ma una certezza non definitiva e dunque non priva di rischi. Anche se gli osservatori della Ue hanno confermato che i seggi elettorali birmani sono stati gestiti con correttezza, non hanno ad esempio potuto visitare quelli nelle caserme e la Lega stessa, per bocca del suo portavoce Win Htien, teme qualche colpo di coda: «La Commissione elettorale rilascia intenzionalmente i risultati col contagocce – ha detto ai reporter – e forse sta covando l’idea di qualche trucco o qualcosa di simile: non c’è infatti nessun senso nel dare i risultati un po’ alla volta. Non dovrebbe essere così». I risultati un po’ alla volta finiscono anche col ridimensionare qualche aspettativa creando così l’idea che i militari, che comunque per legge hanno diritto al 25% dei seggi delle due Camere, possano alla fine far girare i risultati a loro piacimento.

Irrawaddy, uno dei più noti siti d’opposizione (clandestino durante il regime militare) prova a fare due conti: secondo la Lega, il partito di Aung San Suu Kyi avrebbe in mano almeno 380 seggi nei due rami del parlamento (su 433 seggi alla Camera Bassa e 224 nell’Alta) il che le consegnerebbe la maggioranza. I militari ne hanno 166 ma sul totale degli scranni in parlamento (657) ne bastano comunque 329 per poter contare tanto da esprimere il premier, e i due candidati (uno per Camera) sia alla presidenza sia alla vice presidenza: quella della presidenza è una poltrona che in Birmania conta più di quella del primo ministro ed è fondamentale per formare il governo. E qui si entra nel campo delle speculazioni: la prima è che la Lega dovrebbe scegliere un altro candidato che non la sua leader visto che la Nobel ha tutte le carte in regola ma non quelle formali perché è stata sposata con uno straniero e stranieri sono i suoi figli, clausola studiata apposta per sbarrarle la strada. Ma Suu Kyi come primo ministro potrebbe anche cercare un accordo coi militari (come fa capire nel video postato sul sito della Lega già il 22 settembre scorso e come ha detto stamane chiedendo un incontro con Tatmadaw) e altri partiti per arrivare a cambiare la Costituzione, cosa non molto facile perché serve una maggioranza che la Lega da sola non può raggiungere visto che è necessario avere il 75% più uno dei voti dell’intero parlamento. Altro scenario è che si negozi un candidato terzo che vada bene ai militari e alla Lega prendendo tempo. Insomma, scenari apertissimi e sempre che tutto fili liscio.

Gli analisti birmani suggeriscono comunque anche un altro scenario: quello in cui i militari non solo resterebbero nelle loro baracche ma si laverebbero le mani della questione governo purché a loro siano riservati i ministeri chiave di Difesa e Interno, senza contare che tutte le leve dell’economia sono in loro potere. Un governo di facciata insomma, tanto per evitare sanzioni e salvare la faccia davanti al mondo. Continuando a guidare il Paese dal backstage.

* Nel video della Lnd, Aung San Suu Kyi  parla della possibile collaborazione tra la Lega e Tatmadaw, le Forze armate. Postato in settembre

Myanmar. Le vittoria della Lega e i generali

Lo spoglio delle schede in Myanmar sta consegnando la vittoria alla Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Con un’affluenza dell’80% e primi risultati molto confortanti, l’euforia si è impadronita dell’opposizione birmana che rischia finalmente di vedere coronato un sogno che sembrava impossibile. Sarebbero insomma suoi la maggior parte dei deputati eletti (correvano una novantina di partiti con un totale di 6mila candidati) e in alcuni casi – dicono fonti del partito – con una maggioranza praticamente assoluta: come nella capitale dove la Lnd avrebbe vinto addirittura 44 dei 45 seggi in palio mentre a livello nazionale, secondo le proiezioni dell’opposizione, la Lega potrebbe ottenere sino al 70% degli scranni parlamentari. Tutto comunque resta ancora da vedere e lo spoglio (50mila i seggi elettorali) richiede tempo. Un tempo che sembra infinito.

Il nuovo parlamento eletto dai birmani entrerà comunque in funzione solo in marzo. C’è dunque tempo per vedere come andrà a finire quella che al momento appare una svolta ma sulla quale resta l’ombra lunga dei militari. Militari che governano dal 1962 quando rovesciarono il governo di U Nu restando da allora, sotto svariate forme, la casta con in mano le leve del potere politico e dell’economia. Da sempre in sostanza i generali birmani – riformisti o reazionari – hanno prodotto la leadership del Paese, dai dittatori della vecchia guardia come Ne Win al loro ultimo rampollo progressista, il generale Thein Sein, un uomo che ha smesso la divisa nel 2010 passando da primo ministro a interim a capo di un organismo civile seppur appoggiato dai militari (il Partito della solidarietà e dello sviluppo) grazie al quale, nel 2011, è diventato poi presidente della repubblica. Non va dimenticato che Thein Sein, che nel 2007 aveva sostituito il generale malato Soe Win su mandato di Than Shwe, il capo della famigerata giunta militare nota col nome di Consiglio di Stato per la pace e lo sviluppo (Slorc), è comunque un uomo della casta anche se si deve a lui il processo di riforma che ha condotto alle elezioni attuali.

Nel 2008, a buon conto, il suo governo ha promosso un referendum costituzionale – tenutosi in
un’atmosfera di intimidazione e broglio diffuso – con cui i militari si sono garantiti principalmente due cose: un controllo del parlamento e l’impossibilità per Aung San Suu Kyi di diventare presidente, anche se nel 2010 la Nobel è poi stata liberata dal regime di arresti domiciliari che la obbligava a una residenza forzata nella sua casa di Yangoon. Come? La legge stabilisce che non può essere presidente del Myanmar chi abbia sposato uno straniero o i cui figli lo siano: Suu Kyi aveva un marito britannico e ha due figli col passaporto del Regno unito. Quanto al controllo sul parlamento, i militari si sono garantiti per Costituzione 56 seggi dei 224 (ossia il 25%) alla Camera alta o Camera delle nazionalità (Amyotha Hluttaw). Alla Camera bassa invece( Pyithu Hluttaw), i rappresentanti dell’esercito – che non vengono eletti ma nominati – hanno diritto a 110 seggi su 440 (sempre il 25%). Un peso in grado di determinare le maggioranze anche se questa volta potrebbe non essere così. E qui sta il punto.

Il simbolo delle Forze armate birmane (Tatmadaw)

Ma qual è il contesto e la cornice storica in cui si muovono i militari birmani e cosa dunque è lecito aspettarsi? Nel Sudest asiatico, e per certi versi in quasi tutta l’Asia, i militari hanno sempre avuto e hanno un ruolo determinante fatte rare eccezioni (come il Giappone o l’India, dove comunque il peso politico delle Forze armate è, seppur indiretto, molto importante). Dal Pakistan all’Indonesia, passando per la Thailandia, i militari hanno dettato legge per anni e in alcuni casi ancora lo fanno attraverso dittature più o meno mascherate tra cui quella di Bangkok è il caso più eclatante. Se non c’è una giunta militare c’è spesso il partito unico (Vietnam, Laos, Cina, Nord Corea) o governi “democratici” che si reggono, come in Cambogia, su un esercito sempre pronto a servire il premier. Nel Sudest asiatico, con la sola eccezione della Malaysia e delle Filippine o di piccoli staterelli come Timor Est, Singapore e Brunei, i militari son sempre stati onnipresenti: hanno in alcuni casi fatto notevoli passi indietro (l’Indonesia aveva una legge “birmana” che consentiva all’esercito di dominare il parlamento, ora non più) ma in altri (la Thailandia) sono tornati prepotentemente in scena per sistemare le cose (con l’accordo della casa reale).

Suharto, generale e presidente

Il passato recente è pieno di uomini in divisa, appoggio fondamentale per il dittatore di turno. I casi più noti sono le Filippine di Marcos (un civile) e l’Indonesia di Suharto (un generale). Le Filippine si sono avviate con difficoltà sulla strada di governi civili e democratici (anche se scontano un peso forte dei militari a cui la guerra civile nel Sud regala un ruolo di primo piano). L’Indonesia ha teoricamente chiuso quella stagione, conclusasi con l’uscita di scena di Suharto che però fu dimissionato – pur sulla scia di manifestazioni di piazza – dai suoi stessi commilitoni. E comunque ancora oggi, che pure comanda un governo civile, non si può ancora parlare del 1965, quando i generali sollevarono Sukarno e presero il potere per trent’anni e facendo piazza pulita di ogni opposizione. Una pulizia che costò la vita, nelle stime più blande, a mezzo milione di persone e una storia che oggi è ancora un tabù.

Myanmar. Le vittoria della Lega e i generali

Lo spoglio delle schede in Myanmar sta consegnando la vittoria alla Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Con un’affluenza dell’80% e primi risultati molto confortanti, l’euforia si è impadronita dell’opposizione birmana che rischia finalmente di vedere coronato un sogno che sembrava impossibile. Sarebbero insomma suoi la maggior parte dei deputati eletti (correvano una novantina di partiti con un totale di 6mila candidati) e in alcuni casi – dicono fonti del partito – con una maggioranza praticamente assoluta: come nella capitale dove la Lnd avrebbe vinto addirittura 44 dei 45 seggi in palio mentre a livello nazionale, secondo le proiezioni dell’opposizione, la Lega potrebbe ottenere sino al 70% degli scranni parlamentari. Tutto comunque resta ancora da vedere e lo spoglio (50mila i seggi elettorali) richiede tempo. Un tempo che sembra infinito.

Il nuovo parlamento eletto dai birmani entrerà comunque in funzione solo in marzo. C’è dunque tempo per vedere come andrà a finire quella che al momento appare una svolta ma sulla quale resta l’ombra lunga dei militari. Militari che governano dal 1962 quando rovesciarono il governo di U Nu restando da allora, sotto svariate forme, la casta con in mano le leve del potere politico e dell’economia. Da sempre in sostanza i generali birmani – riformisti o reazionari – hanno prodotto la leadership del Paese, dai dittatori della vecchia guardia come Ne Win al loro ultimo rampollo progressista, il generale Thein Sein, un uomo che ha smesso la divisa nel 2010 passando da primo ministro a interim a capo di un organismo civile seppur appoggiato dai militari (il Partito della solidarietà e dello sviluppo) grazie al quale, nel 2011, è diventato poi presidente della repubblica. Non va dimenticato che Thein Sein, che nel 2007 aveva sostituito il generale malato Soe Win su mandato di Than Shwe, il capo della famigerata giunta militare nota col nome di Consiglio di Stato per la pace e lo sviluppo (Slorc), è comunque un uomo della casta anche se si deve a lui il processo di riforma che ha condotto alle elezioni attuali.

Nel 2008, a buon conto, il suo governo ha promosso un referendum costituzionale – tenutosi in
un’atmosfera di intimidazione e broglio diffuso – con cui i militari si sono garantiti principalmente due cose: un controllo del parlamento e l’impossibilità per Aung San Suu Kyi di diventare presidente, anche se nel 2010 la Nobel è poi stata liberata dal regime di arresti domiciliari che la obbligava a una residenza forzata nella sua casa di Yangoon. Come? La legge stabilisce che non può essere presidente del Myanmar chi abbia sposato uno straniero o i cui figli lo siano: Suu Kyi aveva un marito britannico e ha due figli col passaporto del Regno unito. Quanto al controllo sul parlamento, i militari si sono garantiti per Costituzione 56 seggi dei 224 (ossia il 25%) alla Camera alta o Camera delle nazionalità (Amyotha Hluttaw). Alla Camera bassa invece( Pyithu Hluttaw), i rappresentanti dell’esercito – che non vengono eletti ma nominati – hanno diritto a 110 seggi su 440 (sempre il 25%). Un peso in grado di determinare le maggioranze anche se questa volta potrebbe non essere così. E qui sta il punto.

Il simbolo delle Forze armate birmane (Tatmadaw)

Ma qual è il contesto e la cornice storica in cui si muovono i militari birmani e cosa dunque è lecito aspettarsi? Nel Sudest asiatico, e per certi versi in quasi tutta l’Asia, i militari hanno sempre avuto e hanno un ruolo determinante fatte rare eccezioni (come il Giappone o l’India, dove comunque il peso politico delle Forze armate è, seppur indiretto, molto importante). Dal Pakistan all’Indonesia, passando per la Thailandia, i militari hanno dettato legge per anni e in alcuni casi ancora lo fanno attraverso dittature più o meno mascherate tra cui quella di Bangkok è il caso più eclatante. Se non c’è una giunta militare c’è spesso il partito unico (Vietnam, Laos, Cina, Nord Corea) o governi “democratici” che si reggono, come in Cambogia, su un esercito sempre pronto a servire il premier. Nel Sudest asiatico, con la sola eccezione della Malaysia e delle Filippine o di piccoli staterelli come Timor Est, Singapore e Brunei, i militari son sempre stati onnipresenti: hanno in alcuni casi fatto notevoli passi indietro (l’Indonesia aveva una legge “birmana” che consentiva all’esercito di dominare il parlamento, ora non più) ma in altri (la Thailandia) sono tornati prepotentemente in scena per sistemare le cose (con l’accordo della casa reale).

Suharto, generale e presidente

Il passato recente è pieno di uomini in divisa, appoggio fondamentale per il dittatore di turno. I casi più noti sono le Filippine di Marcos (un civile) e l’Indonesia di Suharto (un generale). Le Filippine si sono avviate con difficoltà sulla strada di governi civili e democratici (anche se scontano un peso forte dei militari a cui la guerra civile nel Sud regala un ruolo di primo piano). L’Indonesia ha teoricamente chiuso quella stagione, conclusasi con l’uscita di scena di Suharto che però fu dimissionato – pur sulla scia di manifestazioni di piazza – dai suoi stessi commilitoni. E comunque ancora oggi, che pure comanda un governo civile, non si può ancora parlare del 1965, quando i generali sollevarono Sukarno e presero il potere per trent’anni e facendo piazza pulita di ogni opposizione. Una pulizia che costò la vita, nelle stime più blande, a mezzo milione di persone e una storia che oggi è ancora un tabù.

Uccidere e distruggere: il rapporto Msf su Kunduz

In attesa che chi ha fatto il danno spieghi chi diede l’ordine e perché con un’indagine interna che tarda a vedere la luce, Medici senza frontiere, l’associazione umanitaria che il 3 ottobre scorso vide il suo ospedale a Kunduz bruciare dopo un bombardamento reiterato e senza possibilità di scampo, ha deciso di rendere pubblica – in attesa di una possibile indagine indipendente – la sua versione dei fatti. Presentato ieri a Kabul, il rapporto racconta dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario. Le conclusioni sono infatti che alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e che alcuni membri dello staff furono decapitati e mutilati dai proiettili, spesso mentre tentavano di mettersi al riparo.


Il rapporto dice anche che nel centro traumatologico della città in mano ai talebani (che ieri hanno tentato un’altra azione a Kunduz ma sono stati respinti) e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione americana, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – ha detto Christopher Stokes, direttore generale di Msf – ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”.

Il rapporto, che si basa sulle testimonianze dirette dei sopravvissuti, ricostruisce con precisione quanto avvenne in circa un’ora di bombardamento, iniziato
tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto (trenta i morti – tra cui 13 membri dello staff medico e 10 pazienti. Sette i corpi non ancora identificati). Nel centro c’erano 105 malati e Msf stima che 3 o 4 fossero combattenti governativi mentre circa altri venti fossero talebani. Oltre a loro c’erano 140 persone dello staff nazionale e nove internazionali oltre a un delegato della Croce Rossa internazionale. Il raid era mirato: una serie di attacchi aerei multipli, precisi e sostenuti, hanno preso di mira – dice il dossier – l’edificio principale dell’ospedale, lasciando il resto delle strutture del compound di Msf relativamente intatte. Le coordinate GPS fornite alle parti in conflitto coincidono infatti perfettamente con l’edificio preso di mira. Le testimonianze dicono che, il primo reparto a essere colpito è stato la terapia intensiva, dove il personale stava assistendo pazienti immobilizzati (tra cui due bambini), alcuni dei quali attaccati ai ventilatori. Il personale che si stava occupando della terapia intensiva – dice Msf – è stato direttamente ucciso nel corso dei primi attacchi aerei o dal fuoco che ha poi inghiottito l’edificio. I pazienti non deambulanti del reparto sono bruciati nei loro letti.

L‘attacco si è poi spostato da Est a Ovest dell’edifico principale. I servizi di terapia intensiva, l’archivio, il laboratorio, il pronto soccorso, la radiologia, l’ambulatorio, il reparto di salute mentale, la fisioterapia e le sale operatorie sono stati distrutti dalla successiva ondata di attacchi. Il raid ha dunque coinvolto anche chi non era nell’edifico principale svegliandolo nel cuore della notte e addirittura, dice ancora il dossier, «…molti dello staff raccontano di aver visto persone prese di mira, probabilmente dall’aereo, mentre cercavano di fuggire dall’edificio principale dell’ospedale … altri riportano di spari che seguivano i movimenti delle persone in fuga. Alcuni medici di Msf e altro personale medico sono stati uccisi mentre cercavano di raggiungere un’altra zona del compound nel tentativo di mettersi in salvo».

Rispetto al fatto che si colpì l’ospedale per colpire i talebani, Msf chiarisce che nessun membro del personale ha segnalato la presenza di armi, combattenti armati o di combattimenti in corso all’interno del centro, prima o durante gli attacchi aerei. In compenso, quando sono arrivate le ambulanze di soccorso, i soldati afgani arrivati in contemporanea ne hanno approfittato per cercare guerriglieri ancora vivi.

Uccidere e distruggere: il rapporto Msf su Kunduz

In attesa che chi ha fatto il danno spieghi chi diede l’ordine e perché con un’indagine interna che tarda a vedere la luce, Medici senza frontiere, l’associazione umanitaria che il 3 ottobre scorso vide il suo ospedale a Kunduz bruciare dopo un bombardamento reiterato e senza possibilità di scampo, ha deciso di rendere pubblica – in attesa di una possibile indagine indipendente – la sua versione dei fatti. Presentato ieri a Kabul, il rapporto racconta dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario. Le conclusioni sono infatti che alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e che alcuni membri dello staff furono decapitati e mutilati dai proiettili, spesso mentre tentavano di mettersi al riparo.


Il rapporto dice anche che nel centro traumatologico della città in mano ai talebani (che ieri hanno tentato un’altra azione a Kunduz ma sono stati respinti) e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione americana, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – ha detto Christopher Stokes, direttore generale di Msf – ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”.

Il rapporto, che si basa sulle testimonianze dirette dei sopravvissuti, ricostruisce con precisione quanto avvenne in circa un’ora di bombardamento, iniziato
tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto (trenta i morti – tra cui 13 membri dello staff medico e 10 pazienti. Sette i corpi non ancora identificati). Nel centro c’erano 105 malati e Msf stima che 3 o 4 fossero combattenti governativi mentre circa altri venti fossero talebani. Oltre a loro c’erano 140 persone dello staff nazionale e nove internazionali oltre a un delegato della Croce Rossa internazionale. Il raid era mirato: una serie di attacchi aerei multipli, precisi e sostenuti, hanno preso di mira – dice il dossier – l’edificio principale dell’ospedale, lasciando il resto delle strutture del compound di Msf relativamente intatte. Le coordinate GPS fornite alle parti in conflitto coincidono infatti perfettamente con l’edificio preso di mira. Le testimonianze dicono che, il primo reparto a essere colpito è stato la terapia intensiva, dove il personale stava assistendo pazienti immobilizzati (tra cui due bambini), alcuni dei quali attaccati ai ventilatori. Il personale che si stava occupando della terapia intensiva – dice Msf – è stato direttamente ucciso nel corso dei primi attacchi aerei o dal fuoco che ha poi inghiottito l’edificio. I pazienti non deambulanti del reparto sono bruciati nei loro letti.

L‘attacco si è poi spostato da Est a Ovest dell’edifico principale. I servizi di terapia intensiva, l’archivio, il laboratorio, il pronto soccorso, la radiologia, l’ambulatorio, il reparto di salute mentale, la fisioterapia e le sale operatorie sono stati distrutti dalla successiva ondata di attacchi. Il raid ha dunque coinvolto anche chi non era nell’edifico principale svegliandolo nel cuore della notte e addirittura, dice ancora il dossier, «…molti dello staff raccontano di aver visto persone prese di mira, probabilmente dall’aereo, mentre cercavano di fuggire dall’edificio principale dell’ospedale … altri riportano di spari che seguivano i movimenti delle persone in fuga. Alcuni medici di Msf e altro personale medico sono stati uccisi mentre cercavano di raggiungere un’altra zona del compound nel tentativo di mettersi in salvo».

Rispetto al fatto che si colpì l’ospedale per colpire i talebani, Msf chiarisce che nessun membro del personale ha segnalato la presenza di armi, combattenti armati o di combattimenti in corso all’interno del centro, prima o durante gli attacchi aerei. In compenso, quando sono arrivate le ambulanze di soccorso, i soldati afgani arrivati in contemporanea ne hanno approfittato per cercare guerriglieri ancora vivi.

Piccoli e grandi giochi nell’Oceano indiano

La mappa è tratta dal sito della Bbc

Il presidente delle Maldive Abdulla Yameen Gayoom ha dichiarato dalla mezzanotte di ieri lo stato di emergenza per trenta giorni, una misura che sospende le libertà fondamentali con effetto immediato. Lo stato di emergenza consegna il piccolo arcipelago nell’Oceano indiano alle forze di sicurezza in un Paese che non esita a usare il pugno di ferro quando il potere si sente minacciato. E così, mentre si era alla vigilia di una manifestazione di piazza indetta dall’opposizione del Maldiavian Democratic Party, la decisione del palazzo azzera proteste e contestazioni. Abdulla è un uomo di polso. Ha appena fatto arrestare il suo vice presidente Ahmed Adeeb, accusato di aver ordito il suo assassinio con una bomba piazzata sulla barca presidenziale: il presidente l’ha scampata ma sua moglie è rimasta ferita. Non sembra però ci siano prove evidenti né che si sia trattato di un attentato, né che la mente di un supposto golpe ai suoi danni fosse il suo vice. L’atmosfera è comunque tesa. Il procuratore generale di Male ha detto che la polizia ha trovato esplosivi e armi e che lunedi è stata disinnescata una bomba nascosta vicino al palazzo presidenziale. Insomma, aria di colpo di stato anche se per ora il golpe lo sta facendo il presidente.

Può darsi che gli ardori si spengano e che il capo dello Stato si limitai a far piazza pulita degli avversari (l’ex presidente Mohamed Nasheed, capo del Partito d’opposizione, è stato incarcerato due volte e l’ultima grazie alla legge anti terrorismo) ma può darsi anche che la situazione diventi esplosiva come già accaduto in passato in questo microcosmo insulare di 300 kmq con 330mila abitanti. Piccoli giochi forse, ma che hanno comunque a che vedere con un gioco assai più ampio. La stabilità delle Maldive è importante per l’India che, acquisito nuovamente il controllo sullo Sri Lanka, non vuole certo perdere quello sulle Maldive, pedina geostrategica nel vasto Oceano indiano. Come strategici sono i rapporti diplomatici. Male li tiene stretti con tutti, indiani, americani, srilankesi. Ma anche con la Cina: nel 2014 nelle piccole Maldive si è recato in visita Xi Jinping, segretario generale del Partito comunista cinese, presidente della Repubblica Popolare e capo della Commissione militare centrale. Una visita che forse non è passata inosservata. Adullah Yameen Gayoom era già in sella, dal novembre del 2013.

Piccoli e grandi giochi nell’Oceano indiano

La mappa è tratta dal sito della Bbc

Il presidente delle Maldive Abdulla Yameen Gayoom ha dichiarato dalla mezzanotte di ieri lo stato di emergenza per trenta giorni, una misura che sospende le libertà fondamentali con effetto immediato. Lo stato di emergenza consegna il piccolo arcipelago nell’Oceano indiano alle forze di sicurezza in un Paese che non esita a usare il pugno di ferro quando il potere si sente minacciato. E così, mentre si era alla vigilia di una manifestazione di piazza indetta dall’opposizione del Maldiavian Democratic Party, la decisione del palazzo azzera proteste e contestazioni. Abdulla è un uomo di polso. Ha appena fatto arrestare il suo vice presidente Ahmed Adeeb, accusato di aver ordito il suo assassinio con una bomba piazzata sulla barca presidenziale: il presidente l’ha scampata ma sua moglie è rimasta ferita. Non sembra però ci siano prove evidenti né che si sia trattato di un attentato, né che la mente di un supposto golpe ai suoi danni fosse il suo vice. L’atmosfera è comunque tesa. Il procuratore generale di Male ha detto che la polizia ha trovato esplosivi e armi e che lunedi è stata disinnescata una bomba nascosta vicino al palazzo presidenziale. Insomma, aria di colpo di stato anche se per ora il golpe lo sta facendo il presidente.

Può darsi che gli ardori si spengano e che il capo dello Stato si limitai a far piazza pulita degli avversari (l’ex presidente Mohamed Nasheed, capo del Partito d’opposizione, è stato incarcerato due volte e l’ultima grazie alla legge anti terrorismo) ma può darsi anche che la situazione diventi esplosiva come già accaduto in passato in questo microcosmo insulare di 300 kmq con 330mila abitanti. Piccoli giochi forse, ma che hanno comunque a che vedere con un gioco assai più ampio. La stabilità delle Maldive è importante per l’India che, acquisito nuovamente il controllo sullo Sri Lanka, non vuole certo perdere quello sulle Maldive, pedina geostrategica nel vasto Oceano indiano. Come strategici sono i rapporti diplomatici. Male li tiene stretti con tutti, indiani, americani, srilankesi. Ma anche con la Cina: nel 2014 nelle piccole Maldive si è recato in visita Xi Jinping, segretario generale del Partito comunista cinese, presidente della Repubblica Popolare e capo della Commissione militare centrale. Una visita che forse non è passata inosservata. Adullah Yameen Gayoom era già in sella, dal novembre del 2013.

I talebani e Daesh

Mi permetto di consigliare il video di Al Jazeera, ISIL and the Taliban, reportage da Kunar roccaforte di Daesh in Afghanistan

I talebani e Daesh

Mi permetto di consigliare il video di Al Jazeera, ISIL and the Taliban, reportage da Kunar roccaforte di Daesh in Afghanistan

Myanmar: questo Paese non è per musulmani

I due sfidanti del voto di domenica:
 Aung San Suu Kyi della Lnd
 Thein Sein, premier e capo dell’Usdp

Sono una novantina i partiti che si proporranno al voto dell’8 di novembre in Myanmar quando si svolgeranno le elezioni generali: le prime da che al governo – dal 2011 – non ci sono più uomini in divisa. Ma il timore che i militari e le loro milizie – che appoggiano il partito di governo – possano intimidire e minacciare chi si reca alle urne orientando il voto è una possibilità non troppo remota che è stata appena denunciata da un rapporto di Human Rights Wath.

 C‘è di più: secondo un membro del maggior partito di opposizione, che fa capo alla Nobel birmana Aung San Suu Kyi, i suoi leader hanno messo in piedi una vera e propria purga dei candidati musulmani nelle liste elettorali: la leadership della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) è spaventata – ha spiegato il personaggio ad Al Jazeera – dalla possibilità che il risveglio di un razzismo che vorrebbe difendere la purezza della razza e la religione della maggioranza e che si è scatenato negli ultimi anni contro la minoranza musulmana – il picco massimo si è verificato nel 2012 – riemerga facendosi propaganda elettorale. Un timore che l’ha decisa a espellere dalle fila dei suoi oltre mille candidati (regionali e nazionali) chiunque abbia il marchio del credo di Maometto, nonostante i musulmani in Birmania siano circa 5 milioni il che fa di loro una percentuale rilevante della popolazione del Paese: 48 milioni.

Nemmeno nelle liste del Partito della solidarietà e dello sviluppo al governo (Usdp) – sostenuto dai militari anche se veste abiti civili – ci saranno ovviamente musulmani. La pulizia etnico politica penalizza in particolare una comunità nel mirino da anni e bistrattata da sempre: i Rohingya, che una recente indagine di un gruppo di ricercatori della Yale Law School (la scuola universitaria di diritto della Yale Univesity con sede in Connecticut) sostiene siano stati oggetto di azioni od omissioni da parte del governo birmano che potrebbero addirittura configurare un’accusa di genocidio. Nello Stato del Rakhine (Arakan), a oltre un milione di musulmani rohingya è stata negata la cittadinanza sostenendo che si tratta di “bengalesi” immigrati. Un’accusa diventata pogrom verso la comunità che vive al confine con l’India e che recentemente è stata al centro di una fuga di massa via mare per cercare altrove rifugio. Ma rohingya o meno, il reato è essere di fede islamica. Meglio prevenire polemiche e strumentalizzazioni: che non si presentino né abbiano deputati. Che stiano insomma fuori dal gioco elettorale il cui aspetto “democratico” acquista dunque un colore molto opaco. I metodi sono stati ovviamente “legali” perché molti musulmani non hanno i documenti in regola e dunque è stato facile per le commissioni elettorali spuntare i loro nomi dalle liste.

Ashin Wirathu: la prima pagina
di
Time ma a che titolo

La Lega teme dunque l’ondata nazionalista identitaria e religiosa che si è fatta sentire negli ultimi anni grazie soprattutto alla Ma Ba Tha o Associazione patriottica del Myanmar (Pab) anche chiamata Associazione per la protezione della razza e della religione. La religione è quella del compassionevole Gautama Budda nella sua accezione Theravada. Ma Ba Tha è un’organizzazione nata formalmente nel 2014 e formata da un board di una cinquantina di membri tra cui spiccano accademici e soprattutto monaci, come Ashin Wirathu, un buddista estremista finito in galera nel 2003 per incitamento all’odio ma poi rilasciato nel 2010. Ideologo di un Paese puro senza “bin Laden birmani”, è anche il protettore del Movimento 969, un gruppo oltranzista islamofobo. La propaganda di personaggi come Ashin Wirathu – per citare il più noto – le azioni degli islamofobi e l’appoggio o la chiusura di entrambi gli occhi da parte delle forze di sicurezza, non solo ha permesso le azioni violente contro i rohingya nel 2012 (diverse vittime e 90mila sfollati) ma ha prodotto effetti legislativi in parlamento, facendo si che nel 2013 il ministero degli Affari religiosi proponesse quattro leggi per regolare conversioni e matrimoni inter-religiosi allo scopo di proibirli e per promuovere la monogamia e il controllo delle nascite. Il tutto su indicazioni dei radicali.

Di fronte all’ondata anti musulmana, soprattutto quando – dopo le violenze del 2012 – i rohingya hanno cominciato a fuggire in massa dal Myanmar, ha stupito il silenzio di Aung San Suu Kyi, la leader della Lega per la democrazia, che per opportunità aveva preferito non prendere posizione attirandosi le critiche, seppur velate, persino del Dalai Lama. Ma adesso, la vicenda della purga pre elettorale, che coinvolgerebbe l’intera comunità islamica, fa scendere un’altra ombra sulla donna che tutti vorrebbero a capo dello Stato (anche se la legge sulla nazionalità glielo vieta per via dei figli con passaporto britannico). Un brutta ipoteca sul voto di domenica prossima.

Myanmar: questo Paese non è per musulmani

I due sfidanti del voto di domenica:
 Aung San Suu Kyi della Lnd
 Thein Sein, premier e capo dell’Usdp

Sono una novantina i partiti che si proporranno al voto dell’8 di novembre in Myanmar quando si svolgeranno le elezioni generali: le prime da che al governo – dal 2011 – non ci sono più uomini in divisa. Ma il timore che i militari e le loro milizie – che appoggiano il partito di governo – possano intimidire e minacciare chi si reca alle urne orientando il voto è una possibilità non troppo remota che è stata appena denunciata da un rapporto di Human Rights Wath.

 C‘è di più: secondo un membro del maggior partito di opposizione, che fa capo alla Nobel birmana Aung San Suu Kyi, i suoi leader hanno messo in piedi una vera e propria purga dei candidati musulmani nelle liste elettorali: la leadership della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) è spaventata – ha spiegato il personaggio ad Al Jazeera – dalla possibilità che il risveglio di un razzismo che vorrebbe difendere la purezza della razza e la religione della maggioranza e che si è scatenato negli ultimi anni contro la minoranza musulmana – il picco massimo si è verificato nel 2012 – riemerga facendosi propaganda elettorale. Un timore che l’ha decisa a espellere dalle fila dei suoi oltre mille candidati (regionali e nazionali) chiunque abbia il marchio del credo di Maometto, nonostante i musulmani in Birmania siano circa 5 milioni il che fa di loro una percentuale rilevante della popolazione del Paese: 48 milioni.

Nemmeno nelle liste del Partito della solidarietà e dello sviluppo al governo (Usdp) – sostenuto dai militari anche se veste abiti civili – ci saranno ovviamente musulmani. La pulizia etnico politica penalizza in particolare una comunità nel mirino da anni e bistrattata da sempre: i Rohingya, che una recente indagine di un gruppo di ricercatori della Yale Law School (la scuola universitaria di diritto della Yale Univesity con sede in Connecticut) sostiene siano stati oggetto di azioni od omissioni da parte del governo birmano che potrebbero addirittura configurare un’accusa di genocidio. Nello Stato del Rakhine (Arakan), a oltre un milione di musulmani rohingya è stata negata la cittadinanza sostenendo che si tratta di “bengalesi” immigrati. Un’accusa diventata pogrom verso la comunità che vive al confine con l’India e che recentemente è stata al centro di una fuga di massa via mare per cercare altrove rifugio. Ma rohingya o meno, il reato è essere di fede islamica. Meglio prevenire polemiche e strumentalizzazioni: che non si presentino né abbiano deputati. Che stiano insomma fuori dal gioco elettorale il cui aspetto “democratico” acquista dunque un colore molto opaco. I metodi sono stati ovviamente “legali” perché molti musulmani non hanno i documenti in regola e dunque è stato facile per le commissioni elettorali spuntare i loro nomi dalle liste.

Ashin Wirathu: la prima pagina
di
Time ma a che titolo

La Lega teme dunque l’ondata nazionalista identitaria e religiosa che si è fatta sentire negli ultimi anni grazie soprattutto alla Ma Ba Tha o Associazione patriottica del Myanmar (Pab) anche chiamata Associazione per la protezione della razza e della religione. La religione è quella del compassionevole Gautama Budda nella sua accezione Theravada. Ma Ba Tha è un’organizzazione nata formalmente nel 2014 e formata da un board di una cinquantina di membri tra cui spiccano accademici e soprattutto monaci, come Ashin Wirathu, un buddista estremista finito in galera nel 2003 per incitamento all’odio ma poi rilasciato nel 2010. Ideologo di un Paese puro senza “bin Laden birmani”, è anche il protettore del Movimento 969, un gruppo oltranzista islamofobo. La propaganda di personaggi come Ashin Wirathu – per citare il più noto – le azioni degli islamofobi e l’appoggio o la chiusura di entrambi gli occhi da parte delle forze di sicurezza, non solo ha permesso le azioni violente contro i rohingya nel 2012 (diverse vittime e 90mila sfollati) ma ha prodotto effetti legislativi in parlamento, facendo si che nel 2013 il ministero degli Affari religiosi proponesse quattro leggi per regolare conversioni e matrimoni inter-religiosi allo scopo di proibirli e per promuovere la monogamia e il controllo delle nascite. Il tutto su indicazioni dei radicali.

Di fronte all’ondata anti musulmana, soprattutto quando – dopo le violenze del 2012 – i rohingya hanno cominciato a fuggire in massa dal Myanmar, ha stupito il silenzio di Aung San Suu Kyi, la leader della Lega per la democrazia, che per opportunità aveva preferito non prendere posizione attirandosi le critiche, seppur velate, persino del Dalai Lama. Ma adesso, la vicenda della purga pre elettorale, che coinvolgerebbe l’intera comunità islamica, fa scendere un’altra ombra sulla donna che tutti vorrebbero a capo dello Stato (anche se la legge sulla nazionalità glielo vieta per via dei figli con passaporto britannico). Un brutta ipoteca sul voto di domenica prossima.

Pensierino della sera

Il sostegno iraniano per sovvertire i Paesi arabi è grande una minaccia per la regione come il sedicente Stato  islamico (IS) ha detto  il ministro degli Esteri del Bahrein Sheikh Khaled bin Ahmed Al Khalifa  sabato in una conferenza sulla sicurezza a Manama. “Queste azioni non sono meno una minaccia per noi che Daesh”, ha aggiunto. (fonte The Dawn)

Meglio di tante teorie geopolitiche ecco una dichiarazione che dice pane al pane e vino al vino. E spiega molte cose

Pensierino della sera

Il sostegno iraniano per sovvertire i Paesi arabi è grande una minaccia per la regione come il sedicente Stato  islamico (IS) ha detto  il ministro degli Esteri del Bahrein Sheikh Khaled bin Ahmed Al Khalifa  sabato in una conferenza sulla sicurezza a Manama. “Queste azioni non sono meno una minaccia per noi che Daesh”, ha aggiunto. (fonte The Dawn)

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Nepalese, comunista e donna

Il nuovo capo dello Stato del Nepal è una donna. Una donna comunista. Ha 54 anni, si chiama Bidhya Devi Bhandari e ha un curriculum di tutto rispetto dove spiccano le battaglie in difesa delle donne in una società dominata dai maschi e dalle caste alte che dettano ancora – anche se forse sempre meno – la legge non scritta della tradizione.

La sua elezione è’ una sorpresa due volte. Perché per una donna non è facile farsi strada in Nepal e lei è la prima donna presidente del suo Paese e perché il suo sfidante, Kul Bahadur Gurung, è comunque una figura di peso anche se ha perso: è il leader del Congresso nepalese, il primo partito del Paese. Ma il voto del parlamento, dove il secondo e il terzo partito sono della medesima area, le ha dato una maggioranza piena: 327 voti su 549. Non è maoista, come forse l’immaginario collettivo la pensa alla notizia che in Nepal ha vinto una comunista. Ma i voti dei maoisti (The Unified Communist Party of Nepal-Maoist, 80 seggi su 575) sono stati determinati. Il suo partito, Communist Party of Nepal-Unified Marxist–Leninist, poteva contare solo su 175 scranni. L’alleanza ha retto mentre al partito del Congresso invece non sono bastati gli alleati e i 196 seggi guadagnati nelle ultime elezioni (2013). La convivenza coi maoisti, che un prezzo lo avranno pur chiesto, non rappresenta al momento un problema: Bhandari può contare sul primo ministro Sharma Oli– l’uomo che ha il potere esecutivo in Nepal – che è comunista come lei, ed è anzi è il capo del partito di cui lei è comunque stata vicepresidente.


 La politica la conosce bene: nella base, nel partito, nel governo dove Bhandari ha già ricoperto un incarico istituzionale. E’ stata ministro della Difesa, un ruolo delicato in un Paese dove la guerra civile è stata una realtà per dieci anni e che si è conclusa con un accordo politico solo nel 2006 dopo 15mila vittime e tra 100 e 150mila sfollati interni. Da allora il Paese ha cambiato faccia.

Il cammino è stato lungo e resta ancora difficile. Questa piccola nazione himalayana, cerniera tra India e Cina, con solo 30 milioni di abitanti sparsi su un territorio grande la metà dell’Italia (147mila kmq) e connotato da montagne altissime e da un’enorme disomogeneità etnico linguistica, è stata una monarchia monolitica fino al 2008. Caduta pagando un prezzo elevato. E’ un vasto movimento popolare ad averla abbattuta ma sono stati i maoisti a segnare il punto di svolta. Una svolta difficile che alla fine porterà, solo nel settembre scorso, alla nuova, sofferta Costituzione. Nuova e innovativa perché è la prima in Asia che proteggere ad esempio i diritti dei gay. Sofferta perché la sua approvazione è stata bagnata dal sangue di 40 morti nelle manifestazioni di piazza che hanno preceduto il voto finale a cui si è arrivati con molte difficoltà.

La mappa linguistica di un Paese grande la metà
dell’Italia ma con oltre cento lingue. In alto la nuova presidente.
Sotto, il compagno Prachanda

Non ancora finite. La Costituzione, che fa del piccolo Paese montano una repubblica federata di sette province, lascia scontente molte minoranze in una nazione dove si parlano oltre cento lingue diverse e dove le comunità più marginali e periferiche si sentono sotto rappresentate. Una sfida per la nuova presidente.

Nondimeno, il Paese va avanti, in un equilibrio difficile recentemente turbato dal sisma che ha fatto strage di uomini, animali, abitazioni, strutture e monumenti anche nella capitale (400mila vivono ancora in rifugi inadeguati all’inverno che si sta avvicinando, secondo la rete di Ong italiane “Agire”). Un Paese dove i nodi del sottosviluppo restano in gran parte intatti in una zona del mondo dominata ancora dalle regole castali e da rapporti semi feudali che regolano la vita di comunità prevalentemente agricole (75% della forza lavoro). Un Paese in equilibrio difficile anche per la sua posizione geografica di Stato “cuscinetto” schiacciato tra i due grandi colossi del continente, Delhi e Pechino. Che ora cullano, ora minacciano, alla ricerca di una supremazia che per anni è stata guadagnata dall’India che di gran parte del Nepal influenza cultura e tradizione e che preme ai suoi confini con uno degli eserciti più potenti del mondo. I cinesi non sono da meno: guardano con occhio traverso le comunità buddiste e tibetane che in quel Paese trovano rifugio e provano a stuzzicare Kathmandu con la promessa dello sviluppo. Proprio ieri il Nepal ha firmato un accordo con la Cina che di fatto mette fine al monopolio indiano per le forniture dei prodotti petroliferi. Un monopolio che durava da 45 anni.

Anche questi nodi su un pettine sfilacciato toccheranno a Bidhya Devi Bhandari, una storia di militanza

politica, di battaglie in difesa delle donne e delle minoranze (che potrebbero essere un suo punto di forza) e una storia personale gravata da un dramma che le ha tolto il marito, Madan Bhandari, uno dei più noti leader comunisti del Paese: è vittima di un incidente di auto nel 1993 su cui si sono accavallati molti dubbi che nessuna inchiesta è riuscita a chiarire.

Dall’altra parte della barricate, accanto all’appoggio indiscusso del premier, resta comunque il potente partito del Congresso, passato indenne per tutte le stagioni (è nato nella sua forma primigenia nel 1947 e ha vinto le prime elezioni democratiche nel 1991) e un partito maoista con un leader carismatico, Pushpa Kamal Dahal, più comunemente noto come il compagno Prachanda. Si dovrà tenerne conto come si dovrà tener conto dell’applicazione della prima Costituzione repubblicana del Paese, in questi mesi alla sua prima vera prova del fuoco.

Nepalese, comunista e donna

Il nuovo capo dello Stato del Nepal è una donna. Una donna comunista. Ha 54 anni, si chiama Bidhya Devi Bhandari e ha un curriculum di tutto rispetto dove spiccano le battaglie in difesa delle donne in una società dominata dai maschi e dalle caste alte che dettano ancora – anche se forse sempre meno – la legge non scritta della tradizione.

La sua elezione è’ una sorpresa due volte. Perché per una donna non è facile farsi strada in Nepal e lei è la prima donna presidente del suo Paese e perché il suo sfidante, Kul Bahadur Gurung, è comunque una figura di peso anche se ha perso: è il leader del Congresso nepalese, il primo partito del Paese. Ma il voto del parlamento, dove il secondo e il terzo partito sono della medesima area, le ha dato una maggioranza piena: 327 voti su 549. Non è maoista, come forse l’immaginario collettivo la pensa alla notizia che in Nepal ha vinto una comunista. Ma i voti dei maoisti (The Unified Communist Party of Nepal-Maoist, 80 seggi su 575) sono stati determinati. Il suo partito, Communist Party of Nepal-Unified Marxist–Leninist, poteva contare solo su 175 scranni. L’alleanza ha retto mentre al partito del Congresso invece non sono bastati gli alleati e i 196 seggi guadagnati nelle ultime elezioni (2013). La convivenza coi maoisti, che un prezzo lo avranno pur chiesto, non rappresenta al momento un problema: Bhandari può contare sul primo ministro Sharma Oli– l’uomo che ha il potere esecutivo in Nepal – che è comunista come lei, ed è anzi è il capo del partito di cui lei è comunque stata vicepresidente.


 La politica la conosce bene: nella base, nel partito, nel governo dove Bhandari ha già ricoperto un incarico istituzionale. E’ stata ministro della Difesa, un ruolo delicato in un Paese dove la guerra civile è stata una realtà per dieci anni e che si è conclusa con un accordo politico solo nel 2006 dopo 15mila vittime e tra 100 e 150mila sfollati interni. Da allora il Paese ha cambiato faccia.

Il cammino è stato lungo e resta ancora difficile. Questa piccola nazione himalayana, cerniera tra India e Cina, con solo 30 milioni di abitanti sparsi su un territorio grande la metà dell’Italia (147mila kmq) e connotato da montagne altissime e da un’enorme disomogeneità etnico linguistica, è stata una monarchia monolitica fino al 2008. Caduta pagando un prezzo elevato. E’ un vasto movimento popolare ad averla abbattuta ma sono stati i maoisti a segnare il punto di svolta. Una svolta difficile che alla fine porterà, solo nel settembre scorso, alla nuova, sofferta Costituzione. Nuova e innovativa perché è la prima in Asia che proteggere ad esempio i diritti dei gay. Sofferta perché la sua approvazione è stata bagnata dal sangue di 40 morti nelle manifestazioni di piazza che hanno preceduto il voto finale a cui si è arrivati con molte difficoltà.

La mappa linguistica di un Paese grande la metà
dell’Italia ma con oltre cento lingue. In alto la nuova presidente.
Sotto, il compagno Prachanda

Non ancora finite. La Costituzione, che fa del piccolo Paese montano una repubblica federata di sette province, lascia scontente molte minoranze in una nazione dove si parlano oltre cento lingue diverse e dove le comunità più marginali e periferiche si sentono sotto rappresentate. Una sfida per la nuova presidente.

Nondimeno, il Paese va avanti, in un equilibrio difficile recentemente turbato dal sisma che ha fatto strage di uomini, animali, abitazioni, strutture e monumenti anche nella capitale (400mila vivono ancora in rifugi inadeguati all’inverno che si sta avvicinando, secondo la rete di Ong italiane “Agire”). Un Paese dove i nodi del sottosviluppo restano in gran parte intatti in una zona del mondo dominata ancora dalle regole castali e da rapporti semi feudali che regolano la vita di comunità prevalentemente agricole (75% della forza lavoro). Un Paese in equilibrio difficile anche per la sua posizione geografica di Stato “cuscinetto” schiacciato tra i due grandi colossi del continente, Delhi e Pechino. Che ora cullano, ora minacciano, alla ricerca di una supremazia che per anni è stata guadagnata dall’India che di gran parte del Nepal influenza cultura e tradizione e che preme ai suoi confini con uno degli eserciti più potenti del mondo. I cinesi non sono da meno: guardano con occhio traverso le comunità buddiste e tibetane che in quel Paese trovano rifugio e provano a stuzzicare Kathmandu con la promessa dello sviluppo. Proprio ieri il Nepal ha firmato un accordo con la Cina che di fatto mette fine al monopolio indiano per le forniture dei prodotti petroliferi. Un monopolio che durava da 45 anni.

Anche questi nodi su un pettine sfilacciato toccheranno a Bidhya Devi Bhandari, una storia di militanza

politica, di battaglie in difesa delle donne e delle minoranze (che potrebbero essere un suo punto di forza) e una storia personale gravata da un dramma che le ha tolto il marito, Madan Bhandari, uno dei più noti leader comunisti del Paese: è vittima di un incidente di auto nel 1993 su cui si sono accavallati molti dubbi che nessuna inchiesta è riuscita a chiarire.

Dall’altra parte della barricate, accanto all’appoggio indiscusso del premier, resta comunque il potente partito del Congresso, passato indenne per tutte le stagioni (è nato nella sua forma primigenia nel 1947 e ha vinto le prime elezioni democratiche nel 1991) e un partito maoista con un leader carismatico, Pushpa Kamal Dahal, più comunemente noto come il compagno Prachanda. Si dovrà tenerne conto come si dovrà tener conto dell’applicazione della prima Costituzione repubblicana del Paese, in questi mesi alla sua prima vera prova del fuoco.

Risveglio indonesiano

Qualche giorno fa il terzo numero della pubblicazione “Lentera”, un magazine studentesco dell’università cristiana Uksw di Salatiga (Giava), è finito al macero: 500 copie uscite il 9 ottobre e che il rettore ha deciso di censurare. Il perché sta nel titolo: Salatiga Kota Merah (Salatiga città rossa), una raccolta di storie su cosa avvenne dal 1965 in avanti, presentate in copertina con un’immagine di una manifestazione di massa del Pki. Se la notizia si aggiunge alla rimozione di ogni riflessione sui fatti del ’65, dice anche che il fermento è tutt’altro che poco diffuso. Lo stesso film di Oppenheimer, The Act of Killing, pare sia stato proiettato privatamente almeno 500 volte e il Guardian ne ha fatto un articolo-indagine dopo che il film è stato visto all’Università di Yogyakarta. La riflessione è partita da tempo grazie ad alcuni coraggiosi scrittori, editori, giornali: come il magazine Tempo, già nel mirino ai tempi della dittatura, o grazie a scrittori come Baskara Wardaya, che nel 2013 ha pubblicato Truth Will Out: Indonesian Accounts of the 1965 Mass Violence. E, se era uno degli scrittori che dovevano paretcipare ala sessione cancellata dell’Ubud Festival, è anche un docente che continua a insegnare storia a Giava. Insomma, tra difficoltà e colpi di coda, il processo è iniziato. E va avanti. Ospite d’onore alla Buchmesse diFrancofrote quest’anno, l’Indonesia conosce una nuova stagione che, almeno in parte, si guarda allo specchio. Ne sono la prova i tanti libri tradotti sull’argomento tra cui uno anche italiano.

Presentato a Roma al Salone dell’editoria sociale dalla sua curatrice, Antonia Soriente (che lo ha tradotto con gli studenti del suo corso all’Orientale di Napoli), Ritorno a casa della giovanissima giornalista Leila Chudori (AsiaSphere) è un romanzo di amori e passione che si svolge proprio negli anni bui della repressione, saltando da Jakarta a Parigi dove un gruppo di rifugiati politici vive la tragedia che si dipana in patria. Alternando sapori a sentimenti, sensazioni a verità storica, amicizie sentimentali e rapporti politici, il romanzo entra nella carne viva della tragedia e di come fu e viene vissuta. Un bel libro, sia del punto di vista storico – con una ricostruzione accurata – sia dal punto di visto della godibilità letteraria. Un volume attraversato anche da una raffinata sensualità, sottile ma prepotente, che è un po’ la cifra del recente risveglio letterario indonesiano.

Risveglio indonesiano

Qualche giorno fa il terzo numero della pubblicazione “Lentera”, un magazine studentesco dell’università cristiana Uksw di Salatiga (Giava), è finito al macero: 500 copie uscite il 9 ottobre e che il rettore ha deciso di censurare. Il perché sta nel titolo: Salatiga Kota Merah (Salatiga città rossa), una raccolta di storie su cosa avvenne dal 1965 in avanti, presentate in copertina con un’immagine di una manifestazione di massa del Pki. Se la notizia si aggiunge alla rimozione di ogni riflessione sui fatti del ’65, dice anche che il fermento è tutt’altro che poco diffuso. Lo stesso film di Oppenheimer, The Act of Killing, pare sia stato proiettato privatamente almeno 500 volte e il Guardian ne ha fatto un articolo-indagine dopo che il film è stato visto all’Università di Yogyakarta. La riflessione è partita da tempo grazie ad alcuni coraggiosi scrittori, editori, giornali: come il magazine Tempo, già nel mirino ai tempi della dittatura, o grazie a scrittori come Baskara Wardaya, che nel 2013 ha pubblicato Truth Will Out: Indonesian Accounts of the 1965 Mass Violence. E, se era uno degli scrittori che dovevano paretcipare ala sessione cancellata dell’Ubud Festival, è anche un docente che continua a insegnare storia a Giava. Insomma, tra difficoltà e colpi di coda, il processo è iniziato. E va avanti. Ospite d’onore alla Buchmesse diFrancofrote quest’anno, l’Indonesia conosce una nuova stagione che, almeno in parte, si guarda allo specchio. Ne sono la prova i tanti libri tradotti sull’argomento tra cui uno anche italiano.

Presentato a Roma al Salone dell’editoria sociale dalla sua curatrice, Antonia Soriente (che lo ha tradotto con gli studenti del suo corso all’Orientale di Napoli), Ritorno a casa della giovanissima giornalista Leila Chudori (AsiaSphere) è un romanzo di amori e passione che si svolge proprio negli anni bui della repressione, saltando da Jakarta a Parigi dove un gruppo di rifugiati politici vive la tragedia che si dipana in patria. Alternando sapori a sentimenti, sensazioni a verità storica, amicizie sentimentali e rapporti politici, il romanzo entra nella carne viva della tragedia e di come fu e viene vissuta. Un bel libro, sia del punto di vista storico – con una ricostruzione accurata – sia dal punto di visto della godibilità letteraria. Un volume attraversato anche da una raffinata sensualità, sottile ma prepotente, che è un po’ la cifra del recente risveglio letterario indonesiano.

Quel maledetto 1965

Le stragi del triennio maledetto in un’immagine d’epoca

«E’ con grande disappunto che l’Ubud Writers & Readers Festival annuncia la cancellazione della sessione dedicata alla repressione anti comunista del 1965… anche la proiezione di The Look of Silence di Joshua Oppenheimer è stata cancellata».

Così gli organizzatori di una delle più importanti manifestazioni culturali indonesiane, se non la più nota, hanno dato venerdi scorso la notizia di un atto di censura che di fatto cancella il primo vero tentativo di fare i conti con un passato che ha appena compiuto 50 anni. Da quando un colpo di stato organizzato da una parte dell’esercito tentò, il 1 ottobre del 1965, di prendere il potere in Indonesia prima che a farlo fossero i generali che poi organizzarono la repressione immediata del putsch e, nei tre anni successivi, un vero e proprio massacro che portò all’estinzione del Partito comunista, dei suoi affiliati, simpatizzanti o semplicemente di persone contigue – per amicizia o parentela – a chi aveva simpatie di sinistra. Un incubo con un bilancio incerto che i più moderati fissano ad almeno mezzo milione di morti.

Bung Karno (Sukarno). Sotto
a destra Jokowi

Il governo del presidente Jokowi, un civile che ha vinto da poco le elezioni sfidando proprio la lobby militare e conservatrice erede di quell’oscuro patrimonio, ha deciso però che i tempi non sono maturi per una riflessione che continua a far paura, è assente dai libri di storia se non in forma manipolata e non ha mai fatto i conti con almeno una commissione di verità e giustizia. Un incubo senza colpevoli che pesa su 250 milioni di indonesiani e sull’incapacità di una classe dirigente, ancorché progressista, di aprire finalmente il dibattito su cosa accadde in quei tre anni maledetti e nella dittatura che ne seguì per altri trenta.

La sessione dedicata a questo viaggio nella memoria doveva iniziare giovedi 29. Al centro vi sarebbe stato il discusso film di Oppenheimer (The Act of Killing 2012) – candidato all’Oscar ma che in Indonesia non è distribuito – e il seguito (The Look of Silence, Gran premio della giuria a Venezia) ma anche la discussione franca con chi di quegli anni bui ha scritto e dibattuto non senza difficoltà: stranieri e indonesiani.

Gli organizzatori hanno motivato la decisione di obbedire alle autorità col fatto che altrimenti avrebbero messo a rischio l’intero festival che si svolge a Bali e prevede 225 eventi tra mostre, film e dibattiti. E se è un segno dei tempi (positivo) la lunga lettera pubblica del Festival sul web a chi si era prenotato per la sessione sul ’65, è un pessimo segnale quello che viene da Jakarta proprio nell’anniversario di una delle pagine più importanti sia della storia indonesiana, sia della Guerra fredda visto che il Pki indonesiano era vicino ai cinesi e il generale Suharto, che guidò la repressione esautorando Sukarno e governando sino al 1998, era appoggiato da Washington che temeva che l’Indonesia, tassello fondamentale dell’“effetto domino” (teoria che allora guidò la guerra in Indocina), si sarebbe spostata definitivamente nell’aerea socialista.

Cosa accadde esattamente alla vigilia di quello che un film di regime ha chiamato “Il tradimento del Pki” è ancora oggetto di dibattito. Untung, un soldato che era stato promosso durante la guerra con l’Olanda per l’indipendenza, si era incontrato in una base militare della capitale con Aidit, l’allora capo del partito comunista, il più forte dell’Asia dopo quelli cinese e sovietico. E’ possibile che avessero organizzato quello che fu chiamato un “golpe preventivo” poiché erano note le intenzioni del Dewan Jendral, il consiglio dei generali che avevano in odio la politica si Sukarno che, in un bizzarro equilibrio e nell’esercizio di quella che aveva chiamato “Democrazia guidata”, coniugava nazionalismo, religione e comunismo con una costruzione ideologica che aveva partorito il Nasakom (Nasionalisme, Agama, Komunisme), una terza via comunque preoccupante. Era l’epoca in cui, agli inizi degli anni Cinquanta, aveva preso il via proprio dall’Indonesia – con la Conferenza di Bandung – il Movimento dei non allineati nel quale Sukarno era al fianco di Tito, Nehru, Nasser e Ciuenlai. Un’epoca in cui, dopo la fine delle colonie, si affaccia il neo colonialismo americano e la spartizione del mondo tra Usa e Urss che caratterizzerà anche la spaccatura nell’area socialista. Sukarno era un alleato di Aidit e del suo Pki ma manteneva le distanze. Non abbastanza però per i generali e gli strateghi della Cia, che consideravano l’Indonesia una pedina chiave nel Sudest asiatico minacciato dalle promesse di riscatto dei nordvietnamiti.

Probabilmente Untung e Aidit pensarono che era il caso di metterlo alle strette e di evitare che il suo equilibrismo diventasse l’occasione per soluzioni autoritarie di destra. Untung aveva influenza sulla guardia presidenziale e sulla divisione Diponegoro, schierata nella capitale per la ricorrenza del 5 ottobre, festa delle forze armate: col loro aiuto voleva impadronirsi dei gangli del potere, occupare la radio nazionale (l’unica cosa che riuscì), sequestrare alcuni generali (in parte trucidati) e mettere Sukarno sotto tutela andando a prenderlo a Palazzo. Ma il golpe fallì e quando i soldati di Untung andarono a prelevarlo, Bung Karno (il “compagno” Sukarno) era lontano, in compagnia di un giovane generale: Suharto. Sukarno si spaventa o viene convinto; forse sapeva oppure – come sempre dirà – era all’oscuro di tutto. Affida i pieni poteri a Suharto che approfitta dell’ondata di sdegno che segue al sequestro dei generali e soprattutto dell’impreparazione tattica di Untung che ha fatto male i conti. Suharto stringe i ranghi, assolda milizie, fa lega con i landlord spodestati dalla riforma agraria e mette in opera un vero e proprio genocidio contro la razza comunista. Incendi, torture, stupri, fosse comuni. Aidit viene catturato e ucciso quasi subito. Untung è condannato a morte dai militari. Nessuno di loro potrà più testimoniare.

Se i morti furono 500mila o più di un milione non è chiaro ma la strage colpì ogni famiglia. Il triennio stragista si concluse con un silenzio che dura ormai da cinquant’anni anche se timidi segnali erano venuti già a galla dopo la caduta e la morte di Suharto ma senza mai arrivare a un vero dibattuto nazionale di cui il Festival di Ubud era la prima vera occasione. Cancellata da un uomo, al potere da un anno, su cui invece si erano appuntate molte speranze. Anche quella di aprire quella pagina per poterla richiudere poi al prezzo della verità, l’unica via perché si possa parlare di giustizia.

Jokowi, già governatore di Jakarta, un mister clean progressista venuto dal nulla, di segnali imbarazzanti ne ha però dati parecchi. A cominciare dalle esecuzioni che nel 2015 sono state già 14 (27 nel periodo 1999-2014). Nei giorni scorsi il suo governo è entrato ancora nel mirino di Amnesty che gli ha chiesto di revocare il nuovo codice penale islamico della provincia di Aceh, entrato in vigore il 23 ottobre: il Qanun Jinayat, che punisce i rapporti extra coniugali e l’omosessualità a frustate, tra 30 e 100. Ed è di questi giorni la polemica sulla decisione di un giudice di chiedere al presidente un decreto sulla castrazione chimica in caso di abusi sui minori. Ce n’è insomma perché si torni a parlare di un Paese che era diventato un piccolo miracolo di democrazia e sviluppo. I suoi fantasmi continuano a regnare.

Quel maledetto 1965

Le stragi del triennio maledetto in un’immagine d’epoca

«E’ con grande disappunto che l’Ubud Writers & Readers Festival annuncia la cancellazione della sessione dedicata alla repressione anti comunista del 1965… anche la proiezione di The Look of Silence di Joshua Oppenheimer è stata cancellata».

Così gli organizzatori di una delle più importanti manifestazioni culturali indonesiane, se non la più nota, hanno dato venerdi scorso la notizia di un atto di censura che di fatto cancella il primo vero tentativo di fare i conti con un passato che ha appena compiuto 50 anni. Da quando un colpo di stato organizzato da una parte dell’esercito tentò, il 1 ottobre del 1965, di prendere il potere in Indonesia prima che a farlo fossero i generali che poi organizzarono la repressione immediata del putsch e, nei tre anni successivi, un vero e proprio massacro che portò all’estinzione del Partito comunista, dei suoi affiliati, simpatizzanti o semplicemente di persone contigue – per amicizia o parentela – a chi aveva simpatie di sinistra. Un incubo con un bilancio incerto che i più moderati fissano ad almeno mezzo milione di morti.

Bung Karno (Sukarno). Sotto
a destra Jokowi

Il governo del presidente Jokowi, un civile che ha vinto da poco le elezioni sfidando proprio la lobby militare e conservatrice erede di quell’oscuro patrimonio, ha deciso però che i tempi non sono maturi per una riflessione che continua a far paura, è assente dai libri di storia se non in forma manipolata e non ha mai fatto i conti con almeno una commissione di verità e giustizia. Un incubo senza colpevoli che pesa su 250 milioni di indonesiani e sull’incapacità di una classe dirigente, ancorché progressista, di aprire finalmente il dibattito su cosa accadde in quei tre anni maledetti e nella dittatura che ne seguì per altri trenta.

La sessione dedicata a questo viaggio nella memoria doveva iniziare giovedi 29. Al centro vi sarebbe stato il discusso film di Oppenheimer (The Act of Killing 2012) – candidato all’Oscar ma che in Indonesia non è distribuito – e il seguito (The Look of Silence, Gran premio della giuria a Venezia) ma anche la discussione franca con chi di quegli anni bui ha scritto e dibattuto non senza difficoltà: stranieri e indonesiani.

Gli organizzatori hanno motivato la decisione di obbedire alle autorità col fatto che altrimenti avrebbero messo a rischio l’intero festival che si svolge a Bali e prevede 225 eventi tra mostre, film e dibattiti. E se è un segno dei tempi (positivo) la lunga lettera pubblica del Festival sul web a chi si era prenotato per la sessione sul ’65, è un pessimo segnale quello che viene da Jakarta proprio nell’anniversario di una delle pagine più importanti sia della storia indonesiana, sia della Guerra fredda visto che il Pki indonesiano era vicino ai cinesi e il generale Suharto, che guidò la repressione esautorando Sukarno e governando sino al 1998, era appoggiato da Washington che temeva che l’Indonesia, tassello fondamentale dell’“effetto domino” (teoria che allora guidò la guerra in Indocina), si sarebbe spostata definitivamente nell’aerea socialista.

Cosa accadde esattamente alla vigilia di quello che un film di regime ha chiamato “Il tradimento del Pki” è ancora oggetto di dibattito. Untung, un soldato che era stato promosso durante la guerra con l’Olanda per l’indipendenza, si era incontrato in una base militare della capitale con Aidit, l’allora capo del partito comunista, il più forte dell’Asia dopo quelli cinese e sovietico. E’ possibile che avessero organizzato quello che fu chiamato un “golpe preventivo” poiché erano note le intenzioni del Dewan Jendral, il consiglio dei generali che avevano in odio la politica si Sukarno che, in un bizzarro equilibrio e nell’esercizio di quella che aveva chiamato “Democrazia guidata”, coniugava nazionalismo, religione e comunismo con una costruzione ideologica che aveva partorito il Nasakom (Nasionalisme, Agama, Komunisme), una terza via comunque preoccupante. Era l’epoca in cui, agli inizi degli anni Cinquanta, aveva preso il via proprio dall’Indonesia – con la Conferenza di Bandung – il Movimento dei non allineati nel quale Sukarno era al fianco di Tito, Nehru, Nasser e Ciuenlai. Un’epoca in cui, dopo la fine delle colonie, si affaccia il neo colonialismo americano e la spartizione del mondo tra Usa e Urss che caratterizzerà anche la spaccatura nell’area socialista. Sukarno era un alleato di Aidit e del suo Pki ma manteneva le distanze. Non abbastanza però per i generali e gli strateghi della Cia, che consideravano l’Indonesia una pedina chiave nel Sudest asiatico minacciato dalle promesse di riscatto dei nordvietnamiti.

Probabilmente Untung e Aidit pensarono che era il caso di metterlo alle strette e di evitare che il suo equilibrismo diventasse l’occasione per soluzioni autoritarie di destra. Untung aveva influenza sulla guardia presidenziale e sulla divisione Diponegoro, schierata nella capitale per la ricorrenza del 5 ottobre, festa delle forze armate: col loro aiuto voleva impadronirsi dei gangli del potere, occupare la radio nazionale (l’unica cosa che riuscì), sequestrare alcuni generali (in parte trucidati) e mettere Sukarno sotto tutela andando a prenderlo a Palazzo. Ma il golpe fallì e quando i soldati di Untung andarono a prelevarlo, Bung Karno (il “compagno” Sukarno) era lontano, in compagnia di un giovane generale: Suharto. Sukarno si spaventa o viene convinto; forse sapeva oppure – come sempre dirà – era all’oscuro di tutto. Affida i pieni poteri a Suharto che approfitta dell’ondata di sdegno che segue al sequestro dei generali e soprattutto dell’impreparazione tattica di Untung che ha fatto male i conti. Suharto stringe i ranghi, assolda milizie, fa lega con i landlord spodestati dalla riforma agraria e mette in opera un vero e proprio genocidio contro la razza comunista. Incendi, torture, stupri, fosse comuni. Aidit viene catturato e ucciso quasi subito. Untung è condannato a morte dai militari. Nessuno di loro potrà più testimoniare.

Se i morti furono 500mila o più di un milione non è chiaro ma la strage colpì ogni famiglia. Il triennio stragista si concluse con un silenzio che dura ormai da cinquant’anni anche se timidi segnali erano venuti già a galla dopo la caduta e la morte di Suharto ma senza mai arrivare a un vero dibattuto nazionale di cui il Festival di Ubud era la prima vera occasione. Cancellata da un uomo, al potere da un anno, su cui invece si erano appuntate molte speranze. Anche quella di aprire quella pagina per poterla richiudere poi al prezzo della verità, l’unica via perché si possa parlare di giustizia.

Jokowi, già governatore di Jakarta, un mister clean progressista venuto dal nulla, di segnali imbarazzanti ne ha però dati parecchi. A cominciare dalle esecuzioni che nel 2015 sono state già 14 (27 nel periodo 1999-2014). Nei giorni scorsi il suo governo è entrato ancora nel mirino di Amnesty che gli ha chiesto di revocare il nuovo codice penale islamico della provincia di Aceh, entrato in vigore il 23 ottobre: il Qanun Jinayat, che punisce i rapporti extra coniugali e l’omosessualità a frustate, tra 30 e 100. Ed è di questi giorni la polemica sulla decisione di un giudice di chiedere al presidente un decreto sulla castrazione chimica in caso di abusi sui minori. Ce n’è insomma perché si torni a parlare di un Paese che era diventato un piccolo miracolo di democrazia e sviluppo. I suoi fantasmi continuano a regnare.

Terremoto senza frontiere

Questa volta non è per colpa dei talebani ma ancora una volta Pakistan e Afghanistan condividono una strage. La strage con centinaia di vittime prodotta da un un potente terremoto di magnitudo 7,5 che ha colpito – con più scosse – il Nord dell’Afghanistan e una vasta area che comprende il Pakistan del Nord e che ha fatto sentire le sue scosse anche nel Sud e persino in India e in Tajikistan. La US Geological Survey sostiene che l’epicentro del sisma – localizzato a 213 chilometri di profondità – si trova nell’Hindukush, nel distretto di Jurm in Badakshan (estremo oriente del paese), a 250 chilometri a Nordest di Kabul e 75 a Sud di Faizabad. Era l’una e quaranta di ieri pomeriggio ora locale in Afghanistan. Ma la forza del terremoto ha ucciso senza fare i conti con le frontiere.
Il bilancio è provvisorio ma la maggior parte delle vittime sono in Pakistan anche se le stime sono complesse perché le zone colpite sono in molti casi irraggiungibili. Il responsabile del Geological Survey Pakistan ha detto alla Bbc che ci sono state segnalazioni di frane sull’autostrada del Karakorum (che in almeno cinque punti ne hanno bloccato il transito) nel territorio del Gilgit Baltistan e tuttavia ha aggiunto che è ancora troppo presto per dire se anche i ghiacciai siano stati destabilizzati dal sisma. Lunedi sera si stimavano a oltre 190 i morti nella sola provincia di Khyber in Pakistan e decine in Afghanistan nelle province di Nangarhar, Badakhshan, Kunar, Takhar e Parwan. Si tratta di uno degli eventi sismici più rilevanti nella storia dei due Paesi. Persino a Kabul si sono registrati feriti e danni.
Il Pakistan registra invece danni gravi e vittime nello Swat, nell’agenzia tribale di Bajaur, a Kallar, Kahar, Sargodha, Kasur, Malakand mentre i servizi di comunicazione sono saltati a Peshawar, capitale del Khyber ma anche a Islamabad. Il primissimo bilancio aveva stimato almeno 130 vittime nelle provincia di Khyber Pakhtunkhwa e nelle Fata (le aree tribali), almeno 5 nel Punjab, e altri nell’Azad Kashmir (il Kashmir occupato dal Pakistan) e nel Gilgit Balitistan con almeno 200 feriti. Ma in poche ore il bilancio è salito. La terra ha tremato però anche in città molto lontane dall’epicentro, come Karachi o Lahore. Le agenzie internazionali stanno rispondendo agli appelli dei governi che hanno intanto mobilitato protezione civile ed eserciti nazionali.

Terremoto senza frontiere

Questa volta non è per colpa dei talebani ma ancora una volta Pakistan e Afghanistan condividono una strage. La strage con centinaia di vittime prodotta da un un potente terremoto di magnitudo 7,5 che ha colpito – con più scosse – il Nord dell’Afghanistan e una vasta area che comprende il Pakistan del Nord e che ha fatto sentire le sue scosse anche nel Sud e persino in India e in Tajikistan. La US Geological Survey sostiene che l’epicentro del sisma – localizzato a 213 chilometri di profondità – si trova nell’Hindukush, nel distretto di Jurm in Badakshan (estremo oriente del paese), a 250 chilometri a Nordest di Kabul e 75 a Sud di Faizabad. Era l’una e quaranta di ieri pomeriggio ora locale in Afghanistan. Ma la forza del terremoto ha ucciso senza fare i conti con le frontiere.
Il bilancio è provvisorio ma la maggior parte delle vittime sono in Pakistan anche se le stime sono complesse perché le zone colpite sono in molti casi irraggiungibili. Il responsabile del Geological Survey Pakistan ha detto alla Bbc che ci sono state segnalazioni di frane sull’autostrada del Karakorum (che in almeno cinque punti ne hanno bloccato il transito) nel territorio del Gilgit Baltistan e tuttavia ha aggiunto che è ancora troppo presto per dire se anche i ghiacciai siano stati destabilizzati dal sisma. Lunedi sera si stimavano a oltre 190 i morti nella sola provincia di Khyber in Pakistan e decine in Afghanistan nelle province di Nangarhar, Badakhshan, Kunar, Takhar e Parwan. Si tratta di uno degli eventi sismici più rilevanti nella storia dei due Paesi. Persino a Kabul si sono registrati feriti e danni.
Il Pakistan registra invece danni gravi e vittime nello Swat, nell’agenzia tribale di Bajaur, a Kallar, Kahar, Sargodha, Kasur, Malakand mentre i servizi di comunicazione sono saltati a Peshawar, capitale del Khyber ma anche a Islamabad. Il primissimo bilancio aveva stimato almeno 130 vittime nelle provincia di Khyber Pakhtunkhwa e nelle Fata (le aree tribali), almeno 5 nel Punjab, e altri nell’Azad Kashmir (il Kashmir occupato dal Pakistan) e nel Gilgit Balitistan con almeno 200 feriti. Ma in poche ore il bilancio è salito. La terra ha tremato però anche in città molto lontane dall’epicentro, come Karachi o Lahore. Le agenzie internazionali stanno rispondendo agli appelli dei governi che hanno intanto mobilitato protezione civile ed eserciti nazionali.

Kunduz, abbiamo un problema (aggiornato)

Il Lockheed AC-130 macchina da guerra aerea
Mentre il bilancio del raid del 3 ottobre che ha interamente devastato l’ospedale di Msf a Kunduz in Afghanistan è salito a 30 vittime, il Pentagono ha fatto sapere che il rapporto interno della Difesa americana (un’altra inchiesta viene condotta dalla Nato e un’altra ancora dal governo di Kabul) non è ancora pronto. Nel giustificare il ritardo, il segretario alla Difesa Ashton Carter ha detto che il Pentagono vuole un lavoro «fatto bene», in linea con l’assunzione di responsabilità e trasparenza nei confronti delle vittime. Il rapporto, o quantomeno le prime risultanze dell’indagine, erano attese entro questa settimana, a quasi un mese ormai da quello che Washington e la Nato hanno definito un «tragico incidente» e Msf una patente «violazione del diritto internazionale umanitario». In altre parole un crimine di guerra.
Iparenti delle vittime (staff e pazienti) intanto aumentano e forse potrebbero aumentare ancora: l’ultimo bilancio si deve al riconoscimento di cadaveri  trovati tra le macerie dell’ospedale e resi irriconoscibili dal bombardamento dell’aereo da combattimento americano AC-130 che, all’alba del 3 ottobre, ha ripetutamente colpito il centro medico (il Lockheed AC-130 è quadrimotore a turboelica impiegato come cannoniera volante per attacchi sul terreno). Mentre Msf continua a chiedere un’inchiesta indipendente, il ritardo nell’indagine interna non fa intanto che aumentare l’irritazione dopo che, alcuni giorni fa – col compito di raccogliere prove sui fatti – veicoli blindati con a bordo militari americani e afgani sono penetrati nell’ospedale (dove tra l’altro si trovavano alcuni responsabili di Msf), forzandone il portone e distruggendo presumibilmente parte delle evidenze che i soldati avrebbero dovuto indagare.

L’ospedale di Msf a Kunduz: da nosocomio a inferno di fuoco
La petizione lanciata da Medici senza frontiere a metà ottobre sul web per ottenere un’inchiesta indipendente (attraverso la piattaforma Change.org) ha già superato le 300mila firme ma l’organizzazione medica vuole arrivare a 500mila: chiede al presidente statunitense Barack Obama di consentire un’indagine autonoma e neutrale da parte della Commissione d’inchiesta umanitaria internazionale (Ihffc), l’unico organo permanente specificamente istituito per indagare le violazioni del Diritto internazionale umanitario. Ihffc si è detta disponibile ma sta aspettando luce verde sia dagli Stati Uniti sia dal governo afgano.

Aggiornamento delle 16 del 25/10/2015

Kunduz, abbiamo un problema (aggiornato)

Il Lockheed AC-130 macchina da guerra aerea
Mentre il bilancio del raid del 3 ottobre che ha interamente devastato l’ospedale di Msf a Kunduz in Afghanistan è salito a 30 vittime, il Pentagono ha fatto sapere che il rapporto interno della Difesa americana (un’altra inchiesta viene condotta dalla Nato e un’altra ancora dal governo di Kabul) non è ancora pronto. Nel giustificare il ritardo, il segretario alla Difesa Ashton Carter ha detto che il Pentagono vuole un lavoro «fatto bene», in linea con l’assunzione di responsabilità e trasparenza nei confronti delle vittime. Il rapporto, o quantomeno le prime risultanze dell’indagine, erano attese entro questa settimana, a quasi un mese ormai da quello che Washington e la Nato hanno definito un «tragico incidente» e Msf una patente «violazione del diritto internazionale umanitario». In altre parole un crimine di guerra.
Iparenti delle vittime (staff e pazienti) intanto aumentano e forse potrebbero aumentare ancora: l’ultimo bilancio si deve al riconoscimento di cadaveri  trovati tra le macerie dell’ospedale e resi irriconoscibili dal bombardamento dell’aereo da combattimento americano AC-130 che, all’alba del 3 ottobre, ha ripetutamente colpito il centro medico (il Lockheed AC-130 è quadrimotore a turboelica impiegato come cannoniera volante per attacchi sul terreno). Mentre Msf continua a chiedere un’inchiesta indipendente, il ritardo nell’indagine interna non fa intanto che aumentare l’irritazione dopo che, alcuni giorni fa – col compito di raccogliere prove sui fatti – veicoli blindati con a bordo militari americani e afgani sono penetrati nell’ospedale (dove tra l’altro si trovavano alcuni responsabili di Msf), forzandone il portone e distruggendo presumibilmente parte delle evidenze che i soldati avrebbero dovuto indagare.

L’ospedale di Msf a Kunduz: da nosocomio a inferno di fuoco
La petizione lanciata da Medici senza frontiere a metà ottobre sul web per ottenere un’inchiesta indipendente (attraverso la piattaforma Change.org) ha già superato le 300mila firme ma l’organizzazione medica vuole arrivare a 500mila: chiede al presidente statunitense Barack Obama di consentire un’indagine autonoma e neutrale da parte della Commissione d’inchiesta umanitaria internazionale (Ihffc), l’unico organo permanente specificamente istituito per indagare le violazioni del Diritto internazionale umanitario. Ihffc si è detta disponibile ma sta aspettando luce verde sia dagli Stati Uniti sia dal governo afgano.

Aggiornamento delle 16 del 25/10/2015

Ban Ki-moon in Italia: due obiettivi per raggiungerne 17

Terminate le celebrazioni ufficiali che hanno visto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon in Italia (a Torino in Parlamento, a Expo Milano, al Forum organizzato dall’Undp a Torino), cosa resta della tre giorni che ha visto concentrarsi in Italia lo sforzo dell’Onu per ritornare al centro del dibattito internazionale? Almeno due cose.

Convincere i governi

La prima riguarda il tentativo di convincere i governi del pianeta, che hanno sottoscritto a New York l’Agenda 15/30, a farla diventare pratica quotidiana. L’Agenda 15/30 contiene infatti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs, Sustainable Development Goals) che sono la continuazione delle vecchie Mete del Millennio (MDGs) appena conclusesi. A differenza dei Millennium Goals, i 17 obiettivi impegnano però i governi, da qui al 2030, a uno sforzo non più per settori di popolazione (emarginati, poveri etc) o per Paesi (subsahariani, a basso reddito, in via di sviluppo etc), ma “universale”. Gli obiettivi cioè riguardano tutti: cittadini del Nord e del Sud del mondo. Un salto di qualità che prevede un pianeta a sviluppo sostenibile dove tutti devono fare la propria parte e non solo “carità” solidale a chi è più sfortunato. E’ un concetto nuovo e non facile da metabolizzare. La visita di Ban Ki-moon mirava dunque innanzi tutto a questo.

Il secondo obiettivo del segretario generale era invece quello di cercare di dimostrare che applicare i 17 obiettivi si può. Ma come? La risposta sta nei risultati del Forum sullo sviluppo locale sostenibile che si è svolto a Torino dal 13 al 16 ottobre e che è stato chiuso proprio da Ban Ki-moon. Qual è la novità?

Ripartire dai territori

Il Forum, che è giunto alla sua terza edizione (la prossima in Africa, tra due anni), è qualcosa di diverso dai soliti eventi dove ognuno arriva, legge il suo discorso e se ne va. E’ il frutto di un processo di aggregazione di reti, enti locali, associazioni della società civile, fondazioni, imprenditori e università che ormai da sei anni lavorano assieme per dimostrare che, per applicare qualsiasi obiettivo – per renderlo cioè applicabile nella realtà quotidiana – bisogna cambiare ottica. Anziché chiedere e poi demandare ai governi nazionali le politiche locali, il Forum sostiene che bisogna ripartire dai territori, dalle comunità: piccole come un Comune montano di 500 abitanti o grandi come l’area metropolitana di Torino, Buenos Aires o Dakar. Nei territori, dicono i funzionari dell’Undp (il programma per lo sviluppo dell’Onu, il suo “braccio politico” e strategico ), ci sono già tutti i temi da cui partire per applicare i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile: un territorio, piccolo o grande, deve infatti sempre fare i conti con l’ambiente, l’esclusione sociale, il lavoro, l’innovazione, l’istruzione. Ed è partendo dai territori, dai sindaci, dalle associazioni, dagli imprenditori locali, che è più facile declinare nel quotidiano le grandi mete che dovrebbero farci vivere meglio. Il messaggio che viene da Torino – sintetizza Johannes Krassnitzer dell’Undp – «ci dice che esiste una nuova forza che è la somma di tante diversità in grado di dialogare tra loro. E questo sforzo a livello locale è in grado di incidere sulle scelte nazionali e su quelle internazionali». A patto, dicono da Torino, che il centro redistribuisca risorse alla periferia. Un negoziato che resta in salita.

(anche su Repubblica.it)

Ban Ki-moon in Italia: due obiettivi per raggiungerne 17

Terminate le celebrazioni ufficiali che hanno visto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon in Italia (a Torino in Parlamento, a Expo Milano, al Forum organizzato dall’Undp a Torino), cosa resta della tre giorni che ha visto concentrarsi in Italia lo sforzo dell’Onu per ritornare al centro del dibattito internazionale? Almeno due cose.

Convincere i governi

La prima riguarda il tentativo di convincere i governi del pianeta, che hanno sottoscritto a New York l’Agenda 15/30, a farla diventare pratica quotidiana. L’Agenda 15/30 contiene infatti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs, Sustainable Development Goals) che sono la continuazione delle vecchie Mete del Millennio (MDGs) appena conclusesi. A differenza dei Millennium Goals, i 17 obiettivi impegnano però i governi, da qui al 2030, a uno sforzo non più per settori di popolazione (emarginati, poveri etc) o per Paesi (subsahariani, a basso reddito, in via di sviluppo etc), ma “universale”. Gli obiettivi cioè riguardano tutti: cittadini del Nord e del Sud del mondo. Un salto di qualità che prevede un pianeta a sviluppo sostenibile dove tutti devono fare la propria parte e non solo “carità” solidale a chi è più sfortunato. E’ un concetto nuovo e non facile da metabolizzare. La visita di Ban Ki-moon mirava dunque innanzi tutto a questo.

Il secondo obiettivo del segretario generale era invece quello di cercare di dimostrare che applicare i 17 obiettivi si può. Ma come? La risposta sta nei risultati del Forum sullo sviluppo locale sostenibile che si è svolto a Torino dal 13 al 16 ottobre e che è stato chiuso proprio da Ban Ki-moon. Qual è la novità?

Ripartire dai territori

Il Forum, che è giunto alla sua terza edizione (la prossima in Africa, tra due anni), è qualcosa di diverso dai soliti eventi dove ognuno arriva, legge il suo discorso e se ne va. E’ il frutto di un processo di aggregazione di reti, enti locali, associazioni della società civile, fondazioni, imprenditori e università che ormai da sei anni lavorano assieme per dimostrare che, per applicare qualsiasi obiettivo – per renderlo cioè applicabile nella realtà quotidiana – bisogna cambiare ottica. Anziché chiedere e poi demandare ai governi nazionali le politiche locali, il Forum sostiene che bisogna ripartire dai territori, dalle comunità: piccole come un Comune montano di 500 abitanti o grandi come l’area metropolitana di Torino, Buenos Aires o Dakar. Nei territori, dicono i funzionari dell’Undp (il programma per lo sviluppo dell’Onu, il suo “braccio politico” e strategico ), ci sono già tutti i temi da cui partire per applicare i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile: un territorio, piccolo o grande, deve infatti sempre fare i conti con l’ambiente, l’esclusione sociale, il lavoro, l’innovazione, l’istruzione. Ed è partendo dai territori, dai sindaci, dalle associazioni, dagli imprenditori locali, che è più facile declinare nel quotidiano le grandi mete che dovrebbero farci vivere meglio. Il messaggio che viene da Torino – sintetizza Johannes Krassnitzer dell’Undp – «ci dice che esiste una nuova forza che è la somma di tante diversità in grado di dialogare tra loro. E questo sforzo a livello locale è in grado di incidere sulle scelte nazionali e su quelle internazionali». A patto, dicono da Torino, che il centro redistribuisca risorse alla periferia. Un negoziato che resta in salita.

(anche su Repubblica.it)

Incidente criminale

Il bombardamento americano dell’ospedale di Msf a Kunduz in Afghanistan non è stato un incidente. Il raid del 3 ottobre, «esteso e preciso», suggerisce un’ipotesi ben più inquietante su cui è necessaria un’indagine indipendente: il crimine di guerra. E’ la versione  che i Medici senza frontiere han sostenuto sin dal primo giorno di quell’attacco – il cui bilancio alla fine è stato di 22 morti e oltre 30 dispersi – ma che adesso viene rilanciata con più forza dall’Afghanistan dal direttore di Msf Belgio e già direttore generale di Msf Christopher Stokes. Stokes è andato di persona a vedere gli effetti del bombardamento e, dal luogo del delitto, le sue parole acquistano più forza. Lo segue, nella macabra ricognizione tra muri crollati e anneriti (visibile anche su youtube), una troupe di ToloTv, una delle più seguite emittenti del Paese. Ed è la stessa Tv a raccogliere le accuse di Stokes e a rilanciarle nelle case degli afgani che finora hanno ascoltato soprattutto la voce del governo, le scuse della Nato e di Obama, la versione che si sarebbe trattato di un incidente per cercare di snidare guerriglieri rifugiatisi nell’ospedale. Versione che Stokes sconfessa.
«La distruzione estesa e assolutamente precisa di questo ospedale – ho passato tutta la mattina ad attraversarlo con i miei colleghi osservando l’entità dei danni – non suggerisce, non sembra, non indica un errore. L’ospedale – dice Stokes davanti alle telecamere afgane – è stato ripetutamente colpito, sia nella parte anteriore sia in quella posteriore e ampiamente distrutto e danneggiato anche se avevamo fornito tutte le coordinate e le informazioni corrette a tutte le parti armate in conflitto. Per questo vogliamo una spiegazione chiara: perché tutto quel che è successo indica una grave violazione del diritto umanitario internazionale e, di conseguenza, un crimine di guerra».


Sulla versione americana per cui il raid aereo sarebbe stato chiesto dagli afgani per la presenza dei talebani – anche se non è ancora emerso chi alla fine diede luce verde – Stokes sostiene che «nel compound non erano entrati talebani armati (Msf ha sempre chiarito che chiunque ha bisogno di cure viene ricoverato ma senza armi ndr) e da quel che ho capito parlando col nostro staff e con le guardie dell’ospedale, avevamo un chiaro controllo di quel che stava accadendo dentro e fuori il centro e non si era verificato nessun combattimento nelle ore precedenti l’attacco (avvenuto verso le due di notte ndr). I nostri pazienti, dottori e membri dello staff – dice ancora Stokes – pensavano di essere al sicuro in ospedale e fino a quando non si capirà quel che è successo veramente e sino a quando non saremo in grado di ottenere le garanzie che questo genere inaccettabile di attacchi non accada di nuovo, non potremo riaprire una struttura che metterebbe il nostro personale in pericolo».

La base aerea di Bagram. la più importante base Usa
 in Afghanistan.  Gli aerei partono per lo più da qui

Intanto petizioni e richieste ufficiali perché si svolga un’indagine indipendente incontrano un muro di silenzio cui viene opposta un’indagine interna militare. Eppure sia Unama, la forza Onu a Kabul, sia la missione Ue hanno preso posizioni dure: l’inviato speciale di Bruxelles Franz-Michael Melbin ha definito il bombardamento una «chiara violazione delle leggi internazionali» e ha chiesto un’indagine trasparente come Msf pretende dal primo giorno. Per ora però l’unica vera risposta sembra quella di aumentare l’impegno militare in una guerra i cui costi non accennano a diminuire e che sta per assistere a un nuovo coinvolgimento delle nostre forze armate, con costi militari che andranno probabilmente a discapito di quelli civili per favorire la ricostruzione. Proprio ieri a Kabul Equality for Peace andDemocracy, un’associazione afgana della società civile, ha fatto i conti in tasca alla guerra. Ogni giorno il conflitto costa agli afgani 24 milioni di dollari: nove miliardi nel solo 2014.  

Incidente criminale

Il bombardamento americano dell’ospedale di Msf a Kunduz in Afghanistan non è stato un incidente. Il raid del 3 ottobre, «esteso e preciso», suggerisce un’ipotesi ben più inquietante su cui è necessaria un’indagine indipendente: il crimine di guerra. E’ la versione  che i Medici senza frontiere han sostenuto sin dal primo giorno di quell’attacco – il cui bilancio alla fine è stato di 22 morti e oltre 30 dispersi – ma che adesso viene rilanciata con più forza dall’Afghanistan dal direttore di Msf Belgio e già direttore generale di Msf Christopher Stokes. Stokes è andato di persona a vedere gli effetti del bombardamento e, dal luogo del delitto, le sue parole acquistano più forza. Lo segue, nella macabra ricognizione tra muri crollati e anneriti (visibile anche su youtube), una troupe di ToloTv, una delle più seguite emittenti del Paese. Ed è la stessa Tv a raccogliere le accuse di Stokes e a rilanciarle nelle case degli afgani che finora hanno ascoltato soprattutto la voce del governo, le scuse della Nato e di Obama, la versione che si sarebbe trattato di un incidente per cercare di snidare guerriglieri rifugiatisi nell’ospedale. Versione che Stokes sconfessa.
«La distruzione estesa e assolutamente precisa di questo ospedale – ho passato tutta la mattina ad attraversarlo con i miei colleghi osservando l’entità dei danni – non suggerisce, non sembra, non indica un errore. L’ospedale – dice Stokes davanti alle telecamere afgane – è stato ripetutamente colpito, sia nella parte anteriore sia in quella posteriore e ampiamente distrutto e danneggiato anche se avevamo fornito tutte le coordinate e le informazioni corrette a tutte le parti armate in conflitto. Per questo vogliamo una spiegazione chiara: perché tutto quel che è successo indica una grave violazione del diritto umanitario internazionale e, di conseguenza, un crimine di guerra».


Sulla versione americana per cui il raid aereo sarebbe stato chiesto dagli afgani per la presenza dei talebani – anche se non è ancora emerso chi alla fine diede luce verde – Stokes sostiene che «nel compound non erano entrati talebani armati (Msf ha sempre chiarito che chiunque ha bisogno di cure viene ricoverato ma senza armi ndr) e da quel che ho capito parlando col nostro staff e con le guardie dell’ospedale, avevamo un chiaro controllo di quel che stava accadendo dentro e fuori il centro e non si era verificato nessun combattimento nelle ore precedenti l’attacco (avvenuto verso le due di notte ndr). I nostri pazienti, dottori e membri dello staff – dice ancora Stokes – pensavano di essere al sicuro in ospedale e fino a quando non si capirà quel che è successo veramente e sino a quando non saremo in grado di ottenere le garanzie che questo genere inaccettabile di attacchi non accada di nuovo, non potremo riaprire una struttura che metterebbe il nostro personale in pericolo».

La base aerea di Bagram. la più importante base Usa
 in Afghanistan.  Gli aerei partono per lo più da qui

Intanto petizioni e richieste ufficiali perché si svolga un’indagine indipendente incontrano un muro di silenzio cui viene opposta un’indagine interna militare. Eppure sia Unama, la forza Onu a Kabul, sia la missione Ue hanno preso posizioni dure: l’inviato speciale di Bruxelles Franz-Michael Melbin ha definito il bombardamento una «chiara violazione delle leggi internazionali» e ha chiesto un’indagine trasparente come Msf pretende dal primo giorno. Per ora però l’unica vera risposta sembra quella di aumentare l’impegno militare in una guerra i cui costi non accennano a diminuire e che sta per assistere a un nuovo coinvolgimento delle nostre forze armate, con costi militari che andranno probabilmente a discapito di quelli civili per favorire la ricostruzione. Proprio ieri a Kabul Equality for Peace andDemocracy, un’associazione afgana della società civile, ha fatto i conti in tasca alla guerra. Ogni giorno il conflitto costa agli afgani 24 milioni di dollari: nove miliardi nel solo 2014.  

Afghanistan: vado anzi resto. La nuova Guerra fredda nel vecchio Grande gioco

L’ormai certa decisione italiana, come quella tedesca, di rinnovare l’impegno militare in Afghanistan risponde alle esigenze dell’Amministrazione americana che, forse ancor prima dell’annuncio pubblico di Obama, si era già assicurata l’appoggio degli alleati. Ora manca solo che la Nato, che ha buoni motivi per farlo, formalizzi anche il suo in maniera sostanziale, trasformando le modalità operative della missione Resolute Support in una permanenza che abbia a che fare assai più con la guerra che non con la semplice formazione dei quadri militari afgani.

Le motivazioni che hanno mosso Obama le conosciamo: la presa di Kunduz da parte dei talebani, le secche del processo di pace, le spinte dei Repubblicani e di parte dei Democratici americani, le richieste – più o meno formali – di Kabul e soprattutto di Abdullah Abdullah, il presidente in seconda del governo bicefalo retto da Ashraf Ghani in cui Abdullah rappresenta soprattutto il Nord del Paese (dove Kunduz si trova) e i centri di potere della vecchia Alleanza del Nord. Scavando un po’ però – e se la geopolitica non è un’opinione – c’è forse qualcos’altro nel risveglio americano: c’è un motivo strategico profondo che si accompagna al desiderio delle lobby militari – in America come in Europa – cui non dispiace affatto continuare una missione data per persa e per la quale invece si ricomincerà a spendere ancora molto mentre si potranno testare nuovi tipi d’arma. Facciamo un passo indietro.

Gli Stati uniti hanno firmato con Kabul un patto si partenariato strategico sulla sicurezza che prevede di fatto il controllo su una decina di basi aeree nel Paese dell’Hindukush e la gestione totale della grande base di Baghram, a due passi dalla capitale. Le basi significano garanzia di presenza operativa in un’area strategica e soprattutto, almeno sino a qualche mese fa, un buon posizionamento in caso di una guerra con l’Iran che con l’Afghanistan confina. Lentamente e con fatica, ma alla fine con successo, Washington e Teheran si sono però riavvicinati, raffreddando le tensioni anche sul piano militare. Dunque ci si poteva ritirare lasciando solo una piccola forza per controllare, comunque, le basi aree. Ma adesso il quadro è cambiato. Non è più Teheran a preoccupare, o meglio lo è se si pensa al suo alleato più pericoloso per Washington: Mosca. La Russia sta tentando da tempo un riavvicinamento con Kabul che in parte sta funzionando. E non è un caso che abbia bollato la recente scelta americana come un “passo forzato … un’altra eloquente testimonianza del completo fallimento della campagna militare portata avanti per 14 anni dagli Usa e dai suoi alleati in Afghanistan”. Ai russi piacerebbe infatti una nuova forza militare che comprenda i Paesi vicini a magari la Russia stessa. Via la Nato dall’Afghanistan insomma, per far avanzare un’altra pedina sullo scacchiere mondiale che al Nord vede la crisi ucraina e al centro la nuova prova di forza in Medio oriente.

Gli americani temono l’aggressività russa e conoscono e temono il piano di riavvicinamento di Mosca che in questi giorni recita un mantra ormai comune, quello dell’addestramento insufficiente delle forze armate afgane che dunque rischiano di soccombere alla forza talebana. Il gioco appare abbastanza chiaro: gli afgani sono degli incapaci e ci vuole una mano. Washington e Mosca sono pronti a offrirla. E’ importante arrivare per primi in queste cose con la differenza che Usa ed Europa a Kabul già ci sono. Non è proprio il caso di andar via.  Meglio restare, in forze, un altro po’.

Afghanistan: vado anzi resto. La nuova Guerra fredda nel vecchio Grande gioco

L’ormai certa decisione italiana, come quella tedesca, di rinnovare l’impegno militare in Afghanistan risponde alle esigenze dell’Amministrazione americana che, forse ancor prima dell’annuncio pubblico di Obama, si era già assicurata l’appoggio degli alleati. Ora manca solo che la Nato, che ha buoni motivi per farlo, formalizzi anche il suo in maniera sostanziale, trasformando le modalità operative della missione Resolute Support in una permanenza che abbia a che fare assai più con la guerra che non con la semplice formazione dei quadri militari afgani.

Le motivazioni che hanno mosso Obama le conosciamo: la presa di Kunduz da parte dei talebani, le secche del processo di pace, le spinte dei Repubblicani e di parte dei Democratici americani, le richieste – più o meno formali – di Kabul e soprattutto di Abdullah Abdullah, il presidente in seconda del governo bicefalo retto da Ashraf Ghani in cui Abdullah rappresenta soprattutto il Nord del Paese (dove Kunduz si trova) e i centri di potere della vecchia Alleanza del Nord. Scavando un po’ però – e se la geopolitica non è un’opinione – c’è forse qualcos’altro nel risveglio americano: c’è un motivo strategico profondo che si accompagna al desiderio delle lobby militari – in America come in Europa – cui non dispiace affatto continuare una missione data per persa e per la quale invece si ricomincerà a spendere ancora molto mentre si potranno testare nuovi tipi d’arma. Facciamo un passo indietro.

Gli Stati uniti hanno firmato con Kabul un patto si partenariato strategico sulla sicurezza che prevede di fatto il controllo su una decina di basi aeree nel Paese dell’Hindukush e la gestione totale della grande base di Baghram, a due passi dalla capitale. Le basi significano garanzia di presenza operativa in un’area strategica e soprattutto, almeno sino a qualche mese fa, un buon posizionamento in caso di una guerra con l’Iran che con l’Afghanistan confina. Lentamente e con fatica, ma alla fine con successo, Washington e Teheran si sono però riavvicinati, raffreddando le tensioni anche sul piano militare. Dunque ci si poteva ritirare lasciando solo una piccola forza per controllare, comunque, le basi aree. Ma adesso il quadro è cambiato. Non è più Teheran a preoccupare, o meglio lo è se si pensa al suo alleato più pericoloso per Washington: Mosca. La Russia sta tentando da tempo un riavvicinamento con Kabul che in parte sta funzionando. E non è un caso che abbia bollato la recente scelta americana come un “passo forzato … un’altra eloquente testimonianza del completo fallimento della campagna militare portata avanti per 14 anni dagli Usa e dai suoi alleati in Afghanistan”. Ai russi piacerebbe infatti una nuova forza militare che comprenda i Paesi vicini a magari la Russia stessa. Via la Nato dall’Afghanistan insomma, per far avanzare un’altra pedina sullo scacchiere mondiale che al Nord vede la crisi ucraina e al centro la nuova prova di forza in Medio oriente.

Gli americani temono l’aggressività russa e conoscono e temono il piano di riavvicinamento di Mosca che in questi giorni recita un mantra ormai comune, quello dell’addestramento insufficiente delle forze armate afgane che dunque rischiano di soccombere alla forza talebana. Il gioco appare abbastanza chiaro: gli afgani sono degli incapaci e ci vuole una mano. Washington e Mosca sono pronti a offrirla. E’ importante arrivare per primi in queste cose con la differenza che Usa ed Europa a Kabul già ci sono. Non è proprio il caso di andar via.  Meglio restare, in forze, un altro po’.

Washington/Kabul: restiamo

Barak Obama non si limiterà a tenere in Afghanistan un migliaio di soldati a fine 2016. Il presidente americano lascerà quasi diecimila uomini a guardare le basi aeree e a sostenere l’esercito afgano. Saranno in totale 9.800 soldati (il che a conti fatti equivarrà a una presenza di 30mila persone tra contractor, logistica, seconda linea). Una decisione che tiene conto dell’evoluzione sul terreno, delle pressioni afgane e interne americane (repubblicane ma non solo) ma che probabilmente ha a che vedere anche con le nuove minacce che gravano sugli equilibri mondiali, a cominciare dal rafforzamento della volontà espansiva russa.

Washington/Kabul: restiamo

Barak Obama non si limiterà a tenere in Afghanistan un migliaio di soldati a fine 2016. Il presidente americano lascerà quasi diecimila uomini a guardare le basi aeree e a sostenere l’esercito afgano. Saranno in totale 9.800 soldati (il che a conti fatti equivarrà a una presenza di 30mila persone tra contractor, logistica, seconda linea). Una decisione che tiene conto dell’evoluzione sul terreno, delle pressioni afgane e interne americane (repubblicane ma non solo) ma che probabilmente ha a che vedere anche con le nuove minacce che gravano sugli equilibri mondiali, a cominciare dal rafforzamento della volontà espansiva russa.

Ripartire dal territorio: un forum a Torino

Una volta i più virtuosi gridavano: «L’Africa agli africani». Ma il sindaco di Dakar Khalifa Sall, che parla a nome della rete dell’Uclg (United Cities and Local Governments), va più in là: «Vi dico che nei prossimi anni l’Africa sarà il nuovo motore dello sviluppo mondiale». Purché, aggiunge, si fortifichi la tendenza di dare alle autonomie locali sempre più potere e risorse. Scuote una platea di oltre duemila persone arrivate a Tornio per una quattro giorni (che si conclude domani con l’arrivo di Ban Ki-moon) che ha riunito una settantina di sindaci e decine di associazioni, università, fondazioni, reti da 127 Paesi. Venute a discutere di sviluppo economico locale. E con una notizia che va detta subito e che racconta un funzionario del Programma Onu per lo sviluppo (Undp), ispiratore dell’evento: «Ci sono oltre 2300 partecipanti e ognuno di loro….si è pagato il biglietto».
Insomma questa volta, sembra dire, c’è un interesse vero e non un semplice bla bla, timore che sempre aleggia su convegni, seminari, riunioni ad alto livello. E qui a Torino, per cominciare, a questo Terzo forum mondiale sullo sviluppo locale, il piano alto è poco rappresentato. Ci sono invece i sindaci e gli amministratori locali che si son portati appresso accademici e imprenditori, associazioni della società civile e Ong. Con un focus che si riassume in una parola. Territori. Dove dentro ci sta tutto, trasversalmente: economia, diritti, inclusione ed esclusione, opportunità di lavoro e chilometro zero, sostenibilità, tecnologia, innovazione. Con la scommessa che dai territori – e dal negoziato coi governi – nasca una nuova consapevolezza che vada ben oltre i trattati (vedi il famigerato Transatlantic Trade and Investment Partnershiptra Usa e Ue) negoziati a porte chiuse tra sherpa governativi che i territori li bazzicano poco e che rischiano di preparare politiche aggressive per multinazionali tentacolari, che è quel che si teme del Ttip.
La cerimonia di apertura

Hugo Nuňez Del Prado, ministro boliviano per le autonomie, sottolinea l’importanza del Forum e spiega anche perché La Paz ha deciso di mandare un ministro: «Vogliamo raccontare al mondo il nostro esperimento che ha visto crescere di cinque volte i trasferimenti dello Stato alle autonomie locali». Del Prado sembra molto soddisfatto di politiche che, in totale controtendenza, fanno della Bolivia una Paese dove non si privatizza ma semmai si nazionalizza. Il segreto? «Da noi una compagnia pubblica non può essere in passivo e il suo attivo viene redistribuito alla popolazione. E infine abbiamo puntato sul nostro mercato interno mentre ci riappropriavamo delle nostre risorse. Abbiamo dato dignità a 36 comunità diverse e fatto una legge che fa della terra, la Madre terra, un soggetto di diritto e non un mero oggetto di sfruttamento».

Storie diverse si accavallano. Anche italiane: che ci fa qui Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food? Allarga le braccia: «Rappresento una rete di contadini e qui mi trovo con associazioni, network importanti, ministri che vedo mettere al centro i temi che ci sono cari da sempre e senza abusare del termine “sostenibilità” che oggi viene usato anche dalle multinazionali. Ora si tratta di sollecitare i governi a non considerare eventi come questo dei belletti per rifarsi il trucco ma un’occasione per dare avvio a pratiche virtuose». Ma le pratiche virtuose, oltreché di politiche virtuose, hanno bisogno di risorse. E il tema lo tocca Piero Fassino, sindaco della città ospitante (va detto, con un’organizzazione e un’accoglienza impeccabile): «Se si pensa a uno “sviluppo sostenibile” – dice – allora diventa prioritario come si dislocano le risorse ». Ma oggi le risorse agli enti locali (Fassino è anche presidente dell’Anci) sono sempre più striminzite. «Anche la Corte dei conti ha riconosciuto che nessun’altra amministrazione ha sofferto tanto quanto i Comuni ed è evidente che un problema c’è. Abbiamo chiesto al governo – dice – di cambiare strada e stiamo negoziando sulla legge di stabilità proprio perché al suo interno vi siano misure coerenti con le politiche sostenibili per le quali gli enti locali sono in prima linea». Il Forum internazionale insomma finisce così a far pressione anche sul governo del Paese ospitante.

Ripartire dal territorio: un forum a Torino

Una volta i più virtuosi gridavano: «L’Africa agli africani». Ma il sindaco di Dakar Khalifa Sall, che parla a nome della rete dell’Uclg (United Cities and Local Governments), va più in là: «Vi dico che nei prossimi anni l’Africa sarà il nuovo motore dello sviluppo mondiale». Purché, aggiunge, si fortifichi la tendenza di dare alle autonomie locali sempre più potere e risorse. Scuote una platea di oltre duemila persone arrivate a Tornio per una quattro giorni (che si conclude domani con l’arrivo di Ban Ki-moon) che ha riunito una settantina di sindaci e decine di associazioni, università, fondazioni, reti da 127 Paesi. Venute a discutere di sviluppo economico locale. E con una notizia che va detta subito e che racconta un funzionario del Programma Onu per lo sviluppo (Undp), ispiratore dell’evento: «Ci sono oltre 2300 partecipanti e ognuno di loro….si è pagato il biglietto».
Insomma questa volta, sembra dire, c’è un interesse vero e non un semplice bla bla, timore che sempre aleggia su convegni, seminari, riunioni ad alto livello. E qui a Torino, per cominciare, a questo Terzo forum mondiale sullo sviluppo locale, il piano alto è poco rappresentato. Ci sono invece i sindaci e gli amministratori locali che si son portati appresso accademici e imprenditori, associazioni della società civile e Ong. Con un focus che si riassume in una parola. Territori. Dove dentro ci sta tutto, trasversalmente: economia, diritti, inclusione ed esclusione, opportunità di lavoro e chilometro zero, sostenibilità, tecnologia, innovazione. Con la scommessa che dai territori – e dal negoziato coi governi – nasca una nuova consapevolezza che vada ben oltre i trattati (vedi il famigerato Transatlantic Trade and Investment Partnershiptra Usa e Ue) negoziati a porte chiuse tra sherpa governativi che i territori li bazzicano poco e che rischiano di preparare politiche aggressive per multinazionali tentacolari, che è quel che si teme del Ttip.
La cerimonia di apertura

Hugo Nuňez Del Prado, ministro boliviano per le autonomie, sottolinea l’importanza del Forum e spiega anche perché La Paz ha deciso di mandare un ministro: «Vogliamo raccontare al mondo il nostro esperimento che ha visto crescere di cinque volte i trasferimenti dello Stato alle autonomie locali». Del Prado sembra molto soddisfatto di politiche che, in totale controtendenza, fanno della Bolivia una Paese dove non si privatizza ma semmai si nazionalizza. Il segreto? «Da noi una compagnia pubblica non può essere in passivo e il suo attivo viene redistribuito alla popolazione. E infine abbiamo puntato sul nostro mercato interno mentre ci riappropriavamo delle nostre risorse. Abbiamo dato dignità a 36 comunità diverse e fatto una legge che fa della terra, la Madre terra, un soggetto di diritto e non un mero oggetto di sfruttamento».

Storie diverse si accavallano. Anche italiane: che ci fa qui Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food? Allarga le braccia: «Rappresento una rete di contadini e qui mi trovo con associazioni, network importanti, ministri che vedo mettere al centro i temi che ci sono cari da sempre e senza abusare del termine “sostenibilità” che oggi viene usato anche dalle multinazionali. Ora si tratta di sollecitare i governi a non considerare eventi come questo dei belletti per rifarsi il trucco ma un’occasione per dare avvio a pratiche virtuose». Ma le pratiche virtuose, oltreché di politiche virtuose, hanno bisogno di risorse. E il tema lo tocca Piero Fassino, sindaco della città ospitante (va detto, con un’organizzazione e un’accoglienza impeccabile): «Se si pensa a uno “sviluppo sostenibile” – dice – allora diventa prioritario come si dislocano le risorse ». Ma oggi le risorse agli enti locali (Fassino è anche presidente dell’Anci) sono sempre più striminzite. «Anche la Corte dei conti ha riconosciuto che nessun’altra amministrazione ha sofferto tanto quanto i Comuni ed è evidente che un problema c’è. Abbiamo chiesto al governo – dice – di cambiare strada e stiamo negoziando sulla legge di stabilità proprio perché al suo interno vi siano misure coerenti con le politiche sostenibili per le quali gli enti locali sono in prima linea». Il Forum internazionale insomma finisce così a far pressione anche sul governo del Paese ospitante.

Tenebre cambogiane (Wikiradio)

Tra il 1950 e il 1959 un gruppo di studenti cambogiani si incontra a
Parigi nelle aule dell’università e nei caffè sulla rive gausche della Senna. Studiano alla Sorbona o a (sianspo) SciensPo, il famoso istituto di scienze politiche, e le loro tesi di laurea sono tutte focalizzate sul futuro di un Paese che nel 1954, con gli accordi di Ginevra firmati dal presidente del consiglio francese Pierre Mendès-France, è diventato indipendente. Si chiamano Saloth Sar – che poi prenderà il nome di Pol Pot – Ieng Sary Khieu Samphan. Hou Yuon. Il loro circolo intellettuale si sforza di immaginare un Paese di tipo nuovo: più giusto, più equo e che abbia come motore di sviluppo i contadini della Kampuchea, il nome in lingua khmer del regno di Cambogia.

Trasformano l’Associazione degli studenti khmer, che raccoglie circa duecento espatriati cambogiani, in un organizzazione nazionalista e di sinistra che prefigura la rinascita di una Cambogia anticolonialista e antimperialista. Pol Pot, che ha sposato a Parigi Khieu Ponnary, è il primo a tornare a casa: nel 1953, un anno prima degli accordi di Ginevra che chiudono il capitolo dell’Indocina francese, prepara l’organizzazione che 22 anni dopo sostituirà col nome di Kampuchea democratica la Repubblica khmer nata il 9 ottobre del 1970…

Ascolta qui la trasmissione di Wikiradio

Tenebre cambogiane (Wikiradio)

Tra il 1950 e il 1959 un gruppo di studenti cambogiani si incontra a
Parigi nelle aule dell’università e nei caffè sulla rive gausche della Senna. Studiano alla Sorbona o a (sianspo) SciensPo, il famoso istituto di scienze politiche, e le loro tesi di laurea sono tutte focalizzate sul futuro di un Paese che nel 1954, con gli accordi di Ginevra firmati dal presidente del consiglio francese Pierre Mendès-France, è diventato indipendente. Si chiamano Saloth Sar – che poi prenderà il nome di Pol Pot – Ieng Sary Khieu Samphan. Hou Yuon. Il loro circolo intellettuale si sforza di immaginare un Paese di tipo nuovo: più giusto, più equo e che abbia come motore di sviluppo i contadini della Kampuchea, il nome in lingua khmer del regno di Cambogia.

Trasformano l’Associazione degli studenti khmer, che raccoglie circa duecento espatriati cambogiani, in un organizzazione nazionalista e di sinistra che prefigura la rinascita di una Cambogia anticolonialista e antimperialista. Pol Pot, che ha sposato a Parigi Khieu Ponnary, è il primo a tornare a casa: nel 1953, un anno prima degli accordi di Ginevra che chiudono il capitolo dell’Indocina francese, prepara l’organizzazione che 22 anni dopo sostituirà col nome di Kampuchea democratica la Repubblica khmer nata il 9 ottobre del 1970…

Ascolta qui la trasmissione di Wikiradio

Afghanistan: un Paese quattro scenari

L’attacco alla città settentrionale di Kunduz non ha solo dimostrato che la guerra in Afghanistan non è finita e che i talebani sono tutt’altro che sconfitti. Acuisce le differenze (e le difficoltà) del governo bicefalo di Kabul. Mettendo in imbarazzo la comunità internazionale

Il fatto che la città di Kunduz sia caduta nelle mani dei talebani alla fine di settembre ha improvvisamente ricalendarizzato l’Afghanistan nella priorità della comunità internazionale che, assorbita dalle vicende mediorientali e nordafricane, aveva ormai considerato il Paese dell’Hindukush un capitolo in sostanza chiuso. In realtà l’attacco dei talebani, il più clamoroso dal punto di vista militare dal 2001, avveniva mentre a New York, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, i Paesi già impegnatisi finanziariamente e militarmente ribadivano l’impegno a non abbandonare il Paese ma si guardavano bene dal riprendere in mano il capitolo militare se non per l’impegno a continuare il finanziamento all’esercito nazionale (Ana) con un sostegno in termini anche di istruttori e consiglieri. La vicenda di Kunduz rimuove ora le acque – specie dopo il raid che ha colpito l’ospedale di Msf – in uno scenario che si può ricondurre ai quattro protagonisti principali e alla loro visione della situazione

Scenario 1/ Kabul

Il primo scenario è quello in cui è immersa la realtà afgana, segnata, oltreché da una guerra interna tutt’altro che conclusasi, da forti tensioni coi vicini (il Pakistan in particolare), da una congiuntura economica in peggioramento e, soprattutto, da una fragilità istituzionale non sanata dalle presidenziali conclusesi – dopo un lungo braccio di ferro – con la nascita di un governo bicefalo (National Unity Government): con un presidente e un capo dell’esecutivo che incarna una sorta di premierato molto sui generis e non previsto dalla Costituzione che ha permesso ad Abdullah Abdullah, il secondo più votato dopo Ashraf Ghani, di poter decidere la scelta di metà dell’esecutivo e di contare su un potere sinora concentrato solamente nelle mani del presidente. Il problema del governo bicefalo non è però solo quello di una spartizione dei poteri ma semmai quello di due visioni della realtà molto diverse che finiscono, in molti casi, per paralizzare almeno in parte l’esecutivo: dalle nomine dei singoli funzionari sino alla logica in cui si deve muovere la politica estera o il processo negoziale con la guerriglia, due elementi su cui Ghani e Abdullah hanno visoni diametralmente opposte. Il primo ha teso la mano ai pachistani e spinge per negoziare col nemico; il secondo è ferocemente anti pachistano, non perde occasione per accusare Islamabad di doppiogiochismo, è molto sospettoso sul negoziato di pace, al momento in fase di stallo totale. Su un unico punto i due primi inter pares hanno avuto una posizione concorde: hanno presentato un piano programmatico per i prossimi anni (governance, economia, sociale) che, agli occhi della comunità internazionale, ha sortito l’effetto di rinsaldare la fiducia piuttosto vacillante nei confronti del nuovo esecutivo.

Scenario 2 / Washington e Bruxelles
Il piano è stato presentato a Kabul agli inizi di settembre, in un periodo di calma (apparente) dopo un’ondata
di attentati stragisti (alcuni dei quali senza rivendicazione) avvenuti in agosto. Nella capitale afgana si sono svolti due incontri internazionali cui hanno partecipato – ospiti del governo afgano e di Unama – una trentina di Paesi e decine di organizzazioni internazionali. Recca VI (sesta Regional Economic Cooperation Conference on Afghanistan) e Som (Senior Official Meeting) hanno tracciato soprattutto un quadro economico del Paese e delle sue aspettative di interconnesione nel mercato regionale e globale. Ma mentre il primo è stato un incontro eminentemente economico – «vogliamo – ha detto Ghani – rivitalizzare la Via della Seta e fare dell’Afghanistan un hub regionale per connettere l’Asia centrale a quella del Sud» – il secondo è stato più politico – anche se l’economia e i finanziamenti ne erano il focus principale – proprio perché si trattava di approvare le linee guida esposte dal governo. Quest’ultimo si è concluso con la conferma, fondamentale per il governo, che gli aiuti continueranno fino al 2030*. Nonostante il documento sottoposto alla comunità internazionale (Afghanistan’s Road to Self-Reliance: The First Mile) fosse soprattutto improntato a buoni propositi di riforma (dalla trasparenza alla lotta alla corruzione, dai diritti dei cittadini alla creazione di posti di lavoro) è risultato convincete l’approccio pragmatico e programmatico che aveva diviso il dossier in tre sezioni (Ciò che abbiamo promesso, Ciò che abbiamo fatto, Il prossimo passo). Il documento teneva in conto le promesse fatte nella Conferenza di Londra del 2014 e riusciva a tracciare una linea conseguente e realistica del suo piano di riforme risultata alla fine vincente. Su pace e sicurezza il documento restava abbastanza vago al di là delle parole di convenienza ma era anche stato partorito mentre di fatto erano iniziati i primi colloqui ufficiali di pace tra governo e guerriglia (benché poi saltati in seguito all’annuncio in luglio della morte di mullah Omar con tutte le conseguenze derivate). Dal punto di vista militare il Som non aveva mandato per toccare l’argomento. Ma – fino alla vicenda di Kunduz – il dossier militare si riteneva concluso con l’avvio della missione Nato Resolute Support (di solo addestramento e limitata nei numeri) e la presenza di alcune migliaia di soldati americani con compiti soprattutto di difesa della basi.

Scenario 3/ Shura di Quetta

La presa di Kunduz potrebbe adesso riaprire il capitolo militare come ha chiesto a gran voce Abdullah Abdullah, anche se non ci sono state aperture in questa direzione dai Paesi Nato o dagli americani stessi che hanno però garantito sostegno aereo durante la riconquista della città settentrionale. Il rilancio della guerra con un’azione eclatante sembra rispondere per i talebani a tre direttrici politico militari. La prima vorrebbe dimostrare che, nonostante le divisioni interne seguite all’annuncio della morte di Omar – sostituito non senza difficoltà da mullah Akhtar Mansur –, il movimento è ancora unito e così forte da poter attaccare una media città afgana. Il secondo è che, contrariamente al passato, l’offensiva vine questa volta da Nord (e non da Sud o Sudest) il che può dimostrare che la guerriglia intende stringere a tenaglia Kabul. Il terzo riguarda invece un messaggio probabilmente rivolto a Daesh, in rapida ascesa nel Paese (godrebbe della simpatia del 10 per cento dei talebani) e che ha accusato la dirigenza dei turbanti neri di non essere in grado di costruire, come in Siria o in Iraq, aree controllate militarmente e luoghi dove si viva secondo la sharia sotto un’amministrazione alternativa a “crociati” e governi corrotti.

Scenario 4/ Islamabad
Il quarto attore è per forza di cose il Pakistan. E’ difficile capire la sua strategia ma molti fattori concordano

nel far pensare che Islamabad si sia convinta da almeno un anno che la strada del negoziato di pace, purché in qualche modo controllato dal Pakistan, sia la soluzione migliore, soprattutto in chiave interna dal momento che la guerra afgana ormai destabilizza il Pakistan alimentando la forza dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taleban Pakistan), i cugini oltre frontiera dei talebani afgani: molto più crudeli e stragisti e soprattutto nemici più di Islamabad che di Washington. L’annuncio della morte di Omar, scompaginando le carte in tavola, ha finito per far saltare il tavolo negoziale imbastito da Islamabad, che sembrerebbe avere in mullah Mansur un buon alleato di cui fidarsi e su cui far valere una certa pressione. Ma dopo l’annuncio della fine di Omar, con l’inizio di una lunga querelle interna ai talebani sul futuro del vertice del movimento, una serie di attentati stragisti ad agosto ha rimesso in discussione il futuro del negoziato. Gli ambienti più anti pachistani di Kabul (riconducibili soprattutto ad Abdullah, ai circoli vicini a Karzai, a settori dell’intelligence e dell’esercito) hanno avuto facile gioco a dirottare anche Ghani – inizialmente favorevole a una politica della porta aperta verso Islamabad – sui posizione meno morbide, minando decisamente il cammino negoziale, iniziato – ben prima che coi talebani – tra Kabul e Islamabad per stemperare le tensioni tra i due Paesi. In questo quadro ancora molto confuso e dove la guerra torna protagonista le speranze di una pace vicina – o almeno di un cessate il fuoco – si allontanano.

*L’Italia, ad esempio, ha firmato negli stessi giorni un impegno di 28,6 mln di euro per il bypass di Herat

Afghanistan: un Paese quattro scenari

L’attacco alla città settentrionale di Kunduz non ha solo dimostrato che la guerra in Afghanistan non è finita e che i talebani sono tutt’altro che sconfitti. Acuisce le differenze (e le difficoltà) del governo bicefalo di Kabul. Mettendo in imbarazzo la comunità internazionale

Il fatto che la città di Kunduz sia caduta nelle mani dei talebani alla fine di settembre ha improvvisamente ricalendarizzato l’Afghanistan nella priorità della comunità internazionale che, assorbita dalle vicende mediorientali e nordafricane, aveva ormai considerato il Paese dell’Hindukush un capitolo in sostanza chiuso. In realtà l’attacco dei talebani, il più clamoroso dal punto di vista militare dal 2001, avveniva mentre a New York, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, i Paesi già impegnatisi finanziariamente e militarmente ribadivano l’impegno a non abbandonare il Paese ma si guardavano bene dal riprendere in mano il capitolo militare se non per l’impegno a continuare il finanziamento all’esercito nazionale (Ana) con un sostegno in termini anche di istruttori e consiglieri. La vicenda di Kunduz rimuove ora le acque – specie dopo il raid che ha colpito l’ospedale di Msf – in uno scenario che si può ricondurre ai quattro protagonisti principali e alla loro visione della situazione

Scenario 1/ Kabul

Il primo scenario è quello in cui è immersa la realtà afgana, segnata, oltreché da una guerra interna tutt’altro che conclusasi, da forti tensioni coi vicini (il Pakistan in particolare), da una congiuntura economica in peggioramento e, soprattutto, da una fragilità istituzionale non sanata dalle presidenziali conclusesi – dopo un lungo braccio di ferro – con la nascita di un governo bicefalo (National Unity Government): con un presidente e un capo dell’esecutivo che incarna una sorta di premierato molto sui generis e non previsto dalla Costituzione che ha permesso ad Abdullah Abdullah, il secondo più votato dopo Ashraf Ghani, di poter decidere la scelta di metà dell’esecutivo e di contare su un potere sinora concentrato solamente nelle mani del presidente. Il problema del governo bicefalo non è però solo quello di una spartizione dei poteri ma semmai quello di due visioni della realtà molto diverse che finiscono, in molti casi, per paralizzare almeno in parte l’esecutivo: dalle nomine dei singoli funzionari sino alla logica in cui si deve muovere la politica estera o il processo negoziale con la guerriglia, due elementi su cui Ghani e Abdullah hanno visoni diametralmente opposte. Il primo ha teso la mano ai pachistani e spinge per negoziare col nemico; il secondo è ferocemente anti pachistano, non perde occasione per accusare Islamabad di doppiogiochismo, è molto sospettoso sul negoziato di pace, al momento in fase di stallo totale. Su un unico punto i due primi inter pares hanno avuto una posizione concorde: hanno presentato un piano programmatico per i prossimi anni (governance, economia, sociale) che, agli occhi della comunità internazionale, ha sortito l’effetto di rinsaldare la fiducia piuttosto vacillante nei confronti del nuovo esecutivo.

Scenario 2 / Washington e Bruxelles
Il piano è stato presentato a Kabul agli inizi di settembre, in un periodo di calma (apparente) dopo un’ondata
di attentati stragisti (alcuni dei quali senza rivendicazione) avvenuti in agosto. Nella capitale afgana si sono svolti due incontri internazionali cui hanno partecipato – ospiti del governo afgano e di Unama – una trentina di Paesi e decine di organizzazioni internazionali. Recca VI (sesta Regional Economic Cooperation Conference on Afghanistan) e Som (Senior Official Meeting) hanno tracciato soprattutto un quadro economico del Paese e delle sue aspettative di interconnesione nel mercato regionale e globale. Ma mentre il primo è stato un incontro eminentemente economico – «vogliamo – ha detto Ghani – rivitalizzare la Via della Seta e fare dell’Afghanistan un hub regionale per connettere l’Asia centrale a quella del Sud» – il secondo è stato più politico – anche se l’economia e i finanziamenti ne erano il focus principale – proprio perché si trattava di approvare le linee guida esposte dal governo. Quest’ultimo si è concluso con la conferma, fondamentale per il governo, che gli aiuti continueranno fino al 2030*. Nonostante il documento sottoposto alla comunità internazionale (Afghanistan’s Road to Self-Reliance: The First Mile) fosse soprattutto improntato a buoni propositi di riforma (dalla trasparenza alla lotta alla corruzione, dai diritti dei cittadini alla creazione di posti di lavoro) è risultato convincete l’approccio pragmatico e programmatico che aveva diviso il dossier in tre sezioni (Ciò che abbiamo promesso, Ciò che abbiamo fatto, Il prossimo passo). Il documento teneva in conto le promesse fatte nella Conferenza di Londra del 2014 e riusciva a tracciare una linea conseguente e realistica del suo piano di riforme risultata alla fine vincente. Su pace e sicurezza il documento restava abbastanza vago al di là delle parole di convenienza ma era anche stato partorito mentre di fatto erano iniziati i primi colloqui ufficiali di pace tra governo e guerriglia (benché poi saltati in seguito all’annuncio in luglio della morte di mullah Omar con tutte le conseguenze derivate). Dal punto di vista militare il Som non aveva mandato per toccare l’argomento. Ma – fino alla vicenda di Kunduz – il dossier militare si riteneva concluso con l’avvio della missione Nato Resolute Support (di solo addestramento e limitata nei numeri) e la presenza di alcune migliaia di soldati americani con compiti soprattutto di difesa della basi.

Scenario 3/ Shura di Quetta

La presa di Kunduz potrebbe adesso riaprire il capitolo militare come ha chiesto a gran voce Abdullah Abdullah, anche se non ci sono state aperture in questa direzione dai Paesi Nato o dagli americani stessi che hanno però garantito sostegno aereo durante la riconquista della città settentrionale. Il rilancio della guerra con un’azione eclatante sembra rispondere per i talebani a tre direttrici politico militari. La prima vorrebbe dimostrare che, nonostante le divisioni interne seguite all’annuncio della morte di Omar – sostituito non senza difficoltà da mullah Akhtar Mansur –, il movimento è ancora unito e così forte da poter attaccare una media città afgana. Il secondo è che, contrariamente al passato, l’offensiva vine questa volta da Nord (e non da Sud o Sudest) il che può dimostrare che la guerriglia intende stringere a tenaglia Kabul. Il terzo riguarda invece un messaggio probabilmente rivolto a Daesh, in rapida ascesa nel Paese (godrebbe della simpatia del 10 per cento dei talebani) e che ha accusato la dirigenza dei turbanti neri di non essere in grado di costruire, come in Siria o in Iraq, aree controllate militarmente e luoghi dove si viva secondo la sharia sotto un’amministrazione alternativa a “crociati” e governi corrotti.

Scenario 4/ Islamabad
Il quarto attore è per forza di cose il Pakistan. E’ difficile capire la sua strategia ma molti fattori concordano

nel far pensare che Islamabad si sia convinta da almeno un anno che la strada del negoziato di pace, purché in qualche modo controllato dal Pakistan, sia la soluzione migliore, soprattutto in chiave interna dal momento che la guerra afgana ormai destabilizza il Pakistan alimentando la forza dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taleban Pakistan), i cugini oltre frontiera dei talebani afgani: molto più crudeli e stragisti e soprattutto nemici più di Islamabad che di Washington. L’annuncio della morte di Omar, scompaginando le carte in tavola, ha finito per far saltare il tavolo negoziale imbastito da Islamabad, che sembrerebbe avere in mullah Mansur un buon alleato di cui fidarsi e su cui far valere una certa pressione. Ma dopo l’annuncio della fine di Omar, con l’inizio di una lunga querelle interna ai talebani sul futuro del vertice del movimento, una serie di attentati stragisti ad agosto ha rimesso in discussione il futuro del negoziato. Gli ambienti più anti pachistani di Kabul (riconducibili soprattutto ad Abdullah, ai circoli vicini a Karzai, a settori dell’intelligence e dell’esercito) hanno avuto facile gioco a dirottare anche Ghani – inizialmente favorevole a una politica della porta aperta verso Islamabad – sui posizione meno morbide, minando decisamente il cammino negoziale, iniziato – ben prima che coi talebani – tra Kabul e Islamabad per stemperare le tensioni tra i due Paesi. In questo quadro ancora molto confuso e dove la guerra torna protagonista le speranze di una pace vicina – o almeno di un cessate il fuoco – si allontanano.

*L’Italia, ad esempio, ha firmato negli stessi giorni un impegno di 28,6 mln di euro per il bypass di Herat

Msf Kunduz: un incidente? I medici senza frontiere vogliono la verità

Un estratto dell’intervista apparsa oggi su il manifesto

«Danni collaterali? Inaccettabile, semplicemente inaccettabile. Incidente? Non è stato un incidente: l’ospedale è stato colpito ripetutamente per più di mezzora». Non è una reazione rabbiosa quella di Gabriele Eminente, direttore generale di Msf Italia. Al telefono da Ferrara. dove partecipa con la sua organizzazione al Festival di Internazionale, risponde con una freddezza e un distacco che non lasciano spazio a commenti o arzigogoli. Msf ha iniziato a lavorare in Afghanistan nel 1980 e lo fa a Kunduz, Kabul, Lashkar Gah, Khost; riceve esclusivamente fondi privati e non accetta finanziamenti dai governi. Ci tiene ai principi «E c’è un principio umanitario chiarissimo e condiviso per cui non solo le strutture sanitarie non dovrebbero essere oggetto di attacco ma anzi andrebbero protette»
Anche se ci sono dei feriti dalla parte del torto?
Noi non facciamo distinzioni, non le abbiamo mai fatte. Chiunque ha bisogno di cure viene curato
L’ospedale adesso è distrutto
E devo purtroppo confermare che, a ora (le 20 di ieri ndr), ci sono 12 vittime tra il personale e 7 tra i pazienti, tra cui 3 bambini. I feriti sono 37, 19 dei quali fanno parte del nostro staff. 5 casi sono critici. Abbiamo dovuto trasferirli tutti a Pol-iCharki, a due ore di macchina da Kunduz
Come spiega che l’errore di cui parla la Nato sia durato tanto
Questo è davvero il punto che va assolutamente chiarito. E non si può parlare di “incidente”: tutti sapevano le nostre coordinate che erano state reiterate all’inizio della battaglia. L’ultima comunicazione è del 29 settembre. Questa per noi è una prassi: tutti devono sapere dove operiamo e cosa facciamo. Sia per potersi curare, sia perché – sapendo dove sono le nostre strutture – si eviti di colpirle. Tutti sapevano non solo dell’ospedale ma anche delle residenze, degli uffici e della nostra unità di stabilizzazione a Chardara (Nord di Kunduz ndr)
L’ipotesi di un atto deliberato?
E’ quel che andrà chiarito nel dettaglio perché siamo stati colpiti più volte e per oltre mezz’ora dopo che avevamo avvisato l’autorità militare che eravamo stati bombardati a partire dalle due di venerdi notte. Gravissimo. Chiediamo un’indagine approfondita e trasparente proprio perché l’ospedale è stato colpito più volte in modo reiterato ma non gli edifici vicini. L’aereo colpiva, spariva e ritornava a bombardare

Msf Kunduz: un incidente? I medici senza frontiere vogliono la verità

Un estratto dell’intervista apparsa oggi su il manifesto

«Danni collaterali? Inaccettabile, semplicemente inaccettabile. Incidente? Non è stato un incidente: l’ospedale è stato colpito ripetutamente per più di mezzora». Non è una reazione rabbiosa quella di Gabriele Eminente, direttore generale di Msf Italia. Al telefono da Ferrara. dove partecipa con la sua organizzazione al Festival di Internazionale, risponde con una freddezza e un distacco che non lasciano spazio a commenti o arzigogoli. Msf ha iniziato a lavorare in Afghanistan nel 1980 e lo fa a Kunduz, Kabul, Lashkar Gah, Khost; riceve esclusivamente fondi privati e non accetta finanziamenti dai governi. Ci tiene ai principi «E c’è un principio umanitario chiarissimo e condiviso per cui non solo le strutture sanitarie non dovrebbero essere oggetto di attacco ma anzi andrebbero protette»
Anche se ci sono dei feriti dalla parte del torto?
Noi non facciamo distinzioni, non le abbiamo mai fatte. Chiunque ha bisogno di cure viene curato
L’ospedale adesso è distrutto
E devo purtroppo confermare che, a ora (le 20 di ieri ndr), ci sono 12 vittime tra il personale e 7 tra i pazienti, tra cui 3 bambini. I feriti sono 37, 19 dei quali fanno parte del nostro staff. 5 casi sono critici. Abbiamo dovuto trasferirli tutti a Pol-iCharki, a due ore di macchina da Kunduz
Come spiega che l’errore di cui parla la Nato sia durato tanto
Questo è davvero il punto che va assolutamente chiarito. E non si può parlare di “incidente”: tutti sapevano le nostre coordinate che erano state reiterate all’inizio della battaglia. L’ultima comunicazione è del 29 settembre. Questa per noi è una prassi: tutti devono sapere dove operiamo e cosa facciamo. Sia per potersi curare, sia perché – sapendo dove sono le nostre strutture – si eviti di colpirle. Tutti sapevano non solo dell’ospedale ma anche delle residenze, degli uffici e della nostra unità di stabilizzazione a Chardara (Nord di Kunduz ndr)
L’ipotesi di un atto deliberato?
E’ quel che andrà chiarito nel dettaglio perché siamo stati colpiti più volte e per oltre mezz’ora dopo che avevamo avvisato l’autorità militare che eravamo stati bombardati a partire dalle due di venerdi notte. Gravissimo. Chiediamo un’indagine approfondita e trasparente proprio perché l’ospedale è stato colpito più volte in modo reiterato ma non gli edifici vicini. L’aereo colpiva, spariva e ritornava a bombardare

Kunduz, strage all’ospedale (aggiornato)

Secondo la Nato i bombardamenti mirati su Kunduz in appoggio alle forze armate afgane si limiterebbero alle retrovie talebane proprio per evitare vittime civili. Ma ecco l’inevitabile “errore”.  Medici senza frontiere  ha denunciato che stanotte un raid aereo ha colpito il suo ospedale in città uccidendo almeno 19 persone tra cui operatori sanitari della struttura e pazienti (anche banìmbini). Almeno 37 i feriti  tra cui 19 dello staff medico e paramedico di Msf. 5 sono gravi.  Secondo la Nato “potrebbe” essersi trattato di un bombardamento americano che ha sbagliato obiettivo:  “effetti collaterali”. Ma per Msf non si può parlare di incidente. Non si sa ancora tutto sulle altre vittime civili imputabili ai raid (e così per la battaglia di terra tra talebani e governo) ma questo primo effetto collaterale potrebbe benissimo non essere l’ultimo. L’ospedale è stato colpito più volte a partire dalle 2.10 di stamane (ora locale) “eppure tutti – ha detto Loris De Filippi di Msf Italia stamane a Radiopopolare  – conoscono la sua posizione”.

Aggiornato alle 19 20 (in seguito i decessi sono arrivati a 22)

Kunduz, strage all’ospedale (aggiornato)

Secondo la Nato i bombardamenti mirati su Kunduz in appoggio alle forze armate afgane si limiterebbero alle retrovie talebane proprio per evitare vittime civili. Ma ecco l’inevitabile “errore”.  Medici senza frontiere  ha denunciato che stanotte un raid aereo ha colpito il suo ospedale in città uccidendo almeno 19 persone tra cui operatori sanitari della struttura e pazienti (anche banìmbini). Almeno 37 i feriti  tra cui 19 dello staff medico e paramedico di Msf. 5 sono gravi.  Secondo la Nato “potrebbe” essersi trattato di un bombardamento americano che ha sbagliato obiettivo:  “effetti collaterali”. Ma per Msf non si può parlare di incidente. Non si sa ancora tutto sulle altre vittime civili imputabili ai raid (e così per la battaglia di terra tra talebani e governo) ma questo primo effetto collaterale potrebbe benissimo non essere l’ultimo. L’ospedale è stato colpito più volte a partire dalle 2.10 di stamane (ora locale) “eppure tutti – ha detto Loris De Filippi di Msf Italia stamane a Radiopopolare  – conoscono la sua posizione”.

Aggiornato alle 19 20 (in seguito i decessi sono arrivati a 22)

La guerra a Kunduz colpisce Kabul

La prima offensiva dell’esercito afgano e delle forze speciali con l’appoggio degli americani per strappare Kunduz ai talebani è stata lanciata mercoledi notte alle 11 e ieri, in parte, è stato ripreso il controllo della città. Ma la battaglia va avanti. Va avanti a Kunduz, in varie zone limitrofe e lungo la grande strada Baghlan Kunduz che è il tratto stradale più importante di tutto il Nord dell’Afghanistan, mentre in centro i talebani tentano di riconquistare le posizioni perdute nella notte. La battaglia infuria sul terreno ma anche nelle aule del parlamento dove piovono accuse e minacce che imbarazzo il governo e che mettono sotto i riflettori il governatore della città settentrionale.

Nel mrino c’è infatti Omar Safai (all’estero al momento dell’attacco), accusato dallo speaker del Parlamento Abdul Rauf di inesperienza e irresponsabilità: un colpo duro per il presidente Ashraf Ghani, cui spetta la nomina dei governatori delle province.

A ormai cinque giorni dalla clamorosa sortita talebana, l’Afghanistan fa i conti con la prima vera dimostrazione di forza della guerriglia che è segnata da almeno tre elementi: una sfida che viene per la prima volta da Nord e non da Sud; una mossa che rivela o tende a dimostrare che, nonostante la querelle interna seguita alla morte di mullah Omar, i talebani sono forti e compatti; infine una dimostrazione sul terreno alle cellule di Daesh in rapida ascesa nel Paese e che accusano i talebani di non essere stati capaci di costruire, come in Siria o in Iraq, aree controllate dalla guerriglia dove si viva islamicamente sotto un’amministrazione alternativa a crociati e governi corrotti.
Se la città sta già collezionando le sue macerie e la resistenza talebana è difficile da sradicare, la tensione della guerra al Nord si riflette intanto su Kabul. Mentre il presidente Ghani promette una rapida riconquista e istituisce tre commissione per individuare le responsabilità della caduta della città e individuare “spie”, il suo vice Abdullah chiede che le truppe occidentali continuino a sostenere un Paese che, ai suoi occhi, da solo non può farcela. Un appello condito da accuse feroci al Pakistan, reo di continuare l’appoggio alla guerriglia: un Paese cui invece Ghani aveva teso inizialmente la mano. Le accuse al Pakistan arrivano anche dal ministro della Difesa, Bismillah Khan Mohammadi, e dal vice comandante dell’esercito nazionale, Murad Ali Murad, secondo cui il piano di attacco a Kunduz è stato pianificato dall’Isi, i servizi segreti di Islamabad. La guerra al Nord spacca dunque il cuore politico del Paese e rimarca la differenza di vedute all’interno dell’amministrazione. Seppellendo per ora ogni spiraglio negoziale tra governo e guerriglia.

La guerra a Kunduz colpisce Kabul

La prima offensiva dell’esercito afgano e delle forze speciali con l’appoggio degli americani per strappare Kunduz ai talebani è stata lanciata mercoledi notte alle 11 e ieri, in parte, è stato ripreso il controllo della città. Ma la battaglia va avanti. Va avanti a Kunduz, in varie zone limitrofe e lungo la grande strada Baghlan Kunduz che è il tratto stradale più importante di tutto il Nord dell’Afghanistan, mentre in centro i talebani tentano di riconquistare le posizioni perdute nella notte. La battaglia infuria sul terreno ma anche nelle aule del parlamento dove piovono accuse e minacce che imbarazzo il governo e che mettono sotto i riflettori il governatore della città settentrionale.

Nel mrino c’è infatti Omar Safai (all’estero al momento dell’attacco), accusato dallo speaker del Parlamento Abdul Rauf di inesperienza e irresponsabilità: un colpo duro per il presidente Ashraf Ghani, cui spetta la nomina dei governatori delle province.

A ormai cinque giorni dalla clamorosa sortita talebana, l’Afghanistan fa i conti con la prima vera dimostrazione di forza della guerriglia che è segnata da almeno tre elementi: una sfida che viene per la prima volta da Nord e non da Sud; una mossa che rivela o tende a dimostrare che, nonostante la querelle interna seguita alla morte di mullah Omar, i talebani sono forti e compatti; infine una dimostrazione sul terreno alle cellule di Daesh in rapida ascesa nel Paese e che accusano i talebani di non essere stati capaci di costruire, come in Siria o in Iraq, aree controllate dalla guerriglia dove si viva islamicamente sotto un’amministrazione alternativa a crociati e governi corrotti.
Se la città sta già collezionando le sue macerie e la resistenza talebana è difficile da sradicare, la tensione della guerra al Nord si riflette intanto su Kabul. Mentre il presidente Ghani promette una rapida riconquista e istituisce tre commissione per individuare le responsabilità della caduta della città e individuare “spie”, il suo vice Abdullah chiede che le truppe occidentali continuino a sostenere un Paese che, ai suoi occhi, da solo non può farcela. Un appello condito da accuse feroci al Pakistan, reo di continuare l’appoggio alla guerriglia: un Paese cui invece Ghani aveva teso inizialmente la mano. Le accuse al Pakistan arrivano anche dal ministro della Difesa, Bismillah Khan Mohammadi, e dal vice comandante dell’esercito nazionale, Murad Ali Murad, secondo cui il piano di attacco a Kunduz è stato pianificato dall’Isi, i servizi segreti di Islamabad. La guerra al Nord spacca dunque il cuore politico del Paese e rimarca la differenza di vedute all’interno dell’amministrazione. Seppellendo per ora ogni spiraglio negoziale tra governo e guerriglia.

Bombardare Kunduz

I raid su Kunduz non sono soltanto un fatto odioso perché bombardare una città significa automaticamente produrre vittime civili certe. E’ sbagliato dal punto di vista politico, poiché diminuisce le già labili speranze di un negoziato di pace. Ed è inefficace dal punto di vista militare come ormai la storia recente, dall’Irak alla Siria passando ovviamente per l’Afghanistan, sembra aver ampiamente accertato. Kunduz tra l’altro, è bene ricordarlo, è stata già teatro di una strage: nel 2009, aerei della Nato, chiamati in soccorso da un colonnello tedesco, bombardarono in quella provincia centinaia di persone che stavano tentando di spillare gasolio da due autobotti, poco prima sequestrate dalla guerriglia. La strage di Kunduz è uno dei tanti episodi orribili di questa guerra che, in quel caso come in altri, aveva reso più evidente la tragica beffa degli “effetti collaterali”. Conditi da un’altra beffa ancora: a Bonn, quattro anni dopo, un tribunale respinse la domanda di risarcimento di decine di famigliari delle vittime che in totale – secondo l’avvocato delle famiglie – erano state 137. Il nome del responsabile, come nella favola omerica, rimase “Nessuno”.


Quei raid aerei sono odiosi anche per questo e la loro evoluzione, il drone senza pilota, è la massima aspirazione di un modus operandi che militarmente -e politicamente – ha una sola funzione: terrorizzare. O meglio, spaventare il nemico (di solito protetto da bunker o elmetti) terrorizzando la popolazione civile. In quel caso funzionano egregiamente: come provano le guerre a Gaza, “vittoriose” su un popolo decimato da bombe intelligenti.

A chi non è sensibile al lato umano, si può ben contestare che, nella maggior parte dei casi, i bombardamenti sono inefficaci per vincere la guerra come ben dimostra il caso afgano. Dopo 15 anni di raid i talebani sono ancora lì. Servono allora più truppe di terra magari straniere e ben addestrate? L’Afghanistan, che truppe straniere ne ha contate sino a 130mila, anche in questo caso dimostra il contrario.

Bombardare Kunduz

I raid su Kunduz non sono soltanto un fatto odioso perché bombardare una città significa automaticamente produrre vittime civili certe. E’ sbagliato dal punto di vista politico, poiché diminuisce le già labili speranze di un negoziato di pace. Ed è inefficace dal punto di vista militare come ormai la storia recente, dall’Irak alla Siria passando ovviamente per l’Afghanistan, sembra aver ampiamente accertato. Kunduz tra l’altro, è bene ricordarlo, è stata già teatro di una strage: nel 2009, aerei della Nato, chiamati in soccorso da un colonnello tedesco, bombardarono in quella provincia centinaia di persone che stavano tentando di spillare gasolio da due autobotti, poco prima sequestrate dalla guerriglia. La strage di Kunduz è uno dei tanti episodi orribili di questa guerra che, in quel caso come in altri, aveva reso più evidente la tragica beffa degli “effetti collaterali”. Conditi da un’altra beffa ancora: a Bonn, quattro anni dopo, un tribunale respinse la domanda di risarcimento di decine di famigliari delle vittime che in totale – secondo l’avvocato delle famiglie – erano state 137. Il nome del responsabile, come nella favola omerica, rimase “Nessuno”.


Quei raid aerei sono odiosi anche per questo e la loro evoluzione, il drone senza pilota, è la massima aspirazione di un modus operandi che militarmente -e politicamente – ha una sola funzione: terrorizzare. O meglio, spaventare il nemico (di solito protetto da bunker o elmetti) terrorizzando la popolazione civile. In quel caso funzionano egregiamente: come provano le guerre a Gaza, “vittoriose” su un popolo decimato da bombe intelligenti.

A chi non è sensibile al lato umano, si può ben contestare che, nella maggior parte dei casi, i bombardamenti sono inefficaci per vincere la guerra come ben dimostra il caso afgano. Dopo 15 anni di raid i talebani sono ancora lì. Servono allora più truppe di terra magari straniere e ben addestrate? L’Afghanistan, che truppe straniere ne ha contate sino a 130mila, anche in questo caso dimostra il contrario.

La morte di Tavella e i progetti di Daesh

A distanza di un giorno dall’uccisione a sangue freddo del cooperante italiano Cesare Tavella l’altro ieri sera a Dacca, le notizie dal Paese asiatico si limitano a una ricostruzione più dettagliata dell’omicidio e a una presa di distanze dalla rivendicazione di Daesh, postata sul web subito dopo l’omicidio condita da minacce e dalla soddisfazione di aver eliminato un «crociato», termine classico anche del vocabolario qaedista. Ieri il ministro dell’Interno del Bangladesh Asaduzzaman Khan Kamal ha sostenuto in una conferenza stampa che, al momento, non ci sono prove che l’omicidio sia stato eseguito da una cellula dello Stato islamico e ha invitato gli occidentali a non farsi prendere dal panico e ad avere fiducia nelle forze di polizia locale e nelle indagini. Indagini che sono state affidate a un’unità speciale della polizia formata ad hoc e composta da agenti con ruoli e specialità diverse, guidata da Rezaul Haider, polizotto che è un soprintendente del Dipartimento investigativo criminale.


La ricostruzione del delitto aggiunge le testimonianze di gente che si trovava a Gulshan, la zona diplomatica di Dacca. I testimoni dicono di aver visto i criminali arrivare in motocicletta e sparare al cooperante alle spalle, colpendolo con tre proiettili, due dei quali gli hanno trapassato il corpo. La dinamica può far immaginare un agguato premeditato ai danni dell’italiano ma anche far pensare a un colpo sparato nel mucchio dei tanti residenti stranieri della zona. Dunque solo un caso, forse, che si trattasse di Cesare Tavella, un cinquantenne con una lunga esperienza alle spalle in varie zone del mondo e al lavoro per un’organizzazione olandese che si definisce “interreligiosa”, motivo che ha fatto pensare che invece il target fosse un cristiano, italiano o olandese che fosse. Comunque “bianco”. A 24 ore dalla sua morte, avvenuta poco dopo le sei del pomeriggio quando a Dacca ormai scende il buio della sera, non c’erano ancora stati arresti anche se è molto probabile che qualcosa accadrà nelle prossime ore vista la reazione soprattutto europea (dell’Unione europea ma anche di singoli Paesi) all’uccisione del cooperante italiano. Quanto ad altre ipotesi, come quella della rapina, sono state scartate visto che Tavella aveva ancora tutti i suoi effetti personali addosso.


Gli aggressori, dicono le prime testimonianze, sarebbero stati tre: due ragazzi sui vent’anni, forse gli esecutori materiali, e un terzo uomo che li aspettava vicino a una moto su cui poi i tre si sarebbero dati alla fuga. Non sarà facile trovarli nel complesso reticolo islamista di un Paese dove la presenza di Al Qaeda si mescola a un paesaggio jihadista locale abbastanza fiorente e dove Daesh muove i primi passi. Stando a quanto dichiarato dal ministro Asaduzzaman Khan Kamal proprio ieri, Daesh in Bangladesh non avrebbe che qualche elemento ancora non in grado di farne una forza organizzata e tutti i sospettati di aver a che fare con lo Stato islamico sarebbero stati arrestati. Tra questi, a gennaio, il coordinatore del progetto bangladeshi di Daesh, come attesta anche un rapporto dell’Onu. In luglio per altro, la stampa americana aveva dato notizia di un documento di Daesh di 32 pagine, ritenuto credibile e tradotto dall’urdu dall’American Media Institute, secondo cui il califfato, oltre al progetto di un Grande Khorasan affiliato a Daesh (che comprenderebbe Afghanistan e Pakistan dove il nuovo gruppo jihadista sta conquistando terreno) mediterebbe una strategia che dovrebbe portare la guerra anche in India, proprio a partire dalle basi afgano pachistane. Lo scopo sarebbe soprattutto quello di trascinare gli Stati uniti in un confitto nel subcontinente sperando di galvanizzare e coalizzare la comunità dei credenti contro il nemico numero uno. In India Daesh potrebbe contare su 180 milioni di musulmani e così nel vicino Bangladesh, dove degli oltre 150 milioni di abitanti, nove su dieci sono di religione islamica.


Al momento però Daesh sembra ancora molto indietro nel suo lavoro di reclutamento in Bangladesh. E’ soprattutto in Afghanistan che il califfato sta guadagnando nuovi adepti: secondo un rapporto del Gruppo di monitoraggio dell’Onu sulle attività qaediste e di altri gruppi jihadisti, Daesh avrebbe conquistato un numero crescente di simpatizzanti e reclutato seguaci in 25 delle 34 province del Paese, un elemento confermato dall’antiterrorismo afgano secondo cui – dice il rapporto – il 10% dei guerriglieri talebani vedrebbero di buon occhio l’avvento di Daesh. Ma la distanza dal Bangladesh, nonostante i piani del califfo, è ancora molta.

La morte di Tavella e i progetti di Daesh

A distanza di un giorno dall’uccisione a sangue freddo del cooperante italiano Cesare Tavella l’altro ieri sera a Dacca, le notizie dal Paese asiatico si limitano a una ricostruzione più dettagliata dell’omicidio e a una presa di distanze dalla rivendicazione di Daesh, postata sul web subito dopo l’omicidio condita da minacce e dalla soddisfazione di aver eliminato un «crociato», termine classico anche del vocabolario qaedista. Ieri il ministro dell’Interno del Bangladesh Asaduzzaman Khan Kamal ha sostenuto in una conferenza stampa che, al momento, non ci sono prove che l’omicidio sia stato eseguito da una cellula dello Stato islamico e ha invitato gli occidentali a non farsi prendere dal panico e ad avere fiducia nelle forze di polizia locale e nelle indagini. Indagini che sono state affidate a un’unità speciale della polizia formata ad hoc e composta da agenti con ruoli e specialità diverse, guidata da Rezaul Haider, polizotto che è un soprintendente del Dipartimento investigativo criminale.


La ricostruzione del delitto aggiunge le testimonianze di gente che si trovava a Gulshan, la zona diplomatica di Dacca. I testimoni dicono di aver visto i criminali arrivare in motocicletta e sparare al cooperante alle spalle, colpendolo con tre proiettili, due dei quali gli hanno trapassato il corpo. La dinamica può far immaginare un agguato premeditato ai danni dell’italiano ma anche far pensare a un colpo sparato nel mucchio dei tanti residenti stranieri della zona. Dunque solo un caso, forse, che si trattasse di Cesare Tavella, un cinquantenne con una lunga esperienza alle spalle in varie zone del mondo e al lavoro per un’organizzazione olandese che si definisce “interreligiosa”, motivo che ha fatto pensare che invece il target fosse un cristiano, italiano o olandese che fosse. Comunque “bianco”. A 24 ore dalla sua morte, avvenuta poco dopo le sei del pomeriggio quando a Dacca ormai scende il buio della sera, non c’erano ancora stati arresti anche se è molto probabile che qualcosa accadrà nelle prossime ore vista la reazione soprattutto europea (dell’Unione europea ma anche di singoli Paesi) all’uccisione del cooperante italiano. Quanto ad altre ipotesi, come quella della rapina, sono state scartate visto che Tavella aveva ancora tutti i suoi effetti personali addosso.


Gli aggressori, dicono le prime testimonianze, sarebbero stati tre: due ragazzi sui vent’anni, forse gli esecutori materiali, e un terzo uomo che li aspettava vicino a una moto su cui poi i tre si sarebbero dati alla fuga. Non sarà facile trovarli nel complesso reticolo islamista di un Paese dove la presenza di Al Qaeda si mescola a un paesaggio jihadista locale abbastanza fiorente e dove Daesh muove i primi passi. Stando a quanto dichiarato dal ministro Asaduzzaman Khan Kamal proprio ieri, Daesh in Bangladesh non avrebbe che qualche elemento ancora non in grado di farne una forza organizzata e tutti i sospettati di aver a che fare con lo Stato islamico sarebbero stati arrestati. Tra questi, a gennaio, il coordinatore del progetto bangladeshi di Daesh, come attesta anche un rapporto dell’Onu. In luglio per altro, la stampa americana aveva dato notizia di un documento di Daesh di 32 pagine, ritenuto credibile e tradotto dall’urdu dall’American Media Institute, secondo cui il califfato, oltre al progetto di un Grande Khorasan affiliato a Daesh (che comprenderebbe Afghanistan e Pakistan dove il nuovo gruppo jihadista sta conquistando terreno) mediterebbe una strategia che dovrebbe portare la guerra anche in India, proprio a partire dalle basi afgano pachistane. Lo scopo sarebbe soprattutto quello di trascinare gli Stati uniti in un confitto nel subcontinente sperando di galvanizzare e coalizzare la comunità dei credenti contro il nemico numero uno. In India Daesh potrebbe contare su 180 milioni di musulmani e così nel vicino Bangladesh, dove degli oltre 150 milioni di abitanti, nove su dieci sono di religione islamica.


Al momento però Daesh sembra ancora molto indietro nel suo lavoro di reclutamento in Bangladesh. E’ soprattutto in Afghanistan che il califfato sta guadagnando nuovi adepti: secondo un rapporto del Gruppo di monitoraggio dell’Onu sulle attività qaediste e di altri gruppi jihadisti, Daesh avrebbe conquistato un numero crescente di simpatizzanti e reclutato seguaci in 25 delle 34 province del Paese, un elemento confermato dall’antiterrorismo afgano secondo cui – dice il rapporto – il 10% dei guerriglieri talebani vedrebbero di buon occhio l’avvento di Daesh. Ma la distanza dal Bangladesh, nonostante i piani del califfo, è ancora molta.

Afghanistan, l’offensiva di Kunduz


Un intervento al radiogiornale della Radio svizzera sull’offensiva talebana a Kunduz mentre il presidente Ghani promette la ripresa della città.: perché i raid aerei americani non mi sembrano una buona idea. Il podcast  qui .
L’analisi per Radiopopolare invece qui. Oltreradio qui.

Letture consigliate: i talebani pachistani secondo Al Jazeera


Dopo l’attacco a un campo militare dell’esercito avvenuto ieri a Peshawar (42 morti tra cui 13 guerriglieri) e considerato l’attacco peggiore compiuto dai talebani pachistani (Ttp) dopo quello alla scuola militare della stessa città l’anno scorso in dicembre, è importante capire cos’è e come agisce il Tehreek Taleban Pakistan o Ttp.

Ci aiuta a farlo un’infografica di Al Jazeera (che in parte riproduco a lato) ben fatta e la cui lettura, in breve, fa il punto. Con nomi e cognomi.

 Buona lettura

Ritorno a Radio3

Dopo due anni di assenza dalla mia emittente preferita (con Radio Popolare), sono tornato a Radio3 con e la puntata odierna dedicata alle elezioni parlamentari del 2005 in Afghanistan. Una breve storia delle consultazioni elettorali che spiega in modo evidente come non sia affatto vero che la democrazia l’abbiamo insegnata noi… In onda oggi dalle 14 alle 14,30
Wikiradio

Regia di Antonella Borghi
Programma a cura di Loredana Rotundo
con Lorenzo Pavolini e Roberta Vespa

qui in diretta
qui in podcast

Repertorio

– una corrispondenza dell’inviato del GR2 alla vigilia delle elezioni parlamentari in Afghanistan (Radio2, 17 settembre 2005)

– la cronaca della giornata elettorale dall’inviato del GR2 in Afghanistan (Radio2, 19 settembre 2005)

– due sequenze dal film Viaggio a Kandahar (2001), del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf che lo girò in parte in Afghanistan durante il regime talebano

Brani musicali

– Inno nazionale dell’Afghanistan (“Milli Surood”), composto nel 2006 e adottato nell’era post talebana

– Inno nazionale dell’Unione Sovietica nell’esecuzione del Red Army Choir, diretto da Boris Alexandrov

– Tula and zerbaghali di Ghulam Haider (dall’album Afghanistan – Music from Kabul, ed. Lyrichord Discs 2005)

– Mola Mamad Djan (tradizione afghana e persiana), dall’album Orient-Occident di Jord Savall, nell’esecuzione dell’ensemble Hespèrion XXI (ed. Alia Vox)

Scarpe: il momento di cambiare passo

Le jutti indiane: diffusissime
ma sempre di meno

Al bazar di Bombay, un paio di jutti senza decorazione – la tradizionale scarpa di cuoio originaria dell’India del Nord – può costare un paio di euro. Si arriva a dieci se si compra il modello con plantare che si trova, seppur ormai con difficoltà, nei negozi di calzature di lusso. Anche molti indiani infatti hanno smesso di portarle per preferirgli copie di modelli stranieri o originali che hanno gli stessi prezzi delle vetrine italiane.

 Può sembrar buffo non trovare quasi più le jutti “base” (quelle istoriate per i matrimoni si comprano nei negozi specializzati) nel Paese che le ha inventate: ma anche questo è un effetto della globalizzazione che ha investito l’India, sino all’altro ieri la nazione più tradizionalista del mondo in fatto di moda. Il paradosso è poi che gran parte delle “originali” straniere vengono fabbricate proprio nell’Unione. A salari spesso ridicoli e con un ricarico per l’ideatore del modello che, grazie a una manodopera ampia e a basso costo, fa la sua fortuna su ogni stringa allacciata o sulle décolleté.

Nel mondo si fabbricano ogni anno circa 22 miliardi di paia di scarpe che per l’87% sono prodotte in Asia. La Cina fa la parte del leone e si stima che su tre paia di scarpe due siano Made in China. Quelle di buona qualità, quelle in cuoio come le jutti, sono sempre un patrimonio cinese: il 40% del totale. Poi ci sono Italia e Messico (col 6% di quota di mercato ciascuno), Brasile e, appunto, India dove si fabbrica il 4% delle scarpe del mondo. In termini percentuali vuol dire che l’Unione indiana produce poco meno di 900 milioni di paia di scarpe. E’ chiaro che non sono fatte solo per il mercato interno, in una Paese dove nemmeno tutti le hanno ai piedi dove per lo più si sfoggiano infradito.

Infradito: fabbricate
ovunque, portate
 da mezzo mondo

Diciotto organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani – dall’austriaca Südwind Agentur all’Italiana Abiti Puliti, dal Trade Union Rights Centre indonesiano all’indiana Society for Labour and Development – hanno deciso di vederci chiaro in un mondo che, come quello del tessile o degli accessori, nasconde spesso violazioni di diritti elementari tra cui quello di avere un salario dignitoso per il proprio lavoro. Se le scarpe sono nel cuore e negli armadi di tutti noi – uomini e donne senza distinzione – lontano dal cuore e dagli occhi è la realtà di chi le produce. Così lontana che, forse per la prima volta, qualcuno tenta di far fare un nuovo salto alla nostra coscienza: oltre le magliette prodotte in Bangladesh o i palloni e i tappeti assemblati in Pakistan.

 Si, certo, case importanti come la Nike sono già entrate nell’occhio del ciclone e per battaglie transnazionali che hanno ottenuto risultati. Ma ora la Campagna “Change Your Shoes” (Cambia le scarpe) si propone di far capire a tutti cosa c’è dietro il mondo delle calzature: oltre alle violazioni e al problema dei salari, l’impatto ambientale ad esempio o la scarsa trasparenza sui prodotti con cui camminiamo ogni giorno….

 (continua su Lettera22)

* Per saperne di più:clicca qui

Aiuti a Kabul fino al 2030

L’afghani continua a perdere rispetto a dollaro ed euro

Nel silenzio generale qualcosa è successo a Kabul in questi giorni. Vi si sono appena conclusi due incontri internazionali affatto secondari cui hanno partecipato – ospiti del governo e di Unama –  una trentina di Paesi e decine di organizzazioni internazionali. Di che si tratta? Del Recca VI (Regional Economic Cooperation Conference on Afghanistan) e del  Som (Senior Official Meeting).
Il primo è un incontro eminentemente economico, il secondo più politico (ha partecipato anche l’Italia, che tra l’altro ha appena firmato per 28,6 mln di euro per il bypass di Herat ) ma non meno significativo dal punto di vista degli aiuti al Paese che continueranno sin al 2030. Per il governo a due teste di Ashraf Ghani è un buon risultato anche se si fa fatica, salvo rare eccezioni, a trovare la notizia. Quella buona è dunque che i soldi continueranno ad arrivare anche se non è chiaro in che quantità. Quella cattiva è che le cose non vanno affatto bene benché il governo abbia superato l’esame del Som per il quale aveva preparato un documento programmatico di buone intenzioni.

La carta moneta al d tempo di Daud Khan

Il campanello d’allarme viene dalla Wolrd Bank. La Banca  mondiale infatti ha  rivisto al ribasso le sue previsioni: Cassandre iettatrici? Purtroppo non sembra essere così. Dopo una crescita quasi a due cifre del 9% annuo dal 2001, si è fatta adesso una stima del 2,5% quest’anno. Ma adesso la World Bank la stima sul breve periodo  la fa a meno del 2% per il 2015, con problemi di occupazione e sviluppo – per non dire della guerra – tutti da risolvere. Compreso l’annoso problema di dazi e tasse che è ancora difficile raccogliere.

La verità del vescovo

Nel gennaio scorso ho scritto una serie di servizi per il manifesto dallo Sri Lanka. Ieri, in vista della  pubblicazione del rapporto della Commissione Onu per i diritti umani, ne ho scritto ancora allegando una breve intervista al presule di Mannar, monsignor Rayappu. Qui ne do conto con più particolari.
Mannar– La città di Vavunya si trova alla base di una sorta di triangolo territoriale che grosso modo include le regioni tamil nel Nord e nel Nordest dello Sri Lanka. E’ una sorta di porta d’accesso (o di uscita) da cui si può accedere – passando dalla città di Killinochi (la “capitale” delle Tigri tamil durante la guerra) – a Jaffna, la capitale del Nord, o a Mullaitivu nell’Est (dove si verificò nel 2009 la strage che portò alla sconfitta defintiva delle Tigri) o ancora all’isola di Mannar a Ovest. Ognuno di questi punti cardinali ha sofferto la sua tragedia durante un conflitto durato quasi trent’anni e conlusosi con un massacro che, secondo la commissione d’indagine Onu sarebbe responsabile di circa 40mila vittime: un numero enorme che il governo ha sempre contestato e che secondo altri è per difetto. Un numero impressionate perché la strage avvenne anche in zone di salvaguardia dichiarate no fly zone e comprende – oltre alle Tigri per la liberazione del Tamil Eelam (Ltte) civili locali e sfollati scappati da altre zone del Paese e concentratesi, alla vigilia dell’assalto finale, in un fazzoletto di terra a Nordest, a Sud du Mullaitivu. Tutto si svolse in pochi mesi, dall’ottobre 2008 a febbraio 2009 quando arrivò la spallata finale. Il mondo era allora alle prese con l’operazione Piombo fuso a Gaza e prestò poca attenzione a quel che accadeva nella “lacrima dell’India”, nella Perla dell’Oceano indiano, metà di turisti in cerca di spiagge assolate e di sabbia finissima circondate da stupa buddisti che inneggiano alla compassione. Ora anche il turismo comincia a far capolino nel Nord del Paese. Un’avanguardia ancora solitaria e scoraggiata, fino a a metà gennaio scorso, da permessi da richiedere e continui check point cui mostrare passaporti e lasciapassare.
Tra chi ritiene che i 40mila scomparsi siano in realtà molti di più c’è il vescovo di Mannar, Joseph Rayappu, un uomo noto per la franchezza con cui parla e la 

Aree rivendicate dai secessionisti tamil

risolutezza con cui ha sempre condotto la sua personale battaglia di verità su quei tragici cinque mesi sepolti ormai da una pace imposta col pugno di ferro dall’ex presidente Mahinda Rjapaksa, sconfitto alle elezioni del gennaio scorso da un suo sodale di partito che, alla vigilia del voto, si è proposto come candidato sbaragliandolo inaspettatamente. La residenza del presule si trova alla periferia della cittadina di Mannar, sull’omonima isola a una cinquantina di chilometri da Vavunya. I lavori di ristrutturazione della vecchia stazione sono allo stadio finale e tra poco anche il treno tornerà a sottrarre passeggeri agli autobus mal in arnese e sempre stracolmi che collegano l’isola alla terraferma attraverso un ponte di tre chilometri che sovrasta terre basse inondate dalle alluvioni monsoniche in inverno o dalla furia del mare, il cui livello è spesso più alto della costa, piena di sbarramenti per convogliare l’acqua dolce o impedire a quella salta di penetrare.


La bandiera dei secessionisti, le “Tigri”
Rayappu fu accusato
 di stare dalla loro parte

«Quarantamila morti? No – allarga le braccia il primate – le vittime furono di più, molte di più. Le cifre sono qua, minuziosamente lette e rilette, confrontando i dati ufficiali delle statistiche prima di quel dannato periodo. E parlano chiaro: la differenza tra chi abitava in quelle aree prima e chi ci viveva dopo, con l’aggiunta degli sfollati che vi si erano ritrovati, dà ben altra cifra, precisa alla singola unità: 146.679. Scomparsi, ma con nome e cognome. Tra loro vi sono i mariti di 89mila vedove. Il resto sono bambini, giovani ragazze, anziani… Alcuni dei sopravvissuti sono qui, in una casa di riposo al di là del muro. I primi sessanta li andai a prendere io stesso». Padre Joseph è sicuro. Così sicuro da portare i suoi dati alla Commissione istituita dal governo per conoscere la verità. «Non mi risposero neanche. Del resto cosa si può pretendere da una dittatura»? Il ministro della Difesa di allora e il presidente venivano dalla stessa famiglia: i Rajapaksa. E quando divenne scomodo, persino il generale Fonseka, che era stato l’autore della vittoria militare e che aveva osato sfidare Mahida alle elezioni, entrò in rotta di collisione. Una corte militare lo condannò a tre anni di galera per malversazioni. «Non è finita – aggiunge Rayappu – a militari in pensione e a contadini del Sud sono state date le terre confiscate ai tamil, a gente scappata dalla guerra o uccisa. Aree dove il governo ha investito in condutture, dove si allestiscono fattorie modello che sottraggono lavoro ai locali. Il piano era evidente: far diventare minoranza nella terra tamil importando singalesi. Uccidere la nostra cultura, mortificare lingua e tradizione: un genocidio culturale. Di più, un genocidio strutturale. La terra viene sottratta col mantra della “sicurezza”. In nome di quella si fa tutto, si annichilisce un popolo». Rayappu fu accusato di simpatie secessioniste: «Dicevano che ero amico delle Tigri perché chiedevo lumi sui morti che tutti i giorni vedevamo abbandonati in strada, ammazzati come cani in esecuzioni extragiudiziarie. Sa cosa mi rispondevano: si, ne abbiamo sentito parlare anche noi, stiamo indagando».

Quel treno per Jaffna

Dopo un lungo tira e molla durato anni, la Commissione Onu per i diritti umani pubblica il suo rapporto sulla strage dei tamil del 2009 in Sri Lanka. Il governo lo riceve in queste ore in anteprima. Ma la giustizia sembra davvero lontana. Reportage dal sogno del Tamil Eelam (le puntate precedenti sono state pubblicate in gennaio) 

Il treno si ferma nel cuore della notte in una piccola stazioncina senza nome della linea Colombo Jaffna. In realtà è arrivato al confine della regione tamil di Vanni, che nello Sri Lanka comprende quattro distretti che, con la penisola di Jaffna, formano la terra tamil. Salgono i militari, fucile spianato, giovanissima età, quasi nessuna parola fuor della loro lingua. Chiedono il passi per poter varcare la frontiera immaginaria tra lo Sri Lanka a maggioranza singalese e l’area dove la maggioranza è invece formata da tamil in gran parte induisti, una comunità venuta dall’India del Sud secoli fa. Come del resto i singalesi, adesso in maggioranza buddisti. Non capiamo o fingiamo di non capire: il passi non l’abbiamo. E’ il gennaio dell’anno scorso e ci sono appena state le elezioni, conclusesi con la disfatta del regime di Mahinda Rajapaksa, l’uomo che ai tamil ha fatto la guerra per anni e che, alla fine, l’ha vinta con una strage. Senza giustizia, nella piena impunità. Il passi lo avevano levato ma adesso chissà, sembra di nuovo in vigore, forse per via delle elezioni. Gentilmente ma fermamente ci fan scendere la treno. La notte è umida e fresca ma non c’è nemmeno un po’ di luna a rischiarare un paesaggio così buio che nemmeno le mostrine dei soldati han l’occasione di brillare. Nella stazione non c’è anima viva oltre le divise verdi. E nonostante due giovani reclute di sesso femminile che ridacchano tra loro rompendo la tensione, un brivido gelato corre lungo la schiena. Questa è terra di esecuzioni sommarie.

Una lacrima nell’Oceano indiano

E invece dopo un po’ arriva un camion militare e si arriva velocemente al posto di blocco: un’enorme
caserma con un palo abbassato. C’è una fila di tamil e qualche turista, come noi senza passi. «L’avevano levato», protesta un tamil con passaporto britannico che viene trattato – a casa sua – come uno straniero. Chi è partito all’estero – e forse per questo si è salvato – paga questo prezzo. Uno di loro ci dà un passaggio la mattina dopo quando, dopo un fax a Colombo, veniamo liberati. La carreggiabile A9 verso la penisola di Jaffna corre tra due ampi margini di terra aggrediti dalla foresta e del tutto incolti, interrotti da qualche grossa fattoria che sembra appena impiantata. «Lo è – dice l’autista – sono terreni confiscati e alienati a singalesi mandati qua per ripopolare un’area che è stata svuotata di noi tamil. Non ci sono case lungo la strada? Sono state distrutte, la gente cacciata. E i terreni adesso dati a militari che hanno finito la ferma. Per loro c’è acqua, pozzi, sementi. Per noi persino l’obbligo di non celebrare i nostri morti». Torna quel brivido lungo la schiena. Gelato e affilato come la lama di una baionetta.

Velupillai Prabhakaran, leader Ltte

La rivolta, latente da secoli, comincia nel 1983, quando si afferma un nuovo gruppo secessionista, armato e organizzato: le Tigri per la liberazione della patria Tamil (Ltte) che chiede uno Stato separato da Colombo, il Tamil Eelam nel Nord dello Sri Lanka, su quasi un terzo della terra della Lacrima dell’Oceano indiano. La campagna militare dura 26 anni e finisce, con una strage, nel maggio del 2009. L’offensiva si svolge durante l’assedio di Gaza (Piombo fuso) che oscura totalmente questo conflitto secondario, con pochi testimoni e migliaia di morti, almeno 70mila, forse di più. L’Onu pubblica sulla vicenda due rapporti ma poi rinvia tutto alla Commissione per i diritti umani di Ginevra (Hrc), che non si è ancora espressa.

Tra qualche giorno però il dossier Sri Lanka, il rapporto dell’Alto commissariato per i dritti umani, verrà presentato alla Commissione dell’Hrc. E’ un rapporto che ha faticato anni a venire alla luce e che adesso, se il calendario sarà rispettato, dovrebbe essere presentato nel fine settimana al governo di Colombo, 48 ore prima di essere messo online, a disposizione dei delegati alla 30ma sessione della Commissione che si apre a metà settembre. La discussione è prevista per la fine del mese. La gestazione è stata lunga e questo spiega tante cose: pressioni di ogni tipo e interventi a gamba tesa di Colombo per procrastinare, annacquare, boicottare il lavoro dell’Onu. A colpi di rinvii intanto si è adivenuti a un accordo: il rapporto consiglierà quel che va fatto ma senza fare nomi. Ce ne dovrebbe essere per tutti, governo e Ltte, ma le responsabilità individuali, sembra di capire, resteranno nel vago. L’Ltte comunque ha già pagato.

Hanno pagato con un massacro le cui tracce vanno scomparendo. Persino i cimiteri, i Tuilum Illam (casa del

Al Hussein
Alto commissario 
Hrc

sonno) «erano stati sistematicamente distrutti con i buldozer», scrive Cristiana Natali in Oltre la nazione, un saggio a cura di Giuseppe Burgio uscito da poco per Ediesse. Una distruzione condotta con la forza e obbligando la popolazione civile a parteciparvi. Alla distruzione sistematica delle memoria si accompagna «il programma di colonizzazione…e alla distruzione dei cimiteri – scrive ancora Natali – è seguita la progressiva occupazione dei territori del Nord e dell’Est da parte di cittadini singalesi». Un segno evidente lo vediamo a Kilinochchi, l’ex capitale amministrativa delle Tigri: i cimiteri sono scomparsi ma c’è un enorme monumento al milite ignoto, guardato a vista da due soldati. E’ un possente muro grigio con una pallottola dorata piantata in mezzo. A Killinochchi di milite ignoto se ne può onorare uno solo: quello con la divisa dello Sla (Sri Lanka Army). Ricordare i martiri della secessione è reato.

La guerra contro l’Ltte doveva terminerà tra l’ottobre del 2008 e il maggio del 2009, i mesi del terrore ricordati per una manovra a tenaglia costellata di bombardamenti sulle no fly zone contrattate con l’Onu, in cui si concentrarono alla fine – in un’area grande come Central Park a New York – oltre 300mila persone. Strette in una morsa che racchiudeva tigri, residenti locali e sfollati. L’esercito chiude la morsa e stritola l’enclave. Il resto è silenzio. Dire se ora le cose per i tamil del Nord cambieranno – dopo il rapporto dell’Onu e soprattutto dopo la fine del regime di Rajapaksa – è difficile anche se il nuovo presidente, Maithripala Sirisena, deve la sua vittoria elettorale proprio ai tamil e ai musulmani delle regioni settentrionali. Infine il suo premier, Ranil Wickremasinghe primo ministro per la terza volta, è stato un uomo che ha tentato di negoziare coi tamil prima che il regime decidesse di chiudere la partita con la strage del 2009. Una strage ancora senza colpevoli.

(anche su il manifesto oggi in edicola)

Thailandia: la bomba e la nuova Costituzione

L’identikit dell’attentatore di Bangkok

A cinque giorni dalla strage di Bangkok, gli investigatori tailandesi sembrano per ora brancolare ancora nel buio. L’attentato in pieno centro, avvenuto in una zona molto frequentata e a ridosso di un piccolo tempio buddista dedicato a Brahma, non ha per ora che due riflessi politici evidenti: il primo è che polizia ed esercito non sembrano avere una pista e per ora si limitano a smentire le ipotesi circolate in questi giorni senza però escluderne nessuna, il che non fa loro fare una brillante figura. Il secondo è che la vicenda sta facendo passare in secondo piano l’approvazione della nuova costituzione voluta dal governo militare (civile in realtà ma il cui premier è il generale Prayuth Chan-ocha, a capo dell’esercito da cinque anni e autore del colpo di Stato del maggio del 2014).

La nuova costituzione è nelle mani del Consiglio nazionale per la riforma cui è stata consegnata da un Comitato costituente (Cdc) sul cui sito si può leggere (in tailandese) il testo: è molto lungo e pieno di particolari in linea con un governo di salute pubblica. Prevede un “Comitato di crisi” dai contorni confusi che, a certe condizioni, può prendere il posto di un governo eletto dalle urne. E, guarda caso, prevede che il premier possa essere un non parlamentare. Una costituzione evidentemente nelle grazie di Prayuth….

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Tutte le spine dei talebani (aggiornato)

Mullah Akhtar Mansur, nuovo amir dei talebani
Anche le sue immagini sono una raraità

Nonostante il neo leader talebano Akhtar Mansur abbia inciso un nastro di oltre mezz’ora per chiamare all’unità i combattenti in quello che è il primo messaggio ufficiale del nuovo Amir, le perplessità sull’unità del movimento permangono.

Nella concitata  riunione di Quetta dove il Gran Consiglio talebano si era frettolosamente riunito tra mercoledi e giovedi e che ha deciso la nomina di mullah Akhtar Mansur, le spine sono uscite tutte. Secondo una ricostruzione dell’agenzia Pajhwok, una delle più attendibili, c’erano molti personaggi di rango ma tanti avrebbero disertato: tra i presenti Abdul Razzaq, già governatore di Nimruz, mullah Mohammad Rasul, già governatore di Kandahar, mullah Mohammad Hassan e mullah Abdul Salam, segretario di mullah Omar (che però secondo altra lettura non vi avrebbero invece partecipato). Eppoi la famiglia, rappresentata dal figlio Yacub e dal fratello di Omar, mullah Abdul Manan. Contrari questi ultimi alla nomina di Mansur, avrebbero lasciato l’incontro quando è stato fatto il nome dell’uomo che già da tempo guiderebbe l’ala politica del movimento e cui vengono attribuiti gli ultimi documenti “firmati” da Omar, tra cui quello che dà luce verde al negoziato. Anche Sheikh Habibullah con Qayum Zakir  (che le cronache davano schierato per Yacub contro Mansur), avrebbero gettato la spugna in disaccordo sulla scelta. Qayum Zakir però ha poi  smentito.

La testata del sito dei talebani:
in continuo aggiornamento tecnico da settimane

E come nella shura (l’accusa è proprio di non averla convocata sostituendola con un direttivo ristretto) anche sul terreno lo scontro è aperto: ci sono i comandanti espulsi dal movimento, alcuni dei quali hanno aderito a Daesh, e c’è il gruppo Fidaee Mahaz (fuoriuscito tempo fa e lo stesso che ha dato la notizia della morte di Omar per primo, sostenendo che sarebbe stato ucciso proprio da Mansur).  I talebani si mostrano sicuri  e, sul  loro sito, sostengono che decine di comandanti e mullah hanno dato il loro appoggio a Mansur. Sullo stesso sito smentiscono anche la morte di Jalaluddin Haqqani, padre dell’attuale numero2 talebano Siraj Haqqani.

Tra gli oppositori di rango al nuovo emiro c’è anche l’ex ministro delle finanze talebano mullah Agha Jan Mutasem, personaggio controverso e complesso ma con un suo carisma e che molti vogliono addirittura vicino a Karzai. Attore importante del processo negoziale è un uomo molto chiacchierato e secondo alcune fonti accusato di aver rubato nel tesoretto talebano. Ha promesso un manifesto a giorni. Contro Mansur.

Questo articolo nella sua forma originaria a quattro mani con G. Battiston per Il manifesto si può leggere qui

Informarsi sull’Afghanistan (e il Pakistan)

Lettera22/Progetto Afghanistan  segue con notizie e soprattutto analisi l’infinita guerra afgana da almeno dieci anni (da quando con Arci e Lunaria fu tra le associazioni che crearono Afgana, rete divenuta poi associazione per la ricerca e il sostegno alla società civile afgana).

 In questi giorni segue il cambio al vertice dei talebani  e il processo di pace. Ma anche quanto avviene nel vicino Pakistan e la crescita di Daesh in entrambi i Paesi. Gli articoli sono principalmente di Giualiano Battiston e miei. In parte li trovate anche su questo blog.

Vai alla sezione di  Lettera22/

AfPak: l’ombra di Daesh sul negoziato e il progetto "Grande Khorasan"

Il vessillo di Daesh 
C‘è un terzo incomodo nella faida interna alla guerriglia afgana o nella guerra mediatica (e la notizia postuma della morte di mullah Omar sembra esserne un pezzo) che jihadisti, governi e servizi segreti stanno combattendo a cavallo della frontiera tra Pakistan e Afghanistan. Nel caos seguito alla morte di bin Laden prima e di mullah Omar adesso, si sta insinuando anche Daesh: è contrario al processo di pace – quale che sia – e ha già elaborato un progetto strategico territoriale che si chiama “Khorasan”. Non tenerne conto (come fa il governo di Islamabad che nega che il problema esista se non in forma residuale)* significa non vedere che la guerra afgano/pachistana e quella che si combatte in Medio oriente sono in parte due facce della stessa medaglia. Una medaglia fatta da finanziamenti occulti di sauditi, americani, cinesi o iraniani ognuno con un’agenda nella quale i jihadisti sono pedine geostrategiche importanti (quando non sfuggono di mano).
Il “Khorasan storico”, a cavallo tra tre Stati oggi
era la provincia orientale della Persia. Daesh
lo estende oltre i monti Suleiman e il passo Khyber

Il Khorasan è una regione storica dell’Asia che corrispondeva alla provincia più orientale dell’Impero persiano: quella “dove origina il sole” (khorāsān).Oggi è divisa tra Iran, Afghanistan e Turkmenistan ma nei progetti del Califfato prevede anche il Pakistan in una visione che fa a pugni con storia e geografia. Se è vero quanto emerge da un documento di Daesh di 32 pagine, ottenuto e tradotto dall’urdu dall’American Media Institute (ritenuto credibile e reso noto dalla stampa americanaalcuni giorni fa), il progetto del Grande Khorasan va però ben oltre la valle dell’Indo. Si spingerebbe, dice il documento, sino alle pianure del Gange per preparare un attacco all’India che trascini gki Stati uniti in un conflitto in grado di coalizzare la Umma (in India vivono oltre 180 milioni di musulmani). Il progetto sembra puntare a unificare la guerriglia afgana con quella pachistana e il documento contiene anche un invito ad Al Qaeda perché si unisca ai combattenti. Delirio? Forse, ma non da sottovalutare. Altro che negoziato.

*Su  Is in Afghanistan vedi il report  recente di The Dawn

Mullah Omar è morto. Viva mullah Mansur

Le cronache (tutte pachistane) dicono che il Gran consiglio dei talebani, chiusosi a chiave per in concilio d’emergenza dopo che la notizia della morte di mullah Omar è diventata virale, ha deciso che il nuovo leader (non emiro ma solo numero uno)* debba essere mullah Akhtar Mansur, che Omar avrebbe a suo tempo indicato (con mullah Baradar ora fuori gioco e mullah Obaidullah Akhund ucciso nel 2010) come successore.  Sotto sorveglianza stretta dell’Isi il primo, morto il secondo, Mansur avrebbe avuto gioco facile. L’ex ministro dell’aviazione civile dell’emirato è una garanzia: è nella manica dei pachistani ed è favorevole al processo negoziale. E’ stato forse lui a scrivere il famoso via libera al negoziato firmato da mullah Omar. Mansur avrà due secondi: uno potrebbe essere Yakub figlio di Omar (che molti avrebbero voluto al posto di Mansur) mentre l’altro sarebbe per certo Sirajuddin Haqqani, il figlio senior della rete creata dal vecchio padre mujahedin Jalaluddin e di cui sono noti i buoni anzi ottimi rapporti coi sauditi. Al suo fianco come secondo vice, sostiene l’agenzia Pajhwok, ci sarebbe mullah Haibatullah Akhunzada, già titolare della Difesa durante l’emirato. La scelta fatta sarebbe indigesta alla famiglia di Omar, scrive sempre Pajhwok.
Il processo di pace andrà avanti? Doveva tenersi proprio oggi il secondo round negoziale ma poi i  talebani  ne hanno preso le distanze stamane con una nota ufficiale. E’, dicono Islamabad e Kabul, solo rinviato. Poi si vedrà.

ps I talebani hanno ammesso la morte di mullah Omar: ma risalirebbe solo a qualche giorno fa e non sarebbe avvenuta in Pakistan

* Amir e non Amir-ul-Momineen

Il Grande Gioco in Pakistan dopo la morte di mullah Omar e l’accordo tra Iran e Usa

La bandiera dell’Armata di Jhangvi: si riferisce a Haq

Nawaz Jhangvi fondatore di Sipah- e -Sahaba Pakistan, gruppo islamista sunnita

nato nel 1980. Lashkar-e-Jangvi nasce nel 1996. Entrambi si rifanno 
alla tradizione Deobandi, la scuola islamista del subcontinente 

Mentre si diffondeva la notizia della presunta morte di mullah Omar, da morte sicuramente certa veniva colpito in Pakistan Malik Ishaq, capo di Lashkar-e-Jhangvi, sanguinario gruppo estremista anti sciita. Catturato una settimana, Malik è stato ucciso (coi figli Usman e Haq Nawaz e altri 11 militanti della sua organizzazione) durante un tentativo per liberarlo che è finito con la morte di tutti e 14 i militanti, uccisi dalle forze di sicurezza pachistane. Benché al bando da anni, Lashkar-e-Jhangvi ha sempre goduto di una certa impunità. Lo stesso Malik, pluriaccusato per stragi che hanno ucciso decine di sciiti, ha fatto 14 anni di prigione ma nel 2011 è uscito e, arrestato più volte, è sempre stato liberato. Ora però il gruppo settario e filo qaedista è nel mirino come quasi tutte le formazioni radical-islamiste del Paese. Qualcosa sta cambiando e non si tratta di un mero fatto nazionale.


Nel quadro confuso di una guerra antica scatenata dai gruppi settari anti sciiti (cui non pare estranea la mano dei Paesi del Golfo) si è aggiunto il caos della nascita di un progetto di Daesh in Pakistan e Afghanistan e una guerra contro il governo ingaggiata dai talebani pachistani del Tehrek-e-Taleban Pakistan, in disaccordo coi cugini afgani (che in cambio dell’ospitalità nei rifugi sicuri del Pakistan si son sempre detti contrari a una guerra contro il regime di Islamabad). Un incendio che è ormai fuori controllo anche perché il potere dei servizi segreti pachistani (più o meno deviati) si è allentato: sia grazie a un tentativo di repulisti nei ranghi dell’Isi da parte del governo, sia perché il quadro jihadista è diventato sempre più disomogeneo con gruppi e gruppuscoli che anziché servire la causa nazionale (disturbare la Nato, controllare il conflitto in Afghanistan, sostenere la battaglia anti indiana per il Kashmir, contenere l’influenza sciito-iraniana) hanno cominciato a giocare una carta propria o quella di altri Paesi. In un gioco che ormai non coincide più con gli interessi strategici del Pakistan. E proprio qui sta il punto.
Da quando gli Stati uniti hanno iniziato a raffreddare le tensioni con Teheran, sino ad arrivare a un accordo sul nucleare qualche settimana fa, i pachistani hanno cominciato lentamente a non seguire più i dettati dei Saud. Se prima tolleravano i gruppi anti sciiti, adesso hanno iniziato a temerli come parte di una galassia jihadista incontrollabile e come attori di un processo di contenimento dell’Iran che al Pakistan interessa meno di prima. Per Islamabad è importante infatti avere buone relazioni con Teheran: è uno Stato confinante con una certa influenza in Afghanistan (sia sul governo sia su parte della guerriglia) e può essere un attore indispensabile di sviluppo (si veda il famoso progetto di un gasdotto dall’Iran all’India e alla Cina che passa per il Pakistan).
Che le tensioni coi sauditi siano aumentate lo si è visto quando Islamabad, pur confermando la fedeltà all’alleato, ha rifiutato di mandare uomini e armi in appoggio alla guerra che i sauditi hanno ingaggiato nello Yemen con gli Houthi (sciiti). Riad l’ha presa a male e ha minacciato ritorsioni. Il fatto è che Islamabad sa che il progetto del califfato non è estraneo ai convulsi disegni geo strategici dei Saud e questo è stato probabilmente un altro motivo di frizione quando Daesh ha pensato bene di allargare i suoi immaginari confini al Khorasan, una regione che nella geografia califfale significa AfPak. Se dunque Islamabad adesso stringe il collare sino a strozzare i gruppi che fino a ieri facevano una politica favorevole ai disegni di Riad, non c’è da stupirsi. Gli effetti dell’accordo di Vienna con Teheran stanno rivoluzionando anche questa fetta del pianeta.

Dov’è finito Mullah Omar? Un macigno sul processo di pace

Vera o falsa che sia la notizia diffusa in queste ore (leggila sul sito della  Bbc), la morte presunta di mullah Omar (già nuovamente data per certa alcuni giorni fa) getta un macigno sul processo negoziale appena iniziato e che avrebbe dovuto avere un nuovo sviluppo, dopo un primo incontro  a Murree in Pakistan, proprio nei prossimi giorni.

Che Islamabad abbia un ruolo più che rilevante nell’avvio del processo negoziale è fuor di dubbio, come fuor di dubbio è che la notizia della morte di un leader che aveva appena dato luce verde ai colloqui rompe tutti gli esili fili sinora tessuti. Che il Paese dei puri avesse in animo di cambiare strategia e di favorire una pace afgana seppur sotto egida pachistana lo si è capito due anni fa: quando i pachistani, resisi conto che il “contagio talebano” aveva ormai creato problemi anche in casa (con la nascita del Tehrek-e-Taleban Pakistan, i talebani pachistani ben più agguerriti, qaedisti e sanguinari dei cugini afgani), hanno cominciato a bombardare il Nord Waziristan, sede non solo dei gruppi radicali locali ma anche santuario dei talebani afgani e dei colleghi jihadisti uzbechi, ceceni o cinesi.
L’operazione Zarb-e-Azb, condotta con aviazione e truppe di terra dopo il fallimento di un tentativo negoziale, ha iniziato però a produrre il trasferimento di centinaia di guerriglieri dal Pakistan all’Afghanistan. Kabul però ha iniziato a ripagare Islamabad con la stessa moneta usata dai pachistani che per anni han coccolato la guerriglia afgana cui Islamabad garantiva rifugi sicuri in cambio di un controllo sulla guerra. Anche Kabul si è messa a fare lo stesso, lasciando ai talebani pachistani la possibilità di trovare rifugio in Afghanistan (“ospitava” ad esempio  mullah Fazlullah, uno dei capi del Ttp).
Seppur obtorto collo il Pakistan, vessato dalla guerra interna con gli islamisti di casa e preoccupato della nascita di un Daesh pachistano (il progetto califfale del Grande Khorasan), ha dovuto così scendere a patti con Kabul. La strategia è cambiata e il Pakistan ha optato per una soluzione che potesse accontentare tutti. A un patto però: che la pace avesse un certificato di garanzia pachistano e che fosse Islamabad a dettare l’agenda. Ma la notizia di queste ore complica le cose. E sembra uscita proprio per mettere in difficoltà il Paese dei puri e far fallire per l’ennesima volta la speranza di un cessate il fuoco.

Afghanistan: il Paese più pericoloso per gli umanitari

Uno dei tanti appelli per la liberazione
 di Giovanni Lo Porto, umanitario ucciso,
 paradossalmente, da “fuoco amico”

Con buona pace di chi pensa che gli operatori umanitari siano perdigiorno in cerca di avventura, l’Aid Worker Security Report del 2015 – di cui sono stati resi noti alcuni dati prima della sua uscita in autunno -questa è davvero una professione ad alto rischio specie in Paesi come Afghanistan, Siria, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e  Pakistan dove si registra il 65% delle violazioni che hanno totalizzato 190 attacchi nel 2014 contro 329 operatori umanitari in 27 Paesi: di questi 120 sono stati uccisi, 88 feriti e 121 sequestrati. L’Afghanistan detiene il primato, come sottolinea  oggi la stampa afgana.

La copertina del bollettino
umanitario di Ocha (Onu)


Nel Paese dove quindi la guerra è in teoria finita, non solo si continua a morire ma è sempre molto pericoloso portare soccorso, specie per il personale locale. In generale, dice il rapporto, gli attacchi sono diminuiti rispetto all’anno precedente (meno 30%) ma in alcuni Paesi l’emergenza e il rischio restano elevati. Una speranza arriva, almeno per l’Afghanistan, dalle dichiarazioni ufficiali pubblicate ieri mattina sul sito dei talebani con le quali mullah Omar benedice il negoziato di pace (comunque in acque turbolente). Il secondo round negoziale dovrebbe tenersi tra una quindicina di giorni.
Ma da qui alla pace la strada resta ancora in salita.

Mullah Omar: negoziare col nemico si può

Cieco e malato, secondo alcuni già morto,
secondo altri prigioniero dei servizi pachistani.
Mullah Omar, primula rossa dei talebani
afgani continua a però essere la voce
autorevole della guerriglia in turbante

Alla vigilia di Id-al-fitr, la festa dell’interruzione (del digiuno) che si celebra alla fine del mese lunare che conclude la purificazione ottenuta col Ramadan, mullah Omar approfitta del suo rituale messaggio di celebrazione della festività islamica per commentare i colloqui di pace col governo afgano che l’alta autorità talebane ritiene “legittimi”. E’ dunque il si ufficiale dopo anni di tentativi, mesi di colloqui e, alla fine, qualche giorno fa, un vero e proprio incontro ufficiale in Pakistan. Il passaggio dice:

“In concomitanza con il Jihad armato, sforzi politici e percorsi pacifici per il raggiungimento di questi obiettivi (la liberazione dallo straniero e l’istituzione dell’emirato ndt) sono principi islamici sacri e legittimi e parte integrante della politica del Profeta. Così come il nostro santo capo, l’amato Profeta (pace e benedizioni a lui), è stato attivamente impegnato nella lotta contro gli infedeli sui campi di ‘Badr’  (Arabia, nel marzo del 642 ndt) e ‘Khyber’ (qui il riferimento sembra riportare all’espansione della conquista islamica a Oriente ndt), ha contemporaneamente partecipato ad accordi vantaggiosi per i musulmani, ha tenuto riunioni con gli inviati degli infedeli, ha inviato loro messaggi e delegazioni e, in varie occasioni, ha anche intrapreso la politica del faccia a faccia in colloqui con la controparte infedele. Se guardiamo nei nostri regolamenti religiosi, possiamo trovare che le riunioni e anche l’interazione pacifica con i nemici non sono vietati, ma ciò che è illegale è (semmai)  deviare dai nobili ideali dell’Islam e violare i decreti religiosi” (il neretto è nostro)

“Pertanto l’obiettivo dietro i nostri sforzi politici – prosegue il capo della shura di Quetta – così come i contatti e le interazioni con gli afgani e con altre nazioni, è quello di porre fine all’occupazione e di istituire un sistema islamico indipendente nel nostro Paese. E’ nostro diritto legittimo utilizzare tutte le vie legali perché come organizzazione responsabile abbiamo la responsabilità delle nostre masse, siamo parte integrante della società umana e in relazione interdipendente con lei.  Tutti i Mujahedin e i connazionali dovrebbero essere fiduciosi che in questo processo io fermamente difenderò i nostri diritti legali e il nostro punto di vista ovunque. Abbiamo istituito un ‘Ufficio Politico’ per gli affari politici, cui è affidata la responsabilità di controllo e lo svolgimento di tutte le attività politiche”.

Il sito dei talebani ha appena cambiato look
Più foto, filmati e montaggi di qualità

Dunque, massima apertura ma anche alcuni punti che restano ben fermi: tanto per cominciare si parte dall’invasione dell’Afghanistan da parte dell’alleanza atlantica  guidata da America che è stata “un’aggressione brutale esplicita che ha contraddetto tutti i principi umanitari” e quindi “l’avvio del sacro Jihad contro questa aggressione è diventato un obbligo individuale vincolante”. Il Jihad pertanto non si ferma sino all’espulsione degli stranieri (e questo sarà un punto nodale della trattativa). Infine, dice ancora Omar, nessuno pensi che dietro a quanto accade ci siano le pressioni di Islamabad e Teheran. Excusatio non petita? Ammette Omar che “è tuttavia un fatto che abbiamo cercato rapporti cordiali, non solo con il Pakistan e l’Iran, ma anche di tutti gli altri paesi limitrofi. Proprio come verso il popolo del Pakistan e dell’Iran”. I due c’entrano eccome e forse anche l’accordo con l’Iran appena raggiunto a Ginevra. Ma al dietro le quinte penseremo più avanti.

(un articolo più lungo su Lettera22)

Pace in Afghanistan? Forse ci siamo. I problemi della guerriglia con Daesh

Il sacro Corano: interpretazioni diverse
e realpolitik

Pace è una parola grossa e forse è rischioso menzionarla in queste ore per l’Afghanistan. Ma l’incontro che si è svolto ieri a Murree in Pakistan è più di una promessa. E’ stato il primo incontro ufficiale di un processo negoziale che, non a caso,  inizia in Pakistan. E’ il primo passo ufficiale tra il governo di Kabul, che vi ha mandato i responsabili dell’Alto commissariato di pace, e i talebani che si riconoscono nella shura di Quetta di mullah Omar, la fazione più importante dei talebani afgani. Anche un uomo della  Rete Haqqani avrebbe partecipato.  Dall’incontro trapela poco se non i soliti temi di un’agenda trascinatasi per  anni ma che negli ultimi mesi, dal Qatar alla Norvegia, ha visto incontri preliminari informali sfociati adesso in un inizio ufficiale. A dopo il Ramadan il prossimo incontro. Tutti i commenti sono positivi.

C‘è intanto da segnalare  la notizia che oggi campeggia un po’ su tutti i siti afgani e pachistani e riguarda la morte in Afghanistan di Shahidullah Shahid, ex portavoce dei talebani pachistani (Ttp), espulso nel 2014 proprio per le sue simpatie dichiarate verso il Califfato: era ritenuto uno dei personaggi  più importanti affiliatisi a Daesh. Dire che Shahidullah  sia il capo del progetto califfale in Afghanistan è un po’ forzato (in realtà a capo della formazione ci sarebbe stato – dice l’intelligence afgana – Hafiz Saeed, anche lui ucciso da poco), ma la sua morte è un duro colpo per il progetto del Grande Khorasan, regione che il Califfato vorrebbe dotto il suo dominio e che comprenderebbe Afghanistan e  Pakistan. Il fatto che siaa stato ucciso in Afghanistan la dice anche lunga sulle migrazioni del jihadismo locale (era originario del Waziristan).

Daesh è un problema in Pakistan e lo sta diventando anche in Afghanistan. Ma è un problema non solo per i governi quanto per la guerriglia. In Pakistan ha contribuito a spaccare il fronte jihadista divisosi in diverse formazioni tra cui la  Tehreek-i-Taliban Pakistan Jamaatul Ahrar (Ttpja) o Ahrarul Hind anche se questo non vuol dire che questi gruppi aderiscano all’Is. In Afghanistan ha fatto apertamente schierare la leadership del movimento talebano contro gli affiliati a Daesh, ritenuti degli stranieri con un’agenda che non c’entra nulla con quella nazionalista tipica della guerriglia afgana (infine vi sono le diatribe ideologico religiose e la diffidenza verso wahabiti e salafiti). Daesh è un problema anche per Al Qaeda cui sottrae uomini e risorse. Nondimeno, sostengono gli analisti pachistani, Daesh guarda con favore solo a gruppi omogenei e consolidati e non ama le galassie tipiche della guerriglia afgana e pachistana molto legata ai clan tribali (Ttp è sempre stato controllato dai  Meshud del Waziristan: quando al comando è salito un uomo dello Swat – mullah Fazlullah – sono iniziati i problemi).

Al momento siamo in una fase di transizione. Anche questo spinge a un accordo sia tra governi (Kabul e Islamabad) sia nella direzione del processo negoziale. Un modo, anche, per fermare le mire di Al Bagdadi.

Riad, il miglior alleato contro il terrore

Vivo o morto? Jalaluddin Haqqani,
jihadsita di professione, qaedista per scelta. Amico
 dell’Isi e dei sauditi

Che i sauditi siano tra i nostri miglior alleati in campo energetico è fuor di dubbio. Ma lo sono anche politicamente? Sono per noi e per gli americani la garanzia che con i barbuti saranno combattuti – come
avviene nella monarchia dei Saud – senza se e senza ma? I dubbi sono tranti e non sono una novità ma un’ulteriore conferma arriva adesso dai “leaks” rilasciati da Wikileaks qualche giorno fa a proposito delle attività diplomatiche di Riad di cui è per ora nota solo una parte. Dai cablogrammi rilasciati – e subito smentiti da Riad – si evince quel che si poteva solo sospettare e cioè che i sauditi hano intrattenuto direttamente rapporti con la Rete Haqqani, la guerriglia afgana più truce e vicina ad Al Qaeda, una fazione che crea seri problemi anche all’interno dei talebani.

Le note diplomatiche non solo ci fanno sapere che Jalaluddin Haqqani – il capo del network terrorista –  aveva da tempo un passaporto saudita ma, scrive il quotidiano Dawn: “Uno dei cablogrammi, firmato dall’ex ambasciatore saudita in Pakistan Abdul Aziz Ibrahim Saleh Al Ghadeer, contrassegnato ‘RISERVATO, narra l’incontro con Nasiruddin Haqqani, uno dei figli del capo della rete Haqqani Jalaluddin Haqqani. L’incontro tra l’ambasciatore e Nasiruddin, che era l’emissario e responsabile dei finanziamenti del gruppo legato ai talebani, ebbe luogo il 15 febbraio 2012. Il luogo della riunione non è stato menzionato, ma l’ambasciatore era solito avere incontri sia all’ambasciata sia nella sua residenza, che si trovano nella zona franca diplomatica fortemente protetta e sotto gli occhi attenti delle agenzie di intelligence pachistane“. Durante l’incontro, Nasiruddin aveva chiesto un  trattamento in un ospedale saudita per il babbo. Domanda rivolta via ambasciata a re Abdullah bin Abdulaziz. Jalaluddin, che avrebbe compiuto 62 anni nel 2012, era probabilmente affetto dal morbo di  Parkinson. Insomma buoni amici. Sia detto tra parentesi, agli Haqqani il merito di aver introdotto la tecnica del kamikaze nella guerra afgana.

Attacco al cuore politico afgano

Si conclude con la morte di otto talebani e quella di due civili l’ennesimo attacco nel cuore di Kabul dove la

Mullah Omar: c’è chi lo vuole
già morto ma i suoi uomini
hanno rivendicato l’attacco di ieri

guerriglia ha scelto ieri mattina come obiettivo il parlamento, luogo simbolo del nuovo Paese che non piace ai fondamentalisti in turbante. I feriti sono una trentina: ci sono donne e bambini colpiti più o meno gravemente e tra questi ce ne sono in fin di vita. Quasi tutti sono stati ricoverati o curati all’ospedale Esteqlal, il secondo nosocomio statale della città che si trova a pochi passi dal parlamento, su viale Darul Aman, dove verso le 10,30 un’auto con un kamikaze a bordo è esplosa forzando l’ingresso mentre stava per iniziare l’assemblea della Camera bassa (Wolesi Jirga) nella quale avrebbe ufficialmente preso servizio il nuovo ministro della Difesa Masoom Stanikzai, da poco nominato dopo un lungo tira e molla. L’attacco è ben preparato e coordinato: di mezzo c’è anche la solita casa in costruzione – visione rituale in una città dove l’edilizia è esplosa – in cui i cecchini entrano per tenere sotto tiro il parlamento. Ma nel parlamento non riescono a entrare: la battaglia si ferma fuori e dura almeno un’ora buona. Il ministro non era ancora arrivato e i parlamentari sono usciti tutti illesi. A far le spese dell’attentato solo civili e auto parcheggiate che bruciano come torce. Mediaticamente l’azione fa colpo ma militarmente è un fallimento per i guerriglieri. La paura invece resta tanta in una città dove da aprile gli attentati si susseguono e che mostra l’aspetto più evidente di una guerra infinita che continua a uccidere.

Il video di Euronews

A giudicare dalla rapidissima condanna unanime e dagli attestati di solidarietà – dal Pakistan all’India passando per le Nazioni unite – si potrebbe pensare che l’attacco di ieri abbia segnato un’escalation nella cosiddetta offensiva di primavera. Ma non è così: da due mesi ormai si combatte in gran parte del Paese e i talebani stringono nella morsa Kunduz, città nel Nord per la quale l’esercito prepara l’offensiva. Se i talebani riescono a far parlare di sé, anche le vittorie del governo – sempre di difficile valutazione – vengono rese note ogni giorno con bollettini eclatanti: proprio ieri l’esercito e il ministero dell’Interno avevano reso noto che nelle ultime 24 ore erano stati uccisi 85 “insorgenti”. Messaggi quotidiani. L’esercito dice la sua e i talebani ribattono dal loro sito che, oltre ai documenti di teoria, politica e dottrina, snocciola – come in una macabra agendina – azioni da capitalizzare e uccisioni di “burattini”.

Dietro a tutto ciò, questo almeno il mantra che tutti ripetono, c’è il tentativo di alzare lo scontro per arrivare più forti a un tavolo negoziale che, in qualche modo, si sta apparecchiando. Discorso che vale sia per la guerriglia sia per il governo di Ashraf Ghani, governo bifronte dove il presidente è a capo di un esecutivo condiviso con Abdullah Abdullah, l’eterno secondo alle elezioni che però ha preteso e ottenuto un ruolo da premier. Il governo è in crisi di consensi e questo non è un mistero. Ma i talebani non se la passano meglio: le defezioni ingrossano le fila di un nascente movimento pro-Is, le divisioni interne restano tante e il Pakistan, per la prima volta, sembra fare sul serio. Islamabad avrebbe molto ammorbidito il suo appoggio alla guerriglia afgana e chiesto in cambio a Kabul una mano contro i talebani pachistani (Ttp) che spesso trovano rifugio in Afghanistan. In questo quadro confuso ci sono stati incontri nel Golfo e in Europa. Per ora solo incontri. Piccoli passi che, anziché fermarla, per adesso alimentano la guerra.

Appuntamento a Oslo

Mohaqeq ex signore
della guerra oggi numero 3 della
vicepresidenza

La riunione è in agenda per oggi. Una delegazione di talebani, capeggiata da quello che è ormai considerato il capo negoziatore dell’ufficio politico della shura di Quetta – Tayyab Agha – e una di Kabul si incontrano oggi a Oslo, la capitale della Norvegia. L’incontro è organizzato dall’Oslo Forum. Secondo la stampa afgana la delegazione inviata da Kabul, e che fa capo al vice di  Abdullah Abdullah –  Mohammad Mohaqeq – è formata dal vice ministro degli Esteri  Hikmat Khalil Karzai, dall’ex speacker del parlamento Mohammad Younas Qanooni, dall’ex resposnabilòe degli Affari femminili Husn Bano Ghazanfar, dallìex ninistro del Commercio Anwarulhaq Ahadi e dal rappresentante dell’High Peace Council (HPC), Farhadullah Farhad. Anche se i talebani hanno subito messo i puntini sulle i come già avevano fatto per gli incontri a Dubai del 5 e 6 giugno (sostenendo che siamo ancora ai preparativi e che di fatto non si tratta di un negoziato), si negozia. Sono distinguo a cui non crede più nessuno. Qualcosa sta seppur impercettibilmente cambiando. Anche se nel Paese si continua a sparare e i talebani hanno appena risposto picche alla richiesta di una tregua durante Ramadan.
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Pakistan sospende chiusura Save the Children

Con una una mossa tanto oscura quanto la precedente, il ministero dell’Interno ha sospeso il suo ordine di due giorni fa e che ha portato alla chiusura della sede pachistana di Save the Children, accusata di attività contro la sovranità nazionale.
Secondo la stampa locale, il provvedimento è sospeso sino a nuovo ordine.

Australia sotto accusa: tangente anti migranti nel Pacifico

Il premier australiano Tony Abbott  (nella foto a dx), a capo del Partito liberale e uomo dai saldi principi conservatori, non
rappresenta un’eccezione sulle chiusure verso i migranti che hanno caratterizzato la politica dell’accoglienza negli ultimi anni. Ma questa volta ha superato se stesso e persino il suo compagno di partito David Leyonhjelm che nel 2013 aveva proposto una “tassa” da 50mila dollari a chi sbarcava in Australia in cerca di rifugio. La notizia è che, secondo la polizia indonesiana, a pagare questa volta siano state invece le autorità australiane che – intercettata una nave di migranti – avrebbero riempito le tasche dei traghettatori per riportare al largo il loro carico umano in cerca di altre sponde. Anziché perseguire i trafficanti – in una parola – li hanno ricompensati per girare la prua e risolvere la questione in mare a aperto. E non una bazzecola, ma qualcosa come 30mila dollari.

Nonostante la patata bollentissima che campeggia sui giornali locali e su quelli indonesiani e, adesso, anche sui media internazionali, il premier australiano si è rifiutato di smentire la notizia che costituirebbe uno dei più gravi precedenti della storia recente della tratta dei migranti. Incalzato dai giornalisti, Abbott ha fatto orecchie da mercante dando la sensazione che il fattaccio non sia solo una speculazione ma un brutto pasticcio che non è forse la prima volta che accade. Alludendo nelle prime interviste a caldo a «strategie creative» per fermare i barconi di cui si è detto «orgoglioso» – e che comunque a suo dire non spetta al premier commentare – Abbott ha aggiunto che: «Quello che facciamo è fermare le barche con le buone o con le cattive, perché questo è quello che dobbiamo fare e questo è quello che abbiamo fatto con successo». In seguito ha mondato dalle dichiarazioni la locuzione «con le buone o con le cattive» ma si è rifiutato di entrare nel dettaglio delle operazioni in mare.

In casa è successo il putiferio: i laburisti hanno sottolineato il precedente pericoloso che coinvolge la Marina mentre i Verdi hanno accusato il governo di collusione con la mafia del traffico. di esseri umani La vicenda infine crea anche un evidente problema nei rapporti internazionali con l’Indonesia, che ha già pubblicamente denunciato sconcerto per l’accaduto attraverso il suo ministero degli Esteri, mentre la stampa locale, che ricorda che la politica di Canberra sui migranti è di chiusura totale, ha reso noto che le autorità di Jakarta hanno aperto un’inchiesta sui fatti di Pulau Roti (isola del pane), la piccola isoletta indonesiana a Sud di Timor (di cui la parte Ovest è sotto Jakarta) dove il barcone della tangente si è arenato dopo aver girato la prua.

I fatti in dettaglio sarebbero andati così: alla fine di maggio il barcone con 65 migranti a bordo provenienti da Bangladesh, Myanmar e Sri Lanka (ora ospitati in un hotel della città di Kupang a Timor Ovest) viene intercettato dalla marina australiana mentre fa rotta verso la Nuova Zelanda. Dal 2013 il governo ha introdotto misure molto restrittive che o internano i migranti in campi su qualche isola del Pacifico o li rispediscono a casa. Ma questa volta nessuna misura di polizia: il capitano e i cinque dell’equipaggio della barca, che sono adesso tutti detenuti a Roti accusati di tratta di esseri umani, sarebbero stati pagati 5mila dollari ognuno per proseguire il viaggio in altra direzione.

La notizia arriva in un momento del tutto particolare della vicenda ormai globale dei migranti: mentre in Italia e in Europa si discute del destino di migliaia di persone, anche nei mari del Sud una nuova emergenza li ha messi sotto i riflettori della cronaca. Si tratta principalmente dei Rohingya del Myanmar (“indocumentati” di religione musulmana vittime di pogrom) o di gente in cerca di lavoro che viene dal Bangladesh. Negli ultimi mesi in migliaia sono arrivati sulle coste di Thailandia, Malaysia e Indonesia (che contrariamente a Canberra li hanno in gran parte accolti) sollevando polemiche e problemi ma anche evidenziando la solidarietà di molti pescatori. Canberra sembrava fuori da queste ultime rotte anche se è sempre una meta desiderata. O, più semplicemente, la scelta di pagare i traghettatori è una pratica che esiste da qualche tempo. Come potrebbe rivelare l’inchiesta delle autorità indonesiane.

Islamabad vs Save the Children

Sede chiusa, personale straniero espulso entro 15 giorni, oltre mille consulenti locali a casa. E’ il quadro di Save the Children  in Pakistan dopo Islamabad ha deciso senza spiegazioni di chiudere le attività della Ong internazionale con un preavviso di poche ore lungo tre righe. Ieri il ministro dell’Interno Nisar ha spiegato che l’intelligence pachistana ha tenuto d’occhio StC per diversi anni poiché lavorerebbe contro gli interessi nazionali. La mossa sembra annunciare una stretta con le organizzazioni umanitarie perché Nisar ha citato Ong al soldo di Stati uniti, Israele o India anche se, nel caso di StC, non ha menzionato un Paese di riferimento (The Save the Children Fund, consorzio internazionale per la tutela dei minori, ha la casa madre a Londra).

Quel che emerge è anche una vecchia storia, tornata sotto i riflettori da che da che il giornalista Seymour Hersh ha pubblicato una nuova versione dell’uccisione di bin Laden in Pakistan nel 2011. Nel 2012 l’intelligence di Islamabad aveva messo in relazione StC e altri organismi umanitari col dottor Shakeel Afridi, che la Cia avrebbe utilizzato per un finto programma di vaccinazioni che mirava a ottenere il Dna di Osama. Il personale straniero di StC fu espulso. Gli Usa hanno preso oggi posizione chiedendo a Islamabad che l’Ong possa tornare a lavorare.

Com’è andata a finire. Per chi non si è dimenticato di Aldo Bianzino e del Rana Plaza

Per adesso è solo una notizia scarna di poche righe ma importante per chi ha seguito la vicenda della morte di Aldo Bianzino, morto nel carcere di Capanne a Perugia nell’ottobre del 2007 in circostanze davvero oscure, La Corte di  Cassazione ha confermato ieri la condanna a un anno di reclusione nei confronti di un agente della Polizia Penitenziaria, Gianluca Cantoro, accusato di omissione di soccorso per la morte dell’ebanista, arrestato per possesso di alcune piante di  marijuana e spedito in carcere con la moglie il 12 ottobre. Qualche giorno dopo era già morto. Di aneurisma secondo il tribunale. Come che si la decisione della VI Sezione penale della Cassazione ha confermato il verdetto emesso il 16 ottobre 2014 dalla Corte d’appello di Perugia e apre la porta a un processo civile per la quantificazione dei danni che spettano ai familiari di Bianzino e che dovranno essere pagati dal Ministero della Giustizia. Quel processo sarà ancora una volta l’occasione per tentare di capire cosa avvenne quella notte maledetta e se fu davvero solo omissione di soccorso.

Quanto alla terribile storia di Dacca, la Clean Clothes Campaign (In Italia Abiti Puliti) annuncia una grande vittoria: il Rana Plaza Donors Trust Fund ha finalmente raggiunto l’obiettivo di 30 milioni di dollari grazie ad una cospicua donazione anonima. Il caso Rana Plaza (aprile 2013) però non è chiuso. Benetton infatti, al centro della vicenda, si accontenterebbe invece di versare poco più di un milione di dollari contro i cinque che sono stati calcolati a suo carico.

Liberi otto dei dieci talebani accusati per Malala

Malala. Si riparte da quasi zero

Non c’è smentita alla notizia che il Daily Mirror ha pubblicato il 4 giugno e che ieri è stata ripresa da gran parte della stampa internazionale compresa quella pachistana. Una notizia incredibile che riguarda gli attentatori alla vita di Malala Yousufzai e secondo la quale dei dieci condannati all’ergastolo (25 anni pena massima in Pakistan) otto sarebbero stati liberati segretamente probabilmente  per non dare scandalo.

Per gli otto talebani che, assieme ai due incarcerati, avrebbero ordito l’attacco alla giovane Nobel, le prove non sarebbero state sufficienti e il procuratore che giorni fa aveva dato la notizia dell’ergastolo sarebbe stato mal interpretato dai giornalisti (tenne una conferenza stampa dopo il processo a porte chiuse). Cosa sia davvero successo è difficile da stabilire. Se ne sono accorti i giornalisti del Mirror che sono andati a cercare i condannati per fare loro forse un’intervista. E si sono accorti che otto su dieci erano tornati in libertà.

Oslo, Dubai: il negoziato tra talebani e governo fa un altro passo

Fawzia Kofi

Un incontro informale che si è tenuto  in Norvegia – che ambe le parti si sono affrettate a definire solo un passo senza il crisma dell’ufficialità del negoziato – e la compilazione di un’agenda per un nuovo round di colloqui a Dubai nei prossimi giorni. Sono le due novità del difficile cammino del negoziato di pace tra Kabul e talebani che fanno però ben sperare nonostante le notizie dal fronte della guerra siano sempre più calde. All’incontro di Oslo ha partecipato una delegazione della guerriglia e alcuni membri del parlamento (tra cui due donne, le parlamentari Shukria Barakzai e Fawzia Kofi, già portavoce dell’Assemblea), entrambe assai note anche in Italia. Molto di più non si sa né molti altro si sa dell’incontro di Dubai se non che dovrebbe svolgersi questa domenica e che dovrebbe servire a delineare i punti dell’agenda di un prossimo colloquio ben più sostanzioso di quello di Oslo (anche in questo caso con la mediazione di Pugwash). Per ora dunque  solo degli scambi di vedute e una traccia sulla quale confrontarsi. Ma non è poco. I talebani hanno confermato l’incontro di Oslo non ancora quello di Dubai.

Migranti e polemiche nel Sudest asiatico

  • Aung San Suu Kyi
    Travolta dalle polemiche

Una riunione dove sono invitati 17 Paesi ma che i ministri degli Esteri snobbano. Un summit sulla crisi dei migranti ma nel quale la parola rohingya è tabù. Un vertice dove tutto viene rimandato, il Myanmar fa la voce grossa e il dramma dei profughi  asiatici resta un’emergenza senza risposta. E, sullo sfondo, l’immagine piena di crepe di Aung San Suu Kyi: un’icona internazionale dei diritti che sembra andare ogni giorno di più irrimediabilmente in pezzi dopo che persino il Dalai Lama, pur con la consueta gentilezza, l’ha censurata. E’ la sintesi di una giornata nella quale il vertice convocato a Bangkok sulla crisi ha visto il Myanmar al centro dei riflettori ma senza che alla fine si concludesse granché: i birmani avevano del resto minacciato di far addirittura saltare il  summit se la parola rohingya fosse anche solo apparsa sugli inviti. Un buon inizio.

 Il ministro degli Esteri della Thailandia Tanasak Patimapragorn ha detto all’apertura dei lavori che era necessario fare qualcosa per risolvere la crisi dei migranti imbarcatisi nel Nord del Golfo del Bengala di cui già oltre 3mila sono sbarcati in Indonesia, Malaysia e Thailandia. Ha anzi aggiunto che altri 600 sono appena arrivati nel suo Paese (che però è disponibile solo a offrire aiuto sanitario di emergenza per poi rimettere la gente in mare). Ma le orecchie che stavano a sentirlo non erano quelle di chi ha in mano il bastone del comando: Indonesia, Malaysia e Myanmar – i Paesi con  Thailandia e Bangladesh più coinvolti nella crisi – non hanno mandato a Bangkok i loro ministri ma solo dei funzionari pur se di livello. A quello birmano, il direttore generale agli Esteri Htin Linn, tocca uno scontro diretto con Volker Turk, assistente dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (anche il Palazzo di Vetro ha mandato le seconde file) che era andato al cuore del problema e cioè al fatto che i Rohingya birmani sono senza documenti e dunque cittadinanza.

 “Puntarci il dito addosso non condurrà da nessuna parte” ribatte l’inviato birmano e accusa l’Unhcr di essere male informata. Gli sembra – dice – che nel meeting non aleggia “spirito di cooperazione”. Non si va, nelle parole di qualche relatore, molto più in là se non nel riconoscimento che l’Asean, l’associazione dei Paesi del Sudest asiatico, ha ignorato evidenze che sono in realtà un problema politico. Un segreto di pulcinella per un’alleanza regionale che ha sempre fatto della “non ingerenza” la sua Bibbia anche se proprio la dittatura birmana aveva scalfito, per la prima volta, una tradizione voluta da una lunga teoria di dittatori – da Marcos a Suharto – che hanno fatto la storia di questa fetta di mondo. Una fetta di mondo dove Aung San Suu Kyi aveva un posto di tutto rispetto.

Il “silenzio” di Aung San Suu Kyi sembra essere  cancellare la sua storia ed è un tacere che ai più sembra incomprensibile. Suscita perplessità negli attivisti di organismi come Human Rights Watch, che non esitano a definire l’emarginazione dei Rohingya una pratica da pulizia etnica, e suscita perplessità nelle persone che, come Suu Kyi, hanno avuto il Nobel: personaggi come Desmond Tutu o, appunto, il Dalai Lama che pure è apparso considerare la difficoltà politica in cui la Nobel si muove nel Myanmar. Oceano di Saggezza sa infatti che il caso che riguarda oltre un milione e trecentomila rohingya (indocumentati) è il classico caso che gli oppositori della Lega nazionale per la democrazia aspettano per contenere il consenso ad Aung San Suu Kyi e ai suoi sodali. Nondimeno il Dalai Lama, nell’intervista a The Australian che ha fatto il giro del mondo, pur riconoscendo la difficoltà della Nobel in una nazione dove esprimere simpatia a un gruppo minoritario musulmano comporta un’evidente perdita di consensi, ha detto che Suu Kyi dovrebbe “fare qualcosa”. Qualcosa che chi la difende dice che la Nobel avrebbe fatto. E’ il caso del suo biografo Peter Popham (The Lady and the Peacock: The Life of Aung San Suu Kyi) che sostiene che i media hanno ignorato molti discorsi in cui lei aveva preso posizione sulla vicenda. Ma certo la sua è stata una posizione debole, una voce troppo flebile – troppo compromessa –  rispetto a quel che ci si aspetta. Polemiche. E non è la prima volta.

Negli anni Novanta un articolo sul Journal de Geneve che contestava la giovane e bella figlia dell’eroe nazionale birmano destò scalpore. Aung San Suu Kyi non era ancora l’icona che divenne dopo ma già era una luce nelle tenebre birmane. Eppure il giornale bastonava duro. Poi, più tardi, la polemica quando suo marito entrò nella fase terminale di un tumore. Lei si rifiutò di uscire dal Paese (la giunta al governo l’avrebbe permesso proprio per liberarsene) perché aveva fiutato il trabocchetto: i suoi sostenitori si infiammarono. Pure, a qualcuno sembrò che i suoi ideali umani finissero  a metterne in ombra il lato umano. Il prezzo di essere un Nobel.

Fosse comuni nei lager per migranti


Non c’è forse un chilometro dalla cittadina di Wang Kelian e il confine tra la provincia tailandese di Satun – e poco più in là di Songkhla – e lo Stato malaysiano del Perlis. Tutt’intorno è foresta, appena intaccata dalle prime coltivazioni dei malesi. E’ in questa zona all’estremo Nord della Malaysia che domenica scorsa la polizia ha trovato le prime tombe e indizi di fosse comuni. Poi lunedi ha rimosso un corpo in avanzato stato di decomposizione trovato insepolto nella baracca di uno dei “campi” di raccolta di migranti intercettati dagli inquirenti che già ne hanno contati 28 lungo 50 chilometri di confine. Ieri pomeriggio infine, alla presenza di giornalisti in uno dei siti nascosto in un burrone a un chilometro dalla strada e che “ospitava” forse 400 persone, è iniziata la dissepoltura.

Il numero dei corpi non è noto e forse non lo sarà mai grazie alla rapida decomposizione, ma le tombe sono139 (37 in un solo campo con un corpo ancora riconoscibile) e alcuni dei siti sembrano fossero destinati a più di una vittima. Se si sommano ai ritrovamenti in Thailandia degli inizi di maggio – cinque campi e 35 vittime – la vicenda assume una dimensione tragica in quegli accampamenti di cui ora resta solo qualche telone e rimasugli di ricoveri in bambù: la dimostrazione che la seppur rapida capacità della foresta di inghiottire i resti dei disperati e dei loro giacigli non è ancora riuscita a farne sparire tutti i segni, per il semplice fatto che l’abbandono di alcuni di questi campi è recente, recentissimo: tre settimane al massimo. Quando insomma il caso di 3500 tra Rohingya – comunità musulmana in fuga dalla Birmania – e bangladesi – in fuga dalla povertà del loro Paese – ha fatto ruotare i riflettori della cronaca e imposto, settimana scorsa, un accordo tra Thailandia, Indonesia e Malaysia per tentare quantomeno di fornire a questi disperati un rifugio temporaneo umanitario. Per ora di un anno. Ma il ritrovamento dei campi scopre adesso un traffico clandestino di corpi umani che va ben al di là delle dimensioni che la cronaca ci ha appena sbattuto in faccia, obbligando i tre Paesi sia a dare rifugio, sia a cominciare con più serietà a capire l’ampiezza del fenomeno che molto assomiglia a quanto avviene ogni giorno nel Mediterraneo.

La Malaysia è sotto scrutinio e non solo per aver negato in precedenza l’esistenza di questo genere di campi: campi dove ci sono i resti di quelle che appaiono come delle “gabbie” con tanto di filo spinato. L’agenzia di stampa nazionale Bernama cita il capo della polizia Khalid Abu Bakar secondo cui i campi erano probabilmente occupati dal 2013 e due sarebbero stati abbandonati solo due o tre settimane fa. Un altro ispettore ha detto che che la polizia è rimasta «sconvolta dalla crudeltà» di campi recintati e da evidenti segni di tortura. Ora si indaga sulla probabile rete di connivenza tra autorità dalle due parti del confine e trafficanti. Ma non è una novità: nel rapporto 2014 sul traffico di persone che ogni anno viene redatto dal Dipartimento di Stato americano, la Malaysia figura “T3”, ossia il valore più alto per quel che riguarda l’incapacità di controllare, punire e fermare il lavoro sporco dei contrabbandieri di uomini.

Anche Myanmar, sotto accusa per lo stato in cui versa la comunità rohingya, corre ai ripari inseguita dalle critiche (che hanno travolto per il suo silenzio anche la Nobel Aung San Suu Kyi) con l’arresto di venti sospetti trafficanti trovati su una barca con 200 migranti bangladesi. Poco per chi la accusa – come il Nobel Desmond Tutu – di negare nazionalità e diritti ai Rohingya, considerati immigrati clandestini “estranei” al Paese. E domani a Yangoon buddisti ipernazionalisti manifesteranno contro la pressione internazionale che ora li costringe ad aiutarli. Quanto al Bangladesh, da registrare le dichiarazioni shock della premier Sheikh Hasina: per lei chi fugge dal Bangladesh in cerca di fortuna è un «malato mentale che infanga l’immagine del Paese».

L’Onu stima che nel mare del Golfo del Bengala vi siano ancora almeno 2000 migranti “intrappolati” su navi controllate dai trafficanti, che avrebbero interrotto i viaggi della speranza ma aspettano che i parenti “riscattino” i passeggeri. E mentre l’Oim chiede 26 milioni di dollari per la crisi, Bangkok ha convocato una riunione regionale venerdi.

Buone letture

Un vecchio documento Usa desecretato su bin Laden

Da segnalare oggi l’ottima analisi di Giuliano Battiston per Reset. In Nella biblioteca di Osama Bin Laden Ecco cosa rivela su al Qaeda (e sull’IS), l’autore fa un’attenta disamina dei documenti privati che la Cia ha reso noti alcuni giorni fa e  in cui Osama pensa al futuro politico militare di Al Qaeda, alla possibilità di cambiare addirittura nome alla ditta, al pericolo di un’accelerazione verso l’idea del Califfato che viene da uno  dei suoi più fedeli seguaci, Abu Musab al-Zarqawi, il padrino ideologico dello Stato islamico come oggi lo conosciamo e che a un certo punto prefigurò un altro futuro per Al Qaeda. Battiston resta prudente: sa che non tutto quel che leggiamo oggi è la summa completa dei dossier ritrovati ad Abbottabad quella notte di maggio del 2011, notte ora nella bufera dopo nuove ricostruzioni su come veramente andò. I documenti ci dicono dunque qualcosa in più su Osama anche se ancora non consociamo tutta  la verità sulla sua vita da ricercato o, come qualcuno sostiene, da prigioniero. Assolutamente da leggere.

E se avesse davvero ragione Seymour Hersh?

Un centinaio di file desecretati dalla Cia e appartenuti a Osama bin Laden che non dicono nulla sul personaggio che già non fosse noto. La ricostruzione di come il film su bin Laden sia stata un’operazione di propaganda della stessa Cia. E infine anche qualche novità sul racconto che Seymour Hersh ha fatto della morte dello sceicco del terrore contraddicendo la versione ufficiale. Il dossier su Osama e il mistero di Abbottabad diventa ogni giorno più confuso e quella che sembra uscirne a pezzi è la verità sulla morte del padre di Al Qaeda. Andiamo con ordine.

Mercoledi la Cia ha rilasciato dai suoi archivi 103 file tradotti in inglese sulla corrispondenza di Osama più una lista di letture di vario tipo. Ne esce un quadro dottrinario scarso (da cui in sostanza emerge che l’unico vero nemico di Al Qaeda è l’America) ma soprattutto un profilo umano: dalle schede per associarsi al qaedismo, al compendio di dottrina islamica fino alle lettere alla moglie (manca solo una collezione di Tex), il bin Laden che ne vien fuori sembra più appagare la cronaca rosa che non i ricercatori  di sostanza. Tutto qui o gli 007 si son tenuti in saccoccia la ciccia lasciandoci con un po’ di spazzatura e l’immagine di un vecchio di spalle che guarda la tv il cui corpo è sepolto nell’Oceano?

Quel che lascia sorpresi è poi che la biblioteca attribuita allo sceicco nero sia tutta roba facilmente reperibile in internet o in libreria e soprattutto sia piuttosto datata. Nessun dossier del 2011 (bin Laden è morto a maggio) e poca roba del 2010. O la lista è incompleta oppure Obl aveva smesso di aggiornarsi. Anche le riviste collezionate sono stagionate (c’è giusto un Popular Science – mensile popolare di scienza dal titolo “Best Innovations of the Year Issue” del dicembre 2010). Qualcosa in più si trova nella lista delle produzioni di Think Tank e fondazioni (ma fino a marzo 2010). Visto che non ci sarebbe motivo per non darci conto delle letture recenti, chissà se i film porno – recuperati ad Abbottabad ma non desecretati – non possano rivelarci di più in futuro sul capo dei capi.
L’operazione di trasparenza voluta da Obama e dalla Cia finisce così a renderci più sospettosi che tranquilli e risulta fin troppo evidente che si tratta di una reazione all’articolo di Seymour Hersh che, una decina di giorni fa, ha bollato la ricostruzione ufficiale della morte di bin Laden come una grossa bugia. La Cia ha smentito.
Una grossa bugia appare adesso però anche il film del 2012 sulla caccia a Obl – Zero Dark Thirty – diretto da Kathryn Bigelow e scritto da Mark Boal con l’aiuto molto interessato proprio della Cia, come sostiene un documentario appena uscito. Ci aveva lasciati perplessi alla sua uscita – oltre alla noia mortale del lungometraggio –  ma adesso un po’ di puntini sulle i rendono più chiaro il quadro.


Frontline (un sito di video informazione)  ricostruisce più che maliziosamente la genesi del film su bin Laden che, in “Segreti, politica e tortura” diventa qualcosa di molto simile a un’operazione di propaganda della Cia, agenzia abituata a mentire, per giustificare pratiche di tortura. Senza queste come lo avremmo preso Obl, sembra dire il film? Ricostruzione dunque o propaganda?



Non lo avrebbero certo preso con l’aiuto dei pachistani – che nel film di Bigelow non son proprio dei protagonisti messi in buona luce (“Come ha trovato il Pakistan fino ad adesso“? “Direi una merda” risponde la protagonista nei primi 5′ minuti del lungometraggio) – sui quali già nel 1998 gli americani esprimevano dubbi: dubbi sul Pakistan e la sua intenzione di collaborare proprio al dossier bin Laden. In dicembre un cablogramma dell’ambasciata Usa a Islamabad spiegava che secondo le loro fonti locali «bin Laden è un problema degli Usa coi talebani, non col Pakistan». E che la sensazione dei diplomatici statunitensi era che il governo di Islamabad «non è disposto a essere particolarmente d’aiuto per quel che riguarda il terrorista Osama». Ma era tanto tempo fa. Torniamo al 2011.
Cablogramma del dicembre 1998.
La segnatura rossa è nostra*

Stando a Seymour Hersh, che sulla morte di bin Laden ha appena scritto la sua tesi sollevando un polverone (anche se c’è chi lo difende, tra cui, in parte, Carlotta Gall del Nyt) sulla London Review of Books, furono proprio i pachistani invece ad aiutare la Cia dopo che un agente “rinnegato” aveva fornito all’agenzia le prove su Abbottabad dove bin Laden viveva una dorata prigionia dal 2006 nelle mani dell’Isi. Altro che caccia al “corriere” dello sceicco: solo una soffiata. Fantasia? Può essere ma adesso c’è una voce in più. Anzi, già c’era: è quella di una blogger, Raelynn Hillhouse, appassionata di spionaggio e che si definisce un’esperta di sicurezza nazionale. In un suo articolo (Hersh Did Not Break Bin Laden Cover Up Story) la signora accusa Seymour (che ha negato di averlo mai letto) di aver copiato un suo vecchio post o comunque di non essere affatto originale. Dal momento che nell’agosto 2011, ossia tre mesi dopo i fatti di Abbottabad, lei aveva già scrittole stesse cose anche se nessuno ci aveva fatto caso. L’importanza di chiamarsi Hersh.

Secondo Hillhouse (a destra nell’immagine tratta dal suo blog) la Casa Bianca aveva costruito una storia falsa sull’operazione; bin Laden era stato scoperto grazie a una soffiata da 25 milioni di dollari;  l’Isi aveva in custodia Osama e i sauditi ne erano al corrente. Gli Usa infine, che poi tradirono le promesse a Islamabad, ricattarono (sugli aiuti militari) Kayani e Pasha (a capo delle forze armate e dell’Isi) per avere  la loro cooperazione per condurre in porto l’operazione coi Navy Seal.

In effetti le similitudini sono parecchie. Ma poiché ci sentiamo di escludere che un uomo dell’autorevolezza di Hersh possa scopiazzare in toto l’articolo di qualcun altro, delle due l’una. O la fonte è la stessa e ha imbrogliato entrambi o la storia – raccontata due volte con qualche differenza – si rafforza, andando a cozzare ancora di più contro la versione ufficiale. D’altro canto anche il generale Durrani, già direttore dell’Isi agli inizi degli anni Novanta e responsabile dei servizi di sicurezza dell’esercito pachistano, aveva detto ad Al Jazeera nel febbraio del 2015 – prima di Seymour –  che era molto probabile non solo che l’Isi sapesse dov’era bin Laden, ma che gli avesse dato un peloso rifugio prima del famoso raid del maggio 2011. Un mucchio di coincidenze che fanno di nuovo vacillare il racconto di quella strana notte su cui si intersecano vari misteri (si veda tra l’altro la vicenda vaccini riportata ieri da Interceptor). Alla prossima puntata.

*Fonte: National Security Archives

Rifugio, ma solo per un anno, ai migranti del Sudest asiatico

La bandiera dei Royngha: in Myanmar la
comunità più importante: 800mila persone

Era già buio martedi quando, al largo della provincia di Aceh a Sumatra, i pescatori hanno iniziato ad attrezzarsi per salvare i migranti. Quattrocento di loro sono stati tratti in salvo mercoledi mattina e si vanno ad aggiungere ad almeno alti 1400 già sbarcati sulle coste indonesiane. La stampa locale riferisce di una diffusa solidarietà ai Rohingya, la maggior parte dei migranti, sia perché sono musulmani perseguitati, sia perché gli accinesi sanno cosa vuol dire “solidarietà” dopo decenni di guerra civile e la memoria dello tsunami che nel 2004 uccise qui 170mila persone. Ma se la notizia del salvataggio rischiava sino a ieri di essere solo un episodio di buon cuore, che spesso aleggia più nell’animo di pescatori e contadini poveri che nei palazzi del potere, un accordo tra Jakarta, Kuala Lumpur e Bangkok è arrivato a definire un piano di accoglienza che, almeno per il momento, chiude un capitolo fatto di respingimenti più o meno violenti di barconi non dissimili da quelli che viaggiano verso Lampedusa carichi della stessa disperazione e figli di traffici criminali.
L’accordo tra i tre Paesi verso cui sono diretti i “boat people” (espressione usata dopo la guerra del Vietnam per chi si era imbarcato verso Sud al termine del conflitto) per adesso si fa carico dei settemila migranti ancora in mare; settemila o ottomila, come stima L’Oim. Forse di più. Forse solo un’avanguardia. Ma l’accordo è chiaro: soccorso temporaneo per chi è in mare con chiusura rapidissima poi delle frontiere. Come si possa fare una stima esatta e come si possa controllare questo “traffico umano”, nessuno è in grado di dirlo. Una pezza che durerà un anno.


I migranti sono essenzialmente cittadini del Bangladeh che cercano fortuna in Paesi più ricchi e Rohingya del Myanmar, Paese dove sono in sostanza degli “invisibili” privi di diritti, status e documenti, da alcuni anni vittime di veri e propri pogrom. Accordarsi col Bangladesh sarà forse possibile ma molto più difficile sarà negoziare coi birmani, in gran maggioranza buddisti ben felici che questi paria prendano il mare. Un bubbone antico scoppiato con un clamore che solo il dramma attuale mette sotto i riflettori e sul quale non mancano critiche ad Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti e della democrazia, che sui Rohingya è stata zitta quando non ha sminuito i pogrom in gran parte sostenuti da monaci molto pii quanto violenti.

La mappa della Bbc sul tragitto dei migranti

Malaysiani, indonesiani e tailandesi comunque hanno chiarito che aiuteranno i migranti ma daranno loro asilo temporaneo solo per un anno. E hanno anche fatto appello agli altri Paesi, all’Onu e alla comunità internazionali per non essere lasciati soli. Le Filippine hanno già risposto e anche l’Onu, che si è complimentata per l’accordo, farà la sua parte con le proprie agenzie. Dai birmani una vaga predisposizione all’assistenza umanitaria. Quale? Non è dato saperlo visto che chi chiede rifugio viene da lì. Quanto alla Thailandia, la sua posizione è meno conciliante rispetto a Indonesia e Malaysia (che hanno già accolto 1800 e 1100 migranti rispettivamente): non darà rifugio nemmeno temporaneo ma si è compromessa a non respingere più le carrette del mare che prima scortava verso le acque territoriali dei vicini. Assisterà i casi di emergenza. Non è chiaro cosa farà di chi arriva.

In effetti tutto sarebbe iniziato proprio in Thailandia. I trafficanti portavano i migranti sulle coste tailandesi per fare loro raggiungere la Malaysia: la zona di confine è, in quattro province tailandesi, a maggioranza musulmana. La via più facile. Ma Bangkok ha cominciato a ostacolare il traffico via terra spingendo i trafficanti e volgere la prua verso Sud.

Anche su il manifesto e Lettera22

Tutta colpa della fantasia di Hersh

La Cia ha desecretato 103 files rinvenuti ad Abbottabad

 Seymour Hersh è sotto tiro da che ha scritto la sua “fantasiosa” storia sulla morte di bin Laden. A me continua a rimanere simpatico. Può darsi che abbia anche lavorato di fantasia, ma se chi gli risponde  per le rime è un diplomatico o un ex dirigente della Cia  com’è per lo più avvenuto sinora – permettetemi di conservare qualche piccolo dubbio. Forse la sua fantasia ha dei buchi, forse non è andata proprio così, ma il tarlo rimane. E non è, checché se ne dica, un tarlo complottista. L’operazione fu opaca e tale rimane. Così opaca che c’è voluto Seymour Hersh per far pubblicare dalla Cia 103 documenti sequestrati a bin Laden nella sua casetta di Abbottabad e ora desecretati. Potete andarveli a leggere qui  dunque con tutta calma. Non mi pare contengano notizie esplosive e dunque chissà perché solo ora. Forse verrà fuori anche qualcos’altro: segmenti di fotogrammi sull’operazione dei Navy Seal o della famosa sepoltura in mare? Speriamo, così per smentire Hersh rassicureranno anche noi. Grazie Seymour.

La guerra di Daesh per il Khorasan

Esiste un pericolo Daesh in Afghanistan e Pakistan? A sentire il presidente afgano Ashraf Ghani, non solo esiste ma sottovalutarlo sarebbe molto rischioso. Quanto al Pakistan, il ministero degli Esteri di Islamabad il 25 febbraio scorso ne ha ammesso l’esistenza ma solo venti giorni dopo, a metà marzo, il capo della diplomazia pachistana Nisar sosteneva che non c’è traccia di Stato islamico nel Paese dei puri. Se esercita un fascino sui talebani pachistani (secondo un rapporto del governo provinciale del Belucistan dell’ottobre 2014 il califfato aveva tentato il reclutamento di 3mila guerriglieri) i cugini afgani, nemici giurati del califfato per questioni ideologiche, teologiche, strategiche e di concorrenza, ne hanno una pessima opinione ma non lo hanno mai censurato apertamente sino a qualche giorno fa quando – in una riunione congiunta a Doha con inviati del governo afgano – ne hanno preso ufficialmente le distanze. Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine partendo proprio dalla riunione, organizzata da Pugwash (organismo non governativo canadese) in una località balenare vicino alla capitale del Qatar, cui ha partecipato, agli inizi di maggio, una delegazione di venti inviati di Kabul (tra cui tre donne), otto inviati della shura di Quetta, il Gran consiglio talebano che fa capo a mullah Omar, rappresentanti dell’Hezb-e-islami (dell’ex signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar)…

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Omaggio a Mario Dondero

Il trailer del documentario di prossima uscita, su Mario Dondero, uno dei più 
importanti fotoreporter italiani.

Regia di Marco Cruciani
Montaggio trailer di Virginia Caldarella e Paolo Marzoni per Maxman
Musiche di Daniele Di Bonaventura

Produzione: Maxman e Sol Si Fa

A lezione di pace dagli studenti di liceo

Karim Franceschi è quel ragazzo di Senigallia (a destra nella foto tratta da Vanity Fair) che è partito per Kobane qualche mese fa a combattere contro lo Stato islamico, dunque per una buona causa. Ma, mi chiedo: forse che, a modo loro, anche i giovani musulmani non vanno a combattere con l’Is pensando di aderire a una buona causa e di far guerra al male? Alcuni di loro infatti, se ne sono andati schifati dopo aver visto esecuzioni e dittature ideologiche di vario tipo. Io un’idea me la sono fatta ma mi sarebbe piaciuto sapere cosa ne pensano  i ragazzi dell’età di Francesco. L’occasione è arrivata qualche settimana fa a Udine in occasione di una bellissima tre giorni di dibattiti, non solo in grandi aule e teatri della città, ma fin dentro le trincee della Grande Guerra: un evento che ha portato nel capoluogo del Fvg circa 3500 studenti da 68 città e 15 regioni italiane per ragionare della guerra e di come poterne uscire. Incontri e  laboratori con docenti, studiosi ed esperti della  materia e con un “meeting di pace nelle trincee della Grande Guerra” (giornata conclusiva che dava il titolo all’evento) che non era pensata come una visita guidata alle memorie del conflitto ma come luogo evocativo per riflettere sul grande massacro che purtroppo, seppur con piccole guerre, continua.

L’occasione, dicevo, è arrivata il secondo giorno quando un docente universitario ha mostrato ai ragazzi delle foto di giovani che fecero la Grande guerra, da Churchill a Hitler per finire con qualche ignoto soldatino e, ultima immagine dell’intervento, la faccia di Karim, guerriero moderno. Ho preso spunto da quell’immagine e, quando toccava a me dire la mia, ho buttato via il discorsetto che mi ero preparato per chiedere ai ragazzi cosa ne pensavano di Karim. Aveva fatto bene? Male? Loro che farebbero e quale appeal ha oggi la guerra, o una giusta causa tanto da farti prendere il fucile? Domanda mica tanto semplice.

I commenti sono stati davvero tanti e anche illuminanti. Il primo  stimava Karim: stimava la scelta e il coraggio e c’era un evidente sottolineatura della causa (giusta). Non avrebbe detto lo stesso di uno che va a combattere con l’Is. Ma tutti gli altri interventi invece non erano d’accordo con la scelta di Francesco. Si, dicevano i ragazzi (e  mi scuso per la sintesi frettolosa) la causa sarà anche giusta e onore al coraggio di rischia la propria vita per le idee, ma la scelta non va. Perché la guerra come risposta alla guerra non è la scelta giusta. Insomma i ragazzi hanno risposto, pur con diverse motivazioni, quello che avrei risposto anch’io. La cosa mi ha rasserenato perché  mi sarei aspettato una reazione diversa e meno articolata. E infine ho notato che il dibattito prendeva piede, si arricchiva di voci, di mani alzate per dire la propria.

Se l’idea di quelle giornate (organizzata dalle istituzioni locali – Regione, città di Udine, altri Comuni –  dal Coordinamento degli enti locali per la pace con la Tavola della pace* e il Coordinamento scuole per la pace) era fare “scuola di pace”, credo che l’esperimento – almeno per la parte che ho seguito – abbia funzionato. Quando si comincia  farsi domande sulla guerra, quando le certezze vengono messe in discussione, la guerra ha già perso. E mi fa piacere pensare che tanti studenti la pensino così. Con buona pace di Karim

* Che ora invita a firmare una Dichiarazione di pace

La guerra infinita sulla frontiera dell’Afpak

L’Aga Khan, figura di riferimento
della comunità ismaelita

Quella degli ismailiti è una piccola minoranza nella minoranza sciita del Pakistan. Ma pochi o tanti, poco importa ai gruppi che hanno fatto della guerra agli apostati la loro religione. L’ultimo attentato, 43 morti e 23 feriti, avvenuto mercoledi a Karachi in pieno giorno dove un commando ha assaltato un autobus carico di fedeli, colpisce la piccola setta presente anche in Afghanistan e, in maggior numero, in India. Mentre ieri si sono svolti i funerali per la strage, si fanno i conti con le rivendicazioni che puntano dritte allo Stato islamico. O meglio, al gruppo Jundallah, organizzazione settaria che come altre prende da sempre di mira chi devia dalla retta via e che, fino a novembre scorso, faceva parte del Ttp (Tehreek Taleban Pakistan), l’ombrello talebano pachistano in odore di scissione da mesi e dal quale molti gruppi si staccano per aderire al progetto dello Stato islamico che prevede un Khorasan (area che nella testa di Al Bagdadi comprende Afghanistan e Pakistan) affiliato al Grande Califfato.


Jundallah (soldati di Allah) è di formazione abbastanza recente e si è fatto notare per diverse azioni con risonanza anche all’estero: quella nel giugno 2013 nel Gilgit-Baltistan dove fa strage di un gruppo di alpinisti di diverse nazionalità. A settembre due kamikaze fanno invece saltare la chiesa di Ognissanti a Peshawar: 127 morti e 250 feriti. A ottobre 2014 se la prendono con un jihadista “moderato” – maulana Fazlur Rahman della Jamiat Ulema-e-Islam (F) – che però riescono solo a ferire. Dopo l’adesione all’Is (di cui forse c’è già un’avvisaglia nell’attentato a un musulmano “deviato” come Fazlur Rahman), attaccano la parata dell’esercito pachistano al posto di frontiera di Wagah con l’India: 60 morti. Da gruppo anti sciita, sono passati a uccidere turisti, cristiani e soldati pachistani, una deriva che li avvicina molto all’Is. Ultimo colpo a gennaio:49 morti in una moschea sciita. Il governo però getta acqua sul fuoco.

Secondo il ministero degli Esteri la paternità dell’attentato contro il bus è dubbia: prima un

biglietto in arabo lasciato sul posto dal commando poi l’annuncio twitter dell’Is. Infine una telefonata di Jundallah e in seguito una rivendicazione del Ttp. Soprattutto, sottolinea la diplomazia pachistana, è presto per dire se la mano è di Daesh. Del resto a metà marzo, il ministro degli Esteri Nisar aveva addirittura escluso la sua presenza in Pakistan. Presenza che forse non è molto forte ma che evidentemente esiste, seppur in un quadro assai frammentato e in competizione come dimostrano le diverse rivendicazioni.


La preoccupazione per la china che stanno prendendo le cose (ogni giorno in Pakistan si registrano omicidi politici mirati, attentati kanikaze e assalti a soldati) è palpabile. Lo si capisce dalle parole che Nawaz Sharif, accompagnato dal rappresentante delle forze armate Raheel Sharif, ha appena pronunciato nella sua visita di Stato a Kabul: «Chi è nemico dell’Afghanistan non può essere amico del Pakistan». Al di là delle frasi di convenienza tra due Paesi che si sono sempre guardati in cagnesco, il Pakistan sembra proprio voler girare pagina anche perché, con una ripicca raffinata, l’Afghanistan ha tollerato nel suo territorio la presenza di combattenti talebani pachistani (tra cui mullah Fazlullah, il capo del Ttp).

Il disaccordo tra i due Paesi non ha fatto che favorire guerriglieri, terroristi e jihadisti e ora, più in Pakistan che in Afghanistan, la faccenda sta diventando spinosa e sul problema sicurezza il governo di Nawaz sta rischiando. L’accordo tra i due Paesi (sia di intelligence sia sui flussi di frontiera) complicherebbe la vita ai talebani di entrambi i Paesi e ad altri gruppi di varia affiliazione (Al Qaeda, Is) e provenienza (come il Movimento islamico dell’Uzbekistan, lui pure passato a Daesh).  

Perché difendo Seymour Hersh

Contro il povero Seymour Hersh, colpevole di aver smascherato quantomeno i buchi nel racconto della Casa Bianca sulla morte di Osama bin Laden, si è scatenata una vera e propria bufera, in parte riassunta in questo articolo di Internazionale. Naturalmente ci si aspetterebbe che quanti condannano lo scoop del vecchio Seymour adducano prove a sostegno di quanto afferma l’Amministrazione che, al contrario della fonte di Hersh, è una voce ufficiale e – aggiungo – proprio in quanto tale deve essere presa con le molle. Si è detto che Hersh cita solo fonti anonime e in quanto tali i pilastri della sua tesi sono dubbi. Ma, come ho già scritto, i giornali sono pieni di fonti anonime: compresi quelli anglosassoni che noi portiamo sempre in palma di mano come modello. Provate a digitare su google la frase  “according to a State Department source” (tra virgolette) e troverete circa 84mila occorrenze. Poi il giornalista bravo ci aggiunge anche un “familiar with the numbers” o “with a close relation with the White House” e voi ve la bevete tranquilli. Se vi viene qualche dubbio – immagino – controllate il nome dell’autore. Ed è l’autorevolezza del cronista a garantirvi che la fonte l’ha sentita.

 Ma ammettiamo pure che la fonte anonima di per se dica tutto e niente. Seymoyur allora cosa fa: ne sente diverse e, tra queste, anche agenti pachistani, militari pensionati, ex 007 di cui fa nomi e cognomi. La Casa Bianca risponde piccata ma non mette prove sul tavolo. Non mi pare che la smentita sia stata accompagnata da tutto quel che avremmo voluto vedere di bin Laden: il corpo ad esempio o anche solo una parte. Un fotogramma che non fosse quello di un vecchio di spalle che guarda la Tv. Un documento eclatante e non fabbricato sulle vicende qaediste travato nel rifugio. Top secret va bene, ma tutte quelle spiacevoli mancanze di prove all’epoca mi diedero molto fastidio. Penso che lo stesso sia successo a Hersh.

Il vecchio divenne famoso per la strage di My Lai in Vietnam. Ma che fatica: è una storia che merita di essere raccontata.  All’epoca in cui Hersh scrisse la sua storia non sapevamo ancora che la guerra in Vietnam era stata costruita su una bugia che allora si chiamava  “incidente” del Tonchino e che incidente non fu per niente (solo questo elemento dovrebbe far sempre diffidare delle versioni ufficiali). Agli americani fu raccontato che era necessario pertanto difendere la democrazia rappresentata dal governo di Saigon ma in realtà si voleva  evitare quello che alcuni strateghi statunitensi chiamavano “effetto domino” e cioè che la caduta del Sud avrebbe automaticamente favorito l’avanzata di cinesi e sovietici nella loro guerra al “mondo libero”. Ma questa è un’altra storia e comunque sino alla strage di My Lai la convinzione generale era questa. Cosa successe a My Lai?*

Nel marzo del 1968 la Compagnia C della 11ma brigata di fanteria leggera aveva massacrato sistematicamente un numero di civili tuttora incerto (tra 300 e 500 tra donne, vecchi e bambini) nel piccolo villaggio di My Lay  nella provincia di Quang Ngai nel Vietnam del Sud. E’ l’allora giovane  giornalista Seymour Hersh a raccontare diffusamente quella storia  e a rompere la cortina di silenzio che copriva il massacro. Ma all’inizio, «Life» e «Look», cui Hersh aveva proposto i risultati della sua inchiesta, rifiutarono di pubblicarla. Nel novembre del ’69 riuscì finalmente a scrivere per l’«Associated Press» un articolo che sollevava dubbi sul numero dei morti e rivelava l’accusa mossa dal tribunale militare al sottotenente William Calley  di aver ucciso 109 vietnamiti (Calley, l’unico soldato poi condannato per quella strage, ebbe inizialmente l’ergastolo per l’uccisione di 22 persone ma scontò poi  solo tre anni e mezzo ai domiciliari). La vicenda dilagò così su diverse testate da «Time» a «Life» a «Newsweek» (una trentina in totale e Hersh vince il Pulitzer). «The Plain Dealer», il più importante quotidiano di Cleveland, pubblicò fotografie esplicite del massacro. Reportage da quella zona chiarirono poi che My Lay non era per niente un singolo caso, ma un sistema applicato ripetutamente con bombardamenti aerei e artiglieria che avevano raso al suolo il 70% dei villaggi della zona. Il coraggio, la caparbietà e la coscienza di Hersh avevano squarciato il velo.

Ronald Haeberle. Sopra Hersh
Due questioni: la prima riguarda Hersh e tutte le difficoltà che incontrò. Eppure non aveva una fonte anonima ma un’intervista nientemeno che con Calley. La seconda riguarda le foto: si certo, poi le videro tutti ma prima fu solo un giornale di provincia che ebbe il coraggio di pubblicarle. I soloni delle fonti anonime non si erano accorti che un militare di leva dell’esercito -il sergente Ronald Haeberle – aveva fotografato il massacro e andava pure in giro a tenere conferenze mostrando quelle immagini che gli pesavano non poco sulla coscienza. 
La storia del giornalismo è piena di storie così (tra l’altro Seymour era un free lance): la notizia è buona ma “si, dai lascia perdere” oppure “quel nome non ce lo mettere”. Nessuno se ne stupisce e qualche volta – qualche volta – fa anche senso. Anch’io mi sono sentito ripetere la manfrina quando non ho invece ricevuto addirittura qualche telefonata bonariamente minacciosa da qualcuno che era stato avvisato proprio dal giornale che stava pubblicando la mia storia. Conclusione? Credo più a Hersh che a Obama il quale ha appena mentito al nostro premier sulla morte di Lo Porto (o lo avete già dimenticato?), una morte – raccontata mesi dopo –  sulla quale abbiamo solo ricostruzioni ufficiose fatte – guarda un po’ – grazie a fonti anonime. Che la Casa Bianca non si è data pena di smentire**. 
* Ho tratto gran parte di questo testo da “Lo scatto umano” scritto per Laterza con Mario Dondero il grande.
** La smentita su Hersh è arrivata anche dai pachistani che per rispondere all’articolo ci hanno messo cinque giorni. Risposta pronta direi!

Bin Laden: la ricostruzione di Seymour che non piace a Obama

Seymour Hesrh

Due ex militari pachistani hanno confermato all’agenzia France Press che effettivamente un uomo dei servizi segreti di Islamabad fornì informazioni agli Stati uniti su Osama bin Laden: avrebbe dato una mano per identificarne il Dna. E’ la prima conferma che riguarda le notizie contenute nell’articolo che Seymour Hersh ha pubblicato domenica sulla London Review of Books e che, sbugiardando la Casa Bianca, fa tutto un nuovo racconto della morte dello sceicco del terrore.


Di questo “traditore” (che non sarebbe un uomo dell’Isi – i più potenti servizi pachistani – ma di un’altra agenzia) si sa solo che ormai vive negli Usa ma potrebbe essere la persona che Hersh – il giornalista divenuto famoso per aver rivelato nel 1968 il massacro di My Lay in Vietnam – ritiene responsabile di aver “venduto” il nascondiglio di Osama alla Cia per 25 milioni di dollari. La Casa Bianca ha smentito la ricostruzione di Hesrh che fa fare una pessima figura a tutto lo staff, da Obama all’ultimo dei Navy Seal, i soldati del team operativo che entrarono nella casa di Abbottabad il 2 maggio del 2011 uccidendo bin Laden, un uomo gravemente malato e indifeso. Una pessima figura su una storia totalmente ricostruita e che – scrive – sarebbe «potuta uscire dalla penna di Lewis Carroll», l’autore di Alice nel paese delle meraviglie.


La ricostruzione di Hersh, che si basa su una fonte anonima che descrive però minuziosamente ogni particolare sia della caccia a Obl sia dell’operazione del 2 maggio, non riempie tutti i buchi di un’operazione sulla quale circolò più di una versione e numerosi aggiustamenti di tiro ma semmai ne aggiunge altri. Dubbi che ora si fanno più consistenti dal momento che Hersh dimostra, non solo che la Casa Bianca mentì ma che tradì addirittura il patto coi pachistani. Pachistani – nella persona del capo della Forze armate Ashfaq Parvez Kayani e in quella del direttore dell’Isi Ahmed Shuja Pasha – che fecero un accordo preciso: dal momento che gli americani avevano scoperto (grazie al “traditore” in seno all’intelligence) che l’Isi custodiva bin Laden in una dorata prigionia ad Abbottabad, avrebbero dato luce verde al raid a due condizioni: la prima, che Obl fosse ucciso. La seconda, che non si venisse mai a sapere il ruolo del Pakistan nel facilitare l’operazione che infatti (a parte l’incidente a un elicottero) si svolse senza intralci: né guardie armate, né intercettazioni aeree e – ironizza l’articolo – nemmeno una macchina dei pompieri quando uno degli elicotteri andò a fuoco.


In buona sostanza, Usa e Pakistan prepararono la trappola con l’accordo che nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza per evitare a Islamabad una figuraccia (custodiva il capo dei capi) e per evitare ritorsioni (come avrebbero reagito i jihadisti)? Secondo la fonte di Hersh l’Isi teneva prigioniero bin Laden utilizzandolo come leva per manovrare sia i talebani sia i qaedisti. La sua morte non poteva essere imputata ai pachistani.

Obama però tradì il patto rivelando che l’operativo si doveva alla

collaborazione pachistana. Poi l’ammissione frettolosa fu smentita. Ma ciò che appare evidente dal racconto di Hersh e che la cosa doveva avvenire in tutt’altro modo e che fu l’incidente dell’elicottero a obbligare tutti a far circolare la vera storia ( comunque artefatta) che forse sarebbe stata raccontata in altro modo addirittura menzionando un altro luogo (Osama fu subito portato in Afghanistan). Anche la narrazione sul corpo dello sceicco morto, misteriosamente sepolto in mare e senza che se ne sia mai vista una immagine, subì un’accelerazione, che portò a costruire fandonie una sull’altra, arricchite da falsi dossier. Obama del resto, dice Hersh, doveva essere rieletto e con la morte di bin Laden avrebbe potuto, come fece, dichiarare la guerra in Afghanistan “missione compiuta”.


Che la Casa Bianca si trovi in grande imbarazzo è abbastanza evidente. Qualcuno ha accusato Hersh di aver utilizzato troppe fonti anonime che non rendono credibile il suo racconto. Ma Hersh è un giornalista credibile e, del resto, le fonti anonime sono da sempre acqua al mulino dei reporter specie se la loro autorevolezza è in grado di farcele ritenere veritiere e verificate. La vicenda apre adesso due fronti. Il primo è interno: nel Paese dove dire le bugie è ritenuto un fatto gravissimo, Obama macchia il suo ultimo vestito da presidente. Ma si macchia anche quello di Hillay Clinton (presente nella famosa stanza operativa che seguiva il raid dagli Usa) e l’intera amministrazione. A parte la ricaduta d’immagine in tutto il mondo (siamo abituati a che mentano i servizi segreti ma se lo fa un presidente la cosa è un po’ diversa), cosa succederà ora coi pachistani? E quali effetti avrà la grande bugia sui terroristi assetati di ogni buona ragione per spargere sangue?

Colloqui di Doha: visto dall’emirato

Il punto di vista dei talebani sui colloqui di Doha: qui un riassunto delle giornate e le considerazioni sull’incontro. Qui invece il comunicato ufficiale coi punti in agenda secondo la shura di Quetta o, se vogliamo, l’ufficio politico di Doha (d…

Cos’è successo a Doha: il rapporto degli organizzatori

Paolo Cotta Ramusino,
sgretario di Pugwash

Nel suo Report of a 2-day Pugwash meeting on Security in Afghanistan Qatar, 2-3 May 2015(preparato dal segretario generale di Pugwash Cotta-Ramusino) l’organizzazione canadese si dà conto dell’incontro della due giorni in una località balneare del Qatar circondato da illazioni, agende, risultati apparsi sulla stampa internazionale. Vediamo cosa dice (inglese):

 The meeting was clearly characterized from the start as a non-official meeting where all participants were free to express their personal opinions on a nonattributive basis. It was repeatedly clarified that the meeting was not supposed to be any sort of negotiation. There were several presentations and interventions by people linked to the various parties and groups of Afghanistan, to civil society people (including a few women), and to people from the United Nations Assistance Mission in Afghanistan (UNAMA). Thus, the discussion represented a wide range of opinions, always keeping in mind the non-official character described above. Let us stress again that everybody in this meeting represented only him/herself and not any Institution or group. Despite the differences of opinions, the climate of the meeting was cooperative, constructive and friendly. Some important common points emerged and are reported below:

 1. There was a general appreciation of the positive value of the meeting, and a widely shared sense of gratitude towards the State of Qatar for the hospitality and the assistance given to the participants in the meeting.
2. The idea of bringing about peace in Afghanistan and ending the conflict was wholeheartedly supported by all the participants.
3. The civilian casualties of the Afghan conflict have been lamented by everybody, even though differences may exist on who bears the main responsibility of these casualties. Protection of civilians is, as it should be, a priority for everybody.
 4. The role of foreign forces that are or have been present in Afghanistan were evaluated in different ways (also in relation to the civilian casualties mentioned above). Everybody agreed that foreign forces have to leave Afghanistan soon. Some expressed concern that there should be an agreement among Afghan political forces before the departure of the foreign forces.
5. Any political discrimination against any Afghan political party or group would be an obstacle to the peace process. In particular, the delisting of black-listed Taliban would facilitate the peace process. Political prisoners should be released.
6. Corruption and the production/selling of drugs are among the most serious problems of Afghanistan.
7. The value of education for both men and women was underlined by everybody. Economic development in Afghanistan will heavily depend on peace.
8. The structure of the political system (and the constitution of Afghanistan) should be discussed in detail, and, while different opinions may arise in this respect, there is a general agreement that no party should have a monopoly on power.
9. In any case, the government of Afghanistan will be an Islamic one. This does not mean that minorities of any sort should be discriminated against.
 10.The model of the so-called Islamic State (Daesh) is alien to the tradition and the desires of the Afghan people. This point was agreed upon by everybody.
 11.The relation with neighboring countries should be kept amicable, and cooperation with such countries should be strengthened. This does not mean that neighboring countries are welcome to interfere with Afghan internal affairs.
12.The meeting of 2-3 May 2015 should be followed up by other meetings in order that the peace process be sustained. It is vital that communication among different Afghan parties and groups be kept alive, even at an unofficial level. In general, the peace process should be speeded up! Some would welcome the possibility of talks between the Taliban and the Government.
 13.The Taliban in Doha played an important role in the organization of this meeting. The Taliban’s office should be opened to facilitate meetings and talks.
 14.Qatar, UN and non-governmental international organizations such as Pugwash should hopefully continue to support the Afghan peace process.
 15.The public interest and the well-being of the Afghan people will be at the center of the attention of the participants in this meeting and in the forthcoming ones. *

* Il rapporto in pdf

Governo e talebani a Doha: un pugno di mosche o una svolta?

Si è conclusa per ora con un nulla di fatto la due giorni che ha visto in una località balneare del Qatar – Al-Khor, resort vicino a Doha (nell’immagine) –  partecipare una delegazione talebana e una del governo afgano composta, a quanto si desume, da esponenti dell’Alto consiglio di pace e funzionari. Sull’incontro “informale” a porte chiuse vige il massimo riserbo ma qualcosa è filtrato. Il governo avrebbe chiesto un cessate il fuoco e i talebani – per dirla in soldoni – avrebbero risposto picche adducendo il fatto che finché restano soldati stranieri  in Afghanistan, di tregua non se ne parla (vedi il bollettino quotidiano di morti e attentati). Il governo ha rilanciato sottolineando che le truppe combattenti non ci sono più ma sono rimasti solo istruttori. I talebani hanno però tenuto il punto ma c’è da dubitare che avessero mandato per trattare. Chi ha partecipato con loro alla conferenza organizzata da Pugwash? Secondo Reuters anche esponenti di Usa, Cina e Pakistan.

Insomma, alla fine un pugno di mosche? No: secondo la stampa del Golfo (che tiene a rimarcare lo sforzo del Qatar) ci sarebbe in calendario già un nuovo appuntamento negli Emirati arabi uniti addirittura il mese prossimo e comunque a Doha si è convenuto su diversi punti (come l’estraneità di Daesh al contesto afgano, la questione dell’ufficio dei talebani a Doha o la cancellazione di alcuni talebani dalla black list dell’Onu). Se il calendario sarà rispettato  allora i colloqui di Doha, che al momento han partorito un topolino, si trasformerebbero in una svolta: una politica dei piccoli passi dunque, aiutata dalle complicazioni interne alla guerriglia afgana e dalle pressioni del Pakistan sui talebani angustiati,  non meno del governo Ghani, anche dalla presenza del califfato. Sarà interessante vedere la stampa pachistana e iraniana nei prossimi giorni. Quanto ad Al Jazeera, l’autorevole tv proprio di Doha, sulla questione è rimasta silenziosa. Davvero bizzarro. Un’altra bizzarria? Quel che ha detto il re degli islamisti afgani (al governo), Abdul Rassul Sayyaf, che ha sparato a zero sulla conferenza. C’è da dire che il capo delegazione talebano, Mohammad Stanikzai, è un suo vecchio amico: aderì  all’Itteahad-e islami di Sayyaf come comandante del fronte sudoccidentale ma poi seguì mullah Omar. Ruggini da vecchi mujahedin.

Governo e talebani: faccia a faccia Doha

Mentre scriviamo non si sa ancora com’è andato l’incontro a Doha, organizzato dall’organismo internazionale canadese Pugwash – di cui è tra l’altro è segretario generale l’italiano Paolo Cotta Ramusino – che vede faccia a faccia – spiega l’agenzia Pajhwok – una delegazione di otto talebani della Shura di Quetta ed esponenti del governo afgano, come il capo dell’esecutivo Abdullah o l’ex capo di stato Karzai (la delegazione talebana è capeggiata da Sher Mohammad Abbas Stanikzai, ex ministro della sanità dell’emirato), sempre che la notizia di queste presenze di rango sia confermata (secondo il Wsj partecipano solo membri dell’Alto consiglio di pace). Ma, va chiarito subito, non si tratta di un passo negoziale concordato – come incautamente è stato riportato ieri forse su suggerimento di Kabul – ma di un incontro su invito di Pugwash, un organismo terzo (come per altro già avvenuto in passato a Parigi o in Giappone e uno, secondo ToloNews, sempre a Doha nel 2012 organizzato sempre da Pugwash). Un seminario insomma. C’è però una differenza sostanziale, ossia l’alto livello della rappresentanza afgana che si gioca dunque la faccia oltreché una carta – che al momento pare l’unica – per avvicinare gli inavvicinabili partner con cui vorrebbe dialogare. I talebani hanno chiarito però che la delegazione partecipa a titolo personale (il che appare una contraddizione) e che alla fine verrà letto un comunicato. Non è un passo negoziale, chiarisce il sito della guerriglia, e non si può parlare di processo di pace.

Quel che è certo è che qualcosa si muove. Non forse a Doha, sede dell’ufficio politico dei talebani, da dove probabilmente la delegazione afgana tornerà con un pugno di mosche, ma tutt’intorno. Tra i talebani – divisi e ora alle prese con Daesh (da cui han preso le distanze con un comunicato che, senza citare il califfato, condanna la recente strage di Jalalabad) e tra le varie anime dell’opposizione armata (all’incontro partecipa anche l’ala militare dell’Hezb-e islami di Hekmatyar). E succede qualcosa tra Afghanistan e Pakistan dove, dopo anni di tensione, i rapporti sembrano più distesi: Islamabad ha dichiarato definitivamente guerra ai talebani pachistani, molti dei quali trovano rifugio in Afghanistan, e in cambio di un aiuto di Kabul ha promesso una mano per dissuadere i talebani afgani – da anni ospiti di rifugi sicuri nelle aree tribali del Pakistan – dalla lotta armata.

Ma di qui a una pace negoziata il passo è lungo. Per ora siamo ai piccoli passi, di cui fa parte anche l’incontro di Doha.

Giustizia per Malala. Ma non per tutti

Sono stati condannati ieri all’ergastolo da un tribunale della valle dello Swat dieci miliziani islamisti che il 9 ottobre del 2012 tentarono di uccidere Malala Yousafzay, la studentessa pachistana che, ferita con due compagne all’uscita di scuola, si è salvata per miracolo sollevando un’ondata di sdegno internazionale che le ha poi fatto avere il Nobel l’anno scorso.

La polizia pachistana aveva arrestato in settembre Bilal, Shaukat, Salman, Zafar Iqbal, Israr-ul-Rehman, Zafar Ali, Irfan, Izharullah, Adnan e Ikram, tutti militanti del Tehreek-e-Taliban Pakistan (Tttp), i talebani del Pakistan che decisero l’uccisione della giovane quindicenne che simboleggiava il diritto allo studio delle ragazze dopo un ordine di mullah Fazlullah, il controverso e sanguinario comandante del Ttp conosciuto anche come mullah Radio per i suoi proclami radiofonici. Il giudice Amin Kundi del tribunale di Mingore, città natale di Malala, li ha riconosciuti tutti colpevoli dell’attentato (la polizia aveva trovato anche le armi utilizzate) condannandoli alla prigionia più lunga in Pakistan (25 anni).

Sabeen Mahmud. Sopra Malala

Ma se la giustizia fa in parte il suo corso (Fazlullah è tuttora latitante) un sondaggio sul quotidiano Dawn su un recentissimo caso equivalente – l’assassinio dell’attivista Sabeen Mahmud solo pochi giorni fa a Karachi – rivela il grado di sfiducia dei pachistani nel sistema che dovrebbe fare giustizia: quasi l’80% ritiene infatti che Sabeen di giustizia non ne avrà. Raggiunta nella macchina dove viaggiava con la madre all’uscita di un dibattito sulla provincia del Belucistan organizzato da T2F, un centro culturale di cui era l’animatrice, Sabeen è stata giustiziata da due motociclisti venerdi 24 aprile con quattro pallottole sparate in faccia (la madre si è salvata). Le autorità di polizia hanno escluso che si potesse trattare di qualcosa di diverso da un attentato omicida. T2F è una storia di successo a Karachi, città difficile e teatro di violenza politica da anni: organizza mostre, incontri e dibattiti ed è un centro vivace della cultura cittadina. Ma quello di Sabeen non è purtroppo l’unico caso.

Tra i più rilevanti e recenti si può citare l’omicidio, qualche giorno dopo la morte di Sabeen, di Syed Wahidur Rahman, docente della Università di Karachi. La sua colpa? Essere sciita. Così come avvenuto in marzo per l’avvocato Ali Hasnain Bukhari, lui pure sciita e attivista del Muttahida Qaumi Movement (Mqm), Stessa tecnica – assassini in moto – e stessa colpa, oppure quella di essere il legale di un movimento politico rivale. Shakeel Auj, rettore della stessa università di Syed Wahidur Rahman che è stato invece ucciso nel settembre del 2014 mentre stava andando a una conferenza al consolato iraniano. Secondo la polizia era una vittima designata dopo che una madrasa di Karachi aveva emesso una fatwa contro di lui per blasfemia. Colpevoli e mandanti sono rimasti impuniti.
Ma a far le spese della violenza politica, islamista o settaria ci sono anche professori di diritto islamico: è il caso di

Giustizia per Malala. Ma non per tutti

Sono stati condannati ieri all’ergastolo da un tribunale della valle dello Swat dieci miliziani islamisti che il 9 ottobre del 2012 tentarono di uccidere Malala Yousafzay, la studentessa pachistana che, ferita con due compagne all’uscita di scuola, si è salvata per miracolo sollevando un’ondata di sdegno internazionale che le ha poi fatto avere il Nobel l’anno scorso.

La polizia pachistana aveva arrestato in settembre Bilal, Shaukat, Salman, Zafar Iqbal, Israr-ul-Rehman, Zafar Ali, Irfan, Izharullah, Adnan e Ikram, tutti militanti del Tehreek-e-Taliban Pakistan (Tttp), i talebani del Pakistan che decisero l’uccisione della giovane quindicenne che simboleggiava il diritto allo studio delle ragazze dopo un ordine di mullah Fazlullah, il controverso e sanguinario comandante del Ttp conosciuto anche come mullah Radio per i suoi proclami radiofonici. Il giudice Amin Kundi del tribunale di Mingore, città natale di Malala, li ha riconosciuti tutti colpevoli dell’attentato (la polizia aveva trovato anche le armi utilizzate) condannandoli alla prigionia più lunga in Pakistan (25 anni).

Sabeen Mahmud. Sopra Malala

Ma se la giustizia fa in parte il suo corso (Fazlullah è tuttora latitante) un sondaggio sul quotidiano Dawn su un recentissimo caso equivalente – l’assassinio dell’attivista Sabeen Mahmud solo pochi giorni fa a Karachi – rivela il grado di sfiducia dei pachistani nel sistema che dovrebbe fare giustizia: quasi l’80% ritiene infatti che Sabeen di giustizia non ne avrà. Raggiunta nella macchina dove viaggiava con la madre all’uscita di un dibattito sulla provincia del Belucistan organizzato da T2F, un centro culturale di cui era l’animatrice, Sabeen è stata giustiziata da due motociclisti venerdi 24 aprile con quattro pallottole sparate in faccia (la madre si è salvata). Le autorità di polizia hanno escluso che si potesse trattare di qualcosa di diverso da un attentato omicida. T2F è una storia di successo a Karachi, città difficile e teatro di violenza politica da anni: organizza mostre, incontri e dibattiti ed è un centro vivace della cultura cittadina. Ma quello di Sabeen non è purtroppo l’unico caso.

Tra i più rilevanti e recenti si può citare l’omicidio, qualche giorno dopo la morte di Sabeen, di Syed Wahidur Rahman, docente della Università di Karachi. La sua colpa? Essere sciita. Così come avvenuto in marzo per l’avvocato Ali Hasnain Bukhari, lui pure sciita e attivista del Muttahida Qaumi Movement (Mqm), Stessa tecnica – assassini in moto – e stessa colpa, oppure quella di essere il legale di un movimento politico rivale. Shakeel Auj, rettore della stessa università di Syed Wahidur Rahman che è stato invece ucciso nel settembre del 2014 mentre stava andando a una conferenza al consolato iraniano. Secondo la polizia era una vittima designata dopo che una madrasa di Karachi aveva emesso una fatwa contro di lui per blasfemia. Colpevoli e mandanti sono rimasti impuniti.
Ma a far le spese della violenza politica, islamista o settaria ci sono anche professori di diritto islamico: è il caso di

Pena di morte. Il brutto passo indietro di Joko Widodo

Dieci condanne a morte ma in due la scampano

Il giorno dopo l’esecuzione di otto condannati per narcotraffico, una marea di durissime reazioni travolge l’Indonesia della linea dura sul problema droghe e tossicodipendenze. Alla mezzanotte di martedi otto tra i nove che aspettavano nel braccio della morte (all’ultimo la filippina Mary Veloso è stata risparmiata) sono andati davanti al plotone di esecuzione. E ieri mattina le loro bare bianche erano già nella terra rossiccia di Cilacap, a Giava. «Noi rispettiamo la sovranità indonesiana ma, deplorando quel che è successo, non possiamo considerarlo un atto qualsiasi», tuona il premier australiano Tony Abbott e ritira l’ambasciatore. E’ il seguito a una mossa simile da parte di Brasilia ma che, nel caso dell’Australia, ha peso ben maggiore. E’ il vicino più potente, una pronta cassa se ci sono necessità, un partner economico di primo livello. Si era già fatto ben sentire Abbott per il caso di Andrew Chan e Myuran Sukumaran, i due australiani giustiziati sodali della cosiddetta banda “Bali Nine”, un gruppo di narcotrafficanti arrestati all’aeroporto di Bali nell’aprile del 2005 mentre tentavano di far passare 8,3 chili di “bianca” in rotta per l’Australia. Ce ne sono altri sette della banda nelle galere indonesiane – tutti australiani – ma solo per Andrew e Myuram è stata decisa la pena di morte. Con molti se e molti ma e non solo di carattere umanitario: un loro ex legale ha rivelato di un maneggio di soldi che avrebbe dovuto riservare loro un trattamento di favore. Ma il tribunale si è rifiutato di indagare i magistrati.

Con l’Australia i rapporti son così tesi che la corda rischia di spezzarsi. Prima dell’esecuzione la titolare degli

Esteri Julie Bishop aveva minacciato, pur senza entrare nei dettagli, «conseguenze», ma proprio ieri il vice presidente  Jusuf Kalla ha risposto senza tante cerimonie. Ha ricordato che anche l’Indonesia ha ritirato una volta il suo ambasciatore (nel 2013 per una vicenda di spionaggio) e  che a perderci in una crisi tra i due Paesi sarebbero gli australiani, che vendono per 1,7 miliardi mentre comprano per soli 547,3 milioni. Un modo assai poco diplomatico di calmare le acque.

Joko Widodo, il neo presidente riformista che gode di un largo consenso basato sul suo passato di buon amministratore pubblico, non ha voluto ascoltare né le suppliche di Abbott né le pressioni di Brasilia né l’appello di Ban ki-moon o le polemiche sollevate da Amnesty International. Quanto alla Nigeria, poca audience per i quattro trafficanti che sono evidentemente pesci piccoli. Per non parlare di Zainal Abidin bin Mahmud Badarudin, 50 anni, nazionalità indonesiana, arrestato nel 2000 con in casa 59 chili di erba: tanta roba certo, ma solo marijuana. A difenderlo solo un silenzio ingombrante come quello che ha circondato i nigeriani, corrieri di droghe pesanti.

Il problema in Indonesia è proprio che la differenza tra droghe non esiste e, peggio ancora, anziché mirare a ridurre il danno investendo in sanità pubblica, la legge punisce allo stesso modo chi traffica e chi consuma. E quando le leggi sono così dure – una tradizione di questa fetta di mondo dalla Malaysia a Singapore – è facile riempire le galere, diffondere Hiv, arrivare alla pena capitale e rientrare nell’odioso novero dei Paesi che ancora la praticano.

Joko “Jokowi” Widodo. 
Sopra a dx il premer australiano
Tony Abbott

Cosa ha spinto Widodo a tenere il punto è una domanda senza risposta: la giustificazione – come ha detto in un‘intervista ad Al Jazeera – è che questa è l’unica via per combattere un’emergenza che vede 4,5 milioni di persone in cura per disintossicarsi e un altro milione e mezzo che non è in grado di essere curato. Pugno di ferro dunque e un’indicazione precisa alla magistratura che oggi lo spalleggia come, a esecuzione terminata, ha spiegato il procuratore generale Muhammad Prasetyo: «Lo abbiamo fatto per salvare il Paese dal pericolo delle droghe. Non vogliamo inimicizia con le nazioni da cui provengono i trafficanti ma dobbiamo però combattere i crimini che commettono». Ormai però i nemici son tanti: Australia, Brasile, Nigeria e forse anche la Francia. Parigi si sta dando da fare per salvare Serge Atlaoui, condannato a morte per traffico di stupefacenti e che, almeno per questo giro, l’ha scampata. Lo stesso Hollande si è fatto sentire. Mentre la stampa d’oltralpe ricorda che anche Giacarta ha i suoi scheletri nell’armadio, come quando – aprile 2014 – il governo ha pagato 1,7 milioni di euro a una famiglia saudita perché accordasse il perdono a un domestico che aveva ucciso il suo padrone. Ma Widodo in aprile non era ancora in carica: c’era ancora l’ex generale Susilo Bambang Yudhoyono che aveva scelto di cambiare rotta rispetto al precedente governo di Abdurrahman Wahid che aveva invece deciso che il nodo droghe doveva essere trattato come un problema sanitario, non certo criminale. Un brutto passo indietro seguito anche da Joko Widodo.

Pena di morte. Il brutto passo indietro di Joko Widodo

Dieci condanne a morte ma in due la scampano

Il giorno dopo l’esecuzione di otto condannati per narcotraffico, una marea di durissime reazioni travolge l’Indonesia della linea dura sul problema droghe e tossicodipendenze. Alla mezzanotte di martedi otto tra i nove che aspettavano nel braccio della morte (all’ultimo la filippina Mary Veloso è stata risparmiata) sono andati davanti al plotone di esecuzione. E ieri mattina le loro bare bianche erano già nella terra rossiccia di Cilacap, a Giava. «Noi rispettiamo la sovranità indonesiana ma, deplorando quel che è successo, non possiamo considerarlo un atto qualsiasi», tuona il premier australiano Tony Abbott e ritira l’ambasciatore. E’ il seguito a una mossa simile da parte di Brasilia ma che, nel caso dell’Australia, ha peso ben maggiore. E’ il vicino più potente, una pronta cassa se ci sono necessità, un partner economico di primo livello. Si era già fatto ben sentire Abbott per il caso di Andrew Chan e Myuran Sukumaran, i due australiani giustiziati sodali della cosiddetta banda “Bali Nine”, un gruppo di narcotrafficanti arrestati all’aeroporto di Bali nell’aprile del 2005 mentre tentavano di far passare 8,3 chili di “bianca” in rotta per l’Australia. Ce ne sono altri sette della banda nelle galere indonesiane – tutti australiani – ma solo per Andrew e Myuram è stata decisa la pena di morte. Con molti se e molti ma e non solo di carattere umanitario: un loro ex legale ha rivelato di un maneggio di soldi che avrebbe dovuto riservare loro un trattamento di favore. Ma il tribunale si è rifiutato di indagare i magistrati.

Con l’Australia i rapporti son così tesi che la corda rischia di spezzarsi. Prima dell’esecuzione la titolare degli

Esteri Julie Bishop aveva minacciato, pur senza entrare nei dettagli, «conseguenze», ma proprio ieri il vice presidente  Jusuf Kalla ha risposto senza tante cerimonie. Ha ricordato che anche l’Indonesia ha ritirato una volta il suo ambasciatore (nel 2013 per una vicenda di spionaggio) e  che a perderci in una crisi tra i due Paesi sarebbero gli australiani, che vendono per 1,7 miliardi mentre comprano per soli 547,3 milioni. Un modo assai poco diplomatico di calmare le acque.

Joko Widodo, il neo presidente riformista che gode di un largo consenso basato sul suo passato di buon amministratore pubblico, non ha voluto ascoltare né le suppliche di Abbott né le pressioni di Brasilia né l’appello di Ban ki-moon o le polemiche sollevate da Amnesty International. Quanto alla Nigeria, poca audience per i quattro trafficanti che sono evidentemente pesci piccoli. Per non parlare di Zainal Abidin bin Mahmud Badarudin, 50 anni, nazionalità indonesiana, arrestato nel 2000 con in casa 59 chili di erba: tanta roba certo, ma solo marijuana. A difenderlo solo un silenzio ingombrante come quello che ha circondato i nigeriani, corrieri di droghe pesanti.

Il problema in Indonesia è proprio che la differenza tra droghe non esiste e, peggio ancora, anziché mirare a ridurre il danno investendo in sanità pubblica, la legge punisce allo stesso modo chi traffica e chi consuma. E quando le leggi sono così dure – una tradizione di questa fetta di mondo dalla Malaysia a Singapore – è facile riempire le galere, diffondere Hiv, arrivare alla pena capitale e rientrare nell’odioso novero dei Paesi che ancora la praticano.

Joko “Jokowi” Widodo. 
Sopra a dx il premer australiano
Tony Abbott

Cosa ha spinto Widodo a tenere il punto è una domanda senza risposta: la giustificazione – come ha detto in un‘intervista ad Al Jazeera – è che questa è l’unica via per combattere un’emergenza che vede 4,5 milioni di persone in cura per disintossicarsi e un altro milione e mezzo che non è in grado di essere curato. Pugno di ferro dunque e un’indicazione precisa alla magistratura che oggi lo spalleggia come, a esecuzione terminata, ha spiegato il procuratore generale Muhammad Prasetyo: «Lo abbiamo fatto per salvare il Paese dal pericolo delle droghe. Non vogliamo inimicizia con le nazioni da cui provengono i trafficanti ma dobbiamo però combattere i crimini che commettono». Ormai però i nemici son tanti: Australia, Brasile, Nigeria e forse anche la Francia. Parigi si sta dando da fare per salvare Serge Atlaoui, condannato a morte per traffico di stupefacenti e che, almeno per questo giro, l’ha scampata. Lo stesso Hollande si è fatto sentire. Mentre la stampa d’oltralpe ricorda che anche Giacarta ha i suoi scheletri nell’armadio, come quando – aprile 2014 – il governo ha pagato 1,7 milioni di euro a una famiglia saudita perché accordasse il perdono a un domestico che aveva ucciso il suo padrone. Ma Widodo in aprile non era ancora in carica: c’era ancora l’ex generale Susilo Bambang Yudhoyono che aveva scelto di cambiare rotta rispetto al precedente governo di Abdurrahman Wahid che aveva invece deciso che il nodo droghe doveva essere trattato come un problema sanitario, non certo criminale. Un brutto passo indietro seguito anche da Joko Widodo.

Le ricostruzioni sulla morte di Lo Porto e qualche nota di geografia

Non ho tutte le informazioni che i servizi hanno fornito ai miei colleghi in questi giorni sulla vicenda dell’uccisione di Giovanni
Lo Porto e del suo collega di prigionia ma un paio di cose mi lasciano perplesso. Repubblica ad esempio sostiene che americani e italiani non solo non si sarebbero mai parlati, ma che l’intelligence Usa non avrebbe la prova del Dna: anzi non avrebbe mai mandato nessun agente sul posto e si sarebbe nutrita solo di fonti locali. Il Corriere della sera sostiene invece che quelle prove sulla materia organica ci sono. Chi ha ragione? Potrebbe convincermi di più la prima ipotesi ma anche la seconda potrebbe essere vera. Dunque mi viene da pensare che, come spesso accadde con le notizie che hanno origine dai servizi, ci siano due linee di pensiero e due verità. Qual è quella giusta? Ma c’è un altro elemento che da subito mi ha colpito. In quasi tutti gli articoli (compresi i due summenzionati) il rapimento di Lo Porto viene collocato  a Multan (e sin qui ci siamo) che si trova, questo per altro il refrain che impazza sulla stampa italiana, lungo la zona al confine tra Pakistan e Afghanistan. Lungo la zona di confine?

Consultando una carta geografica si può notare che Multan si trova nel Punjab, una delle province del Pakistan che confina con quella del Khyber Pakhtunkhwa, che a sua volta contiene le aree tribali (tra cui il Waziristan)  al confine tra Pakistan e Afghanistan. Per andare da Multan a Peshawar (capitale del Khyber Pakhtunkhwa) ci vogliono almeno 8 ore (quasi 700 chilometri) ; sei per andare a Miranshah (500 chilometri) e comunque non meno di tre o quattro per andare a Derah Ismail Khan (300 chilometri) per dire della destinazione più vicina all’area tribale e dunque al confine. Ma nessuno deve aver dato un’occhiata alla cartina. In effetti una delle domande sul rapimento di Giovanni è proprio la località di Mulatn, davvero distante dall’area del conflitto che oppone islamisti nelle loro varie declinazioni a esercito pachistano. Se le informazioni che vengono dai servizi situano Mulatn alla frontiera, direi che partiamo molto male. Un po’ come dire che una persona è stata rapita a Roma, nella zona di confine tra Svizzera e Italia.

Mappa della Bbc WorldService

Dunque, mi pare che ne sappiamo davvero poco. Persino la verità ufficiale è lacunosa perché anche Obama ha parlato del confine. Se uno dà un’occhiata alla lunghezza della Durand Line (la frontiera tra i due Paesi) si fa un’idea dell’approssimazione (2.640 chilometri!). Secondo Repubblica la zona interessata dall’attacco dei droni è quella della valle di Shawal  (Waziristan) e qui ci potremmo essere. Solo che si tratta di un’area sotto strettissima sorveglianza pachistana da che è partita l’operazione Zarb-e-Azb (dal 15 giugno 2014) che ha bombardato la valle almeno sei volte (a quanto si sa) con decine di vittime (qaedisti, talebani, civili?).

Mi verrebbe da pensare – a proposito di geografia –  che se qualcuno sa qualcosa, quel qualcuno si trova a Islamabad. Né a Roma né forse a Washington. Le spiegazioni andrebbero chieste lì.

Le ricostruzioni sulla morte di Lo Porto e qualche nota di geografia

Non ho tutte le informazioni che i servizi hanno fornito ai miei colleghi in questi giorni sulla vicenda dell’uccisione di Giovanni
Lo Porto e del suo collega di prigionia ma un paio di cose mi lasciano perplesso. Repubblica ad esempio sostiene che americani e italiani non solo non si sarebbero mai parlati, ma che l’intelligence Usa non avrebbe la prova del Dna: anzi non avrebbe mai mandato nessun agente sul posto e si sarebbe nutrita solo di fonti locali. Il Corriere della sera sostiene invece che quelle prove sulla materia organica ci sono. Chi ha ragione? Potrebbe convincermi di più la prima ipotesi ma anche la seconda potrebbe essere vera. Dunque mi viene da pensare che, come spesso accadde con le notizie che hanno origine dai servizi, ci siano due linee di pensiero e due verità. Qual è quella giusta? Ma c’è un altro elemento che da subito mi ha colpito. In quasi tutti gli articoli (compresi i due summenzionati) il rapimento di Lo Porto viene collocato  a Multan (e sin qui ci siamo) che si trova, questo per altro il refrain che impazza sulla stampa italiana, lungo la zona al confine tra Pakistan e Afghanistan. Lungo la zona di confine?

Consultando una carta geografica si può notare che Multan si trova nel Punjab, una delle province del Pakistan che confina con quella del Khyber Pakhtunkhwa, che a sua volta contiene le aree tribali (tra cui il Waziristan)  al confine tra Pakistan e Afghanistan. Per andare da Multan a Peshawar (capitale del Khyber Pakhtunkhwa) ci vogliono almeno 8 ore (quasi 700 chilometri) ; sei per andare a Miranshah (500 chilometri) e comunque non meno di tre o quattro per andare a Derah Ismail Khan (300 chilometri) per dire della destinazione più vicina all’area tribale e dunque al confine. Ma nessuno deve aver dato un’occhiata alla cartina. In effetti una delle domande sul rapimento di Giovanni è proprio la località di Mulatn, davvero distante dall’area del conflitto che oppone islamisti nelle loro varie declinazioni a esercito pachistano. Se le informazioni che vengono dai servizi situano Mulatn alla frontiera, direi che partiamo molto male. Un po’ come dire che una persona è stata rapita a Roma, nella zona di confine tra Svizzera e Italia.

Mappa della Bbc WorldService

Dunque, mi pare che ne sappiamo davvero poco. Persino la verità ufficiale è lacunosa perché anche Obama ha parlato del confine. Se uno dà un’occhiata alla lunghezza della Durand Line (la frontiera tra i due Paesi) si fa un’idea dell’approssimazione (2.640 chilometri!). Secondo Repubblica la zona interessata dall’attacco dei droni è quella della valle di Shawal  (Waziristan) e qui ci potremmo essere. Solo che si tratta di un’area sotto strettissima sorveglianza pachistana da che è partita l’operazione Zarb-e-Azb (dal 15 giugno 2014) che ha bombardato la valle almeno sei volte (a quanto si sa) con decine di vittime (qaedisti, talebani, civili?).

Mi verrebbe da pensare – a proposito di geografia –  che se qualcuno sa qualcosa, quel qualcuno si trova a Islamabad. Né a Roma né forse a Washington. Le spiegazioni andrebbero chieste lì.

La scia del dolore tra droni e ostaggi

«Abbiamo identificato 41 uomini che hanno vissuto solo una volta ma che sono morti molte volte. Ognuno di loro è stato un obiettivo dato per morto almeno tre volte prima che lo fosse veramente. In alcuni casi c’è chi è stato preso di mira sette volte… i raid uccidono in media 28 altre persone prima di colpire il proprio obiettivo. In totale, fino a 1.147 persone potrebbero essere state uccise durante i tentativi di ucciderne 41… e nonostante più tentativi, almeno sette di questi 41 ricercati sono probabilmente ancora in vita». La riassume così la “legge del drone” un rapporto di Reprieve, associazione che si occupa di violazioni estreme dei diritti umani. Nel suo rapporto You never die twiceil bilancio che traccia si aggiunge ai tentativi di far luce sull’odiosa guerra moderna che si gioca come un videogame. La stessa che ha ucciso Giovanni Lo Porto e il suo compagno di prigionia. la stessa su cui Obama ha taciuto a Renzi. La stessa per cui da anni il Rapporteur speciale dell’Onu Ben Emmerson chiede maggior trasparenza. La stessa infine che ha appena registrato un ennesimo appello da parte di Amnesty International e American Civil Liberties Union, due organizzazioni di tutela dei diritti umani che hanno chiesto a Obama di «chiedere scusa» a tutte le vittime della dirty war combattuta in Afghanistan, Pakistan, Yemen ma anche a Gaza, in Siria o in Irak. Non solo dagli Usa dunque.

L‘uso dei droni non è finalizzato solo a omicidi mirati, una pratica ormai diffusa e di cui Israele detiene forse la primogenitura. I droni dovrebbero anche aiutare a ritrovare e poi liberare gli ostaggi. Succede invece che addirittura li uccidano. Un problema che sembra senza ritorno visto che due recenti missioni di liberazione sono miseramente fallite: nel luglio scorso quando la Delta Force americana ha tentato di liberare in Siria il giornalista James Foley, poi ucciso dagli uomini del califfato che si erano spostati senza che i droni se ne accorgessero. E poi quando la liberazione del fotoreporter americano Luke Somers e del sudafricano Pierre Korkie in Yemen si è risolta in un nulla di fatto. I qaedisti erano riusciti a sapere dell’arrivo del commando.

Quello degli ostaggi è forse il capitolo più spinoso, se non altro perché ci riguarda da vicino. Sappiamo poco di quelle 1.147 vittime citate da Reprieve ma sappiamo tutto dei nostri connazionali. Tutto? No, non tutto perché si tende a scegliere il “basso profilo”. Un modo per non interferire nel lavoro dei servizi ma anche la maniera di far dimenticare un possibile fallimento. Nel 2012, ad esempio, JoshuaBoyle e sua moglie Caitlin Coleman furono sequestrati in Afghanistan. Il silenzio è stato rotto un anno fa da un video quando ormai Caitlin, rapita incinta, aveva ormai partorito. Poi il silenzio. Lo stesso che ha circondato per tre anni i destini di Lo Porto, uno dei tre italiani di cui si erano perse le tracce. Gli altri due sono Paolo Dall’Oglio, scomparso in Siria il 27 luglio del 2013, e Ignazio Scaravilli, medico di Catania settantenne scomparso il 6 gennaio 2015 in Libia. Anche se nessuno ha mai perso le speranze, la detenzione di padre Dall’Oglio, 59 anni, gesuita e per trent’anni siriano d’adozione (poi espulso per le sue posizioni anti governative), dura ormai da quasi due anni. Il rapimento dell’autore di “Collera e Luce” e di molti testi sulla relazione tra islam e cristianità, è avvenuta dopo un appello del sacerdote a papa Francesco perché si facesse promotore di un’«iniziativa diplomatica urgente e inclusiva» per la Siria.

Coleman e Boyle nel video di un anno fa.
Sopra Francesco Lo Porto

La lista è lunga. Ci sono forse i qaedisti di Al Qaida nella penisola arabica dietro al recente rapimento di Isabelle Prime a Sana’a, ricercatrice francese sequestrata in febbraio forse in relazione alle vicende di Charlie Hebdo. Il paradosso è che solo un paio di mesi prima, il presidente Hollande aveva detto che grazie a una «potente vigilanza» quello di Serge Lazarevic – liberato dopo oltre mille giorni di prigionia – sarebbe stato l’ultimo sequestro. Anche se nulla si è mai più saputo ad esempio di Rodolfo Cazares, un franco messicano rapito il 9 luglio dai narcos del Messico. Dall’Afghanistan all’Irak, dal Mali alle Americhe, la pista è lunga e non per forza solo islamista. Quel che è certo è che non sarà l’odioso utilizzo di un drone a porre fine a una delle più odiose forme di combattere la guerra.

La scia del dolore tra droni e ostaggi

«Abbiamo identificato 41 uomini che hanno vissuto solo una volta ma che sono morti molte volte. Ognuno di loro è stato un obiettivo dato per morto almeno tre volte prima che lo fosse veramente. In alcuni casi c’è chi è stato preso di mira sette volte… i raid uccidono in media 28 altre persone prima di colpire il proprio obiettivo. In totale, fino a 1.147 persone potrebbero essere state uccise durante i tentativi di ucciderne 41… e nonostante più tentativi, almeno sette di questi 41 ricercati sono probabilmente ancora in vita». La riassume così la “legge del drone” un rapporto di Reprieve, associazione che si occupa di violazioni estreme dei diritti umani. Nel suo rapporto You never die twiceil bilancio che traccia si aggiunge ai tentativi di far luce sull’odiosa guerra moderna che si gioca come un videogame. La stessa che ha ucciso Giovanni Lo Porto e il suo compagno di prigionia. la stessa su cui Obama ha taciuto a Renzi. La stessa per cui da anni il Rapporteur speciale dell’Onu Ben Emmerson chiede maggior trasparenza. La stessa infine che ha appena registrato un ennesimo appello da parte di Amnesty International e American Civil Liberties Union, due organizzazioni di tutela dei diritti umani che hanno chiesto a Obama di «chiedere scusa» a tutte le vittime della dirty war combattuta in Afghanistan, Pakistan, Yemen ma anche a Gaza, in Siria o in Irak. Non solo dagli Usa dunque.

L‘uso dei droni non è finalizzato solo a omicidi mirati, una pratica ormai diffusa e di cui Israele detiene forse la primogenitura. I droni dovrebbero anche aiutare a ritrovare e poi liberare gli ostaggi. Succede invece che addirittura li uccidano. Un problema che sembra senza ritorno visto che due recenti missioni di liberazione sono miseramente fallite: nel luglio scorso quando la Delta Force americana ha tentato di liberare in Siria il giornalista James Foley, poi ucciso dagli uomini del califfato che si erano spostati senza che i droni se ne accorgessero. E poi quando la liberazione del fotoreporter americano Luke Somers e del sudafricano Pierre Korkie in Yemen si è risolta in un nulla di fatto. I qaedisti erano riusciti a sapere dell’arrivo del commando.

Quello degli ostaggi è forse il capitolo più spinoso, se non altro perché ci riguarda da vicino. Sappiamo poco di quelle 1.147 vittime citate da Reprieve ma sappiamo tutto dei nostri connazionali. Tutto? No, non tutto perché si tende a scegliere il “basso profilo”. Un modo per non interferire nel lavoro dei servizi ma anche la maniera di far dimenticare un possibile fallimento. Nel 2012, ad esempio, JoshuaBoyle e sua moglie Caitlin Coleman furono sequestrati in Afghanistan. Il silenzio è stato rotto un anno fa da un video quando ormai Caitlin, rapita incinta, aveva ormai partorito. Poi il silenzio. Lo stesso che ha circondato per tre anni i destini di Lo Porto, uno dei tre italiani di cui si erano perse le tracce. Gli altri due sono Paolo Dall’Oglio, scomparso in Siria il 27 luglio del 2013, e Ignazio Scaravilli, medico di Catania settantenne scomparso il 6 gennaio 2015 in Libia. Anche se nessuno ha mai perso le speranze, la detenzione di padre Dall’Oglio, 59 anni, gesuita e per trent’anni siriano d’adozione (poi espulso per le sue posizioni anti governative), dura ormai da quasi due anni. Il rapimento dell’autore di “Collera e Luce” e di molti testi sulla relazione tra islam e cristianità, è avvenuta dopo un appello del sacerdote a papa Francesco perché si facesse promotore di un’«iniziativa diplomatica urgente e inclusiva» per la Siria.

Coleman e Boyle nel video di un anno fa.
Sopra Francesco Lo Porto

La lista è lunga. Ci sono forse i qaedisti di Al Qaida nella penisola arabica dietro al recente rapimento di Isabelle Prime a Sana’a, ricercatrice francese sequestrata in febbraio forse in relazione alle vicende di Charlie Hebdo. Il paradosso è che solo un paio di mesi prima, il presidente Hollande aveva detto che grazie a una «potente vigilanza» quello di Serge Lazarevic – liberato dopo oltre mille giorni di prigionia – sarebbe stato l’ultimo sequestro. Anche se nulla si è mai più saputo ad esempio di Rodolfo Cazares, un franco messicano rapito il 9 luglio dai narcos del Messico. Dall’Afghanistan all’Irak, dal Mali alle Americhe, la pista è lunga e non per forza solo islamista. Quel che è certo è che non sarà l’odioso utilizzo di un drone a porre fine a una delle più odiose forme di combattere la guerra.

L’errore "normale" che ha ucciso Giovanni Lo Porto

Giovanni Lo Porto. Sotto a sinistra
Warren Weinstein

E’ un’operazione di trasparenza quella che il presidente Obama deve aver deciso di fare per rispetto nei confronti dei famigliari di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein, i due ostaggi uccisi a gennaio da un raid aereo americano che aveva l’obiettivo di colpire – come è stato – i due qaedisti americani Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Ma è una trasparenza opaca.


Non dice Obama esattamente dove i suoi droni hanno colpito e non dice chi ne aveva la responsabilità diretta, chi comandò l’operazione ed è dunque responsabile dei suoi effetti collaterali. Il segreto di Pulcinella – il luogo è il Pakistan e il mandante è la Cia – si deve alle regole ferree della guerra al terrorismo che, proprio con Obama, ha avuto come caratteristica l’espansione dell’uso dei velivoli senza pilota. E’ stata con tutta probabilità una delle tante operazioni segrete nelle aree tribali del Pakistan, probabilmente lungo il confine con l’Afghanistan, in uno dei tanti raid – notturni, all’alba, in pieno giorno – che in questi anni hanno ucciso militanti qaedisti o filo qaedisti e, con loro, migliaia di civili. Per errore. E’ una guerra che impiega personale americano distante chilometri dalla zona dell’attacco e che utilizza i droni che stazionano nei depositi delle basi Usa in Afghanistan. Una guerra “tollerata” da Islamabad ma al contempo una piaga nei rapporti Usa-Pakistan per via di quella reiterata violazione della sovranità nazionale che i droni compiono indisturbati e comandati a distanza. A dirigere le operazioni ci sono i servizi segreti che, con l’esercito, fanno prima sorvolare le zone da colpire e poi pianificano le uccisioni mirate: una guerra pulita che non impegna truppe sul terreno e che si gioca come un video game. Quanto costa? Poco in termini di spesa militare. Molto in termini di vite umane.

Le operazioni con droni sono migliaia, anche se la maggior parte sono di carattere ricognitivo e Pakistan, Afghanistan e Yemen erano finora in testa alla classifica. Secondo diverse fonti (in gran parte grazie al lavoro del Bureau of Investigative Journalism) nel periodo 2004-2013 in Pakistan il totale dei bombardamenti americani con droni sarebbe stato di circa 310 su 362. I morti oscillavano tra 2.629 e 3.461 di cui un terzo (tra 475 e 891) sarebbero civili. Il rapporto 2013 dello Special Rapporteur dell’Onu Ben Emmerson fornì un bilancio di almeno 330 raid in Pakistan dal 2004 al 2012 con la conseguente uccisione di circa 2200 persone, tra cui un numero variabile tra 400 e 600 vittime civili oltre ad altre 600 che avevano riportato gravi ferite. Il rapporto 2014 di Emmerson confermava invece una decrescita rilevante delle operazioni in Pakistan nel 2013 (da mettere in relazione col tentativo di avvio di negoziati coi Talebani pachistani – poi falliti), operazioni scese da un picco di 128 nel 2010 a 27 nel 2013 (ovviamente per il Rapporteur fanno fede solo i dati ufficiali in cui, ad esempio, non sarebbe probabilmente rientrato il raid che ha ucciso Lo Porto). Infine nel 2014, operazioni massicce di bombardamento aereo da parte del Pakistan nelle aree tribali hanno probabilmente ancora ridotto la necessità di operazioni esterne americane. Ma nello stesso rapporto si stimava invece un aumento di tali operazioni in Afghanistan al punto da essere ritenute responsabili del 40% delle morti di civili. Stesso discorso per lo Yemen.


Il problema principale è comunque che parte delle azioni restano “segrete”, tanto segrete che nemmeno i pachistani (o gli afgani, o gli yemeniti) ne vengono messi al corrente come ha ricostruito un bellissimo lavoro del giornalista americano Jeremy Scahill poi diventato anche un film documentario (Dirty Wars). Lo stesso rapporto di Emmerson sostiene che, su questo tipo di operazioni, c’è scarsa trasparenza specie da parte di Usa, Gran Bretagna e Israele e sostiene la necessità della costituzione di un team investigativo internazionale. Anche la giustizia pachistana ha fatto la sua parte: nell’aprile 2013 la procura generale dell’Alta corte di Peshawar (in una causa della Foundation for Fundamental Rights vs la Cia), ha scritto che 896 civili erano stati uccisi tra il 2007 e il 2012 nel Nord Waziristan e altri 533 nel Waziristan del Sud.

L’errore "normale" che ha ucciso Giovanni Lo Porto

Giovanni Lo Porto. Sotto a sinistra
Warren Weinstein

E’ un’operazione di trasparenza quella che il presidente Obama deve aver deciso di fare per rispetto nei confronti dei famigliari di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein, i due ostaggi uccisi a gennaio da un raid aereo americano che aveva l’obiettivo di colpire – come è stato – i due qaedisti americani Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Ma è una trasparenza opaca.


Non dice Obama esattamente dove i suoi droni hanno colpito e non dice chi ne aveva la responsabilità diretta, chi comandò l’operazione ed è dunque responsabile dei suoi effetti collaterali. Il segreto di Pulcinella – il luogo è il Pakistan e il mandante è la Cia – si deve alle regole ferree della guerra al terrorismo che, proprio con Obama, ha avuto come caratteristica l’espansione dell’uso dei velivoli senza pilota. E’ stata con tutta probabilità una delle tante operazioni segrete nelle aree tribali del Pakistan, probabilmente lungo il confine con l’Afghanistan, in uno dei tanti raid – notturni, all’alba, in pieno giorno – che in questi anni hanno ucciso militanti qaedisti o filo qaedisti e, con loro, migliaia di civili. Per errore. E’ una guerra che impiega personale americano distante chilometri dalla zona dell’attacco e che utilizza i droni che stazionano nei depositi delle basi Usa in Afghanistan. Una guerra “tollerata” da Islamabad ma al contempo una piaga nei rapporti Usa-Pakistan per via di quella reiterata violazione della sovranità nazionale che i droni compiono indisturbati e comandati a distanza. A dirigere le operazioni ci sono i servizi segreti che, con l’esercito, fanno prima sorvolare le zone da colpire e poi pianificano le uccisioni mirate: una guerra pulita che non impegna truppe sul terreno e che si gioca come un video game. Quanto costa? Poco in termini di spesa militare. Molto in termini di vite umane.

Le operazioni con droni sono migliaia, anche se la maggior parte sono di carattere ricognitivo e Pakistan, Afghanistan e Yemen erano finora in testa alla classifica. Secondo diverse fonti (in gran parte grazie al lavoro del Bureau of Investigative Journalism) nel periodo 2004-2013 in Pakistan il totale dei bombardamenti americani con droni sarebbe stato di circa 310 su 362. I morti oscillavano tra 2.629 e 3.461 di cui un terzo (tra 475 e 891) sarebbero civili. Il rapporto 2013 dello Special Rapporteur dell’Onu Ben Emmerson fornì un bilancio di almeno 330 raid in Pakistan dal 2004 al 2012 con la conseguente uccisione di circa 2200 persone, tra cui un numero variabile tra 400 e 600 vittime civili oltre ad altre 600 che avevano riportato gravi ferite. Il rapporto 2014 di Emmerson confermava invece una decrescita rilevante delle operazioni in Pakistan nel 2013 (da mettere in relazione col tentativo di avvio di negoziati coi Talebani pachistani – poi falliti), operazioni scese da un picco di 128 nel 2010 a 27 nel 2013 (ovviamente per il Rapporteur fanno fede solo i dati ufficiali in cui, ad esempio, non sarebbe probabilmente rientrato il raid che ha ucciso Lo Porto). Infine nel 2014, operazioni massicce di bombardamento aereo da parte del Pakistan nelle aree tribali hanno probabilmente ancora ridotto la necessità di operazioni esterne americane. Ma nello stesso rapporto si stimava invece un aumento di tali operazioni in Afghanistan al punto da essere ritenute responsabili del 40% delle morti di civili. Stesso discorso per lo Yemen.


Il problema principale è comunque che parte delle azioni restano “segrete”, tanto segrete che nemmeno i pachistani (o gli afgani, o gli yemeniti) ne vengono messi al corrente come ha ricostruito un bellissimo lavoro del giornalista americano Jeremy Scahill poi diventato anche un film documentario (Dirty Wars). Lo stesso rapporto di Emmerson sostiene che, su questo tipo di operazioni, c’è scarsa trasparenza specie da parte di Usa, Gran Bretagna e Israele e sostiene la necessità della costituzione di un team investigativo internazionale. Anche la giustizia pachistana ha fatto la sua parte: nell’aprile 2013 la procura generale dell’Alta corte di Peshawar (in una causa della Foundation for Fundamental Rights vs la Cia), ha scritto che 896 civili erano stati uccisi tra il 2007 e il 2012 nel Nord Waziristan e altri 533 nel Waziristan del Sud.

Afghanistan, Pakistan e il ruolo di Daesh

Ci sono parecchi dubbi sulla paternità dell’attentato che ieri ha ucciso oltre una trentina di civili in coda davanti a una banca di Jalalabad nell’Afghanistan orientale (in realtà pare si sia trattato di una serie di attentati  coordinati di cui uno veramente grave). A rivendicarlo con una telefonata sarebbero stati gli uomini di Daesh, l’autoproclanato califfato che avrebbe anche in Afghanistan i suoi accoliti. Ma i dubbi ci sono tutti nonostante Ashraf Ghani abbia preso subito per buona la rivendicazione. I dubbi vengono dall’intelligence afgana e dai ricercatori e analisti locali: presto per dire se Daesh esiste davvero nel Paese. Intanto i talebani avrebbero, sempre via telefono, deprecato l’accaduto e così pure Jamat ul-Harar – fazione che si è da poco scissa dal Thereek  Taleban Pakistan (ttp) – in compagnia di un altro gruppo pachistano minore (Lashkar e-Islam). La domanda da farsi è su chi semmai utilizza la sigla di Daesh e qual è la forza di un gruppo che non pare interessato a conquiste territoriali in Afghanistan ma assai più concentrato su Siria e Iraq.

Come orientarsi dunque su Daesh e i suoi legami in Afghanistan e Pakistan? C’è da ritenere fondato un modus operandi che mira ad assoldare mercenari per combattere in Medio oriente dove il sedicente califfato ha bisogno di uomini cui chiede, oltreché all’azione armata, un’adesione senza ombre al ramo sunnita dell’islam. Senza dubbio la campagna di proselitismo è in atto e sfrutta la necessità per molti lavoratori del Jihad di lasciare località diventate estremamente calde specie dopo la lunga offensiva messa in campo nelle aree tribali dall’esercito di Islamabad.Pur se la sua presenza nei due Paesi è attestata da più fonti, sul fatto che il gruppo abbia già stretto alleanze importanti c’è invece da dubitare: Pakistan e Afghanistan sono già una galassia di fazioni spesso in concorrenza fra loro e Daesh può costituire un elemento di disturbo ulteriore (sarebbe per questo, dicono alcuni, che il sito ufficiale della shura di Quetta ha di recente pubblicato un’ufficiale biografia di mullah Omar, proprio per ribadire la supremazia ideologico-religiosa del grande vecchio). Talebani sia pachistani sia afgani sono già in difficoltà per quel che riguarda il proprio campo di battaglia, ci manca solo Daesh.

Allora perché Ghani si dice sicuro che si tratti del califfato in quello che ieri sarebbe stato il suo primo vero battesimo in Afghanistan? Forse il presidente ha bisogno di mostrare al mondo che nel suo Paese ci sono fermenti pericolosi, in grado di far deragliare un possibile processo di pace e di creare un nuovo caos. Ghani ha bisogno dell’aiuto occidentale per stare in piedi e un po’ di paura in più non guasta. Infine, proprio in nome del processo di pace, è preferibile che un attentato così atroce sia da attribuire agli “stranieri” come per altro è possibile che sia, visto che Al Qaeda è in difficoltà ma alcuni gruppi ne continuano a sposare la linea. Infine le acque agitate della politica mediorientale fanno arrivare le loro onde anche qui. L’accordo tra Iran, Usa ed Europa ha irritato i Paesi del Golfo che si sono anche visti negare l’aiuto attivo del Pakistan nella guerra allo Yemen e che hanno registrato solo un tiepido appoggio da Kabul; due Paesi dove la diplomazia iraniana sta lavorando con rinnovato vigore. Utilizzare qualche gruppo e qualche sigla per aumentare il caos resta una politica buona anche per questa stagione non meno che in passato.

Afghanistan, Pakistan e il ruolo di Daesh

Ci sono parecchi dubbi sulla paternità dell’attentato che ieri ha ucciso oltre una trentina di civili in coda davanti a una banca di Jalalabad nell’Afghanistan orientale (in realtà pare si sia trattato di una serie di attentati  coordinati di cui uno veramente grave). A rivendicarlo con una telefonata sarebbero stati gli uomini di Daesh, l’autoproclanato califfato che avrebbe anche in Afghanistan i suoi accoliti. Ma i dubbi ci sono tutti nonostante Ashraf Ghani abbia preso subito per buona la rivendicazione. I dubbi vengono dall’intelligence afgana e dai ricercatori e analisti locali: presto per dire se Daesh esiste davvero nel Paese. Intanto i talebani avrebbero, sempre via telefono, deprecato l’accaduto e così pure Jamat ul-Harar – fazione che si è da poco scissa dal Thereek  Taleban Pakistan (ttp) – in compagnia di un altro gruppo pachistano minore (Lashkar e-Islam). La domanda da farsi è su chi semmai utilizza la sigla di Daesh e qual è la forza di un gruppo che non pare interessato a conquiste territoriali in Afghanistan ma assai più concentrato su Siria e Iraq.

Come orientarsi dunque su Daesh e i suoi legami in Afghanistan e Pakistan? C’è da ritenere fondato un modus operandi che mira ad assoldare mercenari per combattere in Medio oriente dove il sedicente califfato ha bisogno di uomini cui chiede, oltreché all’azione armata, un’adesione senza ombre al ramo sunnita dell’islam. Senza dubbio la campagna di proselitismo è in atto e sfrutta la necessità per molti lavoratori del Jihad di lasciare località diventate estremamente calde specie dopo la lunga offensiva messa in campo nelle aree tribali dall’esercito di Islamabad.Pur se la sua presenza nei due Paesi è attestata da più fonti, sul fatto che il gruppo abbia già stretto alleanze importanti c’è invece da dubitare: Pakistan e Afghanistan sono già una galassia di fazioni spesso in concorrenza fra loro e Daesh può costituire un elemento di disturbo ulteriore (sarebbe per questo, dicono alcuni, che il sito ufficiale della shura di Quetta ha di recente pubblicato un’ufficiale biografia di mullah Omar, proprio per ribadire la supremazia ideologico-religiosa del grande vecchio). Talebani sia pachistani sia afgani sono già in difficoltà per quel che riguarda il proprio campo di battaglia, ci manca solo Daesh.

Allora perché Ghani si dice sicuro che si tratti del califfato in quello che ieri sarebbe stato il suo primo vero battesimo in Afghanistan? Forse il presidente ha bisogno di mostrare al mondo che nel suo Paese ci sono fermenti pericolosi, in grado di far deragliare un possibile processo di pace e di creare un nuovo caos. Ghani ha bisogno dell’aiuto occidentale per stare in piedi e un po’ di paura in più non guasta. Infine, proprio in nome del processo di pace, è preferibile che un attentato così atroce sia da attribuire agli “stranieri” come per altro è possibile che sia, visto che Al Qaeda è in difficoltà ma alcuni gruppi ne continuano a sposare la linea. Infine le acque agitate della politica mediorientale fanno arrivare le loro onde anche qui. L’accordo tra Iran, Usa ed Europa ha irritato i Paesi del Golfo che si sono anche visti negare l’aiuto attivo del Pakistan nella guerra allo Yemen e che hanno registrato solo un tiepido appoggio da Kabul; due Paesi dove la diplomazia iraniana sta lavorando con rinnovato vigore. Utilizzare qualche gruppo e qualche sigla per aumentare il caos resta una politica buona anche per questa stagione non meno che in passato.

Se in trincea si parla di pace

La prossima settimana a Ginevra, il Consiglio dell’Onu per idiritti umani, l’erede della vecchia “Commissione”, dovrebbe discutere del progetto di inserire tra i diritti fondamentali dell’uomo quello …alla pace. Condizionale d’obbligo perché la querelle dura da anni e alcuni Paesi han sempre posto il veto su un diritto che, se acquisito, potrebbe in caso di conflitto trascinare chi lo tradisce davanti alla corte penale dell’Aja.

Da ieri il Consiglio dovrà fare i conti anche con un appello in più affinché il diritto alla pace diventi una prerogativa del genere umano come quello alla salute o alla libertà: un appello che arriva da Udine, città nota per essere considerata la “capitale della Grande Guerra”, di cui si “celebra” tra un mese il centenario (nel conflitto che uccise venti milioni di persone l’Italia entrò il 24 maggio 2015). La città, che nelle parole del sindaco Furio Honsell ripudia volentieri quella funerea nomea proponendosi adesso come «capitale nazionale della pace», si candida proprio a essere uno degli avamposti del diritto alla pace, che in questi giorni si celebra – quello sì volentieri – con un evento che ha portato nel capoluogo circa 3500 studenti da 68 città e 15 regioni italiane che da giovedi a sabato hanno ragionato e ragionano della guerra e di come poterne uscire. Lo fanno in modo del tutto particolare. Ieri con una serie di incontri laboratorio con docenti, studiosi ed esperti della triste materia e oggi con un “meeting di pace nelle trincee della Grande Guerra” (giornata che dà il titolo all’evento) che non è una visita guidata alle memorie del conflitto ma l’idea di utilizzare un luogo evocativo per riflettere sul grande massacro da cui forse presero spunto i molti altri che hanno avvelenato il secolo breve.


Organizzata dalle istituzioni locali (Regione, città di Udine, altri Comuni), dal Coordinamento degli enti locali per la pace con la Tavola dellapace e sostenuta da altre sigle della società civile (dall’Agesci al Movimento di volontariato), la tre giorni studentesca nei luoghi storici del primo conflitto globale non è dunque la scelta di una passeggiata commemorativa né tantomeno “celebrativa”. Ma un laboratorio a cielo aperto per tentare – quantomeno riflettendoci – a ripudiarla la guerra, come suggerisce peraltro un bistrattato articolo della nostra Costituzione. La scelta di puntare sulla didattica, con la collaborazione del ministero dell’Istruzione e una rete di scuole per la pace, si deve al desiderio di dialogare già oggi coi cittadini di domani, vittime frequentemente di un’informazione fuorviante e di scelte dei governi spesso non condivise e comunque mai discusse.

L‘appello sul diritto alla pace, accanto a una “dichiarazione di pace” che risponde

simbolicamente alla “dichiarazione di guerra” all’Austria di cento anni fa, è dunque una delle proposte che esce da trincee trasformate per l’occasione in strumenti per tentare di superare la scelta della guerra come mezzo per risolvere i problemi del mondo. In uno dei laboratori, Yuri spiega che non crede che quella di Karim Franceschi, il giovane di Senigallia partito per alcuni mesi alla difesa di Kobane, sia una buona scelta anche se per una causa “giusta”: perché «combattere la guerra con la guerra significa solo alimentarla». E Lorenzo, un compagno di scuola di Milano, fa un passo in più: sprona alla ricerca di strumenti che bypassino le armi cercando altrove le risposte da dare. Con un cammino su cui sembra siamo ancora molto indietro. Ma se costruire la pace, dice Flavio Lotti del coordinamento, è proprio «camminare»in un pur lungo percorso, anche queste voci contribuiscono a dare linfa a un movimento che, in tempi recenti, registra pesanti battute d’arresto. E chissà che quelle voci, da Lecce, da Tivoli, da Pontedera, non vadano oltre le trincee. Arrivando fino a Ginevra. 

Se in trincea si parla di pace

La prossima settimana a Ginevra, il Consiglio dell’Onu per idiritti umani, l’erede della vecchia “Commissione”, dovrebbe discutere del progetto di inserire tra i diritti fondamentali dell’uomo quello …alla pace. Condizionale d’obbligo perché la querelle dura da anni e alcuni Paesi han sempre posto il veto su un diritto che, se acquisito, potrebbe in caso di conflitto trascinare chi lo tradisce davanti alla corte penale dell’Aja.

Da ieri il Consiglio dovrà fare i conti anche con un appello in più affinché il diritto alla pace diventi una prerogativa del genere umano come quello alla salute o alla libertà: un appello che arriva da Udine, città nota per essere considerata la “capitale della Grande Guerra”, di cui si “celebra” tra un mese il centenario (nel conflitto che uccise venti milioni di persone l’Italia entrò il 24 maggio 2015). La città, che nelle parole del sindaco Furio Honsell ripudia volentieri quella funerea nomea proponendosi adesso come «capitale nazionale della pace», si candida proprio a essere uno degli avamposti del diritto alla pace, che in questi giorni si celebra – quello sì volentieri – con un evento che ha portato nel capoluogo circa 3500 studenti da 68 città e 15 regioni italiane che da giovedi a sabato hanno ragionato e ragionano della guerra e di come poterne uscire. Lo fanno in modo del tutto particolare. Ieri con una serie di incontri laboratorio con docenti, studiosi ed esperti della triste materia e oggi con un “meeting di pace nelle trincee della Grande Guerra” (giornata che dà il titolo all’evento) che non è una visita guidata alle memorie del conflitto ma l’idea di utilizzare un luogo evocativo per riflettere sul grande massacro da cui forse presero spunto i molti altri che hanno avvelenato il secolo breve.


Organizzata dalle istituzioni locali (Regione, città di Udine, altri Comuni), dal Coordinamento degli enti locali per la pace con la Tavola dellapace e sostenuta da altre sigle della società civile (dall’Agesci al Movimento di volontariato), la tre giorni studentesca nei luoghi storici del primo conflitto globale non è dunque la scelta di una passeggiata commemorativa né tantomeno “celebrativa”. Ma un laboratorio a cielo aperto per tentare – quantomeno riflettendoci – a ripudiarla la guerra, come suggerisce peraltro un bistrattato articolo della nostra Costituzione. La scelta di puntare sulla didattica, con la collaborazione del ministero dell’Istruzione e una rete di scuole per la pace, si deve al desiderio di dialogare già oggi coi cittadini di domani, vittime frequentemente di un’informazione fuorviante e di scelte dei governi spesso non condivise e comunque mai discusse.

L‘appello sul diritto alla pace, accanto a una “dichiarazione di pace” che risponde

simbolicamente alla “dichiarazione di guerra” all’Austria di cento anni fa, è dunque una delle proposte che esce da trincee trasformate per l’occasione in strumenti per tentare di superare la scelta della guerra come mezzo per risolvere i problemi del mondo. In uno dei laboratori, Yuri spiega che non crede che quella di Karim Franceschi, il giovane di Senigallia partito per alcuni mesi alla difesa di Kobane, sia una buona scelta anche se per una causa “giusta”: perché «combattere la guerra con la guerra significa solo alimentarla». E Lorenzo, un compagno di scuola di Milano, fa un passo in più: sprona alla ricerca di strumenti che bypassino le armi cercando altrove le risposte da dare. Con un cammino su cui sembra siamo ancora molto indietro. Ma se costruire la pace, dice Flavio Lotti del coordinamento, è proprio «camminare»in un pur lungo percorso, anche queste voci contribuiscono a dare linfa a un movimento che, in tempi recenti, registra pesanti battute d’arresto. E chissà che quelle voci, da Lecce, da Tivoli, da Pontedera, non vadano oltre le trincee. Arrivando fino a Ginevra. 

Yemen, il coraggio di Islamabad nel dire no a Riad

Il ministro degli Emirati Gargash:
ha condannato il Pakistan
accusandolo di “ambiguità”

Per un Paese che riceve una miriade di finanziamenti dal Golfo non è probabilmente stato facile dire di no ieri a Riad che aveva chiesto al Pakistan più di un appoggio politico alla guerra nello Yemen. Ma il  risoluzione che, dopo cinque giorni di dibattito, afferma che il Pakistan resta neutrale in un conflitto che settario non è ma, dicono i parlamentari pachistani, potrebbe diventarlo. Pronti dunque a rispondere se Riad verrà attaccata nella sua sovranità territoriale ma non disposti a fornirle armi, caccia e navi come i sauditi speravano. 
parlamento di Islamabad, all’unanimità, ha approvato venerdi  una

Il gesto è importante e coraggioso. Coraggioso perché dire di no ai sauditi non è facile. Importante perché il Pakistan apre la finestra negoziale chiamando in causa Onu e Organizzazione della conferenza islamica e proponendosi come possibile mediatore per un’uscita diplomatica e negoziale dalla crisi nel piccolo Paese mediorientale. La reazione arriva, furibonda, per bocca del ministro di Stato per gli Affari Esteri degli Uae Anwar Mohammed Gargash che condanna la posizione “ambigua” del Pakistan e secondo cui a Islamabad starebbe più a cuore quanto dicono Teheran e Ankara, favorevoli a una soluzione negoziale, che non a quanto serve ai fratelli arabi. Il Pakistan acquista dunque un ruolo importante: rompe il fronte che Riad vorrebbe unitissimo ma ricorda al Golfo la composizione di tanti Paesi musulmani, dove non tutti sono arabi e dove non tutti sono sunniti. Nel Paese dei puri prevale una posizione morbida, favorevole alla trattativa e che disinnesca in parte la miccia accesa da Riad che gode di molti appoggio, compreso quello (in parte) occidentale e soprattutto americano. Quanto al Golfo, nello schiacciare Islamabad al fianco di Teheren, Gargash leva il velo sulla vera natura del conflitto: fermare l’avanzata dell’Iran come potenza regionale uscita, dopo Ginevra, dalla condizione di paria. Una condizione da cui anche Islamabad evidentemente vuole uscire.

Inutile dire che nella scelta di Islamabad gioca la realpolitik che si evince non solo dalla composizione degli abitanti del Paese dei puri ma anche dal fatto che l’Iran è un vicino da non irritare. Ma al contempo il passo segna una maturità politica importante e, per una volta,  una scelta che va contro la guerra e invoca l’arma del negoziato.

Yemen, il coraggio di Islamabad nel dire no a Riad

Il ministro degli Emirati Gargash:
ha condannato il Pakistan
accusandolo di “ambiguità”

Per un Paese che riceve una miriade di finanziamenti dal Golfo non è probabilmente stato facile dire di no ieri a Riad che aveva chiesto al Pakistan più di un appoggio politico alla guerra nello Yemen. Ma il  risoluzione che, dopo cinque giorni di dibattito, afferma che il Pakistan resta neutrale in un conflitto che settario non è ma, dicono i parlamentari pachistani, potrebbe diventarlo. Pronti dunque a rispondere se Riad verrà attaccata nella sua sovranità territoriale ma non disposti a fornirle armi, caccia e navi come i sauditi speravano. 
parlamento di Islamabad, all’unanimità, ha approvato venerdi  una

Il gesto è importante e coraggioso. Coraggioso perché dire di no ai sauditi non è facile. Importante perché il Pakistan apre la finestra negoziale chiamando in causa Onu e Organizzazione della conferenza islamica e proponendosi come possibile mediatore per un’uscita diplomatica e negoziale dalla crisi nel piccolo Paese mediorientale. La reazione arriva, furibonda, per bocca del ministro di Stato per gli Affari Esteri degli Uae Anwar Mohammed Gargash che condanna la posizione “ambigua” del Pakistan e secondo cui a Islamabad starebbe più a cuore quanto dicono Teheran e Ankara, favorevoli a una soluzione negoziale, che non a quanto serve ai fratelli arabi. Il Pakistan acquista dunque un ruolo importante: rompe il fronte che Riad vorrebbe unitissimo ma ricorda al Golfo la composizione di tanti Paesi musulmani, dove non tutti sono arabi e dove non tutti sono sunniti. Nel Paese dei puri prevale una posizione morbida, favorevole alla trattativa e che disinnesca in parte la miccia accesa da Riad che gode di molti appoggio, compreso quello (in parte) occidentale e soprattutto americano. Quanto al Golfo, nello schiacciare Islamabad al fianco di Teheren, Gargash leva il velo sulla vera natura del conflitto: fermare l’avanzata dell’Iran come potenza regionale uscita, dopo Ginevra, dalla condizione di paria. Una condizione da cui anche Islamabad evidentemente vuole uscire.

Inutile dire che nella scelta di Islamabad gioca la realpolitik che si evince non solo dalla composizione degli abitanti del Paese dei puri ma anche dal fatto che l’Iran è un vicino da non irritare. Ma al contempo il passo segna una maturità politica importante e, per una volta,  una scelta che va contro la guerra e invoca l’arma del negoziato.

Un ruolo (politico) del Pakistan nella guerra yemenita: verso una mediazione di Islamabad?

Ci sono due buone notizie sul fronte della guerra nello Yemen. La prima è che né Afghanistan né Pakistan, due Paesi eminentemente sunniti e alleati con Riad, hanno alcuna intenzione di entrare in guerra a fianco dei caccia sauditi. Appoggio si ma solo verbale e anche lì con molti distinguo (dopo le dichiarazioni ufficiali di appoggio a Riad, Kabul ha chiarito che “la guerra non è la soluzione“; quanto al Pakistan, in parlamento molti deputati si sono detti  contrari a un intervento militare di appoggio al conflitto). La seconda buona notizia è che non solo Islamabad non ha dunque intenzione di garantire un sostegno militare ai sauditi ma che addirittura potrebbe cercare di mediare per arrivare a una soluzione politica della crisi. Così almeno sembra dopo la visita del ministro degli Esteri iraniano  Javad Zarif  a Islamabad mercoledi (e dove giovedi incontra il premier Nawaz Sharif) che  ha chiesto al Pakistan di lavorare a una soluzione politica della crisi. Sembra abbia trovato orecchie attente sull’ipotesi di una possibile mediazione.

Questi due Paesi di guerra devono davvero averne abbastanza in casa per non pensare di dover anche armare una crociata in Medio oriente. Certo deve aver influito la mobilitazione di molte persone e attivisti della società civile per i quali appare molto chiaro come il fucile non sia mai una buona soluzione. Di guerre bastan quelle che già ci sono e Kabul e Islamabad lo sanno bene. Infine se il Pakistan effettivamente si facesse latore di una proposta di mediazione, questo sarebbe un enorme passo avanti per un Paese che di solito è relegato nella casistica degli Stati paria quando non falliti. E ciò vale anche per l’Afghanistan. Benché nessuno dei due abbia risolto i propri problemi interni sul fronte della guerra, una posizione magari congiunta darebbe loro un ruolo che consentirebbe di farli riaffacciare sulla scena politica e non solo su quella della cronaca sanguinaria cui ci hanno abituati.

La svolta “iraniana” di qualche giorno fa a Ginevra non appiana solo i dissapori tra Washington e Teheran. Complica magari le cose in Medio Oriente (con Israele e l’Arabia saudita che quell’accordo non hanno digerito) ma potrebbe risolverle invece in questa parte di mondo dove le relazioni tra l’Iran e Afghanistan e Pakistan non son mai state facili. Se adesso Islamabad, seguita da Kabul, si sforzasse di mediare per por fine alla guerra nello Yemen, un altro passo in più verso le distensione sarebbe fatto (almeno in questa parte di mondo). Un passo che Riad farebbe fatica a deglutire e sul quale, se ne può esser certi, sta giocando tutte le sue carte (petrodollari) perché non venga fatto.

Un ruolo (politico) del Pakistan nella guerra yemenita: verso una mediazione di Islamabad?

Ci sono due buone notizie sul fronte della guerra nello Yemen. La prima è che né Afghanistan né Pakistan, due Paesi eminentemente sunniti e alleati con Riad, hanno alcuna intenzione di entrare in guerra a fianco dei caccia sauditi. Appoggio si ma solo verbale e anche lì con molti distinguo (dopo le dichiarazioni ufficiali di appoggio a Riad, Kabul ha chiarito che “la guerra non è la soluzione“; quanto al Pakistan, in parlamento molti deputati si sono detti  contrari a un intervento militare di appoggio al conflitto). La seconda buona notizia è che non solo Islamabad non ha dunque intenzione di garantire un sostegno militare ai sauditi ma che addirittura potrebbe cercare di mediare per arrivare a una soluzione politica della crisi. Così almeno sembra dopo la visita del ministro degli Esteri iraniano  Javad Zarif  a Islamabad mercoledi (e dove giovedi incontra il premier Nawaz Sharif) che  ha chiesto al Pakistan di lavorare a una soluzione politica della crisi. Sembra abbia trovato orecchie attente sull’ipotesi di una possibile mediazione.

Questi due Paesi di guerra devono davvero averne abbastanza in casa per non pensare di dover anche armare una crociata in Medio oriente. Certo deve aver influito la mobilitazione di molte persone e attivisti della società civile per i quali appare molto chiaro come il fucile non sia mai una buona soluzione. Di guerre bastan quelle che già ci sono e Kabul e Islamabad lo sanno bene. Infine se il Pakistan effettivamente si facesse latore di una proposta di mediazione, questo sarebbe un enorme passo avanti per un Paese che di solito è relegato nella casistica degli Stati paria quando non falliti. E ciò vale anche per l’Afghanistan. Benché nessuno dei due abbia risolto i propri problemi interni sul fronte della guerra, una posizione magari congiunta darebbe loro un ruolo che consentirebbe di farli riaffacciare sulla scena politica e non solo su quella della cronaca sanguinaria cui ci hanno abituati.

La svolta “iraniana” di qualche giorno fa a Ginevra non appiana solo i dissapori tra Washington e Teheran. Complica magari le cose in Medio Oriente (con Israele e l’Arabia saudita che quell’accordo non hanno digerito) ma potrebbe risolverle invece in questa parte di mondo dove le relazioni tra l’Iran e Afghanistan e Pakistan non son mai state facili. Se adesso Islamabad, seguita da Kabul, si sforzasse di mediare per por fine alla guerra nello Yemen, un altro passo in più verso le distensione sarebbe fatto (almeno in questa parte di mondo). Un passo che Riad farebbe fatica a deglutire e sul quale, se ne può esser certi, sta giocando tutte le sue carte (petrodollari) perché non venga fatto.

Il Pakistan e la guerra nello Yemen

Per adesso nessuna decisione è stata presa. Nonostante il premier pachistano Nawaz Sharif abbia assicurato alla monarchia dei Saud che Islamabad sarebbe stata pronta anche a impiegare  il suo esercito per difendere la sicurezza dell’Arabia saudita, la notte deve aver portato consiglio. A quanto si sa sulla guerra in Yemen nessuna decisione, oltre alla dichiarazione di principio, sarà presa da Islamabad prima del rientro di una visita a Riad capitanata nei prossimi giorni dal ministro della difesa Khawaja Asif e dal consigliere di Nawaz Sartaj Aziz. Per ora il Pakistan ha solo evacuato 500 cittadini col passaporto pachistano e residenti nello Yemen e ha comunque assicurato che nessuno dei pachistani residenti in Arabia saudita partecipa più o meno direttamente nel conflitto. Nawaz Sharif, visto che Riad è un importante finanziatore, doveva forse far mostra di solidarietà ma adesso sembra che la linea del governo sia prudente con una chiamata in causa della Conferenza islamica (Oic).

Meglio di ogni altra considerazione mi pare valgano quelle contenute in un articolo di un giovane studioso pachistano, Suleain Akhtar, che mi permetto di suggerire e che, senza giri di parole, sconsiglia vivamente il suo governo dal prendere parte a quella che considera una “guerra imperialista” che non ha nulla a che vedere né col conflitto tra sciiti e sunniti, né con qualsivoglia altra considerazione che non sia un conflitto rivolto a fermare l’Iran di cui Riad  teme e ha sempre temuto l’espansione come potenza non solo regionale. Tanto che i suoi finanziamenti al Pakistan (e ai movimenti fondamentalisti del Paese) vanno proprio letti in questa chiave. Una guerra sotterranea che ora in Yemen viene allo scoperto.

Il Pakistan e la guerra nello Yemen

Per adesso nessuna decisione è stata presa. Nonostante il premier pachistano Nawaz Sharif abbia assicurato alla monarchia dei Saud che Islamabad sarebbe stata pronta anche a impiegare  il suo esercito per difendere la sicurezza dell’Arabia saudita, la notte deve aver portato consiglio. A quanto si sa sulla guerra in Yemen nessuna decisione, oltre alla dichiarazione di principio, sarà presa da Islamabad prima del rientro di una visita a Riad capitanata nei prossimi giorni dal ministro della difesa Khawaja Asif e dal consigliere di Nawaz Sartaj Aziz. Per ora il Pakistan ha solo evacuato 500 cittadini col passaporto pachistano e residenti nello Yemen e ha comunque assicurato che nessuno dei pachistani residenti in Arabia saudita partecipa più o meno direttamente nel conflitto. Nawaz Sharif, visto che Riad è un importante finanziatore, doveva forse far mostra di solidarietà ma adesso sembra che la linea del governo sia prudente con una chiamata in causa della Conferenza islamica (Oic).

Meglio di ogni altra considerazione mi pare valgano quelle contenute in un articolo di un giovane studioso pachistano, Suleain Akhtar, che mi permetto di suggerire e che, senza giri di parole, sconsiglia vivamente il suo governo dal prendere parte a quella che considera una “guerra imperialista” che non ha nulla a che vedere né col conflitto tra sciiti e sunniti, né con qualsivoglia altra considerazione che non sia un conflitto rivolto a fermare l’Iran di cui Riad  teme e ha sempre temuto l’espansione come potenza non solo regionale. Tanto che i suoi finanziamenti al Pakistan (e ai movimenti fondamentalisti del Paese) vanno proprio letti in questa chiave. Una guerra sotterranea che ora in Yemen viene allo scoperto.

La guerra nel giardino di casa: prima ti bastono poi (semmai) parliamo

Infografica di Al Jazeera: anche
 la tv del Qatar  in queste ore è
 un pezzo di propaganda probellica
L’attacco deciso dall’Arabia saudita – cui partecipano i Paesi del Golfo con l’appoggio giordano, egiziano, marocchino e pachistano con l’avallo di Stati uniti e Gran Bretagna, costituisce un pericolosissimo precedente. Non che sia la prima volta che un Paese decide di intervenire nel giardino di casa (gli Usa a Panama ad esempio nel 1989 ) ma è forse la prima volta che, in tempi rapidissimi, una coalizione di volenterosi si mette assieme e manda cento caccia a bombardare senza nemmeno tentare né un passaggio negoziale, né il coinvolgimento – almeno di facciata – delle Nazioni unite. Avallo delle grandi potenze da una parte, silenzio degli altri grandi attori dall’altro (con l’esclusione di Cina e Russia e ovviamente dell’Iran) sono il corollario perfetto che ammette le soluzioni di fatto nelle aree di rispetto delle proprie zone di interesse. Da lì alla guerra permanente e diffusa in cui ciascuno decide il destino della sua aerea di influenza con le armi grazie al silenzio assenso degli alleati, il passo è così breve che è forse già stato fatto. Se almeno prima c’era una sorta di passaggio negoziale che teneva conto almeno simbolicamente del parere altrui, adesso va bene così. Certo, Israele ha fatto altrettanto a Gaza, ma lo Yemen, a differenza di Gaza, è uno Stato sovrano riconosciuto a livello internazionale. Dal punto di vista del diritto (da quello umano è la stesa cosa), siamo di fronte a un passaggio radicale più preoccupante, del resto già avvenuto nel 2009 quando Riad attaccò il Bahrein nel silenzio assenso generale. 

L’unione europea?
 Federica Mogherini
L’unica  voce fuori dal coro è stata ieri quella di Federica Mogherini che ha twittato come “la guerra non sia mai la soluzione”, ma è poco. Un tweet (che riprende il suo comunicato ufficiale) non è sufficiente a mettere un paletto anche se alla responsabile della diplomazia europea tocca tener conto del fatto che uno dei Paesi membri più importanti, la Gran Bretagna, aveva appena assicurato il suo avallo a Riad e compagni limitandosi ad aggiungere che “una soluzione negoziale va trovata”. Da questo punto di vista il tweet di Mogherini è persino coraggioso (non sarà certo piaciuto né a Londra, né a Parigi) ma resta poca cosa. Si sta ormai ribaltando un concetto chiave dei rapporti internazionali: il “prima ti bastono e poi parliamo” surclassa la regola elementare secondo cui “prima parliamo poi, nel caso, ti bastono”. Si lascia spazio al solo bastone. Poi probabilmente non si parlerà neppure. E’ questo il mondo che vogliamo? 

L’Italia
L’export italiano di armi italiane tra il 2005–2009
 e il 2010–14 è cresciuto  di oltre il 30% 
Temo che quanto sta accadendo abbia lasciato indifferenti i più: oggi sui giornali italiani c’è più spazio ala vicenda, ma ieri La Repubblica, quotidiano progressista, dedicava alla guerra un trafiletto a pagina 17 (di contorno alla notizia sui jihadisti nostrani) e invece il primo sfoglio alla tragedia dell’areo caduto in Francia. Centocinquanta morti sono una (cattiva) notizia, ma una guerra nemmeno tanto lontano da casa non meriterebbe altrettanto? E l’Italia del resto che fa? Sembra, al solito, poco conscia di quello che accade e del ruolo che potrebbe avere. Anzi poco conscia del ruolo che ha; sauditi e Paesi del Golfo sono i primi acquirenti delle nostre armi e Roma non si è neppure sognata di fare come la Germania che ha decretato lo stop di vendite a Riad dopo che sono venute alla luce le sue responsabilità nella nascita e crescita dell’Is (per la verità il governo non ha smentito né ammesso la notizia della Bild). Potremmo almeno smettere di finanziare la guerra? 

Guerra per procura

 Guerra sia detto lateralmente, il cui evidente obiettivo non è certo lo Yemen. La guerra strisciante tra Riad e Teheran sta emergendo in superficie. Forse è il caso di pensarci un momento. Altro che minaccia terroristica. La guerra è alle porte e noi le stiamo dando le spalle (si veda l’ottimo articolo di Michele Giorgio oggi su il manifesto).

La guerra nel giardino di casa: prima ti bastono poi (semmai) parliamo

Infografica di Al Jazeera: anche
 la tv del Qatar  in queste ore è
 un pezzo di propaganda probellica
L’attacco deciso dall’Arabia saudita – cui partecipano i Paesi del Golfo con l’appoggio giordano, egiziano, marocchino e pachistano con l’avallo di Stati uniti e Gran Bretagna, costituisce un pericolosissimo precedente. Non che sia la prima volta che un Paese decide di intervenire nel giardino di casa (gli Usa a Panama ad esempio nel 1989 ) ma è forse la prima volta che, in tempi rapidissimi, una coalizione di volenterosi si mette assieme e manda cento caccia a bombardare senza nemmeno tentare né un passaggio negoziale, né il coinvolgimento – almeno di facciata – delle Nazioni unite. Avallo delle grandi potenze da una parte, silenzio degli altri grandi attori dall’altro (con l’esclusione di Cina e Russia e ovviamente dell’Iran) sono il corollario perfetto che ammette le soluzioni di fatto nelle aree di rispetto delle proprie zone di interesse. Da lì alla guerra permanente e diffusa in cui ciascuno decide il destino della sua aerea di influenza con le armi grazie al silenzio assenso degli alleati, il passo è così breve che è forse già stato fatto. Se almeno prima c’era una sorta di passaggio negoziale che teneva conto almeno simbolicamente del parere altrui, adesso va bene così. Certo, Israele ha fatto altrettanto a Gaza, ma lo Yemen, a differenza di Gaza, è uno Stato sovrano riconosciuto a livello internazionale. Dal punto di vista del diritto (da quello umano è la stesa cosa), siamo di fronte a un passaggio radicale più preoccupante, del resto già avvenuto nel 2009 quando Riad attaccò il Bahrein nel silenzio assenso generale. 

L’unione europea?
 Federica Mogherini
L’unica  voce fuori dal coro è stata ieri quella di Federica Mogherini che ha twittato come “la guerra non sia mai la soluzione”, ma è poco. Un tweet (che riprende il suo comunicato ufficiale) non è sufficiente a mettere un paletto anche se alla responsabile della diplomazia europea tocca tener conto del fatto che uno dei Paesi membri più importanti, la Gran Bretagna, aveva appena assicurato il suo avallo a Riad e compagni limitandosi ad aggiungere che “una soluzione negoziale va trovata”. Da questo punto di vista il tweet di Mogherini è persino coraggioso (non sarà certo piaciuto né a Londra, né a Parigi) ma resta poca cosa. Si sta ormai ribaltando un concetto chiave dei rapporti internazionali: il “prima ti bastono e poi parliamo” surclassa la regola elementare secondo cui “prima parliamo poi, nel caso, ti bastono”. Si lascia spazio al solo bastone. Poi probabilmente non si parlerà neppure. E’ questo il mondo che vogliamo? 

L’Italia
L’export italiano di armi italiane tra il 2005–2009
 e il 2010–14 è cresciuto  di oltre il 30% 
Temo che quanto sta accadendo abbia lasciato indifferenti i più: oggi sui giornali italiani c’è più spazio ala vicenda, ma ieri La Repubblica, quotidiano progressista, dedicava alla guerra un trafiletto a pagina 17 (di contorno alla notizia sui jihadisti nostrani) e invece il primo sfoglio alla tragedia dell’areo caduto in Francia. Centocinquanta morti sono una (cattiva) notizia, ma una guerra nemmeno tanto lontano da casa non meriterebbe altrettanto? E l’Italia del resto che fa? Sembra, al solito, poco conscia di quello che accade e del ruolo che potrebbe avere. Anzi poco conscia del ruolo che ha; sauditi e Paesi del Golfo sono i primi acquirenti delle nostre armi e Roma non si è neppure sognata di fare come la Germania che ha decretato lo stop di vendite a Riad dopo che sono venute alla luce le sue responsabilità nella nascita e crescita dell’Is (per la verità il governo non ha smentito né ammesso la notizia della Bild). Potremmo almeno smettere di finanziare la guerra? 

Guerra per procura

 Guerra sia detto lateralmente, il cui evidente obiettivo non è certo lo Yemen. La guerra strisciante tra Riad e Teheran sta emergendo in superficie. Forse è il caso di pensarci un momento. Altro che minaccia terroristica. La guerra è alle porte e noi le stiamo dando le spalle (si veda l’ottimo articolo di Michele Giorgio oggi su il manifesto).

L’accordo con gli Usa che non piace ai talebani (che condannano l’omicidio di Farkhunda)

Per ora è difficile dire se l’attentato di oggi a Kabul (sette morti e quasi quaranta feriti)  sia la risposta a quel che Ashraf Ghani è riuscito a ottenere a Washington dove ieri ha incontrato il presidente Obama. Quel che è certo è che gli americani rimarranno in forze più del previsto – anziché dimezzarsi entro fine 2015, i quasi 10mila soldati di stanza in Afghanistan ci resteranno fino a fine anno per diminuire poi nei due successivi – come è anche certo che un accordo simile, per quanto abbastanza scontato e ampiamente annunciato fra le righe, sicuramente non può piacere alla guerriglia che fa dell’estromissione degli stranieri il suo paletto più importante. Ma ci sono talebani e talebani e, almeno finora, l’attacco di Kabul non ha rivendicazione né diretta motivazione. Chi lo ha fatto non si sa. Si sa invece che Zabihullah Mujahed, il “portavoce” ufficiale, ha condannato l’orribile omicidio di Farkhunda, la donna accusata falsamente  di aver bruciato il sacro Corano. E se i talebani prendono posizione, video e foto  – dove chiaramente si vedono furia e volti degli assassini – permetteranno  probabilmente almeno di fare giustizia. Ma torniamo a Ghani il cui viaggio americano è stato accompagnato da questa orribile vicenda e da notizie di vari attentati di routine.

All’arrivo al Congresso, dove ha tenuto un discorso  ai parlamentari, è stato accolto da una standing ovation di cinque minuti. Poi ha fatto l’afgano buono e amico degli americani: riconoscente e fiducioso, tutto il contrario di Hamid Karzai che ha fatto ballare l’Amministrazione per mesi senza firmare l’accordo sulla sicurezza (Bsa) che ha di fatto spianato la strada – una volta siglato da Ghani –  a un nuovo rapporto con gli Stati uniti. Tutto ciò ha permesso di ottenere al duo afgano (c’era infatti anche Abdullah)  la promessa  dal segretario di Stato John Kerry a da quello alla Difesa Ashton Carter che ci saranno i soldi per mantenere esercito e polizia nazionali (350mila uomini) e che ci saranno anche 800 milioni di dollari per l’agenda di riforme del  governo. Quanto ai soldati che restano, non era probabilmente questo il vero obiettivo di Kabul, benché il risultato principale sia stato sbandierato come tale: con oltre 100mila soldati Nato già tornati a casa, l’Afghanistan è non peggiorato tanto dal punto di vista militare (aumentano attentati e vittime ma le bocce sono sostanzialmente ferme) ma soprattutto da quello economico. Centomila soldati e quasi altrettanti contractor diventano un affare che fa girar moneta oltre a costituire una sorta di garanzia psicologica per gli investitori. Se la macchina della guerra si ferma (senza che arrivi la pace) le cose  tendono a complicarsi. Kabul ha bisogno di soldi più che di soldati. Ghani ha portato a casa entrambi. La storia dovrebbe averci insegnato che aihnoi non v’è l’uno senza l’altro.


Vale la pena comunque  di soffermarsi un momento sulla politica negoziale di Ghani. I talebani per ora hanno smentito i rumors su negoziati tra Kabul e la cupola di Quetta, ma forse qualcosa si muove. Si muove soprattutto sul fronte afgano pachistano con un riavvicinamento tra due Paesi sempre molto distanti. C’è chi ha criticato Ghani per questa iniziativa (che tra l’altro trova a Islamabad interlocutori molto interessati) che invece sembra una buona pista per tagliare le gambe alla guerriglia e quindi spingerla a negoziare. Se i conti a livello internazionale si aggiustano anche con l’Iran, allora Ghani avrà due fronti su cui giocare: i più importanti perché riguardano i due Paesi confinanti. Potrà allora iniziare finalmente una partita negoziale per ora ancora ai suoi inizi.

L’accordo con gli Usa che non piace ai talebani (che condannano l’omicidio di Farkhunda)

Per ora è difficile dire se l’attentato di oggi a Kabul (sette morti e quasi quaranta feriti)  sia la risposta a quel che Ashraf Ghani è riuscito a ottenere a Washington dove ieri ha incontrato il presidente Obama. Quel che è certo è che gli americani rimarranno in forze più del previsto – anziché dimezzarsi entro fine 2015, i quasi 10mila soldati di stanza in Afghanistan ci resteranno fino a fine anno per diminuire poi nei due successivi – come è anche certo che un accordo simile, per quanto abbastanza scontato e ampiamente annunciato fra le righe, sicuramente non può piacere alla guerriglia che fa dell’estromissione degli stranieri il suo paletto più importante. Ma ci sono talebani e talebani e, almeno finora, l’attacco di Kabul non ha rivendicazione né diretta motivazione. Chi lo ha fatto non si sa. Si sa invece che Zabihullah Mujahed, il “portavoce” ufficiale, ha condannato l’orribile omicidio di Farkhunda, la donna accusata falsamente  di aver bruciato il sacro Corano. E se i talebani prendono posizione, video e foto  – dove chiaramente si vedono furia e volti degli assassini – permetteranno  probabilmente almeno di fare giustizia. Ma torniamo a Ghani il cui viaggio americano è stato accompagnato da questa orribile vicenda e da notizie di vari attentati di routine.

All’arrivo al Congresso, dove ha tenuto un discorso  ai parlamentari, è stato accolto da una standing ovation di cinque minuti. Poi ha fatto l’afgano buono e amico degli americani: riconoscente e fiducioso, tutto il contrario di Hamid Karzai che ha fatto ballare l’Amministrazione per mesi senza firmare l’accordo sulla sicurezza (Bsa) che ha di fatto spianato la strada – una volta siglato da Ghani –  a un nuovo rapporto con gli Stati uniti. Tutto ciò ha permesso di ottenere al duo afgano (c’era infatti anche Abdullah)  la promessa  dal segretario di Stato John Kerry a da quello alla Difesa Ashton Carter che ci saranno i soldi per mantenere esercito e polizia nazionali (350mila uomini) e che ci saranno anche 800 milioni di dollari per l’agenda di riforme del  governo. Quanto ai soldati che restano, non era probabilmente questo il vero obiettivo di Kabul, benché il risultato principale sia stato sbandierato come tale: con oltre 100mila soldati Nato già tornati a casa, l’Afghanistan è non peggiorato tanto dal punto di vista militare (aumentano attentati e vittime ma le bocce sono sostanzialmente ferme) ma soprattutto da quello economico. Centomila soldati e quasi altrettanti contractor diventano un affare che fa girar moneta oltre a costituire una sorta di garanzia psicologica per gli investitori. Se la macchina della guerra si ferma (senza che arrivi la pace) le cose  tendono a complicarsi. Kabul ha bisogno di soldi più che di soldati. Ghani ha portato a casa entrambi. La storia dovrebbe averci insegnato che aihnoi non v’è l’uno senza l’altro.


Vale la pena comunque  di soffermarsi un momento sulla politica negoziale di Ghani. I talebani per ora hanno smentito i rumors su negoziati tra Kabul e la cupola di Quetta, ma forse qualcosa si muove. Si muove soprattutto sul fronte afgano pachistano con un riavvicinamento tra due Paesi sempre molto distanti. C’è chi ha criticato Ghani per questa iniziativa (che tra l’altro trova a Islamabad interlocutori molto interessati) che invece sembra una buona pista per tagliare le gambe alla guerriglia e quindi spingerla a negoziare. Se i conti a livello internazionale si aggiustano anche con l’Iran, allora Ghani avrà due fronti su cui giocare: i più importanti perché riguardano i due Paesi confinanti. Potrà allora iniziare finalmente una partita negoziale per ora ancora ai suoi inizi.

Armi, chi compra e chi vende

I dati contenuti nel rapporto annuale del Sipri, istituto internazionale che studia il commercio delle armi e ha base a Stoccolma,  sono sempre una lettura importante e interessante. Soprattutto per noi, Paese a vocazione pacifista. Archivio Disarmo ne ha fatto una sintesi che mi permetto di riportare proprio perché puntualizza la posizione del nostro Paese. I  cinque maggiori esportatori nel 2010-14 sono stati Stati Uniti, Russia, Cina, Germania e Francia e i cinque maggiori importatori sono stati India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Pakistan. E l’Italia? Come si vede dal grafico accanto è ben piazzata: all’ottavo posto (non eravamo appunto l’ottava potenza mondiale?).



Vediamo intanto i big: l‘export armato  statunitense ha visto un incrementato del 23% tra il 2005–2009 e il 2010–14, diretto a 94 acquirenti. L’export cinese è cresciuto del 143% tra il 2005–2009 e il 2010–14 e così la Cina passa dal 3 a 5% delle esportazioni mondiali. Anche Mosca ha aumentato il suo export del 37 % tra il 2005–2009 e il 2010–14, fornendo armi a 56 stati (e alle forze ribelli in Ucraina) nel 2010–14. Le esportazioni tedesche dei maggiori sistemi d’arma, invece, sono diminuite del 43% tra il 2005– 2009 e il 2010–14. Invio a 55 stati. Eccoci a noi: Roma si piazza all’ottavo posto a livello mondiale prima di Ucraina e Israele, esportando agli EAU (9% del suo export totale), India (9%) e Turchia (7%). L’Italia si segnala per l’accresciuto export di UAV (droni). In totale, le esportazioni italiane tra il 2005–2009 e il 2010–14 sono cresciute di oltre il 30% (a sinistra la tabella degli importatori).

Archivio Disarmo sottolinea che si  è in attesa della relazione governativa sull’export militare italiano nel 2014, che a breve dovrebbe essere consegnata – ai sensi della legge 185/90 – al Parlamento italiano. “Peraltro, nel corso degli anni, tale relazione – scrive Maurizio Simoncelli di AD –   è diventata sempre meno trasparente e più opaca, mentre la rispondenza ai criteri fondanti la legge (non esportazioni a paesi in guerra, dittature o assenza di rispetto dei diritti umani) appare sempre meno stringente, come hanno dimostrato lo scorso anno la consegna dei caccia da addestramento e da bombardamento leggero M346 ad Israele, proprio all’inizio dell’ennesimo conflitto “Margine di protezione” contro i palestinesi, o le forniture all’Arabia Saudita (48 contratti), agli Emirati Arabi Uniti (23 contratti) e all’Oman (8 contratti), noti per il loro scarso rispetto dei diritti umani”.

Armi, chi compra e chi vende

I dati contenuti nel rapporto annuale del Sipri, istituto internazionale che studia il commercio delle armi e ha base a Stoccolma,  sono sempre una lettura importante e interessante. Soprattutto per noi, Paese a vocazione pacifista. Archivio Disarmo ne ha fatto una sintesi che mi permetto di riportare proprio perché puntualizza la posizione del nostro Paese. I  cinque maggiori esportatori nel 2010-14 sono stati Stati Uniti, Russia, Cina, Germania e Francia e i cinque maggiori importatori sono stati India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Pakistan. E l’Italia? Come si vede dal grafico accanto è ben piazzata: all’ottavo posto (non eravamo appunto l’ottava potenza mondiale?).



Vediamo intanto i big: l‘export armato  statunitense ha visto un incrementato del 23% tra il 2005–2009 e il 2010–14, diretto a 94 acquirenti. L’export cinese è cresciuto del 143% tra il 2005–2009 e il 2010–14 e così la Cina passa dal 3 a 5% delle esportazioni mondiali. Anche Mosca ha aumentato il suo export del 37 % tra il 2005–2009 e il 2010–14, fornendo armi a 56 stati (e alle forze ribelli in Ucraina) nel 2010–14. Le esportazioni tedesche dei maggiori sistemi d’arma, invece, sono diminuite del 43% tra il 2005– 2009 e il 2010–14. Invio a 55 stati. Eccoci a noi: Roma si piazza all’ottavo posto a livello mondiale prima di Ucraina e Israele, esportando agli EAU (9% del suo export totale), India (9%) e Turchia (7%). L’Italia si segnala per l’accresciuto export di UAV (droni). In totale, le esportazioni italiane tra il 2005–2009 e il 2010–14 sono cresciute di oltre il 30% (a sinistra la tabella degli importatori).

Archivio Disarmo sottolinea che si  è in attesa della relazione governativa sull’export militare italiano nel 2014, che a breve dovrebbe essere consegnata – ai sensi della legge 185/90 – al Parlamento italiano. “Peraltro, nel corso degli anni, tale relazione – scrive Maurizio Simoncelli di AD –   è diventata sempre meno trasparente e più opaca, mentre la rispondenza ai criteri fondanti la legge (non esportazioni a paesi in guerra, dittature o assenza di rispetto dei diritti umani) appare sempre meno stringente, come hanno dimostrato lo scorso anno la consegna dei caccia da addestramento e da bombardamento leggero M346 ad Israele, proprio all’inizio dell’ennesimo conflitto “Margine di protezione” contro i palestinesi, o le forniture all’Arabia Saudita (48 contratti), agli Emirati Arabi Uniti (23 contratti) e all’Oman (8 contratti), noti per il loro scarso rispetto dei diritti umani”.

Tutti i conflitti del pianeta

Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, presentazione della Sesta Edizione

Giovedì 19 marzo dalle 10,30 alle 13
Sede della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana)
a Roma, Corso Vittorio Emanuele II, 349

. L’incontro, dal titolo “Geografia della pace, geografia della guerra. Fare informazione” sarà aperto dai saluti di Santo Della Volpe, presidente FNSI ; Giuseppe Giulietti, portavoce Articolo 21; Flavio Lotti, coordinatore Tavola della Pace.
Intervengono:
Riccardo Noury Portavoce Amnesty International Italia
Marica Di Pierri Presidente Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali
Francesca Chiavacci Presidente Nazionale Arci
Stefano Zannini Direttore supporto operazioni di Medici Senza Frontiere
Giovanni Scotto Università di Firenze
Fabio Bucciarelli fotoreporter, cofondatore MeMo
Modera:
Raffaele Crocco Direttore Atlante delle Guerre
Conclude:
Vittorio Di Trapani, segretario Usigrai

Tutti i conflitti del pianeta

Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, presentazione della Sesta Edizione

Giovedì 19 marzo dalle 10,30 alle 13
Sede della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana)
a Roma, Corso Vittorio Emanuele II, 349

. L’incontro, dal titolo “Geografia della pace, geografia della guerra. Fare informazione” sarà aperto dai saluti di Santo Della Volpe, presidente FNSI ; Giuseppe Giulietti, portavoce Articolo 21; Flavio Lotti, coordinatore Tavola della Pace.
Intervengono:
Riccardo Noury Portavoce Amnesty International Italia
Marica Di Pierri Presidente Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali
Francesca Chiavacci Presidente Nazionale Arci
Stefano Zannini Direttore supporto operazioni di Medici Senza Frontiere
Giovanni Scotto Università di Firenze
Fabio Bucciarelli fotoreporter, cofondatore MeMo
Modera:
Raffaele Crocco Direttore Atlante delle Guerre
Conclude:
Vittorio Di Trapani, segretario Usigrai

La rivincita di Kejri, lo schiaffo al Bjp, la sonora sconfitta del Congresso

I risultati finali della tornata elettorale per l’amministrazione del territorio della capitale sono andati assai più in là delle già rosee previsioni degli exit pool. Il responso finale delle urne di New Delhi da’ infatti una maggioranza blindata all’Aam Aadmi Party (Aap) di Arvind “Kejri” Kejriwal che, dopo un anno di amministrazione controllata, guadagna il governo della capitale. Ma la vera notizia è un altra: se è stupefacente che l’Aap abbia guadagnato la quasi totalità dei 70 seggi dell’Assemblea della capitale (67, ne aveva 28), il Bharatiya Janata Party (Bjp) – il partito nazionalista e identitario del premier Narendra Modi uscito vittorioso dalle politiche dall’anno scorso – riceve uno schiaffo elettorale che segna in modo inequivocabile una battuta d’arresto della sua affermazione nel Paese, che potrebbe avere ripercussioni su altre elezioni in altri Stati: passa da 31 a 3 seggi. Ma fa una fine ancora peggiore il Partito del Congresso (Indian National Congress) di Sonia Gandhi che, almeno a Delhi, sparisce completamente dalla scena politica (nessun seggio, ne aveva 8).

I dati messi assieme da diverse fonti attraverso gli exit pool avevano attribuito tra 39 e 48 seggi al partito anti corruzione (Aap), seguito con 33 dal partito di Modi (Bjp) che nelle passate elezioni di Delhi era comunque arrivato prima dell’Aap e del Congresso ma senza poter formare un governo. Ed era stato proprio grazie ai seggi guadagnati dal Congresso che Kerjwal aveva (sommandoli a quelli di altri due partiti più piccoli) potuto formare il suo governo godendo di una più che solida maggioranza. Ma questa volta l’Aap non ha bisogno di nessuno, ultrapremiato da consensi a valanga ottenuti in tutti gli strati sociali e distretti elettorali con una percentuale altissima di votanti: il 67% dei 13 milioni di aventi diritto (in termini percentuali l’Aap ha guadagnato il 54,3% contro il 32,2% del Bjp).

Pur premiato dalle urne nel 2013 e dopo aver abilmente costruito un’alleanza col Congresso, Kejriwal aveva però abbandonato il suo scranno di chief minister dopo nemmeno due mesi di governo, dimettendosi il 14 febbraio 2014, in contrasto sia col Congresso sia col Bjp che avevano bloccato nel “parlamentino” di Delhi il Jan Lokpal Bill – la legge anti corruzione proposta dagli attivisti della società civile, movimento da cui nel 2012 è nato l’Aap – con una melina molto simile a quella adottata nel parlamento nazionale per bloccare una legge statale quasi gemella ma corretta da decine di emendamenti. Arvind poi aveva sfidato Modi nelle legislative ma aveva anche perso clamorosamente forse proprio per via del suo gran rifiuto, probabilmente poco digerito dalla base elettorale a Delhi e, di riflesso, sul piano nazionale. L’abile Arvind se n’è reso conto e ha impostato la sua nuova campagna a Delhi, oltreché su promesse al ceto più povero, chiedendo ufficialmente scusa per la scelta di aver lasciato dopo pochi giorni di governo.

Il Bjp, sperando di contrastare Kejriwal sul suo stesso terreno, gli ha schierato contro l’ex poliziotta e attivista civile Kiran Bedi, sfruttando sia il passato di militante della Bedi (indigesta però a una parte del partito), sia giocando sul prestigio personale di Modi che ora, dicono i suoi detrattori, ha finito per trasformare la sua forza in un’arroganza che -almeno agli indiani della capitale – non è piaciuta. Non ha evidentemente giocato a favore nemmeno l’assist che gli ha fornito recentemente Barack Obama quando. a gennaio, è venuto a Delhi per concludere un accordo sul nucleare civile e ha trattato da pari un uomo che, per il suo passato come governatore del Gujarat (dove si sono svolti in passato pesanti pogrom anti musulmani), non era gradito negli Stati uniti.

Nel giorno dei risultati arriva infine sulla candidata di Modi anche un’altra tegola: la sua Ong – Navjyoti India Foundation – ha ricevuto fondi dal magnate dei diamanti H. R. Metha, al momento nell’occhio del ciclone per un’indagine su fondi neri in banche europee. In cambio, Kiran Bedi era andata come testimonial a Dubai a sostenere alcune attività caritatevoli della Rosy Blue, l’holding di Metha. Più di un motivo adesso per la candidata trombata per leccarsi le ferite.

Modi ha fatto buon viso a cattivo gioco: è stato il primo a congratularsi con Kejriwal e ha promesso il pieno sostegno del governo centrale. Attualmente però il suo partito non riesce nemmeno a essere opposizione. Per farlo occorrono almeno sette seggi e il Bjp non arriva alla metà.

La rivincita di Kejri, lo schiaffo al Bjp, la sonora sconfitta del Congresso

I risultati finali della tornata elettorale per l’amministrazione del territorio della capitale sono andati assai più in là delle già rosee previsioni degli exit pool. Il responso finale delle urne di New Delhi da’ infatti una maggioranza blindata all’Aam Aadmi Party (Aap) di Arvind “Kejri” Kejriwal che, dopo un anno di amministrazione controllata, guadagna il governo della capitale. Ma la vera notizia è un altra: se è stupefacente che l’Aap abbia guadagnato la quasi totalità dei 70 seggi dell’Assemblea della capitale (67, ne aveva 28), il Bharatiya Janata Party (Bjp) – il partito nazionalista e identitario del premier Narendra Modi uscito vittorioso dalle politiche dall’anno scorso – riceve uno schiaffo elettorale che segna in modo inequivocabile una battuta d’arresto della sua affermazione nel Paese, che potrebbe avere ripercussioni su altre elezioni in altri Stati: passa da 31 a 3 seggi. Ma fa una fine ancora peggiore il Partito del Congresso (Indian National Congress) di Sonia Gandhi che, almeno a Delhi, sparisce completamente dalla scena politica (nessun seggio, ne aveva 8).

I dati messi assieme da diverse fonti attraverso gli exit pool avevano attribuito tra 39 e 48 seggi al partito anti corruzione (Aap), seguito con 33 dal partito di Modi (Bjp) che nelle passate elezioni di Delhi era comunque arrivato prima dell’Aap e del Congresso ma senza poter formare un governo. Ed era stato proprio grazie ai seggi guadagnati dal Congresso che Kerjwal aveva (sommandoli a quelli di altri due partiti più piccoli) potuto formare il suo governo godendo di una più che solida maggioranza. Ma questa volta l’Aap non ha bisogno di nessuno, ultrapremiato da consensi a valanga ottenuti in tutti gli strati sociali e distretti elettorali con una percentuale altissima di votanti: il 67% dei 13 milioni di aventi diritto (in termini percentuali l’Aap ha guadagnato il 54,3% contro il 32,2% del Bjp).

Pur premiato dalle urne nel 2013 e dopo aver abilmente costruito un’alleanza col Congresso, Kejriwal aveva però abbandonato il suo scranno di chief minister dopo nemmeno due mesi di governo, dimettendosi il 14 febbraio 2014, in contrasto sia col Congresso sia col Bjp che avevano bloccato nel “parlamentino” di Delhi il Jan Lokpal Bill – la legge anti corruzione proposta dagli attivisti della società civile, movimento da cui nel 2012 è nato l’Aap – con una melina molto simile a quella adottata nel parlamento nazionale per bloccare una legge statale quasi gemella ma corretta da decine di emendamenti. Arvind poi aveva sfidato Modi nelle legislative ma aveva anche perso clamorosamente forse proprio per via del suo gran rifiuto, probabilmente poco digerito dalla base elettorale a Delhi e, di riflesso, sul piano nazionale. L’abile Arvind se n’è reso conto e ha impostato la sua nuova campagna a Delhi, oltreché su promesse al ceto più povero, chiedendo ufficialmente scusa per la scelta di aver lasciato dopo pochi giorni di governo.

Il Bjp, sperando di contrastare Kejriwal sul suo stesso terreno, gli ha schierato contro l’ex poliziotta e attivista civile Kiran Bedi, sfruttando sia il passato di militante della Bedi (indigesta però a una parte del partito), sia giocando sul prestigio personale di Modi che ora, dicono i suoi detrattori, ha finito per trasformare la sua forza in un’arroganza che -almeno agli indiani della capitale – non è piaciuta. Non ha evidentemente giocato a favore nemmeno l’assist che gli ha fornito recentemente Barack Obama quando. a gennaio, è venuto a Delhi per concludere un accordo sul nucleare civile e ha trattato da pari un uomo che, per il suo passato come governatore del Gujarat (dove si sono svolti in passato pesanti pogrom anti musulmani), non era gradito negli Stati uniti.

Nel giorno dei risultati arriva infine sulla candidata di Modi anche un’altra tegola: la sua Ong – Navjyoti India Foundation – ha ricevuto fondi dal magnate dei diamanti H. R. Metha, al momento nell’occhio del ciclone per un’indagine su fondi neri in banche europee. In cambio, Kiran Bedi era andata come testimonial a Dubai a sostenere alcune attività caritatevoli della Rosy Blue, l’holding di Metha. Più di un motivo adesso per la candidata trombata per leccarsi le ferite.

Modi ha fatto buon viso a cattivo gioco: è stato il primo a congratularsi con Kejriwal e ha promesso il pieno sostegno del governo centrale. Attualmente però il suo partito non riesce nemmeno a essere opposizione. Per farlo occorrono almeno sette seggi e il Bjp non arriva alla metà.

Valanga Kejriwal

I dati forniti dagli exit pool avevano attribuito  tra 39 e 48 seggi al partito anti corruzione (Aap), seguito con 33 dal partito di Modi (Bjp). Sbagliavano per difetto nel pimo caso, per eccesso di abbondanza nel secondo. Col 67% dei 13 milioni di aventi diritto che hanno messo la scheda nell’urna, i voti dano la capitale al partito Aam Aadmi Party (Aap) di Arvind “Kejri” Kejriwal. E se è clamoroso l’Aap abbia guadagnato la quasi totalità dei 70 seggi dell’Assemblea  passa da 31 a 3 seggi! Ma la fine peggiore la fa l’Indian National Congress che, almeno a Delhi, sparisce completamente dalla scena politica (nessun seggio). Modi ha fatto buon viso a cattivo gioco: è stato il primo a congratularsi con  Kejriwal e ha promesso il pieno sostegno del governo centrale. Attualmente però il suo partito non riesce nemmeno a essere opposizione. Per farlo occorrono almeno sette seggi e il Bjp non arriva alla metà. Si vedra’.

Valanga Kejriwal

I dati forniti dagli exit pool avevano attribuito  tra 39 e 48 seggi al partito anti corruzione (Aap), seguito con 33 dal partito di Modi (Bjp). Sbagliavano per difetto nel pimo caso, per eccesso di abbondanza nel secondo. Col 67% dei 13 milioni di aventi diritto che hanno messo la scheda nell’urna, i voti dano la capitale al partito Aam Aadmi Party (Aap) di Arvind “Kejri” Kejriwal. E se è clamoroso l’Aap abbia guadagnato la quasi totalità dei 70 seggi dell’Assemblea  passa da 31 a 3 seggi! Ma la fine peggiore la fa l’Indian National Congress che, almeno a Delhi, sparisce completamente dalla scena politica (nessun seggio). Modi ha fatto buon viso a cattivo gioco: è stato il primo a congratularsi con  Kejriwal e ha promesso il pieno sostegno del governo centrale. Attualmente però il suo partito non riesce nemmeno a essere opposizione. Per farlo occorrono almeno sette seggi e il Bjp non arriva alla metà. Si vedra’.

Delhi exit pools: Kejriwal ancora vittoriso. La lezione del "Grillo" indiano

Anche questa volta l’Aam Aadmi Party di Arvind Kerjwal ce l’avrebbe fattanelle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea della capitale, il mini stato dall’Unione senza governo da un anno esatto (Kerjiwal si dimise il 14 febbraio 2014). I dati messi assieme da diverse fonti e riportati da The Hindu dicono che gli exit pools delle elezioni di sabato attribuirebbero tra 39 e 48 seggi al partito anti corruzione (Aam) sui 70 in palio, seguito dal partito del premier Narendra Modi (Bjp) che nelle scorse elezioni (2013) era invece arrivato con un ottima posizione ma non tale da permettergli di formare  il governo della città-stato. Il Congresso, già decimato nella passata tornata (ma col cui contributo Kejriwal aveva potuto avere la maggioranza e fare un governo) esce a pezzi. Altissima l-affluenza al 67%.
La prudenza non è mai troppa ma si può aggiungere che persino una vittoria di misura del Bjp resterebbe una vittoria di Kejriwal che abbandonò il suo scranno da chief minister dopo nemmeno due mesi in contrasto sia col Congresso sia col Bjp che avevano bloccato nel “parlamentino” di Delhi il Jan Lokpal Billla legge anti corruzione proposta dagli attivisti della società civile, movimento da cui nel 2012 era nato l’Aap – con una melina molto simile a quella adottata nel parlamento nazionale. Poi Arvind aveva sfidato Modi nelle legislative perdendo clamorosamente.
Sapendo che la sua vera base elettorale è nella capitale, Kejriwal ha chiesto scusa e si è ripresentato risfidando in un certo senso ancora Modi e il suo candidato – l’ex poliziotta e attivista civile Kiran Bedi – ma in un momento in cui Modi è premier e gode di grande consenso. Se è vero quanto dicono gli exit pools la vittoria sarebbe pazzesca perché con solo una trentina di seggi, il Bjp subirebbe una sconfitta bruciante e così le sue politiche: liberiste e identitarie.
Paragonato a Beppe Grillo per la sua battaglia anti corruzione, Arvind ha una marcia in più. Non ha avuto paura di allearsi col Congresso dopo le prime elezioni formando il suo primo governo e la sua battaglia è su un progetto di leggi serie e frutto di una lunga concertazione con la base. La politica, al contrario del comico genovese, Kerjriwal sembra conoscerla bene sia nelle regole sia nelle strategie. Ora restano da vedere i numeri che al Congresso di Sonia Gandhi danno un margine di soli 4 seggi, ossia una presenza praticamente ininfluente. Ma la vera lezione è per l’arrogante premier indiano, forse troppo convinto di essere la persona giusta. Perdere Delhi, come più di un analista ha notato, è perdere un pezzo importante del Paese.

Delhi exit pools: Kejriwal ancora vittoriso. La lezione del "Grillo" indiano

Anche questa volta l’Aam Aadmi Party di Arvind Kerjwal ce l’avrebbe fattanelle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea della capitale, il mini stato dall’Unione senza governo da un anno esatto (Kerjiwal si dimise il 14 febbraio 2014). I dati messi assieme da diverse fonti e riportati da The Hindu dicono che gli exit pools delle elezioni di sabato attribuirebbero tra 39 e 48 seggi al partito anti corruzione (Aam) sui 70 in palio, seguito dal partito del premier Narendra Modi (Bjp) che nelle scorse elezioni (2013) era invece arrivato con un ottima posizione ma non tale da permettergli di formare  il governo della città-stato. Il Congresso, già decimato nella passata tornata (ma col cui contributo Kejriwal aveva potuto avere la maggioranza e fare un governo) esce a pezzi. Altissima l-affluenza al 67%.
La prudenza non è mai troppa ma si può aggiungere che persino una vittoria di misura del Bjp resterebbe una vittoria di Kejriwal che abbandonò il suo scranno da chief minister dopo nemmeno due mesi in contrasto sia col Congresso sia col Bjp che avevano bloccato nel “parlamentino” di Delhi il Jan Lokpal Billla legge anti corruzione proposta dagli attivisti della società civile, movimento da cui nel 2012 era nato l’Aap – con una melina molto simile a quella adottata nel parlamento nazionale. Poi Arvind aveva sfidato Modi nelle legislative perdendo clamorosamente.
Sapendo che la sua vera base elettorale è nella capitale, Kejriwal ha chiesto scusa e si è ripresentato risfidando in un certo senso ancora Modi e il suo candidato – l’ex poliziotta e attivista civile Kiran Bedi – ma in un momento in cui Modi è premier e gode di grande consenso. Se è vero quanto dicono gli exit pools la vittoria sarebbe pazzesca perché con solo una trentina di seggi, il Bjp subirebbe una sconfitta bruciante e così le sue politiche: liberiste e identitarie.
Paragonato a Beppe Grillo per la sua battaglia anti corruzione, Arvind ha una marcia in più. Non ha avuto paura di allearsi col Congresso dopo le prime elezioni formando il suo primo governo e la sua battaglia è su un progetto di leggi serie e frutto di una lunga concertazione con la base. La politica, al contrario del comico genovese, Kerjriwal sembra conoscerla bene sia nelle regole sia nelle strategie. Ora restano da vedere i numeri che al Congresso di Sonia Gandhi danno un margine di soli 4 seggi, ossia una presenza praticamente ininfluente. Ma la vera lezione è per l’arrogante premier indiano, forse troppo convinto di essere la persona giusta. Perdere Delhi, come più di un analista ha notato, è perdere un pezzo importante del Paese.

Viaggio all’Eden/ L’orrida Varkala, la delicata Kappil

Quando sul finire del secolo scorso Goa era ormai diventata il ricettacolo infinito di turbe di viaggiatori che ne avevano infestato spiagge e baracche, l’attenzione del vecchio freak in cerca di un po’ di pace iniziò a guardare più a Sud. Lontano dal clamore di Goa, dal richiamo di Mumbay (all’epoca Bombay) e dalla ricerca sempre più faticosa di un alloggio a Sud di Panjim (oggi Panaji) la capitale di Stato. Gli occhi si fissarono sul Kerala, già noto per le backwaters, canali d’acqua dolce contaminati dal mare in un reticolo di vegetazione lussureggiante, canali e battelli da passeggio.
Arrivato a Varkala, il primo viaggiatore dovette rimanere estasiato: la città (oggi circa 40mila abitanti) è a un tiro di schioppo dalla costa, dominata da scogliere di una formazione geologica antichissima (Cenozoico) a picco sul mare: nera come il carbone e rossa come l’argilla. Intorno templi e moschee e, sotto il dirupo, spiagge infinite e incontaminate per chilometri. Piccolo sogno tropicale a budget ridotto, sembrava il buen retiro speciale per chi fuggiva gli ozii di Goa per cercare un po’ di pace.
 Che ora potete scordarvi benché una nota guida definisca il posto «un luogo magnifico per fermarsi a guardare le giornate trasformarsi in settimane». Forse dieci o quindici anni or sono



Centinaia di alberghi, guest house, casette per tutte le tasche (da 1000 a 10mila rupie

e oltre), ristoranti con offerta di ogni bevanda (a prezzi contenuti) e generalmente una sorta di cucina per palati delicati addomesticata, generalmente di qualità medio bassa. Pesce freschissimo spesso mal cucinato, curry sbiaditi, cucina locale appiattita sul gusto di europei, israeliani (alcuni anni fa la colonia prominente), russi e così via. Persino qualche caso di prostituzione. Decine di ospedali e centri ayurvedici che sono in sostanza beauty farm. Da questo posto senz’anima (almeno a ridosso della scogliera lungo la quale si sviluppa l’offerta turistica) gli dei sembrano essere scappati. Fa tenerezza la coppietta che osserva il tramonto nella posizione del loto in cerca di benedizione. E’ che Shiva e Parvati non abitano più qui. E’ il turismo bellezza!


Le prime costruzioni a più piani
fanno capolino tra i palmeti
Per essere onesti, abbiamo visto di molto peggio. Certo, nell’alta stagione (gennaio-marzo) sciamano decine di centinaia di turisti dall’aeroporto internazionale di Tirvandrum e se chiedi loro cosa son venuti a fare in India, rispondono: «Mica sim venuti in India; a Varkala siam venuti». Per ora però, che piaccia o meno la loro concentrazione, l’impatto non è dei peggiori: le case sono basse, il turismo genera denaro e lavoro e spinge anche a una certa cura del territorio. Ma…

Le prime costruzioni a 4-5 piani fanno capolino. E la scogliera, composta di una sua fragilità, ha tutta l’aria di essere minacciata: dal mare da una parte, dall’erosione monsonica dall’altra e infine dal peso di una cementificazione: contenuta ma pur sempre selvaggia. Quanto durerà? L’unica vera fortuna del Kerala è che c’è molta acqua, se è vero che un turista ne consuma almeno 8 volte un locale. Insomma, per ora il saldo sembra positivo (posto che è una località da cui siamo fuggiti dopo una notte ma questa è un’altra storia) ma il futuro appare incerto. Quel che è certo è che non è un posto da viaggiatori ma una località turistica da relax. Niente di male se siete stanchi e accaldati o se l’intenzione è fare un pieno di massaggi sentendo il fragore del mare e potendo bere una birretta ghiacciata ai bordi magari di una piscina. Non è certo per moralismo che Varkala non ci è piaciuta.

Parti della scogliera di Varkala in mare

L’eterna diatriba resta quella tra il turista e il viaggiatore che, nel fondo dell’animo, ha sempre l’idea che sta andando alla scoperta di qualcosa. Non diremo di “genuino”, termine di per se stesso imperfetto, e neppure di “nuovo”, ma di qualcosa. Qualcosa di non ancora visto (almeno da noi). 

Spesso quel qualcosa è solo una sensazione o una breve conversazione con il proprietario di un piccolo locale dove si prepara il tè. A Kappil, cinque chilometri più a Nord, questa sensazione è ancora possibile: rare guest house a prezzi più che accessibili inframezzate da spiaggia e palmeti, piccoli templi e moschee, piccole frazioni dove ferma l’autobus e si può mangiare qualcosa della cucina locale. C’è altro? Si c’è altro. L’impressione a Varkala è che la scogliera stia irrimediabilmente franando. Il mare la erode e la cementificazione della costa, che apparentemente sembra contenerne la spinta, non appare come la soluzione migliore. La pressione sulla scogliera è forte e ogni anno un pezzo se ne va in mare. A volte anche il turismo apparentemente responsabile finisce per essere responsabile di un piccolo disastro ecologico. Ci auguriamo di sbagliare.



Viaggio all’Eden/ L’orrida Varkala, la delicata Kappil

Quando sul finire del secolo scorso Goa era ormai diventata il ricettacolo infinito di turbe di viaggiatori che ne avevano infestato spiagge e baracche, l’attenzione del vecchio freak in cerca di un po’ di pace iniziò a guardare più a Sud. Lontano dal clamore di Goa, dal richiamo di Mumbay (all’epoca Bombay) e dalla ricerca sempre più faticosa di un alloggio a Sud di Panjim (oggi Panaji) la capitale di Stato. Gli occhi si fissarono sul Kerala, già noto per le backwaters, canali d’acqua dolce contaminati dal mare in un reticolo di vegetazione lussureggiante, canali e battelli da passeggio.
Arrivato a Varkala, il primo viaggiatore dovette rimanere estasiato: la città (oggi circa 40mila abitanti) è a un tiro di schioppo dalla costa, dominata da scogliere di una formazione geologica antichissima (Cenozoico) a picco sul mare: nera come il carbone e rossa come l’argilla. Intorno templi e moschee e, sotto il dirupo, spiagge infinite e incontaminate per chilometri. Piccolo sogno tropicale a budget ridotto, sembrava il buen retiro speciale per chi fuggiva gli ozii di Goa per cercare un po’ di pace.
 Che ora potete scordarvi benché una nota guida definisca il posto «un luogo magnifico per fermarsi a guardare le giornate trasformarsi in settimane». Forse dieci o quindici anni or sono



Centinaia di alberghi, guest house, casette per tutte le tasche (da 1000 a 10mila rupie

e oltre), ristoranti con offerta di ogni bevanda (a prezzi contenuti) e generalmente una sorta di cucina per palati delicati addomesticata, generalmente di qualità medio bassa. Pesce freschissimo spesso mal cucinato, curry sbiaditi, cucina locale appiattita sul gusto di europei, israeliani (alcuni anni fa la colonia prominente), russi e così via. Persino qualche caso di prostituzione. Decine di ospedali e centri ayurvedici che sono in sostanza beauty farm. Da questo posto senz’anima (almeno a ridosso della scogliera lungo la quale si sviluppa l’offerta turistica) gli dei sembrano essere scappati. Fa tenerezza la coppietta che osserva il tramonto nella posizione del loto in cerca di benedizione. E’ che Shiva e Parvati non abitano più qui. E’ il turismo bellezza!


Le prime costruzioni a più piani
fanno capolino tra i palmeti
Per essere onesti, abbiamo visto di molto peggio. Certo, nell’alta stagione (gennaio-marzo) sciamano decine di centinaia di turisti dall’aeroporto internazionale di Tirvandrum e se chiedi loro cosa son venuti a fare in India, rispondono: «Mica sim venuti in India; a Varkala siam venuti». Per ora però, che piaccia o meno la loro concentrazione, l’impatto non è dei peggiori: le case sono basse, il turismo genera denaro e lavoro e spinge anche a una certa cura del territorio. Ma…

Le prime costruzioni a 4-5 piani fanno capolino. E la scogliera, composta di una sua fragilità, ha tutta l’aria di essere minacciata: dal mare da una parte, dall’erosione monsonica dall’altra e infine dal peso di una cementificazione: contenuta ma pur sempre selvaggia. Quanto durerà? L’unica vera fortuna del Kerala è che c’è molta acqua, se è vero che un turista ne consuma almeno 8 volte un locale. Insomma, per ora il saldo sembra positivo (posto che è una località da cui siamo fuggiti dopo una notte ma questa è un’altra storia) ma il futuro appare incerto. Quel che è certo è che non è un posto da viaggiatori ma una località turistica da relax. Niente di male se siete stanchi e accaldati o se l’intenzione è fare un pieno di massaggi sentendo il fragore del mare e potendo bere una birretta ghiacciata ai bordi magari di una piscina. Non è certo per moralismo che Varkala non ci è piaciuta.

Parti della scogliera di Varkala in mare

L’eterna diatriba resta quella tra il turista e il viaggiatore che, nel fondo dell’animo, ha sempre l’idea che sta andando alla scoperta di qualcosa. Non diremo di “genuino”, termine di per se stesso imperfetto, e neppure di “nuovo”, ma di qualcosa. Qualcosa di non ancora visto (almeno da noi). 

Spesso quel qualcosa è solo una sensazione o una breve conversazione con il proprietario di un piccolo locale dove si prepara il tè. A Kappil, cinque chilometri più a Nord, questa sensazione è ancora possibile: rare guest house a prezzi più che accessibili inframezzate da spiaggia e palmeti, piccoli templi e moschee, piccole frazioni dove ferma l’autobus e si può mangiare qualcosa della cucina locale. C’è altro? Si c’è altro. L’impressione a Varkala è che la scogliera stia irrimediabilmente franando. Il mare la erode e la cementificazione della costa, che apparentemente sembra contenerne la spinta, non appare come la soluzione migliore. La pressione sulla scogliera è forte e ogni anno un pezzo se ne va in mare. A volte anche il turismo apparentemente responsabile finisce per essere responsabile di un piccolo disastro ecologico. Ci auguriamo di sbagliare.



Interludio afgano


Riflessioni a margine di 14 anni vissuti pericolosamente. Cosa si chiude con la fine del 2014, cosa si apre con l’avvento del 2015
Lunedi 12 gennaio, il neo presidente Ashraf Ghani ha finalmente annunciato la lista dei ministri del suo governo. Le nomine hanno ricevuto una reazione comprensibilmente tiepida visto che, l’impasse politico generato dalla condivisione dei poteri tra Ghani e Abdullah Abdullah (l’altro sfidante per la presidenza che, avendola persa, ha preteso una condivisione dei poteri e un ruolo da premier) aveva ormai superato i “cento giorni” del nuovo corso entro i quali il presidente avrebbe dovuto sia nominare la squadra, sia mostrare i primi risultati del suo programma. In base al nuovo “Cencelli” di Kabul, dei 25 ministri in carica, 13 li ha scelti Ghani (tra cui Difesa e Finanze) e 12 li ha scelti Abdullah. Sono questi ultimi, dicasteri di peso (Esteri, Interno, Economia, Sanità, Istruzione), a dimostrazione che il braccio di ferro tra i due ha finito per premiare quasi più il premier che il presidente. Va detto però che i portafogli più importanti (compresa la nomina del governatore della banca centrale) sono saldamente nelle mani di Ghani e chi controlla la cassa controlla tutto, specialmente in un periodo in cui il sostegno estero andrà scemando. I primi problemi comunque sono già arrivati: il parlamento ha contestato la previsione di budget, ossia la finanziaria del governo (alla fine approvata a fine gennaio) e ha bocciato alcuni ministri o chiesto la verifica sul rispetto delle condizioni poste dai regolamenti parlamentari per adire agli scranni: potrebbe trattarsi solod i questioni di potere ma essere anche la dimostrazione di una certa vitalità del parlamento afgano.
Al momento della sua contestazione, la previsione di bilancio diceva che Kabul dovrebbe incassare, tra tasse e dazi, 125 miliardi di afghanis mentre altri 275 miliardi dovrebbero arrivare dall’aiuto internazionale (in totale 8 mld di dollari). I media locali hanno fatto notare che l’anno scorso il governo si era prefissato un incasso di 133 miliardi ma ne aveva ottenuti solo 100. E la borsa degli aiuti stranieri si fa sempre più stretta, tanto che potrebbe strangolare la fragile economia locale. Se la stagione politica si presenta dunque densa di nubi, quella economica non ha cieli meno sgombri: è incorniciata in un futuro incerto, gravato da interrogativi sulla generosità dei donatori che la Conferenza internazionale di Londra del dicembre scorso ha solo in parte fugato pur reiterando l’impegno a non abbandonare l’Afghanistan.
Che l’economia locale vada male – in un mercato del lavoro su cui si affacciano ogni anno 400mila nuovi soggetti in cerca di occupazione – lo si evince facilmente dalla caduta libera dei prezzi sul mercato immobiliare, dove la vendita di case e terreni ha subito deprezzamenti anche del 50%, a fronte di una stagnazione nella quale le transazioni si sono fermate. Inoltre, anche grazie alla sua corsa mondiale al rialzo, il dollaro si è apprezzato di diversi punti percentuali sull’afghanis, divisa che invece in questi anni è stata molto stabile (un deprezzamento della moneta locale potrebbe però favorire le esportazioni depresse dalla sua eccessiva stabilità). Con la fine della presenza massiccia della Nato anche le commesse legate alla guerra stanno calando vertiginosamente o orientando il governo a servirsi da produttori esteri che offrono merci a costo minore. L’economia sostenuta virtualmente da una sorta di clausola di privilegio verso i produttori nazionali viene meno proprio mentre il futuro degli stipendi a militari e funzionari pubblici si va riempiendo di ritardi nei pagamenti e di incognite sulla tenuta dei salari e dell’occupazione

Secondo un rapporto dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction(Sigar, l’agenzia pubblica americana che fa le pulci ai conti per la ricostruzione), Kabul non avrebbe infatti abbastanza liquidità per pagare in futuro i suoi soldati, specie quando, nel 2024, i sussidi esterni per la Difesa dovrebbero terminare. Secondo Sigar le forze armate (Ansf) sono una delle aree a maggior rischio:esercito (Ana) e polizia (Anp) sono al momento composti da 352mila uomini, un numero che la Nato ha proposto di ridurre a 228.500 entro il 2017 proprio per renderlo sostenibile. Ma anche in quel caso Kabul potrebbe non farcela. Questa forza – per quanto ridotta – viene infatti a pesare per 4,1 miliardi di dollari l’anno, cifra a cui Kabul dovrebbe contribuire con 500 milioni fino dall’anno prossimo e che, teoricamente, dal 2024 dovrebbe pagare da sola. Ma poiché nel 2013 il governo è riuscito a incassare da tasse e dazi meno della metà dell’intero budget statale (5,4 mld di dollari) il conto è presto fatto. Kabul immagina di riservare alla spesa per le forze di sicurezza il 3% del budget sperando che il suo Pil cresca e, con lui, anche questa percentuale. Ma se adesso a ripianare i conti ci pensa la comunità internazionale e non è difficile immaginare che a fondi d’aiuto sempre più ridotti, Kabul si ritroverà ad avere sempre meno liquidità per i salari di soldati e poliziotti. Sempre che non li sottragga alla spesa per i servizi o dai salari degli impiegati statali.
Se sarà dunque complesso in futuro mantenere un esercito efficiente, pagare il

Nella foto di Pajhwok, Ghani a sn e Abdullah

salario ai funzionari pubblici per garantire governance e servizi specie in presenza di un costo esorbitante del comparto militare, l’unica via d’uscita logica e pragmatica resta quella di por fine velocemente al conflitto coi talebani. Ma per quel che riguarda il processo di pace (sinora una chimera) le difficoltà sono di doppia natura: da una parte il governo non sembra fare grandi passi avanti (se non con annunci roboanti per alcuni militanti e comandanti guerriglieri che depongono le armi) anche se è difficile dire se esistano o meno negoziati segreti con la guerriglia (o una parte di essa). Dall’altra, la domanda è: quale guerriglia? Il fronte del nemico si presenta infatti estremamente frammentato e, secondo alcuni, addirittura con una aperta crisi di leadership oltreché di visione e di strategia. I talebani afgani non sono jihadisti nel senso che Al Qaeda (o lo Stato islamico, la cui presenza in Afghanistan è stata tra l’altro appena segnalata) danno a questo concetto (internazionalizzazione del jihad) ma semmai nazionalisti religiosi. Non tutti però la pensano così: alcune frange, benché minoritarie, sono jihadiste e qaediste (è il caso della Rete Haqqani, in ottime relazioni con i “cugini” pachistani del Tehrek-e-Taleban Pakistan/Ttp).

Il recente attacco alla scuola di Peshawar a dicembre in Pakistan (oltre 140 morti assassinati proprio da una fazione del Ttp) ha dimostrato come il fronte guerrigliero sia diviso da logiche, tattiche e strategie molto differenti: non solo il sito ufficiale dei talebani afgani (che farebbe capo alla cosiddetta shura di Quetta e dunque a mullah Omar, benché se ne metta in dubbio l’esistenza in vita) ha condannato l’azione prendendone le distanze, ma la stessa posizione ha preso rispetto all’azione kamikaze che, precedentemente, aveva ucciso – in Afghanistan – oltre 40 spettatori di una partita di pallavolo (azione forse attribuibile agli Haqqani). La distanza tra talebani afgani e pachistani è nota, ma sembra emergere sempre di più una frattura interna alla guerriglia afgana che finora ha sempre cercato di mostrare un volto unitario. Questo aspetto la rende più fragile ma rende anche più difficile la trattativa.

Il recente tentativo, soprattutto pachistano, di distendere i rapporti tra i due Paesi indica però un nuovo positivo elemento. Kabul ha sempre accusato Islamabad di aver chiuso entrambi gli occhi sui santuari che, nel Paese dei puri, ospitano i guerriglieri afgani (shura di Quetta e di Peshawar, Rete Haqqani) ma da qualche tempo è Kabul a chiudere gli occhi sui santuari dei talebani pachistani in territorio afgano. Solo la collaborazione tra i due governi – e non l’uso strumentale dei diversi fronti guerriglieri – può mettere fine a un fenomeno che danneggia entrambi. Una dimostrazione tangibile di questa svolta è stata la recentissima messa al bando in Pakistan della Rete Haqqani (valido aiuto per il Ttp e nemico numero 1 in Afghanistan) e di altre nove organizzazioni estremiste e terroriste. Se il buongiorno si vede dal mattino, questa è forse la notizia più rilevante del nuovo anno anche se pagata al carissimo prezzo di oltre 140 vite di giovani studenti.

Interludio afgano


Riflessioni a margine di 14 anni vissuti pericolosamente. Cosa si chiude con la fine del 2014, cosa si apre con l’avvento del 2015
Lunedi 12 gennaio, il neo presidente Ashraf Ghani ha finalmente annunciato la lista dei ministri del suo governo. Le nomine hanno ricevuto una reazione comprensibilmente tiepida visto che, l’impasse politico generato dalla condivisione dei poteri tra Ghani e Abdullah Abdullah (l’altro sfidante per la presidenza che, avendola persa, ha preteso una condivisione dei poteri e un ruolo da premier) aveva ormai superato i “cento giorni” del nuovo corso entro i quali il presidente avrebbe dovuto sia nominare la squadra, sia mostrare i primi risultati del suo programma. In base al nuovo “Cencelli” di Kabul, dei 25 ministri in carica, 13 li ha scelti Ghani (tra cui Difesa e Finanze) e 12 li ha scelti Abdullah. Sono questi ultimi, dicasteri di peso (Esteri, Interno, Economia, Sanità, Istruzione), a dimostrazione che il braccio di ferro tra i due ha finito per premiare quasi più il premier che il presidente. Va detto però che i portafogli più importanti (compresa la nomina del governatore della banca centrale) sono saldamente nelle mani di Ghani e chi controlla la cassa controlla tutto, specialmente in un periodo in cui il sostegno estero andrà scemando. I primi problemi comunque sono già arrivati: il parlamento ha contestato la previsione di budget, ossia la finanziaria del governo (alla fine approvata a fine gennaio) e ha bocciato alcuni ministri o chiesto la verifica sul rispetto delle condizioni poste dai regolamenti parlamentari per adire agli scranni: potrebbe trattarsi solod i questioni di potere ma essere anche la dimostrazione di una certa vitalità del parlamento afgano.
Al momento della sua contestazione, la previsione di bilancio diceva che Kabul dovrebbe incassare, tra tasse e dazi, 125 miliardi di afghanis mentre altri 275 miliardi dovrebbero arrivare dall’aiuto internazionale (in totale 8 mld di dollari). I media locali hanno fatto notare che l’anno scorso il governo si era prefissato un incasso di 133 miliardi ma ne aveva ottenuti solo 100. E la borsa degli aiuti stranieri si fa sempre più stretta, tanto che potrebbe strangolare la fragile economia locale. Se la stagione politica si presenta dunque densa di nubi, quella economica non ha cieli meno sgombri: è incorniciata in un futuro incerto, gravato da interrogativi sulla generosità dei donatori che la Conferenza internazionale di Londra del dicembre scorso ha solo in parte fugato pur reiterando l’impegno a non abbandonare l’Afghanistan.
Che l’economia locale vada male – in un mercato del lavoro su cui si affacciano ogni anno 400mila nuovi soggetti in cerca di occupazione – lo si evince facilmente dalla caduta libera dei prezzi sul mercato immobiliare, dove la vendita di case e terreni ha subito deprezzamenti anche del 50%, a fronte di una stagnazione nella quale le transazioni si sono fermate. Inoltre, anche grazie alla sua corsa mondiale al rialzo, il dollaro si è apprezzato di diversi punti percentuali sull’afghanis, divisa che invece in questi anni è stata molto stabile (un deprezzamento della moneta locale potrebbe però favorire le esportazioni depresse dalla sua eccessiva stabilità). Con la fine della presenza massiccia della Nato anche le commesse legate alla guerra stanno calando vertiginosamente o orientando il governo a servirsi da produttori esteri che offrono merci a costo minore. L’economia sostenuta virtualmente da una sorta di clausola di privilegio verso i produttori nazionali viene meno proprio mentre il futuro degli stipendi a militari e funzionari pubblici si va riempiendo di ritardi nei pagamenti e di incognite sulla tenuta dei salari e dell’occupazione

Secondo un rapporto dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction(Sigar, l’agenzia pubblica americana che fa le pulci ai conti per la ricostruzione), Kabul non avrebbe infatti abbastanza liquidità per pagare in futuro i suoi soldati, specie quando, nel 2024, i sussidi esterni per la Difesa dovrebbero terminare. Secondo Sigar le forze armate (Ansf) sono una delle aree a maggior rischio:esercito (Ana) e polizia (Anp) sono al momento composti da 352mila uomini, un numero che la Nato ha proposto di ridurre a 228.500 entro il 2017 proprio per renderlo sostenibile. Ma anche in quel caso Kabul potrebbe non farcela. Questa forza – per quanto ridotta – viene infatti a pesare per 4,1 miliardi di dollari l’anno, cifra a cui Kabul dovrebbe contribuire con 500 milioni fino dall’anno prossimo e che, teoricamente, dal 2024 dovrebbe pagare da sola. Ma poiché nel 2013 il governo è riuscito a incassare da tasse e dazi meno della metà dell’intero budget statale (5,4 mld di dollari) il conto è presto fatto. Kabul immagina di riservare alla spesa per le forze di sicurezza il 3% del budget sperando che il suo Pil cresca e, con lui, anche questa percentuale. Ma se adesso a ripianare i conti ci pensa la comunità internazionale e non è difficile immaginare che a fondi d’aiuto sempre più ridotti, Kabul si ritroverà ad avere sempre meno liquidità per i salari di soldati e poliziotti. Sempre che non li sottragga alla spesa per i servizi o dai salari degli impiegati statali.
Se sarà dunque complesso in futuro mantenere un esercito efficiente, pagare il

Nella foto di Pajhwok, Ghani a sn e Abdullah

salario ai funzionari pubblici per garantire governance e servizi specie in presenza di un costo esorbitante del comparto militare, l’unica via d’uscita logica e pragmatica resta quella di por fine velocemente al conflitto coi talebani. Ma per quel che riguarda il processo di pace (sinora una chimera) le difficoltà sono di doppia natura: da una parte il governo non sembra fare grandi passi avanti (se non con annunci roboanti per alcuni militanti e comandanti guerriglieri che depongono le armi) anche se è difficile dire se esistano o meno negoziati segreti con la guerriglia (o una parte di essa). Dall’altra, la domanda è: quale guerriglia? Il fronte del nemico si presenta infatti estremamente frammentato e, secondo alcuni, addirittura con una aperta crisi di leadership oltreché di visione e di strategia. I talebani afgani non sono jihadisti nel senso che Al Qaeda (o lo Stato islamico, la cui presenza in Afghanistan è stata tra l’altro appena segnalata) danno a questo concetto (internazionalizzazione del jihad) ma semmai nazionalisti religiosi. Non tutti però la pensano così: alcune frange, benché minoritarie, sono jihadiste e qaediste (è il caso della Rete Haqqani, in ottime relazioni con i “cugini” pachistani del Tehrek-e-Taleban Pakistan/Ttp).

Il recente attacco alla scuola di Peshawar a dicembre in Pakistan (oltre 140 morti assassinati proprio da una fazione del Ttp) ha dimostrato come il fronte guerrigliero sia diviso da logiche, tattiche e strategie molto differenti: non solo il sito ufficiale dei talebani afgani (che farebbe capo alla cosiddetta shura di Quetta e dunque a mullah Omar, benché se ne metta in dubbio l’esistenza in vita) ha condannato l’azione prendendone le distanze, ma la stessa posizione ha preso rispetto all’azione kamikaze che, precedentemente, aveva ucciso – in Afghanistan – oltre 40 spettatori di una partita di pallavolo (azione forse attribuibile agli Haqqani). La distanza tra talebani afgani e pachistani è nota, ma sembra emergere sempre di più una frattura interna alla guerriglia afgana che finora ha sempre cercato di mostrare un volto unitario. Questo aspetto la rende più fragile ma rende anche più difficile la trattativa.

Il recente tentativo, soprattutto pachistano, di distendere i rapporti tra i due Paesi indica però un nuovo positivo elemento. Kabul ha sempre accusato Islamabad di aver chiuso entrambi gli occhi sui santuari che, nel Paese dei puri, ospitano i guerriglieri afgani (shura di Quetta e di Peshawar, Rete Haqqani) ma da qualche tempo è Kabul a chiudere gli occhi sui santuari dei talebani pachistani in territorio afgano. Solo la collaborazione tra i due governi – e non l’uso strumentale dei diversi fronti guerriglieri – può mettere fine a un fenomeno che danneggia entrambi. Una dimostrazione tangibile di questa svolta è stata la recentissima messa al bando in Pakistan della Rete Haqqani (valido aiuto per il Ttp e nemico numero 1 in Afghanistan) e di altre nove organizzazioni estremiste e terroriste. Se il buongiorno si vede dal mattino, questa è forse la notizia più rilevante del nuovo anno anche se pagata al carissimo prezzo di oltre 140 vite di giovani studenti.

Corviale ai tropici. Cartolina da Sri Lanka

Prima di lasciare Sri Lanka alla volta dell’India e dopo aver verificato che i traghetti dall’isola di
Mannar per la terraferma non sono ancora stati ripristinati, si sceglie la cittadina più vicina all’aeroporto che è per forza di cose la città di Negombo, praticamente attaccata allo scalo internazionale a una trentina di chilometri a Nord della capitale. Ovviamente non siamo sorpresi che si tratti di una località turistica dal momento che non è nemmeno necessario passare da Colombo per raggiungerla se si viene dall’Europa.

Negombo è una cittadina sul mare con una bella laguna, canali scavati dagli olandesi e dominata da quel che resta del vecchio forte che la Voc, la compagnia delle Indie, aveva strappato ai portoghesi, primi europei a dominare la perla dell’Oceano indiano. Poi però la cittadina è andata sviluppandosi turisticamente soprattutto lungo una strada in riva alla spiaggia costellata di piccoli alloggetti che si fanno via via più grandi sino a diventare degli ecomostri. La foto a fianco indica una sorta di “Corviale beach” che, rispetto alla mostruosità architettonica della capitale italiana, consta solo di circa 500 metri in meno rispetto al chilometro di Corviale. Ma l’impatto è del tutto simile. L’opera è in costruzione ma, viene da chiedersi: chi sarà mai tanto pazzo da fare le vacanze a Corviale? Pubblico di seguito alcune brutture alberghiere e invece alcuni scorci piacevoli di Negombo, sempre a proposito dei guasti del turismo. La differenza tra portare soldi e portare …sviluppo.*

* Non sono un fotografo, dunque prendete queste immagini come pura documentazione

Corviale ai tropici. Cartolina da Sri Lanka

Prima di lasciare Sri Lanka alla volta dell’India e dopo aver verificato che i traghetti dall’isola di
Mannar per la terraferma non sono ancora stati ripristinati, si sceglie la cittadina più vicina all’aeroporto che è per forza di cose la città di Negombo, praticamente attaccata allo scalo internazionale a una trentina di chilometri a Nord della capitale. Ovviamente non siamo sorpresi che si tratti di una località turistica dal momento che non è nemmeno necessario passare da Colombo per raggiungerla se si viene dall’Europa.

Negombo è una cittadina sul mare con una bella laguna, canali scavati dagli olandesi e dominata da quel che resta del vecchio forte che la Voc, la compagnia delle Indie, aveva strappato ai portoghesi, primi europei a dominare la perla dell’Oceano indiano. Poi però la cittadina è andata sviluppandosi turisticamente soprattutto lungo una strada in riva alla spiaggia costellata di piccoli alloggetti che si fanno via via più grandi sino a diventare degli ecomostri. La foto a fianco indica una sorta di “Corviale beach” che, rispetto alla mostruosità architettonica della capitale italiana, consta solo di circa 500 metri in meno rispetto al chilometro di Corviale. Ma l’impatto è del tutto simile. L’opera è in costruzione ma, viene da chiedersi: chi sarà mai tanto pazzo da fare le vacanze a Corviale? Pubblico di seguito alcune brutture alberghiere e invece alcuni scorci piacevoli di Negombo, sempre a proposito dei guasti del turismo. La differenza tra portare soldi e portare …sviluppo.*

* Non sono un fotografo, dunque prendete queste immagini come pura documentazione

Una lacrima nell’Oceano Indiano

Cosa resta nello Sri Lanka della visita pastorale di papa Francesco, primo papa metter piede in terra tamil dove per trent’anni si è combattuta una guerra feroce. Luci e ombre della Chiesa cattolica in un Paese in rapida evoluzione. Diario da Taprobane

Sri Lanka è un Paese che ha facce diverse, come quella del minorenne nelle cucine della guest house, e cento nomi: i latini la dicevano Taprobane e i musulmani Serendib. I portoghesi la chiamarono Ceilão, Ceylan gli olandesi, Ceylon gli amministratori di sua Maestà britannica che ne fecero la capitale mondiale del tè. C’è chi la chiama la lacrima dell’India per quella forma a goccia come staccatasi dal subcontinente. Ma Sri Lanka non è India e, paradossalmente – forse per quelle sue influenze olandesi e portoghesi – ha un paesaggio urbano che a volte ricorda più l’Indonesia che non la grande, potente e temuta vicina da cui giunsero prima i sinhala (singalesi), poi i tamil – nel Nord – infine un milione di altri tamil “importati” dal Raj britannico per le piantagioni di tè nelle Hill. Ma il termine lacrima non è davvero poco appropriato. In questo Paese, dove la disomogeneità etnico religiosa anziché diventare un pregio è stata l’occasione di rivolte e segregazioni e di una guerra durata 27 anni, di lacrime ne sono state versate così tante che si è perso il conto dei morti di cui una macabra contabilità senza trasparenza non è ancora riuscita a dare un numero preciso che può variare da 100 a 200mila morti. Volti spesso senza tomba e nella gran parte dei casi dichiarati semplicemente missing, scomparsi.

Ora che il conflitto è finito, il Nord dove la guerra è divampata agli inizi degli anni Ottanta, si può visitare. E, solo da qualche giorno, senza più restrizioni, una delle prime decisioni del nuovo governo Sirisena uscito vittorioso dal voto dell’8 gennaio scorso. Abbiamo così avuto l’opportunità di assistere all’ultima coda di tamil con passaporto estero o di stranieri in visita ma senza autorizzazione (come noi!), stazionare alle baracche dell’esercito che sbarrano, sull’ex linea del fronte, la carreggiabile A9 che da Kandy via Anuradhapura porta a Jaffna. Fermi, in attesa che da Colobo arrivasse il permesso per attraversare quella che una volta segnava una delle tante linee di demarcazione della regione di Vanni, l’area divisa in quattro distretti che con la penisola di Jaffna forma la terra tamil. A Jaffna, città di un certo fascino, ha sede la capitale della regione che le Tigri del Tamil Eelam (Ltte) – la guerriglia secessionista – riuscirono ad amministrare a periodi alterni anche se la vera capitale amministrativa era Killinochi.


Oggi città tranquilla e abbastanza ordinata, Killinochi ha un solo evidente segno della guerra: un enorme monumento al milite ignoto, guardato a vista da due soldati, che è un enorme muro grigio con una pallottola dorata piantata in mezzo. A Killinochi di milite ignoto se ne può onorare uno solo: quello con la divisa dello Sla (Sri Lanka Army). Ricordare i martiri della secessione non è concesso. Memoria da dimenticare.

La guerra contro l’Ltte doveva terminare tra l’ottobre del 2008 e il maggio del 2009, i mesi del terrore ricordati per una manovra a tenaglia, costellata di bombardamenti sulle no fly zone contrattate con l’Onu, in cui vennero concentrate oltre 300mila persone in una morsa dove si ritrovarono tigri, residenti locali e sfollati. L’esercito chiuse la morsa e stritolò l’enclave.

Nelle immagini, manifesti del papa a Mannar

Quella storia adesso è lontana e senza memoria ma è evidente appena affronti l’argomento con chiunque. A Mannar, dove nel vicino santuario della Madonna di Madhu papa Francesco è venuto a fare una visita senza precedenti («nessun pontefice aveva mai messo piede fuori da Colombo» commenta un alto prelato presente alla cerimonia), la gente è arrivata un po’ da tutto il Nord e l’Est. Non i numeri di Colombo (tra 500mila e un milione di persone) ma decine di migliaia e non solo cattolici. «Perché vado a vedere il papa? – risponde Thulcsi, un induista come la maggior parte dei tamil dell’area – because is a King! Perché è un re». E non solo dei cristiani. La chiesa cattolica presente nel Nord dell’isola (benché la maggioranza dei cattolici siano singalesi), si è scontrata più volte col governo. E la difesa dei cristiani passava anche per la difesa della loro identità tamil: inammissibile in un Paese dove essere singalesi e buddisti è da sempre un privilegio diventato una vera ossessione per la classe dirigente, sostenuta e pungolata dalle organizzazioni religiose con l’abito arancione. Nel 2013, per esempio, il vescovo di Jaffna, Thomas Savundaranayagam, ha presentato ricorso alla Corte d’appello contro gli espropri di terre compiuti dai militari nella penisola e che appartenevano a comunità tamil. In effetti, lungo la strada per Killinochi, si vedono case distrutte e terreni incolti e poi, d’improvviso, grandi appezzamenti coltivati ordinatamente: confiscati e affidati a famiglie singalesi, a militari in pensione, a cooperative agricole gestite dall’esercito. Così che la vista di Francesco in terra tamil, è sembrata proprio riecheggiare quelle proteste e la presa di posizione dei vescovi locali.

La bandiera srlankese: c’è posto per tutti alla pari?

Il fatto è che la visita del papa (annunciata tra le polemiche proprio per la delicatezza della contingenza politica) è arrivata in un momento di svolta epocale che sa quasi di miracolo. Con un voto libero e non vessato da brogli e pastette, il candidato dell’opposizione Maithripala Sirisena ha avuto ragione del governo di Mahinda Rajapaksa, trasformatosi ormai in regime. Raccogliendo sia il voto tamil sia quello musulmano, Sirisena – fino al giorno prima alleato di Rajapaksa ed ex segretario del suo stesso partito (che ora è tornato a presiedere) – ha vinto, seppur di misura, sul favorito (che ha comunque ottenuto oltre 5 milioni di voti) e che aveva anticipato la scadenza del mandato presidenziale sperando di fare man bassa non essendoci sulla scena – in quel momento – nessun altro candidato.

Dire se le cose per i tamil del Nordest cambieranno è difficile anche se Sirisena dovrà considerare che proprio i tamil e i musulmani delle regioni settentrionali lo hanno fatto vincere. Ma certo ci sarà anche un “effetto Francesco”. Anche lì però le cose non sono poi tanto semplici. Nessun sacerdote del Nord sarebbe disposto a dirlo a chiare lettere, ma è noto come l’arcivescovo di Colombo, il singalese Malcolm Ranjith, non sia proprio un esempio di progressismo. Le cronache recenti lo ricordano tra i candidati al soglio di Pietro vicini al cardinal Bertone. Due volte in Curia a Roma, ha fama di essere ben ammanicato in Vaticano dove è noto per le sue posizioni tradizionaliste. Fu Ratzinger a farlo tornare a Colombo ma a Ranjit Roma è rimasta nel cuore. Così nel cuore che il cardinale avrebbe scelto per sostituire il primate di Jaffna, ormai in età da pensione, un tamil cattolico… che da decenni però vive nella città eterna. I vescovi della regione gli hanno ufficialmente fatto sapere che di un vescovo “straniero” non se ne parla: «Deve essere un uomo che conosce la sofferenza del suo popolo da vicino per averla vissuta», ci spiegano a Mannar, la sede per eccellenza dei cattolici tamil.

Albert Malcom Ranjith Patabendige Don
cardinale classe 1947

Ranjit – almeno sino a ieri – è stato considerato un uomo vicino al regime di Rajapaksa, ora fervente buddista ma originario di una famiglia con tradizioni anglicane e sposato con una cattolica, Shiranthi, famosa per essere stata Miss Sri Lanka ma preziosa proprio per le sue entrature in Vaticano. Si dovrebbe anche a lei, oltre ai buoni auspici di Ranjit, se il suo controverso marito è riuscito a farsi ricevere, non solo da Ratzinger nel 2012 ma anche, appena l’ottobre scorso, da Bergoglio. Infine, poco prima della partenza per le Filippine, Rajapaksa, con la fida consorte e il fratello Gotabaya con la moglie Ayoma, è riuscito nuovamente a vedere Francesco, in visita privata nell’ambasciata vaticana di Colombo. Una visita al papa fuori programma e lontano dagli obiettivi dei fotografi. Imbarazzante quanto i suoi quattro ospiti.

Una lacrima nell’Oceano Indiano

Cosa resta nello Sri Lanka della visita pastorale di papa Francesco, primo papa metter piede in terra tamil dove per trent’anni si è combattuta una guerra feroce. Luci e ombre della Chiesa cattolica in un Paese in rapida evoluzione. Diario da Taprobane

Sri Lanka è un Paese che ha facce diverse, come quella del minorenne nelle cucine della guest house, e cento nomi: i latini la dicevano Taprobane e i musulmani Serendib. I portoghesi la chiamarono Ceilão, Ceylan gli olandesi, Ceylon gli amministratori di sua Maestà britannica che ne fecero la capitale mondiale del tè. C’è chi la chiama la lacrima dell’India per quella forma a goccia come staccatasi dal subcontinente. Ma Sri Lanka non è India e, paradossalmente – forse per quelle sue influenze olandesi e portoghesi – ha un paesaggio urbano che a volte ricorda più l’Indonesia che non la grande, potente e temuta vicina da cui giunsero prima i sinhala (singalesi), poi i tamil – nel Nord – infine un milione di altri tamil “importati” dal Raj britannico per le piantagioni di tè nelle Hill. Ma il termine lacrima non è davvero poco appropriato. In questo Paese, dove la disomogeneità etnico religiosa anziché diventare un pregio è stata l’occasione di rivolte e segregazioni e di una guerra durata 27 anni, di lacrime ne sono state versate così tante che si è perso il conto dei morti di cui una macabra contabilità senza trasparenza non è ancora riuscita a dare un numero preciso che può variare da 100 a 200mila morti. Volti spesso senza tomba e nella gran parte dei casi dichiarati semplicemente missing, scomparsi.

Ora che il conflitto è finito, il Nord dove la guerra è divampata agli inizi degli anni Ottanta, si può visitare. E, solo da qualche giorno, senza più restrizioni, una delle prime decisioni del nuovo governo Sirisena uscito vittorioso dal voto dell’8 gennaio scorso. Abbiamo così avuto l’opportunità di assistere all’ultima coda di tamil con passaporto estero o di stranieri in visita ma senza autorizzazione (come noi!), stazionare alle baracche dell’esercito che sbarrano, sull’ex linea del fronte, la carreggiabile A9 che da Kandy via Anuradhapura porta a Jaffna. Fermi, in attesa che da Colobo arrivasse il permesso per attraversare quella che una volta segnava una delle tante linee di demarcazione della regione di Vanni, l’area divisa in quattro distretti che con la penisola di Jaffna forma la terra tamil. A Jaffna, città di un certo fascino, ha sede la capitale della regione che le Tigri del Tamil Eelam (Ltte) – la guerriglia secessionista – riuscirono ad amministrare a periodi alterni anche se la vera capitale amministrativa era Killinochi.


Oggi città tranquilla e abbastanza ordinata, Killinochi ha un solo evidente segno della guerra: un enorme monumento al milite ignoto, guardato a vista da due soldati, che è un enorme muro grigio con una pallottola dorata piantata in mezzo. A Killinochi di milite ignoto se ne può onorare uno solo: quello con la divisa dello Sla (Sri Lanka Army). Ricordare i martiri della secessione non è concesso. Memoria da dimenticare.

La guerra contro l’Ltte doveva terminare tra l’ottobre del 2008 e il maggio del 2009, i mesi del terrore ricordati per una manovra a tenaglia, costellata di bombardamenti sulle no fly zone contrattate con l’Onu, in cui vennero concentrate oltre 300mila persone in una morsa dove si ritrovarono tigri, residenti locali e sfollati. L’esercito chiuse la morsa e stritolò l’enclave.

Nelle immagini, manifesti del papa a Mannar

Quella storia adesso è lontana e senza memoria ma è evidente appena affronti l’argomento con chiunque. A Mannar, dove nel vicino santuario della Madonna di Madhu papa Francesco è venuto a fare una visita senza precedenti («nessun pontefice aveva mai messo piede fuori da Colombo» commenta un alto prelato presente alla cerimonia), la gente è arrivata un po’ da tutto il Nord e l’Est. Non i numeri di Colombo (tra 500mila e un milione di persone) ma decine di migliaia e non solo cattolici. «Perché vado a vedere il papa? – risponde Thulcsi, un induista come la maggior parte dei tamil dell’area – because is a King! Perché è un re». E non solo dei cristiani. La chiesa cattolica presente nel Nord dell’isola (benché la maggioranza dei cattolici siano singalesi), si è scontrata più volte col governo. E la difesa dei cristiani passava anche per la difesa della loro identità tamil: inammissibile in un Paese dove essere singalesi e buddisti è da sempre un privilegio diventato una vera ossessione per la classe dirigente, sostenuta e pungolata dalle organizzazioni religiose con l’abito arancione. Nel 2013, per esempio, il vescovo di Jaffna, Thomas Savundaranayagam, ha presentato ricorso alla Corte d’appello contro gli espropri di terre compiuti dai militari nella penisola e che appartenevano a comunità tamil. In effetti, lungo la strada per Killinochi, si vedono case distrutte e terreni incolti e poi, d’improvviso, grandi appezzamenti coltivati ordinatamente: confiscati e affidati a famiglie singalesi, a militari in pensione, a cooperative agricole gestite dall’esercito. Così che la vista di Francesco in terra tamil, è sembrata proprio riecheggiare quelle proteste e la presa di posizione dei vescovi locali.

La bandiera srlankese: c’è posto per tutti alla pari?

Il fatto è che la visita del papa (annunciata tra le polemiche proprio per la delicatezza della contingenza politica) è arrivata in un momento di svolta epocale che sa quasi di miracolo. Con un voto libero e non vessato da brogli e pastette, il candidato dell’opposizione Maithripala Sirisena ha avuto ragione del governo di Mahinda Rajapaksa, trasformatosi ormai in regime. Raccogliendo sia il voto tamil sia quello musulmano, Sirisena – fino al giorno prima alleato di Rajapaksa ed ex segretario del suo stesso partito (che ora è tornato a presiedere) – ha vinto, seppur di misura, sul favorito (che ha comunque ottenuto oltre 5 milioni di voti) e che aveva anticipato la scadenza del mandato presidenziale sperando di fare man bassa non essendoci sulla scena – in quel momento – nessun altro candidato.

Dire se le cose per i tamil del Nordest cambieranno è difficile anche se Sirisena dovrà considerare che proprio i tamil e i musulmani delle regioni settentrionali lo hanno fatto vincere. Ma certo ci sarà anche un “effetto Francesco”. Anche lì però le cose non sono poi tanto semplici. Nessun sacerdote del Nord sarebbe disposto a dirlo a chiare lettere, ma è noto come l’arcivescovo di Colombo, il singalese Malcolm Ranjith, non sia proprio un esempio di progressismo. Le cronache recenti lo ricordano tra i candidati al soglio di Pietro vicini al cardinal Bertone. Due volte in Curia a Roma, ha fama di essere ben ammanicato in Vaticano dove è noto per le sue posizioni tradizionaliste. Fu Ratzinger a farlo tornare a Colombo ma a Ranjit Roma è rimasta nel cuore. Così nel cuore che il cardinale avrebbe scelto per sostituire il primate di Jaffna, ormai in età da pensione, un tamil cattolico… che da decenni però vive nella città eterna. I vescovi della regione gli hanno ufficialmente fatto sapere che di un vescovo “straniero” non se ne parla: «Deve essere un uomo che conosce la sofferenza del suo popolo da vicino per averla vissuta», ci spiegano a Mannar, la sede per eccellenza dei cattolici tamil.

Albert Malcom Ranjith Patabendige Don
cardinale classe 1947

Ranjit – almeno sino a ieri – è stato considerato un uomo vicino al regime di Rajapaksa, ora fervente buddista ma originario di una famiglia con tradizioni anglicane e sposato con una cattolica, Shiranthi, famosa per essere stata Miss Sri Lanka ma preziosa proprio per le sue entrature in Vaticano. Si dovrebbe anche a lei, oltre ai buoni auspici di Ranjit, se il suo controverso marito è riuscito a farsi ricevere, non solo da Ratzinger nel 2012 ma anche, appena l’ottobre scorso, da Bergoglio. Infine, poco prima della partenza per le Filippine, Rajapaksa, con la fida consorte e il fratello Gotabaya con la moglie Ayoma, è riuscito nuovamente a vedere Francesco, in visita privata nell’ambasciata vaticana di Colombo. Una visita al papa fuori programma e lontano dagli obiettivi dei fotografi. Imbarazzante quanto i suoi quattro ospiti.

Colombo-Milano: luci e ombre del nuovo e del vecchio corso

L‘ultima notizia sulla bufera scatenata dalle notizie sulla notte del voto, quando Rajapaksa avrebbe convocato il consigliere giuridico del presidente e i capi di polizia ed esercito per tentare un golpe, riguarda il ministro della Giustizia ormai in punta di dimissioni Mohan Pieris. Accusato di aver tradito il suo mandato di super partes per essere stato presente alla riunione in cui Rajapaksa voleva ribaltare il risultato, chiede ora che lo si lasci uscire dal Paese. Ma con un’uscita onorevole. Un posto all’Onu, a Londra…o a Milano.

Il sipario strappato. Un manifesto elettorale di Rajapaksa
Intanto il nuovo governo di Maithripala Sirisena ha levato l’odiosa domanda di permesso necessaria per visitare i distretti del Nord a maggioranza tamil. Non è molto in realtà mentre molte sono le aspettative sui prossimi passi, il primo dei quali riguarda il 13mo emendamento della Costituzione che, secondo il parlamento, avrebbe il compito di garantire un decentramento dei poteri sinora rimasto sulla carta e minacciato dalla scure con cui Rajapaksa avrebbe voluto decapitarlo, sottraendo alle province poteri da delegare invece al ministero dello Sviluppo economico, retto dal fratello Basil.

Per l’ex presidente e la sua famiglia i tempi sono bui. Accusato da stampa e parlamentari di aver tentato un golpe bianco la notte del voto – cui si sarebbero opposte le alte cariche dello Stato e dell’esercito – Mahinda Rajapaksa adesso rischia un’incriminazione per tradimento sempre che l’inchiesta aperta dalla magistratura vada a buon fine. I guai su un altro fronte sono invece per il fratello Gotabaya, già segretario alla Difesa e, col fratello e il generale Fonseka, responsabile degli ultimi mesi della guerra nel Nord su cui grava il sospetto di crimini di guerra. E’ appena stato messo sotto inchiesta per la morte di Lasantha Wickrematunga, ucciso da uno “squadrone della morte” nel gennaio 2009 poco prima che il famoso giornalista, fondatore del Sunday Leadere noto per gli scontri con la famiglia del presidente, andasse in tribunale a rendere una testimonianza.

Battaglia vinta: i manifesti pro Sirisena col simbolo del cigno

Sul fronte della libertà di stampa c’è un’altra buona novità: il neo ministro dell’Informazione del nuovo governo, Gayantha Karunatilleke, ha fatto un appello a tutti i giornalisti srilankesi all’estero perché tornino a casa. Se il suo Paese era fino a ieri in fondo alla classifica per la libertà di espressione, adesso il governo vuole invertire la rotta. Un altro segnale è poi arrivato dal portavoce della polizia, faccia notissima del regime. Il militare ha detto pubblicamente di avere subito pressioni di ogni genere per mettere in cattiva luce gli uomini dell’opposizione. Si scoperchia il vaso di Pandora e tutti i nodi vengono al pettine.

Proprio in questi giorni intanto i cinesi si sono fatti avanti con calorosi messaggi di auguri al nuovo presidente anche se non è un mistero che il loro cavallo a Sri Lanka fosse Rajapaksa, che aveva aperto a Pechino diversi settori strategici del Paese, dalle infrastrutture alle telecomunicazioni. Per motivi evidenti, l’ingresso della Cina a Sri Lanka è stato mal digerito da americani e indiani, ora sponsor convinti del governo Sirisena da cui si aspettano un’inversione di rotta. Ci sarà battaglia? Un’inversione di rotta se l’aspettano comunque tutti a cominciare da tamil e musulmani, cittadini di serie B vessati dai lunghi anni di guerra e dal revivalismo identitario buddista-singalese. Il governo Sirisena sta in piedi grazie ai loro voti e dovrà pagare pegno. Per ora i segnali ci sono ma la prudenza resta d’obbligo.

Colombo-Milano: luci e ombre del nuovo e del vecchio corso

L‘ultima notizia sulla bufera scatenata dalle notizie sulla notte del voto, quando Rajapaksa avrebbe convocato il consigliere giuridico del presidente e i capi di polizia ed esercito per tentare un golpe, riguarda il ministro della Giustizia ormai in punta di dimissioni Mohan Pieris. Accusato di aver tradito il suo mandato di super partes per essere stato presente alla riunione in cui Rajapaksa voleva ribaltare il risultato, chiede ora che lo si lasci uscire dal Paese. Ma con un’uscita onorevole. Un posto all’Onu, a Londra…o a Milano.

Il sipario strappato. Un manifesto elettorale di Rajapaksa
Intanto il nuovo governo di Maithripala Sirisena ha levato l’odiosa domanda di permesso necessaria per visitare i distretti del Nord a maggioranza tamil. Non è molto in realtà mentre molte sono le aspettative sui prossimi passi, il primo dei quali riguarda il 13mo emendamento della Costituzione che, secondo il parlamento, avrebbe il compito di garantire un decentramento dei poteri sinora rimasto sulla carta e minacciato dalla scure con cui Rajapaksa avrebbe voluto decapitarlo, sottraendo alle province poteri da delegare invece al ministero dello Sviluppo economico, retto dal fratello Basil.

Per l’ex presidente e la sua famiglia i tempi sono bui. Accusato da stampa e parlamentari di aver tentato un golpe bianco la notte del voto – cui si sarebbero opposte le alte cariche dello Stato e dell’esercito – Mahinda Rajapaksa adesso rischia un’incriminazione per tradimento sempre che l’inchiesta aperta dalla magistratura vada a buon fine. I guai su un altro fronte sono invece per il fratello Gotabaya, già segretario alla Difesa e, col fratello e il generale Fonseka, responsabile degli ultimi mesi della guerra nel Nord su cui grava il sospetto di crimini di guerra. E’ appena stato messo sotto inchiesta per la morte di Lasantha Wickrematunga, ucciso da uno “squadrone della morte” nel gennaio 2009 poco prima che il famoso giornalista, fondatore del Sunday Leadere noto per gli scontri con la famiglia del presidente, andasse in tribunale a rendere una testimonianza.

Battaglia vinta: i manifesti pro Sirisena col simbolo del cigno

Sul fronte della libertà di stampa c’è un’altra buona novità: il neo ministro dell’Informazione del nuovo governo, Gayantha Karunatilleke, ha fatto un appello a tutti i giornalisti srilankesi all’estero perché tornino a casa. Se il suo Paese era fino a ieri in fondo alla classifica per la libertà di espressione, adesso il governo vuole invertire la rotta. Un altro segnale è poi arrivato dal portavoce della polizia, faccia notissima del regime. Il militare ha detto pubblicamente di avere subito pressioni di ogni genere per mettere in cattiva luce gli uomini dell’opposizione. Si scoperchia il vaso di Pandora e tutti i nodi vengono al pettine.

Proprio in questi giorni intanto i cinesi si sono fatti avanti con calorosi messaggi di auguri al nuovo presidente anche se non è un mistero che il loro cavallo a Sri Lanka fosse Rajapaksa, che aveva aperto a Pechino diversi settori strategici del Paese, dalle infrastrutture alle telecomunicazioni. Per motivi evidenti, l’ingresso della Cina a Sri Lanka è stato mal digerito da americani e indiani, ora sponsor convinti del governo Sirisena da cui si aspettano un’inversione di rotta. Ci sarà battaglia? Un’inversione di rotta se l’aspettano comunque tutti a cominciare da tamil e musulmani, cittadini di serie B vessati dai lunghi anni di guerra e dal revivalismo identitario buddista-singalese. Il governo Sirisena sta in piedi grazie ai loro voti e dovrà pagare pegno. Per ora i segnali ci sono ma la prudenza resta d’obbligo.

Non si uccidono così gli elefanti/2: cosa c’è nella tua teiera

Gli amici con cui viaggio mi hanno ieri redarguito dopo aver letto il post ispirato dalla “Building View” della nostra Guest House a Kandy. Mi han detto con son troppo severo nei miei giudizi su Sri Lanka, facendomi così riflettere sul fatto che persino una fotografia a colori ha una scala di grigi e che le sfumature della realtà sono così tante che i miei ingenerosi giudizi sembravano forse non tenerne conto. In realtà, forse per un difetto di scuola, i reporter tendono a portare in alto le cattive notizie e a ignorare quelle buone, in omaggio alla regoletta aurea che solo un uomo che morde un cane è una notizia e non viceversa. Ma devo ammettere che, da inveterato viaggiatore, questo problema del turismo e dei suoi effetti perversi mi affligge e mi ha sempre corroborato diversi dubbi: siamo i nuovi colonialisti retroguardie della penetrazione commerciale? Nuovi barbari convinti invece di fare del bene coi nostri dollaroni? Segmenti di diverse categorie più o meno consapevoli? Turisti o viaggiatori? Più attenti ai monumenti che alle storie, spesso tristi, di chi ci vive accanto? I dubbi non muoiono mai specie dopo aver visto ieri due italiani piuttosto anzianotti apostrofare con rabbioso sussiego una cameriera che tardava a portare il conto. Se fossero rimasti casa non avrebbero fatto un soldo di danno ma in compenso la cameriera non avrebbe forse il suo lavoro. C’è insomma e comunque un prezzo da pagare su un crinale fragile e controverso di cui restiamo più o meno volontari protagonisti.
Come che sia, la giornata di ieri mi ha in parte riconciliato con un’isola che resta comunque uno dei posti più belli al mondo e con gente simpatica quando si riesce a uscire un po’ dal circo turistico. Dico in parte perché anche ieri siamo riusciti a farci fregare come allocchi proprio per aver dato retta a uno dei tanti imbonitori secondo il quale il tè che vendono al Museo di Kandy ci sarebbe costato tre volte tanto che al mercato. Costava invece la metà…

Il Museo del tè è una vecchia fabbrica ben tenuta e ben organizzata nella quale si vede l’intero procedimento del quale sir Lipton fu una delle icone ancor oggi visibile sulle bustine che in ogni albergo del mondo vi propinano a colazione. Si vede la parte nobile della produzione del tè: l’essiccazione, la fermentazione (la differenza tra tè nero e tè verde sta ad esempio proprio nella fermentazione che nel verde – che proviene dalla medesima pianta – non si fa), la spezzettatura delle foglie, la selezione etc. Purtroppo il Museo dice poco, anzi nulla, delle terribili condizioni di lavoro ancor oggi oggetto di battaglia tra tutele assai poco crescenti e uno sfruttamento visibile nelle facce delle raccoglitrici incontrate casualmente fuori dal museo. 

Come si nota in una delle incisioni a  lato, i poveri tamil importati da sua Maestà nell’Ottocento stavano sotto lo sguardo severo di un guardiano (bianco) dopo che, nel 1824, la prima pianticella – fatta giungere dalla Cina – era stata trapiantata al Royal Botanical Gardens, Peradeniya (5 km circa da Kandy e – sia detto tra noi – uno dei giardini botanici più belli e curati ch’io abbia mai visto e che merita da solo una visita a questa città). L’epopea delle piantagioni iniziò dopo il trapianto sperimentale di té proveniente dall’Assam e selezionato dalla potente East India Company.
L‘epopea del tè srilankese comincia dunque proprio a Kandy nel 1867 e nel 1873 il primo carico arriva a Londra (Ceylon era nota per il caffè che però era stato debellato da un fungo e quindi sostituito dal tè). La manodopera di importazione era come abbiam detto tamil (Hill Country Tamils), reclutata negli anni venti dell’800 soprattutto in Tamil Nadu, in India, nell’ordine di decine di migliaia. Negli anni Sessanta un accordo tra Delhi e Colombo portò al rimpatrio di circa la metà di questi disperati che neppure avevano una cittadinanza. L’altra metà è ancora qui ma con nazionalità srilankese. Quanti erano? Non saprei con esattezza. Le statistiche dicono che nel 1911 c’erano in Sri lanka mezzo milione di tamil (Nord, Est e centro isola, la zona delle piantagioni di tè).

 Il Royal Botanical Gardens di Kandy
Nel 1971 erano 1.100mila circa e dieci anni dopo – a seguito del rimpatrio di una parte in India –  erano poco più che 800mila (le statistiche demografiche datano a Sri Lanka solo dal 1871). La storia dei tamil “importati” è diversa da quella dei cugini che da secoli vivevano nel Nord e britannici e singalesi fecero di tutto per mantenere divise le due comunità, imparentate dalle comune lingua e tradizione. Le cose non sono molto cambiate oggi e anzi Colobo temette che la guerra tamil nel Nord avrebbe potuto contagiare i paria del centro che passavano la loro vita in baracche da cui uscivano ed escono per andare a raccogliere le foglioline verdi con cui si prepara la nota bevanda.

La regina Vittoria
Oggi il té resta a Sri Lanka una produzione importante (ampiamente surclassata dal tessile) ma che conta solo per il 2% del Pnl con un giro d’affari attorno ai 700 milioni di dollari (esportazione principalmente nell’ex Urss e nel Golfo). Impiega però un milione di persone anche se sulle condizioni di lavoro è bene sorvolare. O almeno prendere in considerazione che nelle piantagioni lavorano anche minorenni in condizioni igienico sanitarie molto discutibili per non dire vicine alla semi schivitù: in stragrande maggioranza donne di tutte le età. L’angolo buio nella vostrapot tea.

Non si uccidono così gli elefanti/2: cosa c’è nella tua teiera

Gli amici con cui viaggio mi hanno ieri redarguito dopo aver letto il post ispirato dalla “Building View” della nostra Guest House a Kandy. Mi han detto con son troppo severo nei miei giudizi su Sri Lanka, facendomi così riflettere sul fatto che persino una fotografia a colori ha una scala di grigi e che le sfumature della realtà sono così tante che i miei ingenerosi giudizi sembravano forse non tenerne conto. In realtà, forse per un difetto di scuola, i reporter tendono a portare in alto le cattive notizie e a ignorare quelle buone, in omaggio alla regoletta aurea che solo un uomo che morde un cane è una notizia e non viceversa. Ma devo ammettere che, da inveterato viaggiatore, questo problema del turismo e dei suoi effetti perversi mi affligge e mi ha sempre corroborato diversi dubbi: siamo i nuovi colonialisti retroguardie della penetrazione commerciale? Nuovi barbari convinti invece di fare del bene coi nostri dollaroni? Segmenti di diverse categorie più o meno consapevoli? Turisti o viaggiatori? Più attenti ai monumenti che alle storie, spesso tristi, di chi ci vive accanto? I dubbi non muoiono mai specie dopo aver visto ieri due italiani piuttosto anzianotti apostrofare con rabbioso sussiego una cameriera che tardava a portare il conto. Se fossero rimasti casa non avrebbero fatto un soldo di danno ma in compenso la cameriera non avrebbe forse il suo lavoro. C’è insomma e comunque un prezzo da pagare su un crinale fragile e controverso di cui restiamo più o meno volontari protagonisti.
Come che sia, la giornata di ieri mi ha in parte riconciliato con un’isola che resta comunque uno dei posti più belli al mondo e con gente simpatica quando si riesce a uscire un po’ dal circo turistico. Dico in parte perché anche ieri siamo riusciti a farci fregare come allocchi proprio per aver dato retta a uno dei tanti imbonitori secondo il quale il tè che vendono al Museo di Kandy ci sarebbe costato tre volte tanto che al mercato. Costava invece la metà…

Il Museo del tè è una vecchia fabbrica ben tenuta e ben organizzata nella quale si vede l’intero procedimento del quale sir Lipton fu una delle icone ancor oggi visibile sulle bustine che in ogni albergo del mondo vi propinano a colazione. Si vede la parte nobile della produzione del tè: l’essiccazione, la fermentazione (la differenza tra tè nero e tè verde sta ad esempio proprio nella fermentazione che nel verde – che proviene dalla medesima pianta – non si fa), la spezzettatura delle foglie, la selezione etc. Purtroppo il Museo dice poco, anzi nulla, delle terribili condizioni di lavoro ancor oggi oggetto di battaglia tra tutele assai poco crescenti e uno sfruttamento visibile nelle facce delle raccoglitrici incontrate casualmente fuori dal museo. 

Come si nota in una delle incisioni a  lato, i poveri tamil importati da sua Maestà nell’Ottocento stavano sotto lo sguardo severo di un guardiano (bianco) dopo che, nel 1824, la prima pianticella – fatta giungere dalla Cina – era stata trapiantata al Royal Botanical Gardens, Peradeniya (5 km circa da Kandy e – sia detto tra noi – uno dei giardini botanici più belli e curati ch’io abbia mai visto e che merita da solo una visita a questa città). L’epopea delle piantagioni iniziò dopo il trapianto sperimentale di té proveniente dall’Assam e selezionato dalla potente East India Company.
L‘epopea del tè srilankese comincia dunque proprio a Kandy nel 1867 e nel 1873 il primo carico arriva a Londra (Ceylon era nota per il caffè che però era stato debellato da un fungo e quindi sostituito dal tè). La manodopera di importazione era come abbiam detto tamil (Hill Country Tamils), reclutata negli anni venti dell’800 soprattutto in Tamil Nadu, in India, nell’ordine di decine di migliaia. Negli anni Sessanta un accordo tra Delhi e Colombo portò al rimpatrio di circa la metà di questi disperati che neppure avevano una cittadinanza. L’altra metà è ancora qui ma con nazionalità srilankese. Quanti erano? Non saprei con esattezza. Le statistiche dicono che nel 1911 c’erano in Sri lanka mezzo milione di tamil (Nord, Est e centro isola, la zona delle piantagioni di tè).

 Il Royal Botanical Gardens di Kandy
Nel 1971 erano 1.100mila circa e dieci anni dopo – a seguito del rimpatrio di una parte in India –  erano poco più che 800mila (le statistiche demografiche datano a Sri Lanka solo dal 1871). La storia dei tamil “importati” è diversa da quella dei cugini che da secoli vivevano nel Nord e britannici e singalesi fecero di tutto per mantenere divise le due comunità, imparentate dalle comune lingua e tradizione. Le cose non sono molto cambiate oggi e anzi Colobo temette che la guerra tamil nel Nord avrebbe potuto contagiare i paria del centro che passavano la loro vita in baracche da cui uscivano ed escono per andare a raccogliere le foglioline verdi con cui si prepara la nota bevanda.

La regina Vittoria
Oggi il té resta a Sri Lanka una produzione importante (ampiamente surclassata dal tessile) ma che conta solo per il 2% del Pnl con un giro d’affari attorno ai 700 milioni di dollari (esportazione principalmente nell’ex Urss e nel Golfo). Impiega però un milione di persone anche se sulle condizioni di lavoro è bene sorvolare. O almeno prendere in considerazione che nelle piantagioni lavorano anche minorenni in condizioni igienico sanitarie molto discutibili per non dire vicine alla semi schivitù: in stragrande maggioranza donne di tutte le età. L’angolo buio nella vostrapot tea.

Non si uccidono così gli elefanti: come il turismo sta assassinando Sri Lanka

Avevo sentito dire e letto di Kandy ogni meraviglia. E anche ogni male, dal momento che la capitale delle Hills dello Sri Lanka, una delle zone a maggior densità di produzione di tè nel mondo, nasconde anche il tragico segreto delle condizioni di lavoro nelle piantagioni, che furono – obviously -un’idea degli inglesi. Che tra l’altro, per i loro noti calcoli politico economici, importarono un milione di tamil dall’India per farli lavorare nei campi dando una mano a creare uno dei maggiori problemi di questo Paese che risiede nella difficile convivenza tra singalesi (sinhala) e tamil. Ma sul fronte turistico la città appariva, nei racconti d’antan e nelle guide, come un piccolo paradiso tropicale dove rinfrancare lo spirito e rinfrescare il corpo (500 mt d’altezza).

Hermann Hesse

Lo spirito ahinoi ha poco da rinfrancarsi e questo già lo aveva scritto Hermann Hesse, cui di Kandy non era piaciuta quel che gli sembrava una pessima deriva del buddismo quivi praticato. Anche il nostro spirito è rimasto piuttosto rattristato: non solo dalle deviazioni attuali del buddismo (in parte violento identitario e nazionalista), che devono far rigirare il povero Hesse anche nella tomba, ma anche dal paesaggio, urbano e umano.

Il nostro alberghetto, pulito e senza troppe pretese, sta di fianco a uno dei suoi tanti gemelli – ve ne sono davvero a decine – che si chiama “Lake View”. Ma oggi, più che il lago vedete un monumento di cemento armato di otto piani in fase di costruzione. Potreste tentare di sbirciare verso la residenza del “sacro dente”, che apparteneva all’altrettanto sacra e venerata arcata mandibolare di Gautama Siddharta, ma l’occhio vi cade su un imponente albergo splendente di bianco nitore che sembra di una quindicina di piani. Scossi dal “Building View”, mentre siete assaliti dai dubbi per aver scelto questa meta e vi difendete da uno stuolo di assalitori che vi vogliono vendere un tour, consigliare un ristorante, farvi risparmiare sull’acquisto delle banane, vi vien fatto di pensare se anche questa città – con un vecchio centro storico affacciato su un lago suggestivo – non sia l’ennesima vittima del turismo. Al cui omicidio state contribuendo anche voi.
Sceso dal Nord, quasi privo di occhi esterni (un po’ per via di trent’anni di guerra un po’ perché il turismo non è molto incoraggiato e le strutture ricettive scarseggiano), il primo impatto vero col turismo è stata per me la città di Arunadhapura, l’antica capitale dello Sri Lanka che annovera rovine suggestive di un’ampiezza imponente e stupa assai ben conservati che risalgono al secondo o terzo secolo A.C. La città è quel che è – una lunga caotica fila di negozi immersa in un traffico abbastanza caotico – ma le rovine sono davvero uno spettacolo (ben conservato) che merita un viaggio. Il contorno però è sfiancante. Siete l’oggetto di un furto continuato: inizia il tuk tuk (i Bajaj a tre ruote che fungono da taxi economici) che non vi porta nel posto richiesto, continua con l’albergatore con cui dovete fare un’estenuante trattativa sul prezzo della camera, finisce con l’offerta-truffa di bypassare l’acquisto del carnet d’ingresso alla zona archeologica pagando un po’ meno di metà prezzo (ma in realtà vi mostrerebbero quasi solamente la parte che si può comunque visitare gratuitamente). La cosa migliore è procurarsi una bicicletta e auto organizzarsi. Con l’aiuto della Lonely Planet? Si certo, ma tenendo conto che nemmeno questa guida è più quella di una volta e si è molto standardizzata. Alcune di questa piacevolezze non ve le racconta.
Nonostante Colombo sia una bella e ordinata città che merita una visita (contrariamente

Kandy: da Lake View a Building View

al mantra sul suo traffico disordinato e caotico) e nonostante la bella passeggiata nel Nord (di cui mi riprometto di riferire in seguito), la perla dell’Oceano indiano è un’esperienza a volte persino deprimente. Credo che ciò imponga una riflessione sul turismo, anche sul cosiddetto turismo sostenibile o responsabile: riflessione ineludibile perché ne siamo i protagonisti principali. Se lo Sri Lanka (che durante gli anni della guerra ha già fatto i conti con la caduta delle presenze) non fosse più la meta che è, il suo Pil ne soffrirebbe parecchio. I turisti – quella massa un po’ grigia e malvestita in short, scarpe da tennis col calzino sporco, t-shirt e zaino in spalla – sono una manna che garantisce ingresso di divisa forte, occupazione e… sviluppo. Ma è sullo sviluppo che grava l’interrogativo (sui primi due punti siam tutti d’accordo).

Arunadhapura: area archeologica estesa
e molto ben conservata

Se lo sviluppo è la vista sul grattacielo anziché sul sacro dente, se una passeggiata vi costringe a fuggire venditori e guide variamente dissimulate, se il vostro rapporto con la gente è diventato ormai una relazione semplicemente commerciale, al massimo si sviluppa una grande distanza tra visitatori e visitati. Certo direte voi, lo sviluppo è per gli srilankesi, e questo è il prezzo da pagare. Ma io temo due cose: la prima è che la vista sul grattacielo rimarrà agli srilankesi che si godranno gli effetti perversi generati dal flusso turistico. Secondo, Sri lanka corre il rischio di fare la fine dell’Italia, un Paese che negli anni Sessanta-Settanta era nei primi posti delle classifiche e cui adesso viene preferita persino la Germania (siamo esosi, imbroglioni e maestri nella rovina del paesaggio). La soluzione non è certo il solo turismo d’élite che, anzi, quello del viaggiatore a low budget è senz’altro meno impattante e diffonde ricchezza in modo più egualitario (a parte l’enorme quantità di lavoro minorile). Ma c’è qualcosa che non va e che lascia l’amaro in bocca. Un po’ come il tè e le sigarette.


Le seconde costano come uno stipendio (circa 4 euro al pacchetto), sono rigidamente contingentate (un problema trovarle) e sono solo di un paio di marche. Ma questo – direte voi – riguarda solo gli orridi viziosi con la cicca in bocca, politicamente e salutisticamente scorretti. Allora veniamo al tè. Nel Paese dove si produce uno dei tè migliori del mondo (lasciamo stare in che modo), è quasi impossibile bere un tè decente. La media è a livello di quello che vi propinano nei bar italiani. Tutto se ne va in esportazione e il fondo del sacco resta qui. Oggi andremo a vedere il Museo del tè di Kandy per vedere se ne rimediamo una bustina.

Non si uccidono così gli elefanti: come il turismo sta assassinando Sri Lanka

Avevo sentito dire e letto di Kandy ogni meraviglia. E anche ogni male, dal momento che la capitale delle Hills dello Sri Lanka, una delle zone a maggior densità di produzione di tè nel mondo, nasconde anche il tragico segreto delle condizioni di lavoro nelle piantagioni, che furono – obviously -un’idea degli inglesi. Che tra l’altro, per i loro noti calcoli politico economici, importarono un milione di tamil dall’India per farli lavorare nei campi dando una mano a creare uno dei maggiori problemi di questo Paese che risiede nella difficile convivenza tra singalesi (sinhala) e tamil. Ma sul fronte turistico la città appariva, nei racconti d’antan e nelle guide, come un piccolo paradiso tropicale dove rinfrancare lo spirito e rinfrescare il corpo (500 mt d’altezza).

Hermann Hesse

Lo spirito ahinoi ha poco da rinfrancarsi e questo già lo aveva scritto Hermann Hesse, cui di Kandy non era piaciuta quel che gli sembrava una pessima deriva del buddismo quivi praticato. Anche il nostro spirito è rimasto piuttosto rattristato: non solo dalle deviazioni attuali del buddismo (in parte violento identitario e nazionalista), che devono far rigirare il povero Hesse anche nella tomba, ma anche dal paesaggio, urbano e umano.

Il nostro alberghetto, pulito e senza troppe pretese, sta di fianco a uno dei suoi tanti gemelli – ve ne sono davvero a decine – che si chiama “Lake View”. Ma oggi, più che il lago vedete un monumento di cemento armato di otto piani in fase di costruzione. Potreste tentare di sbirciare verso la residenza del “sacro dente”, che apparteneva all’altrettanto sacra e venerata arcata mandibolare di Gautama Siddharta, ma l’occhio vi cade su un imponente albergo splendente di bianco nitore che sembra di una quindicina di piani. Scossi dal “Building View”, mentre siete assaliti dai dubbi per aver scelto questa meta e vi difendete da uno stuolo di assalitori che vi vogliono vendere un tour, consigliare un ristorante, farvi risparmiare sull’acquisto delle banane, vi vien fatto di pensare se anche questa città – con un vecchio centro storico affacciato su un lago suggestivo – non sia l’ennesima vittima del turismo. Al cui omicidio state contribuendo anche voi.
Sceso dal Nord, quasi privo di occhi esterni (un po’ per via di trent’anni di guerra un po’ perché il turismo non è molto incoraggiato e le strutture ricettive scarseggiano), il primo impatto vero col turismo è stata per me la città di Arunadhapura, l’antica capitale dello Sri Lanka che annovera rovine suggestive di un’ampiezza imponente e stupa assai ben conservati che risalgono al secondo o terzo secolo A.C. La città è quel che è – una lunga caotica fila di negozi immersa in un traffico abbastanza caotico – ma le rovine sono davvero uno spettacolo (ben conservato) che merita un viaggio. Il contorno però è sfiancante. Siete l’oggetto di un furto continuato: inizia il tuk tuk (i Bajaj a tre ruote che fungono da taxi economici) che non vi porta nel posto richiesto, continua con l’albergatore con cui dovete fare un’estenuante trattativa sul prezzo della camera, finisce con l’offerta-truffa di bypassare l’acquisto del carnet d’ingresso alla zona archeologica pagando un po’ meno di metà prezzo (ma in realtà vi mostrerebbero quasi solamente la parte che si può comunque visitare gratuitamente). La cosa migliore è procurarsi una bicicletta e auto organizzarsi. Con l’aiuto della Lonely Planet? Si certo, ma tenendo conto che nemmeno questa guida è più quella di una volta e si è molto standardizzata. Alcune di questa piacevolezze non ve le racconta.
Nonostante Colombo sia una bella e ordinata città che merita una visita (contrariamente

Kandy: da Lake View a Building View

al mantra sul suo traffico disordinato e caotico) e nonostante la bella passeggiata nel Nord (di cui mi riprometto di riferire in seguito), la perla dell’Oceano indiano è un’esperienza a volte persino deprimente. Credo che ciò imponga una riflessione sul turismo, anche sul cosiddetto turismo sostenibile o responsabile: riflessione ineludibile perché ne siamo i protagonisti principali. Se lo Sri Lanka (che durante gli anni della guerra ha già fatto i conti con la caduta delle presenze) non fosse più la meta che è, il suo Pil ne soffrirebbe parecchio. I turisti – quella massa un po’ grigia e malvestita in short, scarpe da tennis col calzino sporco, t-shirt e zaino in spalla – sono una manna che garantisce ingresso di divisa forte, occupazione e… sviluppo. Ma è sullo sviluppo che grava l’interrogativo (sui primi due punti siam tutti d’accordo).

Arunadhapura: area archeologica estesa
e molto ben conservata

Se lo sviluppo è la vista sul grattacielo anziché sul sacro dente, se una passeggiata vi costringe a fuggire venditori e guide variamente dissimulate, se il vostro rapporto con la gente è diventato ormai una relazione semplicemente commerciale, al massimo si sviluppa una grande distanza tra visitatori e visitati. Certo direte voi, lo sviluppo è per gli srilankesi, e questo è il prezzo da pagare. Ma io temo due cose: la prima è che la vista sul grattacielo rimarrà agli srilankesi che si godranno gli effetti perversi generati dal flusso turistico. Secondo, Sri lanka corre il rischio di fare la fine dell’Italia, un Paese che negli anni Sessanta-Settanta era nei primi posti delle classifiche e cui adesso viene preferita persino la Germania (siamo esosi, imbroglioni e maestri nella rovina del paesaggio). La soluzione non è certo il solo turismo d’élite che, anzi, quello del viaggiatore a low budget è senz’altro meno impattante e diffonde ricchezza in modo più egualitario (a parte l’enorme quantità di lavoro minorile). Ma c’è qualcosa che non va e che lascia l’amaro in bocca. Un po’ come il tè e le sigarette.


Le seconde costano come uno stipendio (circa 4 euro al pacchetto), sono rigidamente contingentate (un problema trovarle) e sono solo di un paio di marche. Ma questo – direte voi – riguarda solo gli orridi viziosi con la cicca in bocca, politicamente e salutisticamente scorretti. Allora veniamo al tè. Nel Paese dove si produce uno dei tè migliori del mondo (lasciamo stare in che modo), è quasi impossibile bere un tè decente. La media è a livello di quello che vi propinano nei bar italiani. Tutto se ne va in esportazione e il fondo del sacco resta qui. Oggi andremo a vedere il Museo del tè di Kandy per vedere se ne rimediamo una bustina.

Aspettando sua santità/1

Girando in bicicletta per le strade di quella che fu per un certo periodo la capitale delle Tigri del
Tamil Eelam -la guerriglia separatista attiva per trent’anni nell’area settentrionale e nord occidentale dello Sri Lanka – il numero di chiese che si incontrano è abbastanza impressionante, considerato che questa regione è abitata quasi esclusivamente da induisti. Eppure, benché il tempio di Nallur sia considerato forse il più importante luogo di culto indù dell’intera isola di Sri Lanka, la cattedrale bianco candida di St Mary lo batte in ampiezza e altezza. Proprio a fianco sorge il San Patrick’s College dove la buona borghesia tamil studia prima che i prescelti siano spediti nei collegi romani a imparare, con l’italiano, l’arte del servizio ecclesiastico. Quasi tutti i vescovi srilankesi fanno questo percorso prima che venga loro attribuita una delle dodici diocesi locali, tra cui quella di Jaffna è, con l’arcidiocesi della capitale, la più importante.

Ma ieri l’alta gerarchia di una minoranza piccola ma colta e agguerrita (6-7%) era tutta a Colombo dove il papa è sbarcato di prima mattina per una visita pastorale e di Stato che oggi lo porterà proprio qui, in terra tamil, nel santuario mariano di Madhu, a qualche chilometro dalla città di Mannar, un’ottantina di chilometri e tre ore di autobus a Sud di Jaffna. La visita del papa accende molte
speranze in una terra martoriata da una guerra di cui si vedono ancora i segni nei muri di alcune case non più ricostruite e che sembrano essere rimaste a monito della follia umana. La piccola ma potente chiesa cattolica potrebbe svolgere un ruolo importante nel distendere le tensioni che esistono soprattutto tra buddisti singalesi e induisti (e in parte musulmani) della comunità tamil. Eppure le chiese sono così tante qui a Jaffna – cattoliche, metodiste, avventiste e chi più ne ha ne metta – e tutte col loro oratorio, il college o la casa famiglia, che forse a Francesco non deve mancare – come altrove – anche la preoccupazione di una penetrazione sempre più capillare degli evangelici. Anche tra coloro che aspettano il papa c’è chi – come ci fa capire Philip mostrandoci la Bibbia dei testimoni di Geova sul tavolo del suo ufficio – al Dio cristiano arriva in altro modo.

Il papa ieri a Colombo, nel suo incontro con i leader religiosi locali, ha detto comunque chiaramente che il dovere di responsabilità dei sacerdoti deve evitare «equivoci» che la fede non deve produrre in violenza e che solo la riconciliazione può seppellire gli orrori della guerra. Francesco vuole certo rafforzare l’energia che promana dall’intellighenzia cattolica locale – colta, aperta e pacifista (con qualche significativo distinguo su cui torneremo) – e che certamente riprenderà slancio con le sue parole sentendo vicino il lontano Vaticano; e sperando che lo sforzo serva a far guadagnare terreno al dialogo interreligioso, che fatica non poco in un’isola dove i due partiti buddisti – una DC locale che non disdegna l’incitamento all’odio – hanno accenti fortemente nazionalistico identitari preoccupanti.

Monaci combattenti: Gnanasara
leader del Bbs

Proprio ieri, forse sentendosi chiamato in causa e fiutando un possibile nuovo corso, il segretario del Bodu Bala Sena (Bbs) – Galagoda Aththe Gnanasara, un monaco che non vorreste incontrare in autobus se aveste segni di evidente laicismo o di altre fedi – ha detto che la sua organizzazione (considerata invece la più oltranzista) si è sempre ben guardata dal promuovere l’odio e la violenza contro i musulmani. Mentre è noto che proprio l’appoggio dei buddisti (radicali) all’ex presidente Rajapaksa aveva fatto del suo regime un autoritario ed esasperato conservatore sia dell’unità nazionale sia dell’identità buddista e singalese in chiave anti tamil e anti islamica.
Nell’attesa del suo più che simbolico arrivo oggi a Mannar, la capitale del Nord si è svuotata ieri nel pomeriggio proprio in vista dell’appuntamento al santuario della madonna di Madhu. «Stiamo andando incontro al papa!», ci dice persino il nostro albergatore di Jaffna concludendo frettolosamente la trattativa sul prezzo della stanza. E c’è un autobus che parte proprio dal vicino collegio John Bosco, dove l’immagine del fondatore dei salesiani benedice col nome tradotto in inglese coloniale ma l’eterno sorriso declinato in srilankese.

Sull’ex presidente Rajapaksa intanto si addensano nubi sempre più nere. Le voci di un tentativo di golpe bianco da parte del candidato sconfitto alle urne nel voto dell’8 gennaio (di cui vi abbiamo dato conto domenica scorsa) sono diventate un rumore tanto assordante da aver mosso il nuovo governo del vittorioso Maithripala Sirisena ad aprire un inchiesta. Il Telegraph di Colombo, giornale indigesto all’ex presidente, la racconta così: quando Rajapaksa si accorge verso l’una del mattino che il voto volge al peggio, convoca – su consiglio del ministro della Giustizia – il procuratore generale, il capo dell’esercito e quello della polizia proponendo un blitz nei seggi per bloccare il conteggio a fronte di carte preparate ad hoc che provano un pericolo per la democrazia srilankese. Ma i tre fanno fronte comune e gli dicono di no tanto che all’alba Rajapaksa già ammette la sconfitta che non sarà poi, per la verità, così clamorosa visto che Sirisena chiude con meno del 52%. Vero o falso il putsch (che lui smentisce decisamente)? L’inchiesta potrebbe stabilirlo e per l’ex presidente sarebbero tempi duri a meno che non vi sia un accordo tra i due. «Lo escludo – dice un professionista di Colombo che conosce bene la macchina del governo – ma è certo che Sirisena starà attento: Rajapaksa ha portato comunque a casa molti voti, specie nella campagne del centro Sud dov’è forte grazie a piccoli investimenti a favore degli agricoltori e grazie…alla generale ignoranza dei contadini». E il neo presidente, a capo di una larghissima intesa che lo sostiene, non vuole scontentare nessuno.
1/segue

Aspettando sua santità/1

Girando in bicicletta per le strade di quella che fu per un certo periodo la capitale delle Tigri del
Tamil Eelam -la guerriglia separatista attiva per trent’anni nell’area settentrionale e nord occidentale dello Sri Lanka – il numero di chiese che si incontrano è abbastanza impressionante, considerato che questa regione è abitata quasi esclusivamente da induisti. Eppure, benché il tempio di Nallur sia considerato forse il più importante luogo di culto indù dell’intera isola di Sri Lanka, la cattedrale bianco candida di St Mary lo batte in ampiezza e altezza. Proprio a fianco sorge il San Patrick’s College dove la buona borghesia tamil studia prima che i prescelti siano spediti nei collegi romani a imparare, con l’italiano, l’arte del servizio ecclesiastico. Quasi tutti i vescovi srilankesi fanno questo percorso prima che venga loro attribuita una delle dodici diocesi locali, tra cui quella di Jaffna è, con l’arcidiocesi della capitale, la più importante.

Ma ieri l’alta gerarchia di una minoranza piccola ma colta e agguerrita (6-7%) era tutta a Colombo dove il papa è sbarcato di prima mattina per una visita pastorale e di Stato che oggi lo porterà proprio qui, in terra tamil, nel santuario mariano di Madhu, a qualche chilometro dalla città di Mannar, un’ottantina di chilometri e tre ore di autobus a Sud di Jaffna. La visita del papa accende molte
speranze in una terra martoriata da una guerra di cui si vedono ancora i segni nei muri di alcune case non più ricostruite e che sembrano essere rimaste a monito della follia umana. La piccola ma potente chiesa cattolica potrebbe svolgere un ruolo importante nel distendere le tensioni che esistono soprattutto tra buddisti singalesi e induisti (e in parte musulmani) della comunità tamil. Eppure le chiese sono così tante qui a Jaffna – cattoliche, metodiste, avventiste e chi più ne ha ne metta – e tutte col loro oratorio, il college o la casa famiglia, che forse a Francesco non deve mancare – come altrove – anche la preoccupazione di una penetrazione sempre più capillare degli evangelici. Anche tra coloro che aspettano il papa c’è chi – come ci fa capire Philip mostrandoci la Bibbia dei testimoni di Geova sul tavolo del suo ufficio – al Dio cristiano arriva in altro modo.

Il papa ieri a Colombo, nel suo incontro con i leader religiosi locali, ha detto comunque chiaramente che il dovere di responsabilità dei sacerdoti deve evitare «equivoci» che la fede non deve produrre in violenza e che solo la riconciliazione può seppellire gli orrori della guerra. Francesco vuole certo rafforzare l’energia che promana dall’intellighenzia cattolica locale – colta, aperta e pacifista (con qualche significativo distinguo su cui torneremo) – e che certamente riprenderà slancio con le sue parole sentendo vicino il lontano Vaticano; e sperando che lo sforzo serva a far guadagnare terreno al dialogo interreligioso, che fatica non poco in un’isola dove i due partiti buddisti – una DC locale che non disdegna l’incitamento all’odio – hanno accenti fortemente nazionalistico identitari preoccupanti.

Monaci combattenti: Gnanasara
leader del Bbs

Proprio ieri, forse sentendosi chiamato in causa e fiutando un possibile nuovo corso, il segretario del Bodu Bala Sena (Bbs) – Galagoda Aththe Gnanasara, un monaco che non vorreste incontrare in autobus se aveste segni di evidente laicismo o di altre fedi – ha detto che la sua organizzazione (considerata invece la più oltranzista) si è sempre ben guardata dal promuovere l’odio e la violenza contro i musulmani. Mentre è noto che proprio l’appoggio dei buddisti (radicali) all’ex presidente Rajapaksa aveva fatto del suo regime un autoritario ed esasperato conservatore sia dell’unità nazionale sia dell’identità buddista e singalese in chiave anti tamil e anti islamica.
Nell’attesa del suo più che simbolico arrivo oggi a Mannar, la capitale del Nord si è svuotata ieri nel pomeriggio proprio in vista dell’appuntamento al santuario della madonna di Madhu. «Stiamo andando incontro al papa!», ci dice persino il nostro albergatore di Jaffna concludendo frettolosamente la trattativa sul prezzo della stanza. E c’è un autobus che parte proprio dal vicino collegio John Bosco, dove l’immagine del fondatore dei salesiani benedice col nome tradotto in inglese coloniale ma l’eterno sorriso declinato in srilankese.

Sull’ex presidente Rajapaksa intanto si addensano nubi sempre più nere. Le voci di un tentativo di golpe bianco da parte del candidato sconfitto alle urne nel voto dell’8 gennaio (di cui vi abbiamo dato conto domenica scorsa) sono diventate un rumore tanto assordante da aver mosso il nuovo governo del vittorioso Maithripala Sirisena ad aprire un inchiesta. Il Telegraph di Colombo, giornale indigesto all’ex presidente, la racconta così: quando Rajapaksa si accorge verso l’una del mattino che il voto volge al peggio, convoca – su consiglio del ministro della Giustizia – il procuratore generale, il capo dell’esercito e quello della polizia proponendo un blitz nei seggi per bloccare il conteggio a fronte di carte preparate ad hoc che provano un pericolo per la democrazia srilankese. Ma i tre fanno fronte comune e gli dicono di no tanto che all’alba Rajapaksa già ammette la sconfitta che non sarà poi, per la verità, così clamorosa visto che Sirisena chiude con meno del 52%. Vero o falso il putsch (che lui smentisce decisamente)? L’inchiesta potrebbe stabilirlo e per l’ex presidente sarebbero tempi duri a meno che non vi sia un accordo tra i due. «Lo escludo – dice un professionista di Colombo che conosce bene la macchina del governo – ma è certo che Sirisena starà attento: Rajapaksa ha portato comunque a casa molti voti, specie nella campagne del centro Sud dov’è forte grazie a piccoli investimenti a favore degli agricoltori e grazie…alla generale ignoranza dei contadini». E il neo presidente, a capo di una larghissima intesa che lo sostiene, non vuole scontentare nessuno.
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Tutti i ministri di Ghani (e di Abdullah)

A Kabul il nodo è stato sciolto. E con qualche sorpresa nella lista che definisce il nuovo governo. Dei 25 ministri, 13 li ha scelti Ghani (tra cui Difesa e Finanze) 12 li ha scelti Abdullah (e di un certo peso: Esteri, Interno, Economia, Sanità, Istruzione e il capo dei servizi). Nel braccio di ferro il secondo sembra aver portato a casa più risultati (anche se Finanze e Difesa, oltre alla nomina del Governatore della banca centrale, sono i dicasteri chiave che controllano il flusso degli aiuti). Ecco la lista diffusa da agenzie e tv afgane:

In quota Ghani:

1. Sher Mohammad Karimi as Minister of Defense
2. Ghulam Jilani Popal as Minister of Finance
3. Faiz Mohammad Osmani as Minister of Haj and Religious Affairs
4. Faizullah Kakar as Minister of Counter-Narcotics
5. Sadat Naderi as Minister of Labors, Social Affairs, Martyrs and Disabled
6. Daud Shah Saba as Minister of Mines
7. Khatera Afghan as Minister of Higher Education
8. Shah Zaman Maiwandi as Minister of Urban Development
9. Qamaruddin Shinwari as Minister of Borders and Tribal Affairs
10. Faizullah Zaki as Minister of Transport and Civil Aviation
11. Ai Sultan Khairi as Minister of Information and Culture
12. Abbas Basir as Minister of Public Works
13. Yaqub Haidari as Minister of Irrigation, Agriculture and Livestock
Khalil Sediq as the Governor of Da Afghanistan Bank
In quota Abdullah:
1. Salahuddin Rabbani as Minister of Foreign Affairs
2. Noor-ul-haq Ulumi as Minister of Interior Affairs
3. Sardar Mohammad Rahman Oghli as Minister of Economy
4. Sardar Mohammad Rahimi as Minister of Commerce and Industries
5. Sayed Hussain Alemi Balkhi as Minister of Refugees and Repatriation
6. Najiba Ayubi as Minister of Women’s Affairs
7. Ahmad Seyar Mahjoor as Minister of Justice
8. Nasir Durrani as Minister of Rural Rehabilitation and Development
9. Ferozuddin Feroz as Minister of Public Health
10. Mohammad Gul Zalmai Younusi as Minister of Education
11. Mahmoud Saikal as Minister of Water and Energy
12. Barna Karimi as Minister of Communications and Information Technology
Rahmatullah Nabil (independent) as the head of National Directorate of Security

Sri Lanka tra Pechino e Santa sede

 Mentre con una rapidità stupefacente il neo presidente Sirisena sta già formando il suo governo a
poche ore dall’insediamento e dalla clamorosa sconfitta di Mahinda Rajapaksa, Sri Lanka aspetta un altro grande evento: l’arrivo del papa. Non si tratta di una visita pastorale come tante e arriva in un momento complesso che non ha mancato, prima delle elezioni, di suscitare polemiche nella base e tra la gerarchia progressista dell’isola, dove i cattolici sono una minoranza piccola ma presente e a cui stava a cuore che Bergolgio non si prestasse a speculazioni politiche da parte del presidente. Adesso non è ben chiaro come sarà il cerimoniale: Rajapaksa aveva affisso manifesti con la sua immagine e quella del papa e forse sperava di poterlo accogliere da presidente eletto per guadagnarsene la benedizione. Ai cattolici, tutti con Sirisena, la visita ormai concordata prima dello strappo di novembre (quando Rajapaksa ha indetto le elezioni prima della scadenza naturale del mandato) sembrava un rischio così alto da far consigliare a molti un rinvio.

La struttura dove parlerà il papa, che parte da Roma domani per essere a Colombo martedi, non è ancora terminata e si corre ai ripari lavorando di buona lena: leve, gru, ponteggi metallici, operai che punteggiano il lungomare su cui si affaccia la capitale e, poco più avanti, il palazzo presidenziale in questi giorni oggetto di speculazioni e rumor. La velocità con cui Rajapaksa ha ammesso la sconfitta, ha lasciato di stucco chi credeva che comunque il vecchio presidente non avrebbe mollato: un giornale locale sostiene addirittura che avesse in realtà deciso di ribaltare il tavolo, chiedendo al procuratore generale di preparare le carte per sbarrare la strada a Sirisena, e che avrebbe cambiato idea dopo il suo rifiuto. Scenario di fantasia?

Certo gli elementi del giallo ci sono tutti. E ci sono forse state tutte le pressioni possibili per portare a casa un risultato pacifico e forse alla fine concordato. Sirisena si insedia infatti addirittura il giorno stesso in cui Rajapaksa – senza avere in mano neppure i risultati definitivi – ammette la sconfitta. Questione di ore e l’India si congratula con calore. Poi è la volta di Londra, quindi di Washington. E si congratulano tutti quei Paesi che nel 2013 boicottarono il summit del Commonwealth a Colombo. Un primo ministro è già al lavoro: Ranil Wickremesinghe – un liberale già premier diverse volte – nemico acerrimo di Rajapaksa e personaggio che può restituire al Paese quel che l’ex presidente gli ha tolto: sia un’alleanza economica con Usa e Occidente che in questi anni passava invece per Pechino (potrebbe pare saltare un accordo da 1,5 miliardi di dollari con la Cina Communications Construction Co Ltd), sia un’immagine più collaborativa con le minoranze, soprattutto i tamil. Ranil fu l’uomo che tentò la via pacifica con la guerriglia delle Tigri durante la guerra al Nord durata più di cinque lustri.

Forse però degli equilibri etnico-religiosi sarà più Bergoglio che Sirisena ad occuparsi. Il papa si è fatto precedere da dichiarazioni come quella rilasciata all’agenzia Fides dal vescovo di Kandy Fernando Vianney, che ha evocato una “soluzione politica dell’era post-conflitto, basata sul principio del decentramento dei poteri, dell’unità e della riconciliazione”. Francesco – che ha in progetto una visita in area tamil – si presenta inoltre con una canonizzazione a tempo record del sacerdote secentesco Jospeh Vaz, amato da singalesi (la maggioranza dei cattolici srilankesi) e tamil.

Sul fronte della riconciliazione Sirisena ha fatto promesse ma fino a un certo punto: è disposto a mettere in piedi una commissioni che valuti crimini e violazioni della guerra ma anche lui, come Rajapaksa, non ne vuole sapere dell’Onu e delle sue inchieste così super partes da essere imbarazzanti per tutti. Sirisena, già segretario dello stesso partito di Rajapaksa, è stato ministro in diversi governi e le Tigri tamil lo avevano tanto in odio tanto da tentare nel 2008 di ammazzarlo. Ora guiderà un governo che ha dentro di tutto: dalla sinistra marxista ai liberisti, dai gruppi buddisti radicali ai musulmani. Forse più che alle minoranze penserà a come liberare Sri Lanka dall’abbraccio di Pechino e a come tenere in piedi la sua eterogenea coalizione.

Sri Lanka the day after

Ribaltando ogni previsione il candidato dell’opposizione Maithripala Sirisena ha clamorosamente battuto – in elezioni considerate regolari e trasparenti – l’ormai ex presidente dello Sri Lanka Mahinda Rajapaksa, da dieci anni a capo dell’isola che costituisce la punta finale del subcontinente indiano. Un morto e qualche incidente minore da registrare: un record in positivo che ora costituisce un primato.

Opposizione in realtà è una parola grossa. E anche “ex presidente” potrebbe esserlo. Sia perché Sirisena fa parte dello stesso partito di Rajapaksa – lo Sri Lanka Freedom Party –e sino a qualche mese fa era ministro nel suo governo, sia perché non è ancora chiaro cosa sarà la“transizione morbida” appena promessa dal perdente. A cui va comunque reso un merito: aver riconosciuto la sconfitta sin dalle prime proiezioni che davano Sirisena sopra il 50% e lui appena oltre il 40. E averla accettata sin dalle prime ore del mattino, quando Colombo si è svegliata dopo essere andata a letto – a urne chiuse – col peso dell’incognita di una controversa elezione, voluta da Rajapaksa con due anni d’anticipo sulla scadenza naturale e dopo un emendamento costituzionale che gli ha consentito di correre per un terzo mandato.
La strana e inaspettata vittoria elettorale di Sirisena comincia dunque ieri mattina verso le 11 quando l’auto scura di Rajapaksa lascia la residenza su Galle Road per raggiungere il palazzo presidenziale. Lì davanti c’è solo qualche curioso e diversi agenti della sicurezza in divisa e in borghese che bloccano la larga arteria che dal lungomare porta a palazzo, nella zona di “Fort”, parte antica e coloniale della città. La capitale è vuota come durante il voto perché per tre giorni negozi, scuole e uffici restano chiusi. Non c’è ombra di traffico e nemmeno lo schieramento di polizia che era lecito aspettarsi. Mancano solo sette ore al trionfo ufficiale di Sirisena che alle sei del pomeriggio viene ritualmente insediato con una cerimonia pubblica nella grande piazza dell’Indipendenza, dove si affollano monaci buddisti, famiglie della classe media e tutta la diplomazia della capitale. Sfilano i parlamentari e i leader politici. Sirisena arriva per ultimo. Rajapaksa invece resta a casa, in disparte.

Bagno di folla sì, ma con numeri davvero piccoli se comparati a un’affluenza alle urne che in certe aree è volata oltre il 70%, percentuale che si è vista anche nel Nord tamil, regione in guerra per anni con Colombo e poco propensa a infilare la scheda nell’urna. Tre, quattromila persone si accalcano sotto un palco enorme sovrastato dal tetto a pagoda allungata della vasta piazza. Silenzio quando passano alcuni azzimati deputati e un lungo applauso all’arrivo di Sirisena, un signore dall’aria vagamente dimessa e che non ha proprio l’aura del leader roboante e pigliatutto che è stata invece la cifra di Rajapaksa. Per dirla tutta, l’applauso popolare più vigoroso lo strappa forse Sarath Fonseka, il generale prestato alla politica che nel 2010 aveva sfidato proprio Rajapaksa e che, dopo la prova elettorale, benché eletto in parlamento, è stato giudicato da una corte militare e si è fatto tre anni di galera. Grandi applausi anche per i leader religiosi con la tunica monacale arancione o bordeaux. Un abito non sempre compassionevole: fra loro ci sono anche personaggi poco rassicuranti, come i monaci guerrieri del Bodu Bala Sena, organizzazione radicale e identitaria vicina al regime e che oggi forse non aveva molto da festeggiare.

Quando la piazza si svuota e cala il buio sul primo giorno dopo il voto, tutti i dubbi riaffiorano. Si, certo, tra tutte le persone cui viene chiesta un’opinione, tutti sono per Sirisena, dal barbiere tamil al manager singalese, dal negoziante al civil servant. Ma quanto le cose cambieranno? Quanto le promesse fatte dal palco faranno strada in un Paese ancora dilaniato sia dalle ferite di una guerra durata oltre vent’anni anni con un bilancio di 100mila morti sia dalla condizione amara in cui vivono le minoranze – etniche e religiose, tamil e musulmane – il cui voto è stato determinante (nel 2010 i tamil in gran parte disertarono le rune) per sconfiggere Rajapaksa?

Sirisena viene dallo suo stesso partito e di quel partito è stato persino segretario. Può darsi che non gli piacessero i modi spicci del presidente e forse nemmeno i suoi accenti ipernazionalisti, ma è un fatto che – qualcuno dice – la sera prima era a cena con lui e il giorno dopo ne era l’avversario. Il sospetto di un accordo non è forse peregrino. Larghe intese in salsa curry.

Rajapaksa ammette la sconfitta

A urne ormai chiuse c’era calma ieri sera davanti alla splendente magione del presidente della repubblica Mahinda Rajapaksa, che si trova a qualche metro dal mare appoggiata sulla lunghissima Galle Road e dirimpetto all’ambasciata americana in uno dei tanti “centri” un po’ anonimi in cui la capitale dello Sri Lanka è divisa. Residenza che oggi il presidente ha detto di voler lasciare. Ha ammesso la sconfitta nella controversa elezione del nuovo presidente della repubblica che Rajapaksa stesso era riuscito a convocare per ieri con uno stratagemma parlamentare e due anni prima della scadenza naturale. La giornata è passata tranquilla ma con una novità importante: un’affluenza che sembra addirittura aver superato i due terzi degli aventi diritto e senza che si verificassero gravi episodi di violenza o intimidazione. A beneficiarne – avevano subito detto gli analisti – poteva essere il rivale del capo dello Stato – Maithripala Sirisena – suo ex ministro e addirittura segretario a lungo del partito del presidente (il Sri Lanka Freedom Party, che teoricamente sarebbe un’organizzazione progressista di ispirazione socialista) che lo ha sfidato proprio puntando sulla stanchezza di un elettorato che avrebbe dovuto riconfermare per una terza volta la poltrona che Rajapaksa si rifiuta di mollare. A quanto pare – e per stessa ammissione del presidente – ce l’ha fatta.

Secondo Al Jazeera ieri ci sarebbero state due esplosioni in due zone a Sud ed Est del Paese e, riferisce la Bbc, un altro boato ha diffuso il panico a Jaffna, la capitale “tamil” del Nord, cuore per oltre due decenni di una guerra senza quartiere contro le Tigri tamil e nel 2009 vinta dal governo al prezzo – si stima – di 40mila morti in stragrande maggioranza civili. Infine la Campaign for Free and Fair Elections (CaFFE), un gruppo di monitoraggio locale del voto ha denunciato intimidazioni e pressioni. Poca cosa tutto sommato in una giornata tranquilla anche perché favorita dalla chiusura di tutti gli esercizi commerciali. Il risultato definitivo a giorni e comunque prima dell’imminente visita di Bergoglio nell’isola dei fiori che gli antichi chiamavano Taprobane e in seguito divenne nota come Ceylon.

Le cose sono andate così: sull’onda della vittoria militare del 2009 Rajapaksa ha incassato il

consenso di una buona fetta di singalesi (la comunità maggioritaria e in gran parte buddista dello Sri Lanka) e lo ha fatto senza rinunciare all’appoggio delle formazioni religiose radicali e identitarie che, in questi anni, hanno appoggiato campagne revisioniste della storia locale, rivendicato ai buddisti i luoghi sacri a indù o cristiani e dato alle fiamme villaggi musulmani. Rajapaksa è anche piaciuto alla comunità imprenditoriale: finito il conflitto coi tamil – e dopo una vittoria elettorale a valanga che nel 2010 ha premiato la sua guerra – è tornato il turismo e commercio, edilizia e manifattura hanno conosciuto nuovo impulso. Ma la luna di miele è durata fino al 2013 per poi annacquarsi durante le elezioni locali che hanno mostrato la debolezza di un Rajapaksa ormai diventato più che un padre un padrone del Paese: figli nei posti chiave, “crony capitalism” (capitalismo delle parentele, definizione che fu affibbiata al sistema clientelare del filippino Ferdinando Marcos per la prima volta), un disinvolto uso del potere, non ultimo l’escamotage per tentare la terza rielezione.

Infatti, dicono i maligni, quando il presidente ha visto la mal parata ha indetto nuove elezioni con un messaggio chiaro: che comunque avrebbe vinto lui. Se le urne lo confermano, via al terzo mandato. Se premiano invece Sirisena, Rajapaksa resterà ugualmente nella residenza di Galle Road ancora per due anni come capo dello Stato. E sarà dunque lui, vincente o perdente ma comunque vittorioso, a incontrare il papa che nei prossimi giorni verrà per una visita pastorale che ha messo in fermento la base. Cristiani (6%) tamil e musulmani (le minoranze che, al di là delle differenze religiose sono soprattutto tamil venuti secoli fa dall’India o importati durante il dominio britannico per lavorare nelle piantagioni) sono per altro la forza (30% dell’elettorato) su cui Sirisena ha puntato. E che potrebbe far sperare in un giro di boa meno nazional identitario e marcato da quel buddismo “armato” che, dalla Thailandia al Myanmar, ha davvero poco a che vedere col monaco che insegnò la Via di mezzo e l’amore per tutti gli esseri umani senza distinzione.

Andrà così? Solo la clessidara del tempo potrà dirlo: dopo l’ammissione di sconfitta Rajapaksa ha detto di voler garantire una morbida trasmissione. Si vedrà cosa intende dire dal momento che già da stasera il prossimo presidente sarà ufficialmente insediato.

La fucina del jihad

 La guerra afgana e in Pakistan grande affluente per il fiume che alimenta le brigate islamiche internazionali. Il caso dell’Azerbaigian

Una guerra, poco importa se civile o dichiarata o – come nel caso afgano o iracheno – addirittura considerata “conclusa”, è sempre un ottimo serbatoio per combatterne un’altra. E’ storia sin dai tempi dei mercenari reclutati per soldo o competenze, ma recentemente questo fenomeno ha preso un nuovo abbrivio. Forse da quando, durante la guerra di Bosnia, si creò una brigata di mujaheddin, sostenuti dai Paesi del Golfo e dall’Iran ma anche dall’Occidente: molti di loro rimasero in piccole enclave radicali in territorio bosniaco oppure trasmigrarono verso nuove frontiere che potevano garantire loro un salario e la continuazione del jihad su altri fronti. Questa storia poco indagata sulle motivazioni (ideologiche, finanziarie, religiose o per senso di giustizia) e che ha contagiato anche i musulmani di seconda generazione “integrati” nelle nostre società, si spalma lungo lontanissimi confini. E proprio l’Afghanistan, col vicino Pakistan, è un affluente primario di quel fiume jihadista che alimenta i conflitti più recenti e che sembra ormai coinvolgere tutto il mondo, dall’Australia all’Azerbaijan.

Il fronte è vario e non certo univoco. E’ di alcuni giorni fa la notizia di combattenti afgani che il regime di Bashar al Assad avrebbe arruolato tramite i buoni auspici di Teheran. Secondo il londinese Syrian Observatory for Human Rights, sarebbero i Guardiani della rivoluzione a reclutare per 500 dollari al mese gli afgani in Iran, dove la diaspora musulmana sciita (in prevalenza hazara) è molto presente. Reclutamento esercitato con la coercizione e che avrebbe già prodotto centinaia di morti, feriti o sequestrati tra questi combattenti in prestito forzato. Non è l’unico caso in cui uno straniero, più o meno convinto o attratto dal denaro, decida di combattere al fianco di Assad. Secondo fonti locali dell’Azerbaigian (Paese a maggioranza sciita), alcuni giovani sono stati assoldati da Damasco per combattere i jihadisti sunniti, la stragrande maggioranza dei miliziani delle brigate islamico-radicali sparse per il mondo, dal Pakistan alla Siria. E benché in Azerbaijan non esista un vero e proprio pericolo jihadista, il Paese è un caso studio interessante dove il conflitto afgano e nel Caucaso sono stati i motori di un revivalismo radicale che sembra aver aiutato la diffusione di movimenti salafiti e wahabiti e l’attrazione per le brigate internazionali.

Il fenomeno è recente ma non si deve dimenticare l’enorme forza che il jihad afgano durante l’occupazione sovietica (1979-1989) ha esercitato su tutti i musulmani del mondo sovietico dove spesso la presenza russa era vissuta come un’occupazione. I primi combattenti azeri partiranno dunque per Cecenia e Daghestan prima e poi per Afghanistan e Pakistan dove vi sono diversi poli di attrazione: non solo e non tanto i talebani di mullah Omar, poco sedotti dall’internazionalismo qaedista e salafita, ma movimenti jihadisti come il Tehreek-e-taleban Pakistan (Ttp) autore della recente strage nella scuola militare di Peshawar (141 morti).

E‘ il secondo jihad – quello contro Usa e Nato – ad attrarre tutta una nuova leva di mujaheddin le cui coscienze si sono risvegliate con le guerre nel Caucaso, i disordini in vari Paesi dell’ex Urss, le primavere arabe e l’11 settembre. In Pakistan c’è ad esempio Taifatul Mansura, formazione militante di mujaheddin turcofoni (turchi, azeri, kazachi, uzbechi, tatari), attiva sul confine afgano pachistano. In Siria c’è invece la Muhajireen Brigade, evolutasi in Jaish al-Muhajireen wal Ansar, gruppo di “stranieri” in gran parte russi e ceceni ma anche occidentali,oppure la più nota Jabhat al-Nusrae adesso formazioni che fanno capo al progetto di Al Baghdadi. Proprio i suoi uomini – secondo un rapporto delle autorità del Belucistan pachistano – avrebbero in essere una potente campagna di reclutamento: fra i 10 e i 12mila uomini da arruolare nelle aree tribali del Pakistan per farli poi trasmigrare sul fronte siro iracheno.

Cosa muove questi combattenti? Ci sono ormai jihadisti di professione: gente senza più patria e ricercata nel Paese d’origine che ha ormai come specializzazione la guerra. Poi c’è l’attrazione di uno stipendio che può variare da qualche centinaio di dollari a mille. Ma c’è anche una forte motivazione ideologica, probabilmente legata al desiderio di uscire dall’impasse di una vita ai margini come quella che può vivere un giovane senza futuro della periferia di qualche capitale asiatica o occidentale. Luoghi dove il jihad internazionale esercita la sua pressione su musulmani di seconda generazione che le società occidentali non hanno saputo o voluto integrare e che vedono come una sconfitta l’adesione supina dei genitori a valori in cui questi giovani non si riconoscono.

In Azerbaigian c’è una città, oggi considerata il nodo per eccellenza delle attività jihadiste – con oltre 200 residenti sotto osservazione come possibile manodopera radicale – il cui passato e presente spiega molte cose. A Sumqayit, costruita alla fine degli anni Quaranta e ormai ex polo di attrazione siderurgico e petrolchimico, il processo di riconversione industriale post Urss ha coinciso con violenze e pogrom che ne hanno modificato il tessuto sociale: mentre la parte armena della città si svuotava, l’area urbana si riempiva di sfollati azeri provenienti dall’Armenia. Nella città, classificata nel 2007 come una delle più inquinate del mondo, il processo di riconversione, le tensioni create dalla disoccupazione e dalla presenza di un milione di sfollati, appaiono come l’humus ideale per il reclutamento di giovani in cerca di occupazione o di un ideale eroico. La guerra è finisce per essere il grande mercato in grado di attrarli.

Fuoco amico sul matrimonio

Il bilancio è per ora di 27 vittime e almeno 70 feriti, in gran parte donne e bambini. La strage è avvenuta durante un matrimonio mercoledì scorso nel villaggio di Milan Rodi, distretto di Sangin nel Sud del paese. Ma questa volta la Nato non c’entra e nemmeno i talebani, come all’inizio era stato invece denunciato.
Le vittime sarebbero state infatti l’oggetto di un bombardamento con mortai contro una festa di matrimonio dove un gruppo di guerriglieri si sarebbe rifugiato. Nella zona la guerriglia è ben posizionata e, come si sono giustificati i militari, è difficile per esercito e polizia nazionali operare senza rischi; da qui a bombardare una residenza piena di civili però ce ne corre. Il presidente Ashraf Ghani, alle prese con la sua prima grossa grana di guerra che coinvolge oltre a molti civili le responsabilità del “suo” esercito, ha mandato nella provincia di Helmand, dove si trova il villaggio, una nuova equipe di inquirenti, allo scopo di indagare sulla strage del mercoledì il cui primo rapporto non ha affatto soddisfatto il neo capo dello Stato che ha tra l’altro in quelle aree parte della sua base elettorale. Non si tratta solo di un caso di coscienza: ieri per il terzo giorno consecutivo la gente è scesa in piazza andando a protestare nella capitale della omonima provincia di Lashkargah dove sono arrivati anche diversi parlamentari che però, per motivi di sicurezza, non hanno poi raggiunto i ricoveri dei feriti suscitando polemiche in una zona sotto controllo della guerriglia e dove quindi l’attenzione a come si muovono (o non si muovono) Stato e parlamento è molto alta (Ghani fra l’altro non ha ancora formato l’esecutivo). La gente del posto vuole che i responsabili della strage vengano processati e puniti.
Il matrimonio è un rito collettivo che in Afghanistan rappresenta un momento più che centrale nella vita delle famiglie e dell’intero villaggio. Ma questa tradizione è stata più volte macchiata dal sangue di stragi che hanno colpito feste o processioni nuziali, trasformando le nozze in funerali. 

La biblioteca di Amanullah: Acconcia, Breccia, Borri e la guerra

La guerra finisce per occupare non solo le nostre giornate ma anche le nostre letture. Gli ultimi tre libri sul mio comodino son volumi che trattano della guerra. Con tre punti di osservazione differenti. Gastone Breccia nel suo Le guerre afgane traccia un profilo storico molto comodo se si vuole avere in poche pagine un riepilogo dei conflitti che hanno occupato soprattutto la storia contemporanea afgana. Forse la parte meno interessante è quella sulla guerra della Nato – l’ultima insomma – dove su qualche giudizio si potrebbe anche sindacare (lasciamo che a giudicarla e giudicarci ci pensino tra qualche anno). Ma per il resto mi pare un buon libro da avere in biblioteca: ben trattata la guerra dei sovietici (su cui in italiano c’è pochissimo) e ben trattate le guerre angloafgane. Lettura scorrevole e piacevole inoltre. E direi documentata.

Francesca Borri, giornalista freelance per cui non nascondo una certa simpatia (anche se non la conosco di persona) per via delle tante polemiche che hanno sollevato le sue prese di posizione, racconta ne La guerra dentro il conflitto siriano. Non solo, ma è lì che la sua attenzione si concentra. E’ un buon libro sulla Siria in cui l’autrice non nasconde la sua empatia e simpatia per la popolazione civile, protagonista di quel conflitto. L’analisi non manca nel racconto di Francesca ma, a mio avviso, finisce per farne le spese a dispetto di una tendenza dell’autrice a  indugiare fin troppo sullo scenario: tappezzato di bombe, sangue, missili e proiettili che bucano quasi ogni pagina del suo libro. Forse un racconto meno ossessionato da quel fragore di bombe mi avrebbe convinto di più. C’è anche un altro punto su cui credo Francesca avrebbe dovuto soffermarsi e che nel libro è toccato solo qui e là: la condizione del freelance e del circo mediatico degli inviati. Il free lance appare spesso (lo è l’autrice) e anche le sue (giuste) rimostranze sull’ottusità dei desk romani o milanesi, ma forse il libro mi avrebbe appassionato (e divertito) di più se quel racconto – invero succulento e davvero mai raccontato – si fosse sviluppato con la verve che la Borri ha applicato a tanti scritti affidati al web sull’argomento. Certo, è difficile usare lo staffile quando poi ti toccherà richiamare il tal caposervizio e il tal altro capo redattore e la Borri certo non pensava a un libro per “divertire”, ma Francesca avrebbe titolo, scrittura e sufficiente ironia per trattare l’argomento diffusamente in un altro volume solo dedicato a quello. La invito a farlo e me ne faccio sponsor – per quanto questo possa valere – sin da ora.

Un’altra guerra raccontata è quella che Giuseppe Acconcia snoda  in Egitto, democrazia militare, un saggio che ripercorre – attraverso molti dei suoi pezzi scritti per il manifesto e altri quotidiani – il conflitto egiziano, una guerra a tutti gli effetti. Il libro va à rebour e cioè comincia col generale dittatore Al Sisi per poi andare alle origini, quando inziò la primavera araba. Si può così anche leggere il libro dalla fine il che, per seguire bene il filo della storia, aiuta forse di più. Giuseppe Acconcia (che invece conosco personalmente) è non solo un buon reporter ma anche un buon analista cosa che credo debba ai suoi studi e a una certa tendenza all’approfondimento nella ricerca delle ragioni. Inoltre Acconcia guarda molto alla storia della sinistra egiziana (non so se è perché scrive per il manifesto) e questo dà al libro un sapore che può piacere soprattutto a chi la sinistra e la laicità hanno nel cuore (ammetto, è il mio caso). Acconcia sfata molti miti, dai Fratelli musulmani alla “democrazia militare” del presidente in divisa. E tiene quel passo di umanità verso la gente (un’empatia simile a quella di Francesca anche se più asciutta) che è forse la vera chiave per capire le guerre. Se, come Francesca e Giuseppe (e mi ci metto anch’io), state dalla parte di chi le subisce.

Peshawar, il giorno dopo

La bandiera del Ttp, i talebani pachistani

La mattina dopo il massacro della scuola militare a Peshawar che si è chiuso con un bilancio di oltre 130 studenti e una decina di insegnanti uccisi, non è solo una giornata di dolore, cortei funebri e bandiere a mezz’asta nel primo dei tre giorni di lutto nazionale. Molto si muove: tra le intelligence, i capi militari, gli esponenti politici pachistani e internazionali. E l’onda lunga di Peshawar muove anche gli americani a prestar maggior attenzione a quel che avviene nel quadrante dove si incastrano le vicende afgano-pachistane: Obama ha convocato ieri una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza nazionale per valutare «potenziali minacce». Preoccupazioni diffuse dopo una delle stragi più clamorose della storia del Pakistan. Per gli americani del resto, Islamabad è un alleato scomodo ma fondamentale, una pedina sulla quale ogni anno il Pentagono gioca un chip milionario. Per l’anno fiscale 2014 sono stati chiesti al Congresso 766 milioni, la metà dei quali sono per assistenza militare il che fa del Pakistan il quarto beneficiario dell’aiuto Usa dopo Afghanistan, Israele e Irak.

Ma se a Washington qualcosa si muove, molto di muove anche a Islamabad – dove il premier Nawaz Sharif ha decretato la fine della moratoria sulle esecuzioni capitali in caso di terrorismo – e tra Islamabad e Kabul dove ieri è volato Raheel Sharif, il capo dell’esercito pachistano, che ha incontrato il neo presidente Ashraf Ghani e il comandante Nato John Campbell. Questa volta, anziché assistere all’ennesima reprimenda di Kabul per l’ospitalità concessa ai talebani afgani, le parti si sono invertite. Raheel ha chiesto aiuto a Kabul proprio per i santuari afgani che ospitano i talebani pachistani tra cui il capo del Tehreek-e-Taleban Pakistan (Ttp), mullah Fazlullah (noto come Radio mullah). Secondo Raheel gli ordini per la strage di martedì sarebbero partiti proprio dall’Afghanistan: dal cellulare di Umar Naray (alias Umar Khalifa Adinzai, comandate della piccola fazione Tariq Geedar con base nella zona di Darra Adam Khel e già responsabile di un attacco contro un aereo della Pakistan Airlines a Peshawar in giugno). Anche lui è rifugiato sulle montagne afgane. La sua fazione ha anche mostrato immagini del commando stragista: sei uomini tra cui il comandante Omar Mansoor, tutti uccisi nell’operativo nell’esercito per liberare la scuola.

Il simbolo dei talebani afgani.
Sopra a sn mullah Omar

Intanto il Ttp ha ribadito che l’ordine era di uccidere solo gli “adulti” figli di militari. Avrebbero anche fatto girare immagini di giovani ragazzi ammazzati in Waziristan dall’operazione militare del governo “Zarb-e-Azb” (iniziata in giugno) cercando di confutare l’evidenza della strage. Di fatto il massacro di martedì – e di cui ancora non è ben chiara l’intera paternità (il Ttp si è scisso nel 2014 in più fazioni spesso anche in guerra aperta fra loro) – segna un’ulteriore spaccatura nella galassia in turbante, al netto di chi considera i talebani pachistani e afgani come figli di uno stesso padre: proprio sul sito ufficiale della shura di Quetta, che fa capo a mullah Omar – il fondatore storico dei talebani afgani – campeggia da ieri una presa di distanze dalla strage senza se e senza ma. Ma nel comunicato della shura di Quetta c’è di più: non solo la «condanna» del massacro perché «l’uccisione intenzionale (si noti il termine intenzionale ndr) di gente innocente, donne e bambini è contro i principi dell’Islam e va esecrata senza distinguo» ma anche perché nello stesso testo il documento prende le distanze dalla strage di Yahya Khel nel Paktika afgano dove, a fine novembre, decine di spettatori di una partita di pallavolo sono state uccise da un kamikaze.

La galassia talebana dunque non è solo braccata: è in fermento e piena di spaccature. Finora l’ha fatta franca proprio approfittando della lotta tra Pakistan, India, Afghanistan e Nato, riuscendo a servirsi molto spesso della protezione di servizi segreti compiacenti pur di far danno al Paese nemico. Fenomeno arricchito dal denaro che arriva dal Golfo, dall’Iran o dall’Arabia saudita sempre in cerca di alleati per combattersi per interposto Paese. Ma la tolleranza o addirittura la connivenza tra gruppi radicali e servizi ha finito per allevare mostri che si sono poi rivoltati anche contro la mano di chi li nutriva (lo stesso è per altro avvenuto con Al Qaeda). Se Kabul e Islamabad troveranno un accordo e sapranno sfruttare le divisioni interne, il radicalismo islamico avrebbe vita davvero difficile anche perché il consenso, figlio della povertà di queste regioni, si è ormai ridotto al lumicino davanti a stragi come quella di Peshawar con numeri così enormi che per trovare analogie bisogna tornare al 2007, anno di nascita del Ttp, quando un attentato in ottobre a Benazir Bhutto (che poi fu uccisa in dicembre) lo pagarono 139 vittime civili.

Sfiancato dall’operazione Zarb-e-Azb, il Ttp sembra giocare l’ultima carta rimastagli: il terrore puro. Ma se perde l’aiuto dei servizi deviati e i rifugi sicuri su cui anche Kabul ha chiuso un occhio e se si prosciugano i finanziamenti occulti che lo mantengono in salute, la partita potrebbe chiudersi. Solo con la violenza? Non sembra quella l’unica strada e ripristinare la pena di morte non risolverà. In Pakistan come in Afghanistan va tentata anche la via negoziale con chi ha orecchie e anima per praticarla. Il documento della shura di Quetta indica che anche questo cammino va percorso.

Cronaca di una strage

Comincia nella tarda mattinata di un giorno di scuola apparentemente normale il peggior attacco terroristico della storia del Pakistan. Un attacco che produce un bilancio di oltre 140 morti, in stragrande maggioranza studenti (132 secondo le ultime stime). Maschi e femmine uccisi in una giornata convulsa che richiede almeno quattro ore per confinare i guerriglieri islamisti del Tehreek-e-Taleban Pakistan in una zona delle scuola dove sgominarli e ucciderli. Succede a Peshawar, la capitale della provincia nordoccidentale – al confine con l’Afghanistan – nel college militare di Warsak Road che fa parte di una rete di 146 scuole che fanno capo all’esercito: liceo e secondaria frequentate da quasi 500 studenti tra i 10 e i 18 anni d’età. Un massacro premeditato e senza alcun senso se non per il fatto che il college è una scuola militare. Una scuola con ragazzi che in maggioranza sono minorenni.

La furia omicida del commando – tra sei e dieci persone – si abbatte subito su insegnanti e ragazzi, giovani e giovanissimi studenti che l’istituto indirizza alla carriera militare. E’ giorno d’esami ma c’è anche una festa programmata nella quale irrompe il commando entrato da una porta laterale: sparano all’impazzata non si capisce ancora come e con che logica. Hanno avuto solo un ordine dai loro capi: sparare agli “adulti” e risparmiare i “piccoli”. Missione impossibile in un parapiglia di centinaia di studenti e decine di insegnanti ostaggio – oltre che delle armi – del terrore, il viatico dell’ennesima campagna dei talebani pachistani per sprofondare le città e la gente nella paura. Gran parte dei più piccoli, sostiene Al Jazeera, riesce a scappare alla spicciolata. I più grandi sono meno fortunati.

La dinamica è per ora ancora frammentata (la ricostruzione ora per ora sul sito del quotidiano The Dawn) e non è chiaro né evidente come i guerriglieri, travestiti da militari, abbiano organizzato la strage. Ma è chiaro che strage doveva essere: vendetta per la missione militare “Zarb-e-Azb” del governo che da alcuni mesi martella il Waziristan, agenzia tribale rifugio per talebani e sodali stranieri.

Riunione del Comitato esecutivo della Army School

La rivendicazione del Ttp arriva poco dopo l’ingresso del commando e spiega che il target sono proprio i più anziani, studenti compresi. Non dunque ostaggi da trattenere per negoziare qualcosa, ma obiettivi della vendetta.

I parenti dei ragazzi iniziano ad arrivare fuori dalla scuola che è vicino a una caserma; le sirene delle ambulanze sono la cornice dello scenario più sinistro che Peshawar abbia mai visto. Il primo ministro Nawaz Sharif, che definisce l’attacco una “tragedia nazionale” – decreterà poi tre giorni di lutto nazionale -, vola a Peshawar dove converge anche il capo dell’esercito Raheel Sharif: i suoi soldati intanto stanno cercando di liberare la scuola aula per aula, mentre il commando si va asserragliando nell’area amministrativa dell’edificio. Si trova comunque il tempo anche per la polemica politica: Nawaz è ai ferri corti con Imran Khan, criticissimo capo del partito al potere nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa. Ora la falla nella sicurezza mette in difficoltà anche il contestatore. Tutti, compresi i partiti islamisti (legali), prendono le distanze dall’attacco e così i diversi responsabili politici e religiosi. Il mondo guarda allibito.

Alle tre del pomeriggio la situazione comincia a essere sotto controllo: fonti riferiscono che alcuni miliziani avrebbero tentato la fuga rasandosi la barba. Ma le voci corrono incontrollate: il commando è ancora dentro. Qualcuno si è fatto già esplodere, altri tirano granate, sparano con mitraglie di ultima generazione. Alle 15 e 35 radio Pakistan lancia il primo duro bilancio dei morti: 126, un numero inimmaginabile solo qualche ora prima. E destinato a crescere. E’ in quel momento che i militari pachistani sono intanto riusciti a raggiungere il loro obiettivo e pochi minuti prima delle 16 fanno sapere che il commando è ormai confinato in un’area precisa dell’enorme scuola militare.

Poco più tardi il ministro dell’Informazione della provincia Mushtaq Ghani dice all’Afp che il bilancio è di 130 morti. Sono già 131 qualche minuto dopo. Poi salgono a 140 e così avanti.

Mappa dell’area tribale

I militanti del Ttp non possono parlare. Tutti morti. Non potranno spiegare quale delle tante fazioni dell’ex ombrello jihadista – divisosi nel corso del 2014 in quasi una decina di rivoli – ha deciso la strage. Muhammad Khorasani, l’uomo che per primo rivendica, non è un nome noto della galassia col cappello talebano. Il gruppo, che dal 2010 figura nella lista dei “most wanted” internazionali, ha mantenuto una certa unità sino alla morte nel 2009 di Beitullah Meshud – il fondatore del Ttp con Wali-ur-Rehman (anche lui ucciso nel 2013) – e ancora sotto la guida di Hakimullah Meshud, assassinato da un drone alla fine del 2013. Da allora il gruppo si è diviso su questioni ideologiche e diatribe tribali (una parte per esempio ha aderito al progetto di Al Baghdadi, una fazione ha contestato la leadership dei Meshud). Quel che è certo è che la deriva stragista nei confronti dei civili, già utilizzata senza problemi dal Ttp (a differenza della maggior parte dei cugini afgani che si sono infatti  dissociati dall’attacco di ieri), ha preso velocità. Il Ttp non è nuovo a bombe nei bazar e nelle moschee ma non era mai giunto a tanto. Un tentativo negoziale col governo alcuni mesi fa è fallito e a giugno l’esercito ha iniziato a ripulire il Nord Waziristan con l’operativo Zarb-e Azb, tuttora in corso, colpendo i rifugi della guerriglia pachistana e straniera dal cielo e da terra con 30mila uomini.

Le parole per dirlo: i talebani sono tutti terroristi?

Ashraf Ghani ha tenuto un discorso televisivo rivolgendosi agli ulema, i dotti dell’islma di cui rappresentano l’élite, e ai leader tribali, la catena di comando che coordina la vita nei villaggi e nei distretti. Ha avuto parole dure contro il terrorismo sostenendo che ciò che viene fatto in questi giorni non solo non è “islamico”, è inumano. La lista è lunga: sette soldati uccisi in un autobus militare e, sabato mattina, il killeraggio del capo segreteria della Suprema corte, per non parlare dell’uccisione di una dozzina di sminatori e, appena due giorni fa, la bomba al centro culturale francese cui è scampato il nostro Giuliano Battiston. Il discorso era, in un certo senso, un atto dovuto. La situazione va peggiorando visibilmente e poiché i talebani, o più in generale i guerriglieri islamici, non riescono a entrare nelle città, le mettono a dura prova con atti terroristici e alzando il tiro anche se, in questa informe galassia armata, è sempre difficile (al netto delle rivendicazioni ) sapere quale mano si nasconde dietro al sasso.

Il suo discorso rispondeva anche indirettamente a Rangeen Dadfar Spanta, già ministro degli Esteri e poi consigliere speciale di Karzai, un personaggio importante che non gli ha risparmiato critiche dopo che Ghani aveva definito i talebani “opposizione politica”. Forse dimenticando che proprio Karzai si era spinto a chiamare “fratelli” i talebani, Spanta ha sostenuto che ai terroristi non va riconosciuto lo status che può essere attribuito solo a chi lotta con gli strumenti della democrazia. Ma Ghani, come allora Karzai,  cerca un varco nella galassia armata proprio per  individuare un’opposizione politica, ossia il possibile futuro partito talebano di domani: disposto a negoziare e a rinunciare alla lotta armata in cambio del riconoscimento appunto dello status di opposizione o partito politico.

La strada è in salita e per ora alla luce del sole c’è solo lo scontro armato. Ma Ghani deve pur sapere che esistono molte anime nella guerriglia afgana e che molte sono eterodirette, finanziate da Paesi più o meno vicini, più o meno refrattarie alle sirene del jihadismo internazionale. Le parole dunque sono importanti. E la scelta di Ghani -a me pare – giusta. Sul terrore non si tratta (nel suo discorso Ghani è stato chiaro) ma per far finire la guerra bisogna negoziare. La parte più spinosa è trovare l’interlocutore

Il reporter e la principessa

Potrebbe essere il titolo di un film o di quelle serie tv che van tanto di moda. Ma questa volta è un brutto sogno diventato realtà in un teatro di Kabul. Scampati, se Dio vuole, ci sono due vecchi amici, due persone note per il loro impegno e affetto per il Paese dell’Hindukush. Il  free lance, Giuliano Battiston, e la principessa India d’Afghanistan, la figlia di Amanullah Khan che porta quel nome perché suo padre fu esiliato in India dai barbuti e mullah di allora (oltre che un pezzo del suo clan che ne prese il posto e la corona). Sono i protagonisti di una storia raccontata in prima persona da Giuliano su il manifesto e Lettera22.

I due vanno al teatro del Centro culturale francese dove li accoglie la direttrice, Laurence Lavasseur, anche lei una vecchia conoscenza. Il teatro è all’interno di un liceo. E’ un posto protetto con controlli di sicurezza come in molti altri luoghi della città. Il kamikaze però, forse non da solo, passa lo stesso col suo carico di morte. Pare fosse un ragazzino, chissà di dove. L’esplosione è forte ma non così tanto da fare molte vittime: un morto e diversi feriti battono le cronache ma poi si sa, c’è chi non passa la notte, anche se le cure precise dell’ospedale di Emergency, non lontano, danno il primo immediato soccorso e quello è il posto migliore se hai ferite da guerra. Già la guerra. Mentre le truppe si ritirano cantando vittoria ed esprimendo valutazioni positive su oltre dieci anni di occupazione militare, il Paese sprofonda in una media altissima di attentati e – mentre aumentano le vittime civili – si alza il target. Non più solo obiettivi militari e gli stranieri nel mirino.

Guardo compulsivamente sul sito dei talebani, quello che farebbe capo alla shura di Quetta, i “puri”, i partigiani nazionalisti di Allah, quelli che, per intendersi, non hanno nulla a che vedere con lo Stato islamico e nemmeno con Al Qaeda da cui han sempre preso le distanze. Dissero allora che bin Laden era un ospite e come tale andava protetto. Ma il jihad globale non è cosa per loro. Lo è invece liberare l’Afghanistan. Dunque che c’entra colpire un teatro frequentato da civili, ragazzi e ragazze sia pure attratti dalla cultura occidentale? Sul sito die talebani – che pure hanno rivendicato per telefono – per ora la rivendicazione non c’è. Si parla dell’attentato ai soldati di ieri mattina e dell’operazione a Shindand dove la guerriglia si sarebbe spinta sino al bazar. Ma del kamikaze al teatro francese per ora non c’è traccia. Il pensiero va ad altri gruppi del jihad afgano, quelli si adattia massacri di questo tipo, a colpire nel mucchio perché l’unica logica è il terrore.

Il panorama sta cambiando e noi forse facciamo fatica a capirlo. Ancor meno lo fanno i giornali perché ormai Kabul è lontana e la guerra dimenticata. Ora c’è lo Stato islamico da combattere, nuova fucina per testare armamenti e nuove tecniche anti guerriglia. Di guerra in guerra andiamo avanti senza nemmeno capire chi e cosa combattiamo. Ai margini tocca però sempre alla popolazione civile ormai lontana anche dalle nostre analisi. Si tratti di un reporter o di una principessa.

Sindrome Najibullah

A sinistra John Sopko, qui sopra
 il presidente Najibullah
Secondo quanto sostiene l’ufficio dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, Kabul non ha abbastanza soldi per pagare il suo esercito. Né domani né nel 2024. Chi si assumerà l’onere? O succederà quello che accadde dopo il ritiro dell’Armata Rossa? Si chiama “sindrome Najibullah”, dal nome dell’ultimo presidente filosovietico dell’Afhanistan…
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L’acronimo “Sigar” sta per Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction. A capo dell’ufficio ispettivo americano – dotato di larghissima autonomia e persino del diritto di compiere arresti – siede John F. Sopko, un magistrato scelto da Obama due anni e mezzo fa per guardare nei conti e nelle spese. In due parole, in quei 104 miliari di dollari circa che gli Stati uniti hanno speso o si sono impegnati a spendere nella ricostruzione dell’Afghanistan. Oggi l’ufficio di Sopko ha pubblicato un nuovo report che evidenzia sette aree di crisi o di alto rischio (Corruption/Rule of Law, Sustainability, Afghan National Security Forces, On-Budget Support, Counternarcotics, Contract Management and Oversight Access) che sono interessanti da leggere. Ma la nostra attenzione è caduta sul capitolo Forze armate. Vediamo cosa dice il rapporto che contiene la High Risk List.
Più della metà dei soldi della ricostruzione (ossia 62 miliardi di dollari) gli Usa li hanno spesi nel “ricostruire” le forze armate afgane (Ansf) composte da esercito (Ana) e polizia (Anp) attualmente una forza di 352mila uomini che, proprio perché sia sostenibile, la Nato ha proposto di ridurre a 228.500 nel 2017. Questa forza ridotta costa comunque 4,1 miliardi l’anno, cifra a cui Kabul dovrebbe contribuire con 500 milioni fin dall’anno prossimo. Teoricamente, nel 2024 l’Afghanistan dovrebbe pagare tutto da solo.
Afghanistan in Transition: cerimonia della bandiera
Secondo Sigar Kabul non può farcela se il suo fatturato (ossia quanto ha intascato) nel 2013 sono stati 2 miliardi a fronte di una spesa del budget dello Stato stimata a 5,4 miliardi di dollari (ossia il 37% del totale). Secondo le informazioni raccolte da Sigar, Kabul immagina di riservare alla spesa militare per le forze di sicurezza il 3% del budget immaginando che il suo prodotto interno lordo cresca e con questo anche il 3%. Ma se al momento a ripianare il debito di budget ci pensa la comunità internazionale, il 3% di 2 miliardi di dollari fa solo 60 milioni che al massimo sarebbero 150 se Kabul riuscisse a raggiungere – seppur entro il 2024 – la cifra che le sue spese correnti richiedono. Non è difficile immaginare che a fondi d’aiuto sempre più ridotti, Kabul si ritroverà a non avere più liquido per i salari di soldati e poliziotti sempre che non li defalchi dai servizi o dagli stipendi degli impiegati dello Stato (o sempre che qualcuno non li aggiunga in cassa). Per soprammercato, il Center for Naval Analyses sostiene che l’Ansf dovrebbe avere una forza di 373.400 uomini (ossia più soldati di quanti non ne abbia adesso) con un costo di circa 5-6 miliardi di dollari l’anno.

Armata rossa torrente d’acciaio. Mosca aveva  pensato
di lasciare circa 10mila uomini dopo il ritiro
ma  cambiò idea. Pagò fino al 1992 poi chiuse i rubinetti
Conclusione: quando l’Armata rossa lasciò l’Afghanistan nel 1989 dopo dieci anni di guerra, Najibulah – l’allora presidente filosovietico – resistette ai mujahedin per circa tre anni. Ma nel gennaio del 1992, la Russia di Yeltsin decise di chiudere i rubinetti mantenuti a fatica tenuti aperti da Shevardnadze (nel 1990 l’aiuto sovietico era cresciuto sino a 3 miliardi di dollari). L’effetto fu immediato, cominciò a mancare carburante e liquido per i salari. In aprile Najibullah si dimise mentre i mujahedin conquistavano posizioni con facilità e soprattutto minacciavano ormai le città, Kabul compresa. Fu la cassa, non (solo) la forza dei mujaheddin a far crollare l’ultimo presidente filosovietico.

Quanto è costata agli Usa la guerra in Afghanistan. Fonte: Financial Times

 

I nostri migliori alleati

In questa foto pubblicata sul GulfNews (credit: Wam) da dx verso sinistra:
 His Highness Shaikh Mohammad Bin Rashid Al Maktoum, premier Uae
 e sovrano  di Dubai,  King Hamad Bin Eisa Al Khalifa (Bahrain);
  Salman Bin  Abdul Aziz,  (Arabia saudita); Shaikh Sabah Al Ahmad
Al Sabha,  Emiro del Kuwait;  Fahd Bin Mahmoud Al Said, vicepremier
 dell’Oman; Shaikh Tamim Bin Hamad Al Thani, Emiro del Qatar.
 Al summit dell’anno scorso in Kuwait


Eccoli qui schierati a Doha in nostri principali alleati nelle politiche energetiche e nella guerra la terrore. Peccato che siano proprio loro all’origine dei nostri problemi: non tanto energetici (visto che semmai ora il problema è la super produzione statunitense) ma politico militari: nella guerra al terrore una parte ce l’hanno e non perché hanno poi aderito alla nuova coalizione di volenterosi che combatte Daesh, lo Stato islamico che vuole il califfato e che ci spaventa da quando ha iniziato a tagliare teste a fotografi e umanitari occidentali dopo aver decapitato centinaia di iracheni e siriani.

Fino a questa estate i mostri dell’Is (o Isil) sono cresciuti in apparente sordina grazie alle donazioni private arrivate proprio dai Paesi del Golfo anche se Arabia saudita e altri partner hanno negato ogni addebito. Ora i membri delle famiglie reali, gli emiri e i principi del Golfo si sono ritrovati a Doha (Qatar) al summit del Gulf Cooperation Council (GCC), il consiglio sovranazionale che li riunisce e lo stesso che decise nel 2011 l’invasione del Bahrein, minacciato dalla sovversione di piazza a sfondo sciita. Per diversi mesi c’è stata una lunga impasse politica con Arabia Saudita, Bahrein e Uae schierati contro il Qatar (Kuwait e Oman son rimasti più o meno neutrali) per il suo sostegno ai Fratelli musulmani, da Riad accusati di essere un gruppo terrorista. Ma le divergenze politiche sulla Fratellanza non hanno impedito che i nostri si accordassero adesso su due dossier che li preoccupano molto, anzi tre: Daesh, le sollevazioni nello Yemen (anche lì ci sono sciiti che protestano) e Iran, la bestia nera del Golfo. Il problema numero uno.


In agenda c’è il rafforzamento del GCC-POL, agenzia con base negli Emirati arabi uniti per dividere le informazioni di intelligence e infine la formazione di un comando unificato a Riad, in grado di dettare una linea di politica militare e di difesa comuni. Il nemico del resto, più ancora di Daesh è l’Iran, il Paese che ha deviato dalle sacre scritture sunnite, le cui minoranze nei vari Paesi mettono in crisi queste teocrazie retrive e conservatrici dove i diritti umani sono un optional e quelli delle donne un tabù. Quanto alla Fratellanza, il generale presidente Sisi li sta sistemando per benino e altrove hanno perso appel in favore dei meglio equipaggiati uomini di al Nusra o dell’Isil, formazioni che sono nate con fondi sotterranei che hanno permesso la loro rapida evoluzione militare. Fino a quando non sono diventati un pericolo per gli stessi alchimisti che li avevano allevati.

Per questi gentiluomini riuniti a Doha – summit che è già stato definito un successo – di cui è nota l’arroganza e il candore delle vesti sfumate di fili d’oro, la grande preoccupazione deve essere che prima o dopo americani ed europei si accordino con Teheran per combattere Daesh. Questo è per i principati del Golfo e la corona saudita il dossier più scottante e pericoloso. Meglio mille Daesh – fino a che il terreno di scontro resta Siria e Irak – che l’uscita dal ghetto dei paria di Teheran. Una capitale che in loro risveglia il terrore di un ritorno della Persia di Dario, di una civiltà raffinata e colta che governava metà del mondo mentre nei principati le pecore pascolavano attorno alle tende dei beduini seduti, ma allora non si sapeva, sui più gradi giacimenti di greggio del pianeta.

L‘unità ritrovata è per il Golfo una bella notizia. Meno per noi che ancora coltiviamo i Saud come una benmerita monarchia un po’ arretrata ma tutto sommato presentabile nelle cene dove non si serve vino salvo passare nella stanza accanto a tracannare superalcolici. E che rimpinziamo di armi di ogni tipo, continuando a considerare questa genia il nostro miglior alleato nel mondo arabo islamico.

Frontiere porose: l’internazionale del jihad e il caso dell’Azerbaijan

Rischio di travasi della guerriglia jihadista?
Frontiere porose: l’internazionale del jihad e il caso dell’Azerbaigian*
Recentemente sono apparsi diversi articoli1 sulla città post industriale di Sumqayit, costruita alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso e divenuta un polo di attrazione interessante per la presenza di fabbriche siderurgiche, chimiche e petrolchimiche. La città non è mai stata un centro religioso importante e anzi non possedeva neppure una moschea sino al collasso dell’Urss, ma adesso Sumqayit, una trentina di chilometri a Nord della capitale Baku, sembra essere diventata la città del jihadismo azerbaigiano, o meglio la risorsa maggiore per partire alla volta dei luoghi dove il jihad, quello armato, si combatte davvero, come in Siria. La città ha una storia particolare, sia perché molte fabbriche hanno chiuso ed è in corso un processo di riconversione industriale e ambientale, sia perché è stata teatro di scontri violenti nel 1998 e in seguito anche il luogo di residenza di molti sfollati. Terza città del Paese dopo Baku e Ganja (oltre 300mila abitanti) è un agglomerato urbano che ha cambiato anima diverse volte – è stata per esempio completamente abbandonata dalla popolazione armena – e ha cercato un nuovo destino dopo essere stata classificata nel 2007 come una delle città più inquinate del mondo2. Degli oltre 600mila sfollati interni del Paese (Idp) censiti nel 2009 dal governo (oggi siamo attorno al milione), la maggioranza viveva nella zona di Baku e Sumqayit (fino a oltre 60mila nella città sita sull’omonimo fiume). Effettivamente, il processo di riconversione, le tensioni create dalla mancanza di lavoro e la residenza forzata di un numero in proporzione rilevantissimo di sfollati interni o rifugiati, sembrano le precondizioni ideali perché si crei un humus perfetto per il reclutamento di giovani ragazzi in cerca di occupazione o di un ideale eroico – il martirio – per cui combattere. Fonti di polizia citate negli articoli menzionati, attesterebbero oltre 200 residenti sotto stretta osservazione come possibile manodopera jihadista, il bilancio più alto di tutto il Paese.
C’è in Azerbaigian un pericolo jihadista? Quanto l’islam radicale è diffuso e quanto è stato ed è una risorsa per gruppi radicali all’estero? Quanto questi, a loro volta, hanno contribuito e contribuiscono, a creare un clima favorevole in Azerbaigian verso l’islam radicale? Gli incidenti a Sumqayit (furti, arresti per detenzione d’armi, colluttazioni e risse tra islamisti in luoghi pubblici) sono fatti occasionali o l’indice di un allarme da tenere in alta considerazione? Quanto il caso Azerbaigian infine testimonia della globalizzazione del jihad pur in tutte le sue diverse anzi diversissime declinazioni?


La religione

Forse è necessario un passo indietro. Cos’è l’islam in questo Paese? Ha un retroterra radicale? La definizione religiosa per l’Azerbaigian non è facile attualmente (e non solo in Azerbaigian) anche perché si basa più su elementi di percezione (cosa mi ritengo io) che su dati strettamente verificati e comunque le distinzioni sono confuse: sciiti? sunniti? sufi? E di quale scuola? Quel che è certo è che talune correnti religiose, come il wahabismo e soprattutto il salafismo, hanno fatto la loro apparizione in epoca recente, forse dieci o quindici anni fa, a fronte di un atteggiamento verso la religione, almeno negli ultimi decenni, molto laico.
Solitamente, secondo la divisione che viene fatta della popolazione di fede islamica (oltre il 90%), l’80-85% è sciita, il 15-20% sunnita. E’ il dato che si trova anche sulle pagine web del governo pur se Il Comitato statale che si occupa delle organizzazioni religiose dà gli sciiti al 65% e i sunniti al 35%, numeri confortati anche da altre fonti. Che tipo di sciiti e sunniti? Le differenze sono sfumate ma si tratta comunque di poco o nulla praticanti: secondo una ricerca Gallup del 2009 (che dunque non tiene conto di evoluzioni molto recenti) il 14% di chi si ritiene musulmano prega ogni giorno, il 30% lo fa meno spesso e solo il 25% lo fa in direzione della Mecca3. Se infine si fa riferimento al capo del Caucasus Muslim Board le differenze si sfumano ancora di più. Il Cmb è retto dal Supremo consiglio religioso dei popoli caucasici, il vertice di quel che viene anche definito ufficio o dipartimento dei musulmani del Caucaso (Caucasian Muslim Office) che comprenderebbe Azerbaigian, Georgia, Daghestan, Cabardino-Balcaria, Inguscezia, Cecenia, Karachay–Circassia e Adighezia. E’ nato dopo l’indipendenza del Paese, ha sede a Baku, è in ottimi rapporti col governo ed è l’erede in un certo senso degli uffici per gli affari religiosi di epoca sovietica che hanno cercato in passato di controllare le spinte dell’anima in regioni guidate da vertici politici apertamente atei ma in presenza di una tradizione religiosa radicata. Allahshükür Hummat Pashazade a capo dell’ufficio dei musulmani del Caucaso dal 1975 e ora a capo del Board, è sciita e come tale è Sheik ul islam e però ricopre anche la carica di Gran Mufti, qualifica eminentemente sunnita. Tutte le organizzazioni religiose devono passare per la sua approvazione prima della loro registrazione ufficiale. Sciiti o sunniti non fa differenza. I salafiti sono storia recente e risulta difficile capire come il verbo salafita si sia, seppur marginalmente, diffuso. Molti osservatori sono però concordi nel definirlo un movimento non violento in Azerbaigian se non per alcune frange sensibili alla propaganda jihadista della lotta armata. Generalmente potremmo concludere che l’islam dell’Azerbaigian, persino nelle sue forme revivaliste e puriste, non rappresenta di per sé un retroterra favorevole al jihadismo, semmai il contrario. Ma l’islam ha molte sfumature e non solo ideologiche. Infine gode di finanziamenti spesso occulti, della pratica della raccolta fondi tra le comunità, del richiamo di questa sorta di “risveglio” del mondo musulmano cui stiamo assistendo nell’ultimo decennio e stimolata dalla rinascita dell’islam politico. Nel bene e nel male.

Gli elementi di attrazione

Il conflitto in Afghanistan e nel vicino Caucaso settentrionale sono stati il motore di un revivalismo radicale in Azerbaigian che sembra aver assecondato la diffusione di movimenti salafiti e wahabiti e infine la partenza verso l’estero col fine di aderire alle brigate islamiche internazionali in vari Paesi. Il fenomeno è recente ma non si deve dimenticare l’enorme forza che il jihad afgano durante l’occupazione sovietica (1979-1989) ha avuto su tutti i musulmani del pianeta a maggior ragione se sentivano la presenza russa nel proprio Paese come una sorta di forza di occupazione.
Tra il 2001 e il 2003 si ha notizia dell’arresto di una settantina di azerbaigiani che cercavano di raggiungere la Cecenia dove tra il 1999 e il 2o13 ne sarebbero morti una trentina4. Il Daghestan è l’altro polo di attrazione anche in ragione di legami etnici o addirittura di parentela con caucasici del Nord.
Il presidente Ilham Aliyev in visita ai lavori di restauro
 della alla moschea di Juma a Sumqayit
 costruita a spese dei residenti nel 1990
Nel Caucaso l’elemento attrattivo è il cosiddetto Emirato del Caucaso proclamato nel 2007 da Dokka Umarov ( nome di battaglia Dokka Abu Osman), avvelenato (non è ben chiaro da chi o se il fatto sia stato occasionale) nel settembre 2013 e sostituito da Ali Abu Mukhammad al daghestani anche se il progetto di emirato non comprende l’Azerbaigian. Si tratta di un gruppo formato essenzialmente alle origini da sufi nazionalisti ma in seguito infiltrato dai salafiti con lotte intestine interne e polemiche di carattere ideologico e diatribe puriste (per non dire dell’eterna querelle tra politici e militaristi), come avviene in altre aree del mondo islamico in conflitto.

In Afghanistan e Pakistan sono diversi i gruppi di attrazione: non solo e non tanto dunque i talebani della shura di Quetta, poco se non per nulla attratti dal jihadismo qaedista e dai revivalisti wahabiti o salafiti, movimenti cui sono più inclini invece i talebani pachistani del Tehreek-e-taleban Pakistan (Ttp). Il numero di azerbaigiani coinvolti nella guerra afgana sarebbe attorno ai 200-250. Nel 2009 la polizia di frontiera ha arrestato al confine con l’Iran 13 persone accusate di aver partecipato al jihad afgano e pachistano. L’attrazione verso il jihad afgano sarebbe dunque posteriore al conflitto in Cecenia e forse databile alla cosiddetta seconda guerra cecena. E’ comunque il secondo jihad – quello contro Usa e Nato – ad attrarre tutta una nuova leva di mujaheddin le cui coscienze si sono risvegliate – nel caso azerbaigiano – con le guerre nel Caucaso e i disordini in vari Paesi dell’ex Urss che hanno già prestato uomini alla resistenza afgana (ceceni, uzbechi, tajiki). Taifatul Mansura5 è per esempio una formazione militante di mujaheddin turcofoni che comprende turchi, azeri, kazachi, uzbechi e tatari. E’ attiva in Afghanistan e Pakistan nell’area di confine. E’ una formazione minore se si pensa ai più numerosi gruppi uzbechi o ceceni molto probabilmente nel mirino dell’operazione Zarb-e Azb condotta in Pakistan da alcuni mesi nel Nord Waziristan, ritenuto il santuario per eccellenza degli “stranieri” che provengono dal Caucaso, dai Paesi confinanti con l’Afghanistan (come il Mui o Islamic Movement of Uzbekistan ) o dal Turkestan cinese, lo Xinjang.
La Siria, dove Baku ha chiuso la sua ambasciata invitando i cittadini dell’Azerbaigian e non viaggiare verso quel Paese, diventa elemento di attrazione nel 2012 o almeno cosi evidenzia il primo caso attestato da un giornalista francese che parla di azerbaigiani combattenti con il Libero esercito siriano, elemento reiterato poi anche dalla stampa turca. C’è una conferma ufficiale con la morte di Zaur Islamov di Qusar al confine col Daghestan. Le cifre sono ridotte ma pur sempre nell’ordine delle centinaia (tra 100 e 400 secondo diverse fonti6) se sono veri i report di stampa che fanno un bilancio di circa 100 azerbaigiani uccisi in Siria dal 2012.

L’episodio dell’esercito libero siriano – formazione percepita come una pedina occidentale – sembra però far riferimento a casi isolati. In Siria sono più interessanti altre formazioni che prendono forza nel tempo: la Muhajireen Brigade, evolutasi come Jaish al-Muhajireen wal Ansar, gruppo di “stranieri” in gran parte russi e ceceni ma anche occidentali (tra cui 80 britannici. Gli azeri sarebbero una trentina7 e in questa formazione costituirebbero un gruppo specifico sotto un unico comando8) o la più nota Jabhat al-Nusra (o al Nusra Front) e in seguito l’Isil anche se va notato che è rarissima se non assente la partecipazione pregressa di azerbaigiani al conflitto in Iraq. Secondo varie fonti, l’uomo guida sarebbe Abu Umar Shishani, un ex militare georgiano di origine cecena, già a capo della Muhajireen Brigade e che ha aderito all’Isil nel 2013. Sotto il suo comando ci sarebbero 2mila uomini di varie parti del pianeta ex sovietico tra cui circa 700 combattenti caucasici .
C’è anche una fazione pro Hassad che conterebbe però una sporadica adesione da parte di qualche musulmano sciita, comunque citata da varie fonti.
Elemento da considerare nella propaganda di reclutamento è la conoscenza generalizzata in Azerbaigian del russo e del turco, lingue in cui si esprime il messaggio jihadista via internet con video o post reperibili facilmente sui social network

Chi è e da dove viene il militante jihadista?

Un momento del Convegno a Trento
Leggi qui il programma dei lavori
La zona di reclutamento classico della guerriglia transnazionale è sempre stato il Nord dell’Azerbaigian per ragioni storico-geografiche: molti residenti sono musulmani sunniti e molti di origine nord caucasica. Il caso più classico sono i residenti di lingua lezgi, parlata da comunità del Daghestan meridionale e dell’Azerbaigian settentrionale che vivono sul confine di una frontiera in passato senza restrizioni (chiusa nel 1994 dopo i fatti di Cecenia). Queste comunità (in maggioranza sunnite) hanno una tradizione di lotta alla russificazione – e ai movimenti di popolazione imposti da Mosca – che si è poi trasferita anche in un’opzione secessionista. Quanto abbia fatto breccia il messaggio salafita nella sua versione più radicale è difficile da quantificare come anche un’evoluzione che progetterebbe la nascita di uno Stato islamico. Si tratta probabilmente di un fenomeno relativo anche se legato a qualche gruppo (come i Guerrieri dell’islam arrestati dalle autorità di Baku nel 2000) e che tende a essere fuso o confuso con altre istanze rappresentate ad esempio dal movimento Sadval (fuori legge) di ispirazione secessionista. Vero è che questa regione soffre di un disagio endemico (mancanza di lavoro, rigidità stagionali, diritti sulla terra, nonché la presenza dal 1992 di oltre 100mila rifugiati del conflitto nel Karabakh). La vera novità è comunque – per tornare ai fatti recenti – lo spostamento di un asse da Nord, dove comunque la partecipazione ai conflitti jihadisti non ha mai avuto grande rilevanza, alla zona di Baku e Sumqayit, città quest’ultima che ha assistito a un esodo massiccio di lavoratori in cerca delle migliori occasioni rappresentante dal boom della capitale a fronte del declino dell’ormai ex polo industriale: una città dunque con cambiamenti forti nella composizione sociale.

Senza per altro voler escludere l’apporto anche in passato dai grandi centri urbani, la mappatura dell’adesione jihadista si sposta dunque dalle regioni del Nord – (da grandi o piccoli centri come Qusar, Xudat, Xacmaz, Zaqatala, Qax che hanno sostenuto la guerriglia in Cecenia, Daghestan, Afghanistan e Pakistan), principalmente alle città di Baku e Sumqayit. Sumqayit fa la parte del leone e all’Afghanistan e al Caucaso si sostituisce la Siria. Sumqayit appare come un centro di attrazione, di dibattito, di arruolamento locale e nazionale, come luogo di partenza verso il jihad. Molte fonti sono concordi sul fatto che il substrato proletario della città, la mancanza di lavoro e di prospettive, l’attrazione per una vita più dignitosa ed eroica sembrano giocare un ruolo più importante a Sumqayit che altrove.

Perché lo fanno?

Ci sono probabilmente due chiavi di lettura per spiegare le motivazioni dell’adesione

Così si rappresenta Jaish al-Muhajireen wal Ansar

al jihad. Da una parte lo stipendio che viene pagato a un militante (sicuramente non la cifra di 5mila dollari attribuita da un parlamentare locale) o quello, assai più ridotto (meno di 400 dollari al mese), pagato pare da gruppi clandestini locali per attività sul territorio nazionale; dall’altra una motivazione ideologica probabilmente legata al desiderio di uscire dall’impasse di una vita ai margini come quella che può vivere un giovane senza futuro della periferia di Sumqayit. Non solo disperati o marginali però: i militanti (dai 18 ai 40 anni) provengono anche da famiglie benestanti. I casi riportati (interviste, testimonianze dirette o indirette) raccontano anche di semplici diatribe famigliari che spingono il giovane ad allontanarsi dalla famiglia. Il viaggio del resto è semplice ed economico. Si può passare per l’Iran, la Turchia, la Georgia. Gli azerbaigiani non necessitano di visto per la Turchia, che si può raggiungere senza difficoltà via aereo, e lo stesso vale per la Georgia, raggiungibile in autobus a costi accessibili. La Siria è paradossalmente una meta più facile da raggiungere, non solo rispetto all’Afghanistan o al Pakistan, ma addirittura rispetto alla Cecenia. Sui finanziamenti alle attività jihadiste o più semplicemente islamico radicali non c’è molta informazione. Il governo di Baku ha avuto comunque sempre una politica molto dura con le charity del Golfo, spesso il braccio legale per finanziare la propaganda wahabita e i gruppi radicali. Più di una di queste charity è stata chiusa.


Allarme reale?

Fare la tara tra l’elemento di allarme reale e di solida preoccupazione cui cercare di porre rimedio e il rischio di esacerbare istericamente episodi settoriali o residuali è sempre complesso. Secondo alcune fonti le preoccupazioni del governo di Baku sono esagerate9 e il fenomeno sovrastimato a fronte di una cooperazione piuttosto salda tra l’intelligence di Ankara e quella di Baku. Nondimeno il fenomeno esiste: interessa Paesi lontani come Afghanistan e Pakistan (quest’ultimo soprattutto) e più recentemente Iraq e Siria senza contare l’elemento tradizionale caucasico. Partenza e ritorno di giovani (o meno giovani) azerbaigiani per e da queste aree sono fenomeni che esistono e che sarebbe sciocco ignorare anche perché son già costati diverse vittime all’estero e hanno prodotto episodi di allarme sociale in Azerbaigian. La partenza e il ritorno da queste aree è un elemento da indagare sia nelle cause specifiche che lo producono (fervore ideologico, problemi legati alla mancanza di lavoro, tensioni sociali con un alto numero di sfollati, insoddisfazione, ricerca etc) sia in quelle che lo alimentano (propaganda jihadista, l’influenza di chi torna, finanziamenti occulti, necessità di reclutamento). Da questo punto di vista l’Azerbaigian sembra un caso studio interessante proprio perché si tratta di un Paese laico e a vocazione laica dove si è verificata recentemente una trasformazione nell’islam nazionale, contaminato seppur marginalmente da correnti estranee alla tradizione locale. Infine, il risentimento anti russo (anche legato alle vicende con l’Armenia e alla posizione di Mosca) può essersi tradotto in una spinta a combattere, seppur indirettamente, l’influenza della Russia (che appoggia Assad). Non di meno, come abbiamo visto, esiste anche l’inverso, ossia il giovane azerbaigiano che parte per appoggiare il regime del presidente hashemita.

Convergono infine una serie di fattori che interessano tutto il mondo islamico, arabo e non. Per esempio la guerra indiretta tra sauditi e iraniani, spesso combattuta con il sostegno a gruppi settari e fazioni armate che agiscono contro determinate comunità. L’arruolamento jihadista è comunque una realtà ed è interessante studiare come il sedicente Stato islamico si stia muovendo anche oltre confine per reclutare accoliti, se è vero – notizia di questi giorni – che esistono campi di addestramento in Libia e che  in Pakistan l’Is avrebbe arruolato tra 10 e 12mila combattenti10
*Relazione presentata al Convegno “Sguardi sull’Azerbaigian”, Trento 5-6 dicembre 2014 Centro Studi sull’Azerbaigian e Csseo
3 Lo State Committee for dealing with religious entities è stato istituito con decreto presidenziale nel luglio 2001

Sostegno risoluto! Ma a cosa?

La firma a Kabul che ha spianato la strada
a “Resolute Support” (foto Nato)
Non sarà “risolutiva” ma solo “risoluta” la missione “Resolute Support” che ha ormai ottenuto anche il via libera dal parlamento afgano e che impiegherà circa 12mila soldati con compiti di formazione delle forze armate afgane a partire dal 2015. Almeno nel nome della missione, la Nato fa mostra di pragmatismo, sul resto si vedrà. Ma se non è compito di un’alleanza militare far quadrare i conti della politica (quelli militari sono per altro pessimi) per ogni Paese che partecipa la questione politica si impone. Tanto per cominciare con numeri e costi. In attesa di sapere di che morte morire nella continuazione della guerra con altri mezzi, il parlamento italiano per ora i numeri li sa a spanne: 200, 500, 750, 1800 soldati? Una forbice che fa lievitare i costi tra 100mila e almeno mezzo milione di euro. Ma se è l’obiettivo politico quello che più conta, come, su cosa e con che mezzi Roma intende impegnarsi nei prossimi anni (almeno dieci come chiede a Londra la società civile afgana)?
A Bruxelles il ministro Gentiloni ha appena incontrato privatamente Ashraf Ghani e, al termine dell’ultimo vertice dell’Alleanza e alla vigilia della Conferenza di Londra, ha detto di aver ribadito al nuovo presidente l’apprezzamento per il cammino di riforme intrapreso da Kabul e che, dal 2015, la missione italiana cambierà segno: che il sostegno sarà più economico che militare più dunque rivolto alla cooperazione civile che non a quella con la divisa. Se il buon giorno si vede dal mattino la riduzione del contingente sarà il primo vero segnale. Il secondo sarà quello che riguarda i fondi messi a disposizione della cooperazione civile con l’Afghanistan con risorse che potrebbero proprio essere drenate dalla spesa militare come da anni chiede l’associazionismo italiano impegnato in quelle terre. Presto la nuova legge che riguarda le missioni all’estero dovrà tornare in aula e lì si capirà se effettivamente ci sarà una svolta o una semplice spending review.

Afghanistan, il Grande Caos

La puntata di “Caffè Mondo”di oggi, la trasmissione radiofonica nata dalla collaborazione tra Oltreradio.it e la stampa.it. A cura di Francesca Sforza e Micol Sarfatti. In studio, il direttore del giornale radio Francesco De Leo.

Oggi  il mio punto sugli eventi in Afghanistan. Per ascoltarlo clicca qui. I temi: Gli incontri di Bruxelles, la Conferenza di Londra, la guerriglia e i rumor sul processo di pace, la nuova missione Nato, la sfida del califfato

Le diverse tattiche e strategie della guerriglia afgana (aggiornato)

Questa mattina un terrorista suicida ha preso di mira a Kabul l’ambasciata britannica colpendo un convoglio nella zone Est della città sulla Jalalabad Road  (l’ambasciata si trova  invece nel lungo vialone che collega Shar-e-Naw a Wazir Akhbar Khan). Le vittime sono già almeno sei e tantissimi i feriti. Praticamente tutti civili anche se non è ancora chiaro chi c’era nell’auto presa di mira dal kamikaze davanti alla legazione del Regno unito e che apparteneva appunto all’ambasciata (a quanto pare un funzionario della stazione diplomatica). Per ora non c’è rivendicazione  ma probabilmente arriverà (la rivendicazione è arrivata in effetti qualche ora dopo): per quanto odioso, l’attentato rientra nella tattica dei talebani dal momento che l’auto di un’ambasciata cui fanno capo gli invasori è un obiettivo militare. Infine, come nel pomeriggio si è capito, faceva parte di un piano preordinato che nella tarda giornata ha colpito il centralissimo quartiere di Wazier Akbar Khan, non molto lontano proprio dal luogo in cui si trova l’ambasciata del Regno unito (è stata colpita la International Relief & Development, una Ong americana che per l’80% utilizza fondi Usaid. Anche questo elemento è in parte una novità ma va considerato che l’Ird è uno dei principali colossi umanitari americani che gestisce un budget – in una quarantina di Paesi tra i quali l’Afghanistan fa la parte del leone – di circa 500 milioni di dollari l’anno. Solo nel settore delle costruzioni stradali ha gestito un progetto triennale nel Sud del Paese dell’Hindukush del valore di 400 milioni di dollari).


Ma di fatti assai più odiosi ne sono accaduti parecchi: il più terribile è di qualche giorno fa – il 24 novembre – quando nella provincia di Paktika, nel distretto di  Yahya Khel, un suicida si è fatto esplodere tra la folla che assisteva a una partita di pallavolo: quello che certo non si può ritenere un attentato contro un obiettivo militare, si è trasformato in una strage con almeno 45 vittime e almeno una sessantina di feriti. Tutti civili. E’ stato attribuito alla Rete Haqqani, nota per le attività stragista che non fanno caso ai civili (anzi sembrano prenderli di mira) pur se al momento al Rete non ha rivendicato (ma raramente lo fa e anzi forse questo rientra nella sua strategia di portare tensione, terrore e confusione di ruoli).

Chi certo non lo ha fatto (pur senza però prendere le distanze dalla strage) sono i talebani di mullah Omar, il cui portavoce telematico è il sito dell’Emirato islamico d’Afghanistan che, in compenso, riporta dal 10 settembre la nascita di un “Dipartimento per la prevenzione sulle vittime civili“, evidente legame con il codice di condotta pubblicato sempre dai talebani col quale la guerriglia in turbante ha cercato di rimarcare la differenza tra le azioni contro il nemico e gli effetti sulla popolazione civile. Forse non è un caso che il link all’articolo di settembre sia in questi giorni in bella vista sul sito che risponde ai dettami della shura di Quetta, ossia a una parte – la più rilevante politicamente e forse la più numerosa ma non per forza la sola attiva – diretta dal capo dei credenti con un occhio leso.

Quel che forse si può mettere in rilevo è che la provincia di Paktika è al confine col Nord Waziristan, regione tribale pachistana dove è in atto una guerra a tutti gli effetti che ha già prodotto vittime, feriti e un numero enorme di sfollati, molti dei quali transfughi in Afghanistan. Un conflitto e i suoi effetti sempre nefasti quale che ne sia obiettivo (nel caso la guerra ai talebani pachistani e agli stranieri da loro alloggiati nelle aree tribali del Pakistan) ne produce altri, o meglio favorisce le azioni peggiori specie da parte di gruppi che hanno una matrice ideologica iperradicale e una tattica di attentati kamikaze senza distinzione (è il caso degli Haqqani).

Argomento poco consolante ma che serve comunque a farci esercitare dubbi e  distinguo e soprattutto e non considerare i talebani un copro unico, omogeneo e fedele a un solo pensiero e a un solo capo. Questo è anzi il vero problema di mullah Omar che non sembra aver alcun controllo sulla Rete Haqqani.

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Ricordo di un amico: il commercialista che tenne a battesimo Lettera22

Si sono svolti stamane a Roma i funerali di Giovanni Cuono da Montecorice, dov’era nato il 7 maggio del 1949. Era il commercialista di Lettera22, negli anni diventato una delle colonne (nascoste) della nostra agenzia. Che fosse abile a far di conto lo dice una lunga attività professionale, che fosse anche un amico – curioso come noi delle cose del mondo – non era scontato. Abbiamo avuto in tanti anni rapporti tra i più diversi con chi costituisce la macchina giuridico amministrativa di un’agenzia giornalistica. Ma Giovanni Cuono aveva una marcia in più: aveva un animo capace di applicare a una materia forzatamente asciutta e assai poco sexy – come la matematica applicata al fisco – il tratto che ce lo rese prima simpatico, poi ineludibile consigliere, infine amico. Tanto che – lo vogliamo ricordare – in un momento di passata difficoltà, quando il Fisco ci aveva riempito di cartelle di Equitalia, Giovanni ci disse che al nostro rosso in banca avrebbe fatto fronte con un’iniezione di denaro di tasca sua. Non ce ne fu bisogno ma le sue parcelle rimasero a lungo inevase e lui chiudeva un occhio: «lascia fottere», sembrava volesse dire con quell’aria sorniona che accompagnava la laconica comicità delle sue battute «la vita è altro che un paio di cartelle esattoriali». Cartelle che però esigevano una puntuale corsa all’ufficio delle imposte a contrattare dilazioni ed esibire carte…..

Segue su Lettera22

"Furbetti" afgani sull’Isonzo

Erano stipati come polli di batteria in una vecchia concessionaria di auto di Gorizia gli oltre un cento di migranti afgani e pachistani che sono stati trasferiti con un blitz ieri mattina alla volta di Milano, dove la prefettura avrebbe trovato un rimedio forse più consono per gente in fuga dalla guerra.

Se qualcosa si è mosso in queste ore nella rimessa che abbiamo visitato alla viglia del blitz (gli afgani erano lì dal 23 ottobre dopo mesi di un’emergenza che li ha visti accampati prima in una tendopoli e ancor prima lungo l’Isonzo) il merito è forse della Caritas locale e del prefetto di Gorizia. Quest’ultimo infatti ha pensato bene di uscirsene con una di quelle frasi che hanno ormai una lunga tradizione nel nostro Paese: «Questi non son profughi – ha detto Vittorio Zappalorto rappresentante di Alfano nella città friulana – sono semplicemente furbi. E la commissione territoriale per richiedenti protezione internazionale dovrebbe capire una volta per tutte il gioco che stanno facendo. Eviterebbe anche di far spendere un sacco di soldi».


La reazione è commisurata alla leggerezza del rappresentante dello Stato. La responsabile del Centro italiani rifugiati, che sulla rimessa dormitorio ha inviato un dossier a Roma, si fa sentire. L’Alto commissarito dell’Onu prepara una missione, le associazioni si muovono con Tenda per la pace e i dirittiche chiama i giornalisti e avvisa Human Rights Watch. Ma la Caritas, anche per il peso che ha nella regione, riesce a bucare il silenzio che circonda la scomoda presenza dei “furbi” che, a detta del prefetto, sarebbero stranieri che provengono da altri Paesi Ue «…dotati di carte di credito che la maggior parte della gente si sogna…. si spostano in aereo, atterrano a Venezia e poi vengono a Gorizia a mettersi in fila per il rilascio dell’asilo politico». Don Paolo Zuttion, direttore della Caritasdiocesana, risponde al prefetto dalle colonne de “Il Piccolo”: «Un furbetto non viene a bere acqua nell’Isonzo»: un’ironia che nasconde la preoccupazione che frasi del genere possano «vanificare il lavoro della Caritas e dei tanti volontari che stanno mettendo a disposizione il loro tempo libero per aiutare i migranti e dar loro un riparo». In effetti a occuparsi dei furbetti con carta di credito che vivono nell’autorimessa ci sono tre giovani universitari che si sono improvvisati volontari. Non li vediamo quando raggiungiamo l’ex garage ma in compenso arriva un signore in automobile che scarica vestiti puliti. E’ la reazione civile alle analisi di Zappalorto.

Il capannone è nella zona commerciale periferica della città: uno stanzone forse

di 200 metri quadri dove stanno stipati in oltre cento, forse centoventi. Non c’è una finestra e per far uscire il forte odore si tengono le porte spalancate. Per fortuna, visto che all’interno non c’è nemmeno un estintore (dalle placche alle pareti si capisce che ce n’erano almeno cinque quando da salvaguardare erano le automobili). Fuori ce ne sono due ma nessuno ha spiegato come utilizzarli. Nell’ex autorimessa, che il proprietario affitta adesso alla prefettura per alloggiare i migranti, di bagni ce n’è uno solo accanto a una catasta di materassi e lenzuola sporche perché evidentemente la pensione non prevede il cambio. Fuori sette cessi ecologici ma due son rotti. Sulla fila di brandine attaccate l’una all’altra, le facce smagrite di pashtun dell’Est afgano, di gente delle aree tribali pachistane, di un paio di curdi. Hanno una sola coperta sotto alcuni generatori di calore che scaldano poco ma, per fortuna, il tempo è clemente. Nessuno di loro emette una sola nota di protesta: «Vengoda un Paese povero ma da noi non si vive in queste condizioni – azzarda uno di loro che subito si corregge – però certo qui è meglio che nel bosco». Un altro si affretta a chiarire: «Scriva che i soldi spesi per noi non ci arrivano direttamente in tasca. La gente di Gorizia pensa che abbiamo casa e denaro dal governo ma non è così. Non siamo venuti per approfittarci degli italiani». Un’eco alle parole del prefetto.


Parlano volentieri, ci offrono il tè, non si offendono se la macchina fotografica indaga, con la nostra penna, le loro sofferenze. Uno di loro è un ex militare nella zona di Torkham, al passo di Khyber: «I talebani volevano che io riferissi ogni giorno su quel che avveniva alla frontiera. Se ti rifiuti, mi hanno detto, è meglio che te ne vai o ci lasci la vita. Ecco perché son qui». Un altro ammette, viene da Londra dove viveva da clandestino: «Perché me ne sono andato dall’Afghanistan? Se sei stato in quel Paese sai perché. Vogliamo vivere in pace non ne possiamo più di questa guerra che non finisce mai». Un altro aggiunge: «Spiegalo ai tuoi lettori: in Afghanistan e in Pakistan c’è la guerra. Non è finita, siete solo voi che ve ne state andando». La guerra rimane. 

Le foto sono di Monika Bulaj

Reclutamento pachistano per Daesh

La smentita ufficiale il governo di Islamabad l’ha affidata al ministro dell’Interno Chaudhry Nisar Ali Khan, secondo il quale non esiste in Pakistan nessun gruppo che si chiami Is, Stato islamico o Daesh. Ci son voluti un po’ di giorni dopo che il quotidiano The Dawn ha pubblicato un rapporto top secret del 31 ottobre firmato dal governo provinciale del Belucistan (estremo occidente al confine con l’Afghanistan e l’Iran). Il documento (a destra nell’immagine) metteva in guardia su un possibile reclutamento di 10-12mila miliziani avvenuto nelle agenzie tribali (Kurram e Hangu) dove l’Is avrebbe offerto lavoro in particolare a due gruppi radicali – Lashkar-e-Jhangvi (LeJ) e Ahl-e-Sunnat Wai Jamaat (Aswj), già Sipah-e-Sahaba – il cui mandato, non a caso, è la persecuzione degli sciiti, motivo per il quale sono considerati gruppi simpatizzanti con l’Arabia saudita, uno dei primi sponsor dell’Is.

Il rapporto dice anche che Daesh avrebbe messo in piedi un comitato il cui compito sarebbe pianificare azioni contro installazioni governative e militari pachistane per rispondere all’operazione anti jihadista Zarb-e.Azb nelle aree tribali e per condurre una lotta senza quartiere contro la minoranza sciita, bestia nera di questi gruppi settari in Pakistan e nemico principale dell’Is sia in Irak sia in Siria. L’alleanza con parte dei talebani pachistani (Ttp), o loro frange, sarebbe comunque già in atto. Alcuni giorni fa sei comandanti hanno dichiarato il loro sostegno ad al Baghdadi: si tratta del portavoce ufficiale (ora defunto e comunque subito defenestrato dal ruolo), Shahidullah Shahid, il capo dell’agenzia tribale di Orakzai, il capo della Kurram Daulat Khan, il comandante della Khyber Fateh Gul Zaman, il capo del Ttp a Peshawar mufti Hassan e il comandante di Hangu Khalid Mansoor. La dirigenza li ha però sconfessati ma la scissione non è da poco. Segue così a quella recente capeggiata da Ehsanullah Ehsan a capo del Jamaat-ul-Ahrar (Ttpja), che ha appena rivendicato una strage a Wagh ma che finora non sembra schierato con l’Is.

Attacco al cuore della città

L’HQ della polizia di Kabul è in pieno centro città

C’era da aspettarselo e in effetti il colpo è arrivato. Travestito con una divisa, un guerrigliero talebano è entrato nel quartier generale della polizia afgana in pieno centro a Kabul. Elusa ogni sorveglianza si è recato al terzo piano dove si è fatto esplodere uccidendo il colonnello Mohammad Yasin Khan. Le indagini sono in corso ma come che sia  il colpo è duro da digerire. A pochi metri dal municipio cittadino e a un isolato dal ministero dell’Interno – dunque in una delle zone più sorvegliate della città – un uomo, ancorché in divisa, riesce a entrare nel centro propulsore della sicurezza imbottito di esplosivo e si fa esplodere ammazzando un alto ufficiale.

Salterà forse qualche testa e le misure saranno riviste e probabilmente rafforzate, ma i talebani riescono quantomeno  a far parlare di sé. Non possono far di più nella capitale blindata ma l’effetto immagine è indubbiamente forte. Nessuno è al sicuro, nemmeno la polizia.

Wagah, gli scissionisti firmano la strage

“Flag off” è la cerimonia della bandiera che si svolge ogni sera al tramonto alla frontiera indo pachistana di Wagah, dove i Punjab Ranges pachistani, in divisa nera, e il personale di sicurezza indiano in kaki, danno sfoggio di una sorta di “passo dell’oca” in sincronia. Si è tenuta anche ieri nonostante domenica scorsa la frontiera sia stato teatro di una strage che ha visto lievitare il suo macabro bilancio a 60 morti, tra cui sette donne e dieci bambini; oltre un centinaio i feriti.

Una bomba, forse insaccata nel corpo di un kamikaze, è esplosa alla porta di in un ristorante che dista pochi metri da un checkpoint paramilitare a 500 metri dal luogo dove si accalcano non solo transfrontalieri e viaggiatori, ma anche centinaia di persone che, come a Londra, a Mosca o al Quirinale, assistono alla piccola parata militare che rende persino simpatico uno dei confini più caldi del mondo. Lungo la frontiera che dal 1947 divide i due Paesi, scaramucce e persino vittime non mancano mai di punteggiare le cronache delle turbolente relazioni tra le due nazioni sorelle uscite dalla fine del Raj britannico.

Eshan, ex Ttp ora a capo
del Jamaat-ul-Ahrar (Ttpja)

L’azione terroristica ha un sapore molto particolare al di là del macabro bilancio che ne fa uno degli attentati recenti più gravi. E’ stata prima rivendicata da Jundallah, gruppo terrorista associato al Ttp e inizialmente comandato dal suo “amir”, Hakimullah Meshud. Ma la rivendicazione più credibile sembra quella del Jamaat-ul-Ahrar (Ttpja), gruppo che si è appena staccato dal Tehreek-e-Taliban Pakistan, i talebani attivi in Pakistan (assai diversi per obiettivi e strategia dai cugini afgani). E’ stato il suo capo Ehsanullah Ehsan- che ha parlato al telefono anche col quotidiano The Dawn – a rivendicare l’azione via twitter, sostenendo che altre ve ne saranno e che l’attentato è la risposta all’operazione Zarb-e-Azb che il governo sta conducendo da mesi nelle aree tribali per snidare i talebani pachistani e distruggerne e i santuari (con un bilancio in crescita di vittime, anche civili, e di sfollati). Ehsanullah ha chiamato dall’Afghanistan segno, a quanto pare, che i santuari vengono scambiati al di là della porosa frontiera nota come “Durand Line”.

Il gruppo, la cui secessione dal Ttp (guidato da Mullah Fazlullah) data da settembre (per un rafforzamento e applicazione della sharia e lotta mirata essenzialmente al Pakistan), controllerebbe almeno tre distretti delle aree tribali (Mohmand, Bajaur, Khyber, Arakzai), almeno – a detta loro – il 70-80% della milizia ormai ex Ttp e sarebbe guidato, oltre che da Ehsanullah Ehsan, ex portavoce del movimento, da Omar Khorasani, già vecchio leader dei talebani pachistani.

Può essere che il nuovo gruppo di Ehsanulah voglia sottolineare la sua forza ma è anche la prima volta che colpisce fuori dalle aree tribali e addirittura sul confine indiano, elemento che può solo aumentare la tensione tra i due Paesi. Un episodio strano per la strategia islamista pachistana che fa pensare a movimenti dietro le quinte che più che col Corano o la guerra ai miscredenti sembra riportare a vecchie strategie destabilizzatrici nel subcontinente.

Quanto a Jundallah, gruppo terrorista associato al Ttp e inizialmente comandato da Hakismullah Meshud fino alla sua morte (ucciso da un drone nel 2013), il gruppo si era già fatta notare per ferocia settaria e stragista con episodi rilevanti: l’attacco nel 2013 alla chiesa cristiana di Ognissanti a Peshawar (127 vittime di cui un’ottantina cristiani), in ottobre l’attentato fallito al capo della Jamiat Ulema-e-Islam (Jui-F), Maulana Fazlur Rahman, leader islamista ritenuto evidentemente troppo morbido e colluso col potere laico, l’uccisione nel 2012 di 18 pellegirni sciiti che viaggiavano da Rawalpinti al Gilgit-Baltistan, stesso luogo in cui furono uccisi nel 2013 degli scalatori stranieri di cui il gruppo rivendicò poi l’esecuzione.

Il video amatoriale è tratto da Youtube

La strategia di mullah Omar

Oggi, anche se un po’ in ritardo, prenderemo in esame il messaggio di mullah Omar del 2 ottobre scorso per la celebrazione di Eid-ul-Odha ( o  Eid al-Adha, Sacrifico di Abramo). Ci sono alcuni passi significativi che vale la pena di analizzare. Dopo aver sciorinato la disfatto di Nato, americani e loro marionette (già abbiamo segnalato la posizione dei Talebani dopo la conclusione delle elezioni), il capo taleb fa alcune raccomandazioni: Focus on keeping unity among the Jihadic flanks; have good conduct with the common people; show them compassion and keep with them close relations.


La prima  raccomandazione riguarda l’unità del movimento (un problema reale), la seconda e terza il codice di condotta e la relazione con il popolo (anzi le “masse” come scritto nel documento) tanto che Omar ne fa discendere che the support of the general Muslims (people) is pivotal in gaining victory. In una parola non perdere il consenso, anzi favorirlo. E ancora Since the invaders have faced defeat, therefore, they are bent on flaring up various differences among the Afghan people, based on faction, ethnicity, geography and religion. Thus, they want to take revenge on the Afghans for the defeat. Our sagacious people and Mujahideen should try to foil this conspiracy of the enemy by maintaining their unity and utterly desist from actions posing harm to the unity of the Afghan Muslim peopleInteressante l’accento sulle divisioni etniche geografiche e religiose: il nuovo volto dei mujahedin è dunque interreligioso e per il superamento delle istanze etniche e tribali. Un salto di qualità già visto nel tentativo di non essere percepiti some sola forza pashtun sunnita
Una delle rarissime immagini
di mullah Omar 
Poi Omar si sofferma sugli obiettivi della lotta: The aim and objective of our jihad against the invading Americans and their allies is to obtain the pleasure of Allah, the Almighty; to establish Islamic System; to put an end to the occupation and, without any discrimination, bring about prosperity and well-being for our suffering peopleUn programma vasto ma, che come si evince, non invita a un jihad globale ma alla sola lotta di liberazione nazionale. Siamo, in buona sostanza, molto lontani dagli obiettivi del califfato dello Stato islamico.
La strategia: Give priority to the work of infiltration of the infiltrating Mujahideen in the military ranks of the Americans and their domestic supporters and to the allurement of their high-ranking security personnel. Pay exclusive attention to the infiltrating Mujahideen, to their families and children. Provide security to those who have left the ranks of the enemy besides maintaining possibility of an honorable life for them.  Da notare il peso che viene dato alla tattica di infiltrazione (quella che chiamiamo green on blue) ma anche il richiamo all’atteggiamento verso coloro che abbandonano il campo avverso. 
la bandiera dei Talebani
Processo di pace o dialogo: ecco ancora Omar. It is to be mentioned that maintenance of contact and relations with all foreign and domestic sides falls under the sphere of the political office of the Islamic Emirate of Afghanistan. (Except that) no entity and person has right to initiate contact with any foreign and domestic political side or person, while posing as representative of the Islamic EmirateRibadisce il ruolo dell’Ufficio politico negli Eau e chiarisce che è l’unico deputato a trattare. Una messa in guardia per ex talebani ma anche per gruppi che sfuggono al controllo della shura di Quetta.
C‘è infine anche una parola sulle lotte dei mujahedin nel mondo: The unprecedented resistance of the Palestinian people in the month of Ramadan and Shawal and the winning of the war is a matter of pride for all Muslims. I ask Allah, the Almighty, to constantly keep them united and triumphant.
 The recurrent American intervention in the Islamic World is the result of the America’s wrong and failed policies which always prove harmful to all sidesMa il riferimento principale resta la causa palestinese. Non una parola chiara su Siria e Irak dove pure infuria la battaglia. Per ora sul califfato Omar non prende posizione.Ossia, la prende. Decide di non parlarne proprio.

Califfato, da dove viene il buon esempio

Mastro Titta, il boia del Papa.
 La decapitazione è piaciuta anche a noi 

Opinione pubblica e giornali hanno seguito con apprensione e giustamente condannato l’esecuzione di Reyhaneh Jabbari, la donna iraniana che aveva ucciso l’uomo che la voleva violentare. L’Iran, un Paese dove la condanna a morte è buona regola (otto persone sono state appena impiccate a Shiraz e Kerman), ha perso un occasione di civiltà. Non di meno, tutti noi che abbiamo seguito così da vicino la vicenda iraniana, non solo ci dovremmo preoccupare anche degli otto impiccati, ma dovremmo andare a vedere cosa fanno i nostri principali alleati. L’Iran infatti è a tutti gli effetti considerato uno Stato canaglia, un membro della minoranza di Paesi paria con cui non si parla perché estremista e terrorista. Ma i nostri veri amici che fanno?

Alla viglia dell’esecuzione iraniana, in Arabia saudita sistemavano l’ennesima questione penale condannando a morte un pachistano reo di aver portato eroina nella monarchia del Golfo. A Riad non hanno la mano leggera. In quel Paese, dove i diritti umani e di genere sono un optional poco frequentato (dove, per dirne una, è vietato ai sauditi sposarsi con donne di Pakistan, Myanmar, Ciad e Bangladesh), Burtha Mushtaq è stato ucciso portando a tre i pachistani ammazzati su condanna per traffico di stupefacenti nelle ultime due settimane: rapidi e indolori.

E, per dirla tutta, dall’inizio dell’anno, Riad ha giustiziato 59 persone, un po’ meno dell’ano scorso (78) ma, insomma, c’è ancora tempo.

Taglio della testa: chi lo prevede (rosso)
e chi lo pratica (nero)

Io però voglio farvi notare come Riad uccide i suoi colpevoli: con la spada. In una parola, decapitandoli. Esattamente come fanno i sostenitori del califfato che poi pubblicano le loro prodezze su Internet. I sauditi non lo fanno ma se vi chiedete da dove viene tanta brutalità, ecco la risposta: oltre ad esportare wahabismo e teorie radicali, oltre a finanziare scuole coraniche e gruppuscoli settari dall’Africa all’India, i sauditi esportano (e finanziano) anche modelli culturali. Tutto torna. Torna al punto che dopo che i Saud hanno smentito qualsiasi loro coinvolgimento nel finanziamento del cosiddetto Stato islamico, adesso è venuta la volta del Qatar. Un tempo ci dicevano a scuola che una excusatio non petita è una accusatio manifesta, anche se – per quel che mi risulta – la relazione tra Is e Golfo è stata messa in luce solo da qualche giornale, non certo dai governi (come il nostro) che annoverano Qatar e Arabia saudita tra i maggiori alleati nella guerra al terrorismo.

Anche i britannici, amanti della corda, andavano
per le spicce con la spada

Per dovere di onestà va detto che Arabia saudita, Yemen, Iran e Qatar prevedono la decapitazione nel codice penale ma anche che è solo nella terra dei Saud che la barbara pratica è ancora in uso. Il Qatar infine è un Paese abolizionista de facto e che, comunque, predilige semmai la fucilazione.
I Saud. che prediligono invece la decapitazione, hanno però il tatto di far sedare dal carnefice le proprie vittime prima dell’esecuzione.

Una questione di vera civiltà, di incredibile rispetto verso l’altrui sofferenza.

A proposito di pace: tutti gli esperimenti nucleari del pianeta

L’artista giapponese Isao Hashimoto (a destra nell’immagine) ha fatto una mappatura visuale dei 2053 test nucleari occorsi tra il 1945 e il 1998.

Ho detto ben 2053! e già il numero fa impressione (tra l’altro dopo il 1998 sono continuati almeno con i test coreani sui quali però non si sa con certezza). Come che sia, vederlo in questa ricostruzione visiva  fa davvero l’effetto di un pugno nello stomaco. E’ una buona lezione di cartografia della guerra non dichiarata che andrebbe studiata a scuola

(devo la segnalazione a mio figlio Giovanni)

La vitalità del movimento pacifista

Se la voglia di pace si misura anche numericamente, la scorsa domenica sembra confermare che questo sentimento rimane importante nel cuore profondo dell’Italia. Centomila secondo gli organizzatori, ben oltre per Andrea Ferrari, presidente degli Enti locali per la pace, sarebbero stati i partecipanti della 40ma Marcia della pace Perugia Assisi, percorso di 16 chilometri che dal 1961, quando Aldo Capitini lanciò la prima camminata simbolica con la bandiera a strisce colorate, ricorda che in questo Paese la Costituzione ripudia la guerra. Agenzie e televisioni confermano. Così le nubi che si erano addensate su un evento che compie 53 anni – tra distinguo, polemiche e addirittura dissociazioni – si dissolvono in una giornata solare a conferma che anche la ritualità ha un suo perché e che dentro quella marcia ci stanno le varie posizioni che si legano al pacifismo italiano.
Anche il lavoro (nella foto gli operai delle acciaierie
ternane) alla marcia per la pace

In effetti il timore che qualcosa andasse storto c’era: alla vigilia il Movimento Nonviolento si sfila contestando una ritualità senza contenuti e lo stesso fa l’Agesci, la maggior associazione degli scout italiani che lascia così il campo al Masci, un movimento scoutistico di sola matrice cattolica. Infine c’è una crisi che attraversa il movimento per la pace e una crisi economica che forse rende difficile anche metter la benzina. E, per dirla tutta, c’è anche un governo che dovrebbe tradursi nella sinistra al potere dove però balenano fulmini bellicisti – come dimostra la recente polemica tra il ministro della Difesa Pinotti e L’Espresso che paventa un ritorno dei nostri soldati in Irak – e l’Italia sembra andare nella direzione opposta a quella indicata dall’articolo 11. Ma forse, proprio per questo malessere diffuso tra “missioni di pace”, F-35 e spese militari sempre in aumento, la gente si muove, esce di casa, cammina. I numeri, ancora un volta, sono confortanti.

Un momento della conferenza stampa: da sn
si riconoscono padre Fortunato, Flavcio Lotti, don Ciotti,
Andrea Ferrari e Antonio Papisca

Alla marcia hanno aderito 117 scuole, 277 enti locali, tutte le Regioni italiane e un totale di 526 città. E ancora, 479 associazioni di cui 80 nazionali. Al tavolo di una conferenza stampa che fa il punto dell’evento c’è una più che evidente soddisfazione: per la lettera del capo delloStato e una del Papa. La presidente della Camera che, dopo un tiraemolla, arriva e si mette in marcia. Migliaia di persone che fanno la camminata, altre che arrivano fino in pullman sin sotto la città di Assisi per far soltanto la salita alla Rocca. Alex Zanotelli, l’ispirato ex direttore di Nigrizia che fu cacciato per le sue posizioni radicali, ci mette giustizia e ambiente e se la prende con un pianeta che divora se stesso con un 10% che mangia per il resto del 90. Luigi Ciotti, un uomo che quando passa in mezzo alla gente solleva ovazioni e applausi, ci mette legalità e lotta alla mafia. Flavio Lotti ringrazia le scuole che, in effetti, sono le grandi protagoniste dell’evento: Aluisi Tosolini, il preside che ha organizzato la loro adesione, rivendica con orgoglio che questi giovani studenti – ce n’è per tutte le età – a lezione studiano la Costituzione. Padre Fortunato, del sacro convento di Assisi – anfitrione storico della marcia – elargisce sorrisi.

Dunque per ora le polemiche si mettono da parte. Del resto ci sono sempre state. Come ho già raccontato, a margine del Salone dell’Editoria sociale – a Roma negli stessi giorni – Goffredo Fofi sorride sornione di un ricordo: quando alla terza Perugia Assisi, lui che aveva fatto anche la prima, decise addirittura una contromarcia (che poi non si fece) da Assisi a Perugia «perché – dice – il Pci ci aveva messo il cappello sopra e non era questo lo spirito». Anche le polemiche, forse, sono un segno di vitalità.

(articolo scritto per il manifesto. Per leggerlo è necessario essere registrati)

Perugia-Assisi: la marcia, le polemiche e una storia di altri tempi

Mi trovo ad Assisi ad aspettare che – 53 anni dopo la prima – i marciatori della 40ma Marcia della pace arrivino da Perugia dove son partiti stamane alle 9. Come molti sanno la marcia di quest’anno è stata funestata da diversi distinguo quando non da vere e proprie prese di distanza (Agesci, Movimento nonviolento etc). Nondimeno la marcia conta su 873 adesioni: 117 scuole, 277 enti locali, 479 associazioni di cui 80 sono nazionali. Partecipano 526 città, tutte le Regioni italiane e 97 Province.
Aldo Capitini, il Gandhi italiano, grande
ispiratore della Perugia-Assisi. Sotto la prima
bandkiera della pace portata alla marcia
Avedere il bicchiere mezzo vuoto (polemiche, distinguo, dissociazioni) si fa presto. Quello pieno conta invece con le adesioni ma anche con un piccolo aneddoto che vorrei riferire. Proprio ieri dicevo a Goffredo Fofi, uno dei grandi protagonisti della cultura italiana (eravamo al Salone dell’Editoria sociale, bella iniziativa tra gli altri de GliAsini e de Lo Straniero), e gli dicevo della mia imminente partenza per l’Umbria. Lui alza le spalle, sbuffa e poi mi racconta: “Ero con Capitini quando si diede inizio alla prima marcia (il 24settembre 1961 ndr) ma tre anni dopo ne presi le distanze quando capii che il Pci ci voleva mettere il cappello e non era proprio quello lo spirito della Perugia Assisi. Così io e altri due decidemmo di organizzare una contromarcia Assisi Perugia che poi però non realizzammo. Volevamo andare incontro alla Perugia Assisi con dei cartelli e dire che la vera marcia eravamo noi”. Difficile mettere il guinzaglio a Goffredo Fofi.
Mi dispiace che Goffredo abbia deciso di non partecipare a questa edizione ma forse davvero ne ha viste tante. Io ci sono e dunque vedo anche nelle polemiche di questi giorni il bicchiere mezzo pieno. Se la Marcia è andata avanti pur se, già alla terza, si erano create polemiche e contestazioni, vuol dire che è un evento ancora vitale e che, come ogni evento vitale, produce strappi, contestazioni e polemiche. Se poi queste sono occasioni di dibattito e dialogo oppure mere contrapposizioni sterili questo è un altro discorso e non tocca a noi farlo.

Buona marcia se state camminando. E buona marcia anche se siete rimasti a casa.

Darsi degli obiettivi

Si chiamano Millenium Development Goals e sono i nuovi Obiettivi di sviluppo del Millennio che l’anno prossimo l’Onu lancerà a New York alla prossima Assemblea generale. Una delle riunioni preparatorie – sui temi del locale e globale – si svolge a Torino oggi e domani, ospite della città cui il sindaco Piero Fassino sta dando un respiro internazionale. Presenti ministri e sindaci di 13 città ed esponenti di Undp,UN Habitat, Global Taskforce of Loacl and Regional Governments. Per discutere la nuova Agenda 2015-2030: nuove risposte a vecchie crisi

Per saperne di più vai al sito dell’ UNDG

Vai al Dizionario del Millennio

*video prodotto da Next Comunicazione

Brava Malala

Malala urges India, Pakistan to settle disputes… di dawn-newsDopo aver vinto il Nobel per la pace, l’attivista pachistana Malala Yusafzai fa un discorso politico sulla tensione del momento alla frontiera tra i due Paesi vicini e invita Narendra Modi …

Cencelli a Kabul

Ashraf Ghani, primo con riserva

Che lo si voglia chiamare impasse, stand-off, o “telenovela afgana” come un irriverente diplomatico di Kabul l’ha definita, la vicenda che per tre mesi ha opposto Ashraf Ghani ad Abdullah Abdullah si è conclusa con un accordo, benedetto dal segretario di Stato americano John Kerry, che ha, almeno nel breve periodo, risolto il contenzioso elettorale, funestato sin dagli esordi del ballottaggio (14 giugno) da pesanti accuse di brogli. L’accordo stabilisce una nuova figura istituzionale che consegna ad Abdullah, eterno secondo (fu sconfitto nel 2009 anche da Karzai) il ruolo di capo dell’esecutivo (executive chief), un ruolo relativamente ambiguo che lo equipara a un premier ma senza chiamarlo primo ministro, figura non prevista dall’ordinamento di una Repubblica presidenziale quale l’Afghanistan è. Se ad Ashraf Ghani, il colto tecnocrate formatosi negli Stati Uniti e già ministro di Karzai, è stata dunque consegnata il 21 settembre scorso la presidenza e, teoricamente, i pieni poteri, ad Abdullah viene concessa un’ampia capacità di manovra che il nuovo assetto istituzionale non ha ancora ben definito. Per ora, dicono i rumor, i due hanno concordato anche la scelta dei ministri, onorando un “manuale Cencelli” (formula che regolava in Italia la spartizione delle cariche pubbliche in base al peso elettorale dei singoli partiti e attribuita al democristiano Massimiliano Cencelli) che ha un precedente afgano di tipo etnico-tribale e che invece ora sancisce – per così dire – un ingresso nella “modernità” delle alchimie politiche di spartizione del potere.


Difficile dire quanto il cittadino comune abbia digerito una formula che,

Abdullah Abdullah, eterno secondo

nelle parole di molti analisti e politologi afgani, ha il sapore di una sconfitta del processo elettorale e dunque della democrazia afgana. Per dirla con la storica Helena Malikyar: «Un giorno dolce amaro per gli afgani. L’economia arranca – ha detto all’emittente del Qatar Al Jazeera nel giorno della proclamazione di Ghani a presidente – gli aiuti internazionali sono congelati, lo sviluppo si è fermato e la criminalità ha fatto passi da gigante». Effetto dell’impasse, risoltasi con quello che il politologo e ricercatore Nader Nadery ha definito un buon giorno per gli afgani ma una pessima notizia per la democrazia afgana. Conviene in effetti ascoltare le voci afgane più che quelle (poche) dei commentatori occidentali che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno. Gli afgani al contrario, anche perché vittime di una crisi politica con effetti perversi sull’economia reale (i prezzi di terra e immobili ad esempio sono crollati durante il trimestre di stallo), vedono il bicchiere mezzo vuoto, nell’imminenza della dipartita a fine anno della stragrande maggioranze delle truppe Nato che già ha fatto sentire i suoi effetti nella riduzione delle commesse e dei servizi che hanno visto un tracollo generale da quando è iniziato in maniera consistente il ritorno a casa scaglionato degli oltre centomila soldati dell’Alleanza, clienti di un indotto che ha fatto della guerra anche un grosso affari per molte società nazionali*.

L’accordo con gli Usa
La sensazione è dunque che le cose si sono aggiustate “all’afgana”, che il governo c’è ma ha un’intrinseca fragilità, che si è comunque perso tempo. Il governo Ghani, in queste ore impegnato a definire il suo profilo, ha comunque per prima cosa siglato l’accordo di partenariato strategico con gli Stati Uniti (Bsa, Bilateral Security Agreement) che di fatto garantisce a Washington il controllo di una decina di basi militari e che permetterà al Pentagono la dislocazione di almeno diecimila soldati in grado di intervenire e non solo di fare formazione, come invece dovrebbe prevedere il prossimo nuovo accordo con l’Alleanza atlantica. E che, soprattutto, garantisce lo sblocco dei finanziamenti congelati e la garanzia che, nei prossimi mesi, si potranno pagare gli stipendi a funzionari pubblici e soldati, condizione sine qua non per garantire governance e sicurezza. Se infatti il flusso di denaro promesso alle conferenze di Bonn (2011) e Tokio (2012) continuerà a fluire nelle casse del governo afgano (che per il 90% del Pil dipende dall’aiuto esterno), la nuova macchina statale potrà andare a regime ed esercito e polizia nazionali (una forza complessiva di oltre 300mila uomini) potranno tenere a bada i talebani come la lezione della Storia dovrebbe insegnare (nel 1989 l’Urss lasciò l’Afghanistan nelle mani del governo Najibullah che tenne testa ai mujahedin per tre anni ma quando Mosca taglio i fondi, l’esercito nazionale senza stipendio si sciolse come neve al sole e la guerriglia conquistò Kabul).
I temi sul tavolo

Il futuro dunque è piuttosto incerto a cominciare dai dati dell’economia. Il primo atto ufficiale del nuovo presidente è stato infatti la nomina del consigliere speciale per questo settore dell’ex ministro delle Finanze Hazrat Omar, che rimarrà in carica con un interim al dicastero da cui proviene proprio per evitare un vacuumpericoloso. Il secondo problema non meno importante è la sicurezza, motivo per cui Ghani ha affidato all’ex ministro dell’Interno Mohammad Hanif Atmar il ruolo di consigliere speciale al posto di Daftar Spanta (è stato proprio Atmar a firmare martedì scorso 30 settembre, appena un giorno dopo l’insediamento di Ghani, il Bsa con gli Usa). I ministri si conosceranno probabilmente nel giro di pochi giorni. E se l’economia è il grosso rovello ma è comunque materia che ben nota a Ghani (già alla Banca mondiale come funzionario), sicurezza significa anche piano di pace coi talebani e garanzie dagli Stati confinari, i principali attori nelle vicende afgane non estranei alla vitalità della guerriglia. E qui cominciano gli ostacoli veri. Per quanto ridotto, l’apporto finanziario della comunità internazionale dovrebbe essere abbastanza garantito nel breve periodo dagli impegni presi nelle ultime grandi conferenze sull’Afghanistan, ma processo di pace e rapporto coi vicini sono invece due nebulose tutte da chiarire.

Talebani e processo di pace
La guerriglia in turbante per adesso ha chiuso tute le porte. Sul sito ufficiale dell’emirato islamico sono uscite due note politiche molto dure contro l’elezione di Ghani e la nomina di Abdullah, definiti due “impiegati” degli Stati Uniti. Il giorno della firma del Bsa, con una celerità rara per gli standard mediatici della cupola di Quetta, i comunicatori di mullah Omar hanno bollato la firma dell’accordo come un atto di servilismo e una svendita della sovranità nazionale. Sul processo di pace nemmeno una parola e al momento non sembra che Ghani possa contare su qualche cavallo particolare o su qualche carta nascosta. Infine Abdullah Abdullah (era il medico personale di Shah Massud, ucciso alla vigilia dell’attacco alle Torri gemelle nel 2001) è un nemico giurato dei talebani senza contare che rappresenta gli interessi della minoranza tagica. Non è escluso che Ghani, un pashtu della tribù Ahmadzai (come Najibullah!), possa ricorrere all’esperienza di Karzai, uscito di scena dalla porta principale ma pronto a rientrare dalla finestra.
I rapporti coi vicini
Per ora restano tesi: la firma del Bsa ha sollevato le ire di pachistani e iraniani. Il vice ministro persiano Ebrahim Rahimpour l’ha bollata come un danno al governo afgano e alla sua sovranità. L’ex ambasciatore di Islamabad a Kabul, Rustam Shah Mumand, ha invece detto che fino a quando le truppe straniere resteranno nel Paese, i rapporti tra l’Afghanistan e il Pakistan non miglioreranno. Reazioni abbastanza scontate ma che danno conto di un clima assai poco disteso con i due Paesi chiave che circondano Kabul che può sì contare in Asia sull’appoggio di India e Turchia, su quello indiretto di Mosca e sull’interesse della Cina, ma che non può non tener conto di quanto accade a Islamabad e a Teheran: il Pakistan è in grado (più o meno) di controllare i santuari oltre confine dei talebani. L’Iran – che ha scelto di appoggiare una parte del movimento guerrigliero – tiene l’Afghanistan come possibile pedina da giocare proprio in chiave anti americana.

Le premesse per un mandato davvero difficile sono l’unica certezza che Ashraf Ghani ha tra le mani.
* 41mila in totale al 3 settembre 2014

L’eredità di Karzai

Karzai sulla copertina dedicatagli
da
Time. Sotto, Shah Shuja
In testa il tradizionale qaraqul, sulle spalle il colorato chapan, per molti è stato soltanto un capo di governo elegante. Ma Karzai è stato soprattutto un “animale politico”, come gli riconosce Ahmed Rashid, l’autore di Talebani e Caos Asia. Un politico scaltro, che ha governato un Paese complicato per 13 anni senza rimetterci la pelle; che ha incassato borsoni pieni di denaro sia dalla Cia sia dall’Iran, ammettendo tutto con disinvoltura e rimanendo in sella; che ha voluto combattere la guerriglia dei Talebani chiamandoli “fratelli”; che è sopravvissuto grazie al sostegno della comunità internazionale e degli Usa ma criticandone l’operato. Salito al potere il 22 dicembre del 2001, come chairman dell’amministrazione nata dalla Conferenza di Bonn, nominato presidente ad interim nel 2002 da una Loya Jirga(Gran consiglio), eletto nel 2004 e poi nel 2009, negli anni si è scrollato di dosso l’etichetta di “sindaco di Kabul” che i detrattori volevano affibbiargli. E si è costruito una rete di potere economico e politico talmente ampia da garantirgli un ruolo decisivo anche dopo che si è chiuso il sipario sulla sua presidenza. Prima di abbandonare, è tornato sui suoi cavalli di battaglia, sostenendo che quella afghana è «una guerra straniera che si combatte sul nostro territorio», e che se non c’è pace «è perché gli Stati Uniti non l’hanno voluta».

Pace e rapporto con gli Usa sono sempre stati i suoi cardini e l’occasione di polemiche, sia con mullah Omar – che lo definiva un pupazzo – sia col maggior alleato e che un giorno lo osannava, l’altro lo denigrava. Ma sapeva quale eredità lasciare. Non quella di re Shah Shuja, che Londra rimise sul trono per scongiurare nell’800 le mire russe e persiane, motivo per cui ha ingaggiato con Washington una tenace battaglia sul Bsa, l’accordo strategico (siglato martedi) la cui firma in calce non voleva fosse la sua. Esce di scena da nazionalista forse ancora indispensabile per la rete di conoscenze all’estero e la capacità comunque di dialogo anche coi tanti nemici con cui ha sempre dovuto fare i conti. Nell’ultima trattativa ha fatto un passo indietro e nell’ultimo discorso ha lasciato un segno emotivo forte che gli consegna uno dei capitoli più drammatici della storia dell’Afghanistan. Presto per dire come riapparirà. Certo che continuerà a contare.

* a quattro mani con Giuliano Battiston

L’accordo Kabul-Washingotn: un bel colpo per gli Stati Uniti meno per l’Afghanistan

Firmato ieri a Kabul l’accordo di partenariato strategico (Bsa/Bilateral Security Agreement) che chiude il contenzioso aperto da Karzai che si era rifiutato di firmarlo). Pakistan e Iran hanno fatto subito sentire la loro voce e con incredibile rapidità anche i talebani hanno diffuso sul loro sito una nota che definisce il Bsa un atto si servilismo.
Il mio commento alla rubrica Esteri di Radio popolare diretta da Chawki Senouci (per ascoltare clicca  qui)

Gli europei e la guerra (in)finita

Immaginandoci, con un po’ di fantasia, una possibile breve conversazione tra i muri della diplomazia europea il tono potrebbe essere stato questo: «Vai a Kabul per l’insediamento di Ghani»? «No, ho da fare: ora c’è il califfato di Al-Baghdadi: Guerra al terrorismo 2, la vendetta. L’Afghanistan ormai è un caso chiuso». In effetti a scorrere la lista delle personalità presenti alla prima transizione di potere nella Kabul post-talebana il parterre è davvero sconsolante: gli americani non sono mancati con una delegazione di tutto rispetto di dieci funzionari capeggiati dal consigliere di Obama John Podesta mentre il Pakistan ha inviato addirittura il suo presidente Mamnoon Hussain e l’India e l’Iran i vice presidenti Hamid Ansari e Mohammad Shariatmadari. Anche i cinesi hanno mandato una figura di profilo nel ministro Yin Weimin. Ma sul fronte occidentale solo sedie semivuote su cui, a rappresentare l’Europa, c’erano solo gli ambasciatori di stanza a Kabul, Gan Bretagna compresa. Al massimo gli inviati speciali. E’ la guerra, bellezza, quella nuova sulle frontiere di Siria e Irak.

Abdullah  Abdullah(a sinistra) e Ashraf Ghani:
 da ieri premier e presidente in un governo
 bicefalo  frutto  di un accordo per far contenti tutti

Se la forma, specie in diplomazia, è sostanza, la scelta la dice lunga sul futuro dell’Afghanistan retto da Ashraf Ghani, l’uomo che, con Abdullah, i talebani hanno catalogato come un “impiegato” degli Stati uniti. Sono loro gli sponsor del papocchio istituzionale col quale nasce la stella del primo ministro facente funzioni in una repubblica che è presidenziale per Costituzione e dove nemmeno l’ombra di un passaggio parlamentare ha giustificato la bizzarra alchimia. Alchimia che per l’uomo della strada è l’ennesima trattativa sottobanco da cui i più maligni non hanno escluso che, oltre al potere, sia stato garantito qualche altro compenso all’eterno secondo (Abdullah fu sconfitto a suon di brogli anche da Karzai nel 2009). Malizie. Non resta del resto che far buon viso a cattivo gioco, di qua e di là dalle montagne dell’Hindukush: l’esperimento democratico, pompato come la grande conquista dell’era post talebana, è un misero accordo di potere degno di una trattativa da bazar mentre la guerriglia, data per sconfitta già nel 2001, ha segnato quest’anno il più alto numero di vittime dall’inizio della guerra che doveva consegnare alla Nato sullo scacchiere planetario il ruolo che fu delle Nazioni unite, sempre più solo spettatore. Bisogna accontentarsi.


Adesso comunque (oggi per la precisione) si potrà firmare l’accordo tra Kabul e Washington che garantisce impunità ai soldati stellestrisce e l’uso di dieci basi militari tra cui l’enorme hangar di Bagram. Accordo che aprirà la strada a una nuova missione Nato ma, soprattutto, alla riapertura dei rubinetti finanziari che servono a pagare gli stipendi a funzionari e soldati prima che – come accadde dopo la dipartita dell’Urss – l’esercito diserti in massa e la guerriglia, confinata nelle periferie, possa attaccare le città, unico porto sicuro nell’incertezza di un Paese dove il controllo amministrative e militare è una rete piena di buchi.


Questo disinteresse pericoloso, che vede come unico attore gli americani e i vicini e un impegno a finanziare soprattutto la macchina militare, non è di buon auspicio. Continuamente distratta da nuovi fronti di guerra, l’Europa sembra ignorare l’unica lezione che l’Afghanistan dovrebbe averle insegnato: seguire a ruota gli americani non fa bene né a noi né a loro né ai Paesi sotto tutela. Senza lavorare sulle cause dei conflitti, senza un investimento nella ricostruzione civile, senza un’alleanza politica con i gradi attori regionali (tra cui l’Iran perennemente ignorato) l’Afghanistan corre il rischio di essere l’ennesimo Stato fallito. Pronto magari per una riedizione del califfato in chiave Asia centrale.

Le decapitazioni, i talebani e i metodi dello Stato islamico (Is)

Rimandando a domani il racconto dell’intensa giornata odierna a Kabul, dove con l’insediamento di Ashraf Ghani l’Afghanistan assiste al primo passaggio di poteri presidenziali in nuove mani (il quadro di riferimento lo trovate qui), c’è una piccola notizia su cui vorrei richiamare l’attenzione dei miei lettori. Qualche giorno fa i principali siti d’informazione hanno dato notizia di una lunga battaglia nel distretto di Ajirestan il cui bilancio sarebbe stato di 70 morti, intere abitazioni date alle fiamme oltre al taglio della testa di alcuni uomini. Il giorno dopo il sito dei talebani ha categoricamente smentito le notizie come prive di fondamento e  propaganda. Fin qui nulla più che due voci che si confrontano e per il momento non sappiamo chi sia dalla parte del torto. Ma c’è un elemento che va notato. L’articolo recita testualmente: “Today the cowardly enemy is spreading open lies after suffering heavily at the hands of Mujahideen by stating Mujahideen have killed over 70 civilians, burnt many homes, beheaded Arbaki militiamen, are escorted by foreigners and other such fabrications.

We categorically reject such enemy propaganda. Such claims are far from the reality as Mujahideen are busy engaged in clashes and don’t have extra time on their hands to behead Arbakis* when a bullet is a much easier, faster and in accordance to the guidance of the leadership”.


Non è tanto il tono canzonatorio (i mujahedin non hanno tempo da perdere a tagliar teste e un proiettile fa

La bandiera dei talebani. Sopra, Ashraf Ghani
il presidente “dimezzato” da oggi a capo dell’Afghanistan

prima) ma il riferimento all’accordance to the guidance of the leadership. Ora, la noticina (unita al fatto che si nega vi fossero degli stranieri combattenti) sembra prendere le distanze dalla pratica ormai largamente invalsa nell’Is, lo Stato islamico/califfato che opera in Siria e Irak. I talebani hanno in passato tagliato teste senza problemi (vedi l’autista di Mastrogiacomo) ma non è pratica diffusa mentre lo è la fucilazione. Quella che sembra una sottolineatura del proprio codice di condotta (cui i talebani non sono nuovi) rimarca la distanza dal jihadismo qaedista e dalla nuova ideologia del califfato e dallo stesso  modus operandi. Forse, anzi certamente, qualche afgano combatte con l’Is ma i talebani, in Afghanistan, del califfato proprio non ne vogliono sapere. Come fecero con bin Laden cui diedero ospitalità e protezione ma di cui non condivisero mai l’idea del jihad globale. 


*Arbakis sono le milizie civili paramilitari tradizionali e ampiamente sostenute adesso da governoe  Nato in diverse zone del Paese

Tsahal in Sardegna: come è andata a finire

Che fine hanno fatto i piloti israeliani che, dal 21 settembre, avrebbero dovuto volare sui cieli sardi all’interno del piano di esercitazioni cicliche che, come ogni anno, sollevano proteste e scatenano manifestazioni e contestazioni anche a livello degli enti locali sardi? Quel motivo in più per opporsi è scomparso, grazie proprio alle polemiche che la notizia sollevò.

Lo desumo da un articolo di Chicco Fresu, il collega che per primo si accorse e scrisse  della presenza israeliana prevista in Sardegna dal 21 di settembre. Scrive Fresu: Dietrofront, i caccia israeliani non giocheranno più alla guerra, per non sbagliare in quella vera, nei cieli e sui mari della Sardegna. Avanti tutta, si procede (quasi) come previsto: le esercitazioni militari seguiranno il calendario già fissato, anche se la Regione dice no. E allora dal 22 settembre, tra Teulada, Capo Frasca e Perdasdefogu-Quirra giù una pioggia di bombe, razzi e missili fino a dicembre. È un ministero della Difesa a due velocità quello che, con un semplice decreto, impone modi e tempi per l’utilizzo dei poligoni sardi nel secondo semestre del 2014. Dall’elenco delle forze armate partecipanti alle esercitazioni scompare l’Iaf (Israelian Air Force): impegnati nei sanguinosi raid su Gaza nelle scorse settimane, i jet israeliani avrebbero dovuto volare su Capo Frasca nei prossimi mesi”. E ancora: “…Il programma delle esercitazioni è diviso per poligoni: riporta chi, dove e quando bombarderà sulle centinaia di chilometri quadrati di servitù militari sarde… Per Capo Frasca le indicazioni sono più generiche. Si descrivono imminenti lanci di «inerti» anche da una tonnellata e sono elencate le forze armate partecipanti. Il 24 aprile la Difesa comunicava la presenza dell’aeronautica e della marina militare italiana, dei colleghi tedeschi e della Us Navy. Ultimi dell’elenco erano i caccia (F15 e F16) dell’Iaf , scomparsi dal decreto firmato il 30 agosto: non arriveranno, salvo che non vengano fatti rientrare nella categoria «eventuali ospiti Nato”. 

E dunque indignarsi, manifestare, contrapporsi, scrivere serve a qualcosa. Almeno, se non altro per buon gusto, i piloti che forse hanno bombardato Gaza sono rimasti a casa.

La guerra fotografata da chi la vinse sul terreno. Ma non sui (nostri) giornali

Il tema guerra e fotografia è sempre molto interessante. Un buon argomento per riflettere come si racconta un conflitto, il più delle volte da una parte sola. Ecco allora che al Festival di Perpignano Visapourlimage (a destra un’immagine dell’incontro terminato ieri nella città del Sud della Francia che da anni osita la kermesse) hanno offerto una buona occasione per vedere la guerra del Vietnam con l’occhio dei vietnamiti: i vincitori che però di spazio sul giornale dei vinti ne trovarono davvero poco. Ma una quarantina d’anni dopo…

Ci sono molte foto (qui a destra ne vedete una di Duong Thanh Phong recuperata in rete) ma pochissime sono apparse sui nostri giornali con qualche rara eccezione che i più vecchi tra i miei lettori ricorderanno. Il sito del Nyt consente di vedere una galleria di 17 immagini tutte piuttosto notevoli. La guerra dalla parte di chi ha vinto. Sul terreno militare, non su quello mediatico.Una rivincita ottenuta a mezzo secolo di distanza

*Segnalo qui un bell’articolo in merito di Mario Portanova

L’Is, gli Usa e il gioco dei Saud

Le spade, la palma e un preciso
disegno geostrategico

Dopo la decisione di Obama di sradicare il califatto in fieri dell’Is (Stato islamico) e dopo che il ministro degli esteri statunitense John Kerry si è recato l’altro ieri a Gedda – in Arabia saudita – per formare l’ennesima grande coalizione di volenterosi, emerge chiaramente chi è il vero vincitore della partita: la monarchia dei Saud, minacciata in novembre dalla svolta pro iraniana di Washington a Ginevra, dall’influenza della Repubblica islamica negli affari mediorientali dalla Siria al Bahrein, dalla marea delle primavere arabe. Dietro quel che accade in queste ore c’è con tutta probabilità un piano. Che viene da lontano e che ha un obiettivo preciso: contenere Teheran.

Bush con l’allora ambasciatore saudita
Bandar ben Sultan al Saud, dal 2012 al 2014
a capo dell’intelligence saudita

Parte diligente nella creazione dell’Is, cresciuto con finanziamenti privati sauditi e del Golfo, Riad ha allevato l’ennesimo mostro salvo poi prenderne le distanze e offrire le sue basi per una nuova campagna antiterroristica contro i jihadisti tenuti a battesimo solo qualche mese fa. Il piano è chiaro: contenere Teheran e mettere al riparo la retriva e oscurantista monarchia wahabita da movimenti, laici o islamisti, che potrebbero insidiare la sua monolitica stabilità. Ne hanno fatte le spese i Fratelli musulmani egiziani, prima finanziati da Riad e poi dichiarati “terroristi”, e la stessa Hamas, tenuta a bada dal nuovo governo di Al Sisi e da Tel Aviv. Adesso è arrivata l’ora di fermare il jihad anche in Irak e Siria, visto che ormai Riad ha ottenuto di portare dalla sua parte Washington e l’Europa, scalzando il paventato rientro sulla scena di Teheran come attore universalmente accettato. Quando John Kerry ha chiarito a Bagdad qualche giorni fa che, nel contro jihad, non c’è bisogno dell’Iran, i Saud hanno capito che era fatta. C’era solo da mettersi d’accordo per apparire i pilastri di un islam ragionevole (e sunnita) in barba al lungo sostegno fornito, dall’Africa all’Afghanistan, a tutti i movimenti più radicali.

Abdallah ben Abdelaziz al-Saoud
re dell’Arabia saudita e protettore dei credenti 

Gli Usa, preoccupati dall’avanzata russa in Europa, sono così caduti nella trappola saud, tutto sommato il governo più stabile della regione, riserva di energia per eccellenza e la miglior garanzia che i finanziamenti ai jihadisti si prosciugheranno mettendo l’Is in difficoltà. Eppure gli americani conoscono bene l’ambiguità di Riad tanto che, ha rivelato il New Yorker, George Bush secretò nel 2002 un documento che raccontava il coinvolgimento di alcuni sauditi nell’attacco dell’11/9. La relazione tra americani sauditi ed emirati è sempre stata forte quanto oscura. E il Golfo ha fatto di tutto per evitare che il suo grande Satana – l’Iran – potesse espandere la sua influenza (vedi l’invasione saudita nel vicino Bahrein nel 2011 per proteggere la monarchia cugina dalle proteste degli sciiti) e, soprattutto, potesse rientrare nel novero dei Paesi con cui si parla. In questi anni tutti han dato una mano, Italia compresa. Nel solo 2013 abbiamo venduto armi a Riad per 126 milioni e agli Eau per 95. Difficile sapere dove bombe, munizionamento o veicoli siano finiti senza per altro che ai regni del Golfo sia mai stata chiesta  ragione di un sostegno  largamente tollerato – seppur indiretto attraverso privati cittadini –  alle nascenti orde dello Stato islamico .

Il pazzo di Teheran: fin che c’era
lui i Saud dormivano tra due guanciali.
Chi  avrebbe dato retta a Teheran?

Intanto il coinvolgimento dell’Iran nell’era post Ahmadinejad ha subìto un raffreddamento e, adesso, uno stop totale. Del resto, chi meglio della mamma per riportare all’ovile figlioletti troppo discoli andati un po’ troppo in là nella guerra agli sciiti e colpevoli di aver ucciso, senza autorizzazione, anche cristiani e occidentali? Per i Saud la guerra è già vinta e l’Is non serve più. Ma come spesso accade quando si creano mostri, questi vivono di vita propria come accadde coi talebani, bin Laden o al Nusra. Fermarli è complicato e allora si passa alle bombe delle coalizioni di volenterosi. Un gioco che comunque torna per i venditori di armi che chiudono così il cerchio infinito della guerra nella guerra.

I travasi della guerriglia e i nuovi fronti jihadisti

In un momento in cui ci si sforza di capire com’è composto il nuovo fronte jihadista e mentre diversi organi di stampa sostengono che sia in atto un travaso di “stranieri” dalle aree del Pakistan e dell’Afghanistan verso i nuovi vecchi fronti qaedisti (ormai ex qaedisti in gran parte) di Siria e Iraq, alcune notizie provenienti dal Pakistan meritano di essere osservate.

Come forse i lettori ricorderanno, nel marzo scorso il Ttp, l’ombrello dei pachistano talebani – ha dovuto fare i conti con una faida interna per il controllo dei Meshud, la potente tribù che ha dato i natali a gran parte dei capi del Ttp. La faida è scoppiata tra i seguaci di Sheryar Mehsud (che si rifà al leader Hakimullah ucciso nel novembre 2013) e un gruppo capitanato da Khan Said Sajna (sempre un meshud). La faida aveva messo in difficoltà mullah Fazlullah, capo fino ad allora riconosciuto dell’intero Ttp. Ma alcuni giorni fa Fazlullah ha assistito a un’altra assai più vasta scissione interna del movimento con la formazione di un nuovo gruppo che si chiama Jamatul Ahrar che, secondo il suo portavoce Ehsanullah Ehsan (già portavoce ufficiale del Ttp), godrebbe del sostegno di 7-8 comandanti talebani su dieci. Un colpo duro per “Radio Mullah” cui ora se n’è aggiunto un altro.

Adesso infatti, i talebani del Punjab, una fazione indipendente e importante riconducibile all’ombrello del Ttp (il cui cuore sono le aree tribali), ha fatto sapere venerdi scorso che smetterà di combattere in Pakistan e che d’ora innanzi incentrerà la sua azione in Afghanistan. Un segnale che conferma le divisioni interne al Tehreek-e-Taleban Pakistan (TTP), ma anche un cambio di strategia nella galassia jihadista pur se per ora non sono chiari i rapporti tra il gruppo punjabi capitanato da Ismatullah Muawiya e il nuovo Jamatul Ahrar né qual è la strategia di questi ultimi.

Danza macabra

La sofferenza del corpo infividuale e del corpo sociale
Medici Senza Frontiere e Emanule Giordana
Festival Oriente Occidente
Oggi alle ore 17
Giardino della Danza – Rovereto, via Roma ore 17

LINGUAGGI
Corpi in conflitto

La distinzione tra corpo e anima, tra corpo e mente, ha segnato per secoli le dottrine di filosofi, pensatori, teologi e scienziati. Eppure al di là delle teorie e delle interpretazioni, l’uomo appare come quella singolarissima sintesi tra due mondi solo all’apparenza così diversi e antitetici. Anzi risulta essere la dimostrazione più chiara che non c’è alternativa ma solo unità.
E così il corpo pare riprendersi una rivincita come parte della comprensione che gli esseri umani possono avere del mondo materiale e spirituale, come strumento di conoscenza, come termometro al quale non possiamo opporre bugie, fantasie e  nemmeno pazzie e false realtà. Ecco perché la sezione Linguaggi parte proprio da qui, dal corpo e dai corpi che si incontrano, si scontrano, si avvicinano e si allontanano, che talvolta si immolano e trovano pace, che ci trasmettono elementi e figure degli altri uomini, della terra, della natura.
In un mondo sempre più immateriale restano solo i corpi a riportarci al vero, a impedirci di mentire e mentirci?
Studiosi, testimoni, giornalisti, artisti ci aiutano a comprendere la contemporaneità fatta di corpi che migrano tra continenti, che soccombono a una natura contaminata, svilita e distrutta, che vivono lo stato di guerra continua dell’illegalità e del malaffare, che vengono annientati dai conflitti tecnologici e dalle nuove forme di fanatismo e dai terrorismi. Ma ci svelano anche come il corpo, là dove sembra più minato, si dimostra anche l’unico in grado di offrirci nuove prospettive quasi a dirci che in un momento così privo di punti di riferimento forse dobbiamo ripartire proprio da qui.

Henry Dunant, padre del diritto umanitario

Come nasce l’Is e le nostre responsabilità

Maryam al Khawaja 
Mi è stata chiesta recentemente un’opinione sull’Is, lo Stato islamico, quel plotone di jihadisti sunniti che impazza in Iraq e Siria. La risposta, secondo me, la si trova in questo articolo di AlJazeera sull’arresto – al suo arrivo a casa (Bahrein) – di Maryam al Khawaja, condirettrice del Gulf Centre for Human Rights. Colpevole di aver insultato il monarca, Maryam non è soltanto un’attivista ma è anche sciita ed è la figlia di Abdulhadi Abdulla Hubail al-Khawaja,  dal 2011 in galera in Bahrein, ridente democrazia del Golfo a conduzione familiare  (come tutte le altre). Che c’entra, direte voi? Provate a seguire il mio ragionamento anche se, su questa materia, son solo un osservatore non certo un ferrato analista.
Ebbene nel 2011 in Bahrein scattò una rivolta. Era guidata dalla “minoranza” sciita in un Paese dove la casa regnante è sunnita, oltre l’80% della popolazione è di religione musulmana e gli sciiti sono circa due terzi, dunque una considerevole maggioranza. Sono anche i più poveri e si ribellarono sull’onda delle rivolta arabe. Li seguivano con attenzione anche quelle migliaia di immigrati che costituiscono la forza lavoro dei petroregni mediorientali. Ma, mentre gli occhi erano puntati su Tahrir, nel piccolo reame (1,2 milioni di abitanti) si scatenò una feroce repressione peggiore di quella egiziana. Di più, temendo che l’Iran approfittasse della svolta protestataria i sauditi, forti dell’appoggio del Consiglio del Golfo, inviarono i carri armati. La famiglia reale dei Khalifa era ovviamente d’accordo, perché soldati e polizia non erano in grado di contenere la rivolta. A parte qualche timido distinguo, lasciammo correre: nessuna condanna, nessuna sanzione. Un silenzio dorato come i petrodollari sauditi. Demmo il via libera. E cominciarono li anche le nostre responsabilità sulla non ancora imminente creazione dell’Is
Il generale presidente Abdel Fattah al-Sissi 
Esi, perché la piccola vicenda del Bahrein rivela molto più di quanto non sembri e spiega perché i sauditi e gli emirati abbiano appoggiato prima i Fratelli musulmani (che poi Riad ha bollato di terrorismo) e adesso l’Is. Mai apertamente sia chiaro. In forma “privata”, come spiega bene una convincente ricostruzionedell’Independent. All’epoca delle rivolte arabe, il Golfo e Riad pensarono che l’unico modo di contenere le folle fosse puntare sui Fratelli musulmani. Ciò avrebbe contenuto le spinte rivoluzionarie e cambiato gli equilibri dando forza a chi da sempre ha sostenuto la Fratellanza. Ma a Riad poi non piacque più quel Morsi che, seppur in modo univoco e autoritario, diventava un modello di democrazia arabo islamica. Era stato eletto e la Fratellanza aveva sposato la nefasta idea di libere elezioni, nel bene o nel male. Riad abbandonò Morsi al suo destino e gli preferì un generale. I generali, si sa, sono sempre fedeli e chiudono la bocca a chi ha troppi grilli per la testa. Anche in quel caso restammo a bocche semicucite. Qualche timida condanna ma, in fondo, sempre meglio un generale di un islamista.
Per la casa regnate dei Saud, non meno che per gli emirati più o meno democratici del Golfo, tutto va bene purché non si metta in discussione la monarchia. Per i Saud la posta vale doppio perché la casa regnante è anche la custode dei luoghi sacri e dunque legittimata a rappresentare la Umma, la comunità dei credenti. I Saud sono soliti dare una mano ai gruppi radicali e rompere gli equilibri ma poi son pronti ad abbandonare i loro protetti quando possano diventare una minaccia, anche ideale, al loro ordine costituito. Avvenne ieri con bin Laden, oggi con la Fratellanza. Aiutano la nascita dei mostri e poi, quando crescono troppo, lasciano che a pensarci sia Washington, sempre pronta, come noi, a dare all’untore islamico.
Rohani. A Riad non piace
Se per i Saud e le monarchie del Golfo il potere delle proprie case regnanti è l’ossessione numero uno, l’ossessione numero due è l’Iran. L’Iran è un mostro peggiore per sauditi e golfisti assai più che per noi e gli americani. Perché sono sciiti? Anche, ed è una storia che viene da lontano. Ma soprattutto perché sono potenti, colti e intelligenti e da sempre cercano di affermare il loro ruolo di potenza regionale. Fermate le primavere arabe, col nostro tacito consenso, fermate le ingerenze negli emirati (vedi Bahrein), fatta fuori – col nostro aiuto – la scheggia impazzita Gheddafi (per nulla prono ai voleri dei Saud), adesso restavano però  da sistemare Iraq e Siria, dove soffia il vento della rivolta e dove l’Iran sta mettendo troppo lo zampino. Eppoi prima c’era quel perfetto imbelle di Ahmadinejad ma adesso con Rohani la musica è cambiata, tanto che Usa e Ue lo stanno a sentire. Correre ai ripari: l’Iraq è dominato dagli sciiti in quel disastro che gli americani han combinato entrando come un’elefante nella delicate cristalleria degli equilibri locali. E in Siria, guarda guarda, l’Iran gioca sporco aiutando Assad con Hezbollah, così come fa in Libano (ma li c’è Israele che contiene). Bisogna agire, ma come?
Ecco che arriva lo Stato Islamico e le sue sigle e siglette. Come per i talebani e la loro marcia rapida e vittoriosa in Afghanistan dal Pakistan, arrivano per loro soldi, armi e mezzi. Possibile che abbiano rubato all’esercito iracheno 30, 40, 50 blindati o Humwee nuovi di zecca? E così mitra e lanciarazzi? Ricostruire il percorso è complesso ma è anche bizzarro che una corsa alle armi di questo genere sia sfuggita alle nostre intelligence. Non si nasconde una colonna di blindati. E qui, se volete, c’è un’altra direzione da prendere. Sapete quante armi abbiamo venduto ai Saud negli anni scorsi? Per circa 126 milioni di dollari nel solo 2013. Una bazzecola rispetto a quanto spendono in totale ma…è gente con cui si fanno buoni affari. Nel 2013 – spiega bene questo articolo di Giorgio Beretta – sono state autorizzate, nel Medio Oriente, esportazioni di armi italiane per un valore di 709 milioni di euro. In cambio, forse, si chiude un occhio.
Al Baghdadi in una foto segnaletica
americana del 2005
Tornando all’Is, adesso i Saud negano l’addebito e in effetti pubblicamente non han certo mai appoggiato questi mercenari dell’Islam. Ma la casa regnante ha chiuso un occhio e anche l’altro sulle donazioni private provenienti dalla petromonarchia dove, per dirne una, i più ricchi cittadini del regno appartengono o sono assai vicini alla famiglai reale. L’Is è del resto il rimedio formidabile per contenere l’Iran e gli sciiti. Non è dunque una guerra di religione contro gli infedeli. Non è il raffinato (seppur barbaro) progetto di jihad globale di Osama bin Laden. E’ una guerra contro gli sciiti in quanto alleati inevitabili di Teheran. Ecco da dove viene l’Is ed ecco dove probabilmente va. Nessun pericolo per noi. Quando avranno ucciso l’ultimo sciita torneranno alla moschea.

* su segnalazione di un lettore, un ottimo articolo sul tema di Giandomenico Picco

Aggiornamenti in pillole (Afghanistan, Pakistan, Mogherini/Ue, Obama/Is)

Afghanistan: il braccio di ferro tra Ghani e Abdullah continua. L’accordo finale tra i due (per un governo – diremmo noi – di larghe intese) è a un punto morto: Abdullah vorrebbe che il futuro primo ministro (lui o un uomo suo) sia di fatto a capo del gabinetto dei ministri, come avviene da noi. Ghani, non a torto, sostiene che invece debba essere il presidente, come avviene in tutte le repubbliche presidenziali. E’ chiaro che chi comanda sul gabinetto comanda sul Paese. Come se ne esce?

Pakistan: volge al peggio il braccio di ferro tra Qadri-Imran Khan e Nawaz Sharif. Scontri con la polizia e, alle 10 di stamane (ora italiana), già tre morti e centinaia di feriti a Islamabad. Lo scontro diventa violento.

Mogherini/Ue: come non complimentarsi? Renzi vince il round europeo e piazza una donna italiana seria e preparata la cui posizione più morbida con Mosca (tanto da essere accusata di essere filo russa) è una speranza che i venti di guerra sull’Ucraina si attenuino. Ora il compito più difficile: dimostrare di essere all’altezza di uno dei mandati più difficili della Ue

Obama/Is: il presidente americano parte bene ma  finisce alle solite. Sceglie contro l’Is (Stato islamico) un partenariato allagato anziché la solita azione americana unilaterale. Ma poi plana sulla Nato al cui vertice demanda la risposta per una strategia anti jihadista. Cioè, mi alleo con tutti però poi decide la mia Santa alleanza (atlantica)

Nel match tra governo e opposizione vince l’esercito

L’emblema dell’esercito pachistano

E’ il capo dell’esercito pachistano Raheel Sharif il vero vincitore del braccio di ferro tra i due partiti (Pti) di Imran Khan e (Pat) di Qadri col primo ministro Nawaz Sharif di cui chiedevano le dimissioni. La situazione era allo stallo dopo che una marcia di migliaia di pachistani sulla zona rossa di Islamabad aveva messo in difficoltà il governo di  Sharif;  governo che ha tenuto botta ma che ha dovuto far ricorso più di una volta alla mediazione di Raheel Sharif che si è confermato il vero ago della bilancia. Khan e Qadri, in un certo senso, possono dirsi soddisfatti perché il governo civile si è mostrato incapace di gestore la crisi politica e ha dovuto ricorrere al terzo incomodo. Ma in realtà a perdere sembra essere la democrazia pachistana o almeno quel barlume di istituzione civile – governo e parlamento – che, nelle ultime
elezioni (contestate dal Pat e dal Pti) – sembrava aver segnato una nuova stagione, senza più l’ingombro della divisa kaki. E invece…

Come si fa a far vincere i talebani. Le nuove bizze di Abdullah

Abdullah (nella foto di Pajhwok con Ghani)
 fa di nuovo saltare il banco

Il sospetto che Abdullah Abdullah e Asharf Ghani, i due candidati alle presidenziali afgane, non abbiano trovato un accordo sulla spartizione futura dei poteri e che il primo si sia sentito messo nell’angolo è forte e chiaro. E sembra più il fallimento di questa trattativa da bassa macelleria diplomatica e nella peggior tradizione del bazar il motivo vero per il quale oggi Abdullah ha ritirato i suoi osservatori dal processo di revisione delle schede uscite dal voto al ballottaggio e che l’Onu sta monitorando. Nonostante l’intervento di Kerry, le rassicurazioni di Karzai, i cedimenti di Ghani alle sue rimostranze, l’impegno dell’Onu e le pressioni della diplomazia,  Abdullah deve aver ottenuto nel futuro governo di larghe spartizioni troppo poco e ancora dunque tira la corda contestando le regole che ha accettato solo qualche giorno fa. La disillusione tra gli afgani, amarezza compresa, dev’essere forte, come dimostra un sondaggio di ToloTv secondo cui la metà di chi ha fatto clic per dire la sua spera che i due si metteranno d’accordo mentre l’altra metà pensa di no.

Così finiscono per aver ragione i talebani che, sul loro sito, bollano le elezioni come una farsa. Non basterà questo a far vincere la guerriglia in turbante ma questo basterà a far credere sempre di più agli afgani che le elezioni all’europea sono solo una coperta elastica
che poi si può tirare a piacimento da una parte all’altra prima di spegnere la luce.