Anno: 2014

Dizionario Hoepli Italiano-Arabo

          Claudia Maria Tresso, con la collaborazione di Abdelouadoud El Omarani, Dizionario Hoepli Italiano Arabo, Hoepli, Milano 2014 Se chi traduce dall’arabo ha avuto e ha a disposizione almeno un buon dizionario che, seppure orami datato, … Continua a leggere

Dizionario Hoepli Italiano-Arabo
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Dizionario Hoepli Italiano-Arabo

          Claudia Maria Tresso, con la collaborazione di Abdelouadoud El Omarani, Dizionario Hoepli Italiano Arabo, Hoepli, Milano 2014 Se chi traduce dall’arabo ha avuto e ha a disposizione almeno un buon dizionario che, seppure orami datato, … Continua a leggere

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letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Campus Breakerz Crew: breakdance per le strade di Gaza

Barakabits. Fare breakdance nelle strade di Gaza è l’ennesimo dimostrazione che i palestinesi sono davvero una fonte di incredibile ispirazione. Nonostante le difficoltà, sanno ancora come divertirsi. Nel campo profughi di Nuseirat, esiste un centro di breakdance organizzato dalla Campus Breakerz Crew, una squadra di “ballerini” creata del 2003 che da allora riunisce giovani palestinesi […]

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Egitto: Mubarak, decisione entro 48 ore

(Agenzie). L’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, che sta scontando tre anni di domiciliari per appropriazione indebita di fondi pubblici, potrebbe essere scarcerato nelle prossime 48 ore. Condannato nel 2012, sabato scorso è stato prosciolto dall’accusa di aver ordinato l’uccisione di 239 manifestanti durante la rivoluzione del 2011. Secondo gli analisti, un eventuale rilascio provocherebbe ulteriori tensioni in […]

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Cisgiordania: palestinese ferita dopo aggressione di un israeliano

(Agenzie) La polizia israeliana ha riportato che una ventenne palestinese è stata gravemente ferita da colpi di arma da fuoco dopo aver aggredito un israeliano nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion. La giovane donna avrebbe pugnalato e ferito un colono israeliano, inizialmente identificato come un soldato, cosa poi smentita dall’esercito. Per ora, non sono ancora note le […]

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Manifestazioni per l’indipendenza dello Yemen del sud

(Agenzie). Centinaia di persone sono scese in piazza nella città di Aden per chiedere l’indipendenza dello Yemen del Sud, in occasione del 47° anniversario della fine dell’occupazione da parte dell’Impero britannico. I manifestanti hanno marciato verso il palazzo del governatorato , provocando la reazione delle forze di polizia. Gli scontri hanno causato minimo 5 feriti.

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“Lahna Binatna”: promuovere la pace partendo dai social network

Barakabits. Dalle foto sui social al cambiamento concreto: questo è lo scopo di “Lahna Binatna”, una campagna multimediale che ha lo scopo di costruire un movimento non-violento in Algeria nel tentativo di sensibilizzare le persone sull’escalation di violenze che colpisce il Paese. L’iniziativa, diffusa con l’hashtag #LahnaBinatna, ha registrato già più di 25.000 sostenitori dal suo lancio lo […]

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Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Bahrein: forte maggioranza sunnita nel nuovo parlamento

(Agenzie). Una forte maggioranza sunnita, 30 deputati indipendenti, 4 islamisti e 3 donne: queste le caratteristiche del nuovo parlamento del Bahrein formatosi a seguito delle elezioni dello scorso sabato. Le elezioni sono state contrassegnate dal boicottaggio da parte dei più importanti gruppi d’opposizione, tra cui il partito Al Wafeq. Tra le motivazioni del boicottaggio vi era anche […]

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Marocco: il governo Benkirane a caccia di investimenti

Le Matin (28/11/2014). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo. Visita ufficiale a Pechino del ministro dell’Industria, del commercio, dell’investimento e dell’economia digitale Moulay Hafid Elalami, Forum per gli investimenti dei paesi del Golfo a Casablanca: il governo marocchino guidato dal primo ministro Abdelilah Benkirane spiana la strada agli investitori stranieri, contando sul meccanismo dell’arbitrato per rassicurarli.  […]

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Tunisia: poliziotto decapitato al confine con l’Algeria

(Agenzie) Un poliziotto tunisino fuori servizio è stato decapitato da militanti islamisti, dopo essere stato rapito vicino il confine con l’Algeria. Secondo quanto riportato dal portavoce del ministero degli Interni, Mohamed Ali Laroui, il poliziotto sarebbe stato rapito insieme ad altri suoi colleghi da una decina di combattenti islamisti. La decapitazione sarebbe avvenuta nel distretto di […]

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I marocchini non pagano più il conto dell’associazionismo al cous cous

Non sono mai stata femminista e ne vado fiera; le mie battaglie le ho sempre affrontate e vinte come FATIMA cittadina, mai facendo leva sul fatto di essere donna. Non ho mai speculato sul mio genere e nazionalità anche a casua dell’insofferenza verso l’associazionismo marocchino in Italia, che in nome della comunità in generale e delle aspirazioni della donna marocchina in particolare, ha permesso a molti personaggi di acquistare case, … | Continua a leggere

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Non sono mai stata femminista e ne vado fiera; le mie battaglie le ho sempre affrontate e vinte come FATIMA cittadina, mai facendo leva sul fatto di essere donna. Non ho mai speculato sul mio genere e nazionalità anche a casua dell’insofferenza verso l’associazionismo marocchino in Italia, che in nome della comunità in generale e delle aspirazioni della donna marocchina in particolare, ha permesso a molti personaggi di acquistare case, … | Continua a leggere

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Libia, Human Rights Watch: “Derna sotto il controllo dei fondamentalisti”

“Miliziani mascherati appartenenti al Consiglio della Shura per la gioventù hanno inferto 40 frustate a 8 uomini nella piazza di El Shababa. Erano colpevoli di aver bevuto alcol durante una festa di laurea”. Questa è una delle testimonianze raccolte da Human Rights Watch che in un’informativa pubblicata giovedì scorso ha denunciato gli abusi sui residenti di […]

L’articolo Libia, Human Rights Watch: “Derna sotto il controllo dei fondamentalisti” proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Turchia: Putin e Erdogan discutono su maggiore collaborazione

(Agenzie) Il presidente russo Vladimir Putin è in visita ad Ankara per incontrare la sua controparte turca, il presidente Recep Tayyip Erdogan, per discutere sul mantenimento della loro collaborazione nonostante le controversie sulle crisi in Siria e Ucraina. Si tratta della prima visita di Putin dall’elezione di Erdogan a presidente. L’incontro si incentrerà soprattutto sulla cooperazione energetica, […]

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Siria: annunciata nuova coalizione ribelle

(Agenzie) Durante una conferenza stampa tenutasi nei giorni scorsi a Gaziantep, in Turchia, è stata annunciata la creazione di un nuova coalizione di gruppi ribelli siriani, che è stata chiamata “Consiglio del Commando Rivoluzionario”. La nuova alleanza nasce fa una fusione tra alcuni membri dell’Esercito Libero Siriano e il Fronte Islamico, una formazione a maggioranza salafita. […]

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Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista Ogni mattina indossare una divisa, a…

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista

Ogni mattina indossare una divisa, assistere al’ alzabandiera, ribadire il proprio impegno in favore della patria panaraba e socialista. Mi è capitato spesso, per spiegare i motivi che hanno spinto i siriani a scendere in piazza e l’umiliazione quotidiana del cittadino ridotto suddito della dittatura, di raccontare la scuola siriana sottolineando le similitudini con i balilla e la gioventù fascista durante il ventennio o come la “saqafa qaumia” (in italiano, cultura patriottica) sia identica a quel che si insegnava nel primo e secondo libro del fascismo ed è una materia obbligatoria di tutti i curriculum di studio, dalle elementari al master post laurea in qualunque materia. Chi capisce l’arabo può ascoltare questo programma radiofonico di circa 30 minuti sulla relazione tra scuola siriana ed ideologia. La radio è Souriali.


‫المدارس السورية والأيديولوجية السياسية‬
soundcloud.com
‫برنامج أخد وعطا بحلقتنا اليوم راح نحكي عن الأدلجة السياسية والحزبية بالعملية التعليمية ضمن المدارس السورية بالمناطق الخاضعة للنظام السوري، وراح نحكي عن التجارب البديلة اللي عم تظهر بالمناطق الخارجة ع‬ Continua a leggere

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista Ogni mattina indossare una divisa, a…

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista

Ogni mattina indossare una divisa, assistere al’ alzabandiera, ribadire il proprio impegno in favore della patria panaraba e socialista. Mi è capitato spesso, per spiegare i motivi che hanno spinto i siriani a scendere in piazza e l’umiliazione quotidiana del cittadino ridotto suddito della dittatura, di raccontare la scuola siriana sottolineando le similitudini con i balilla e la gioventù fascista durante il ventennio o come la “saqafa qaumia” (in italiano, cultura patriottica) sia identica a quel che si insegnava nel primo e secondo libro del fascismo ed è una materia obbligatoria di tutti i curriculum di studio, dalle elementari al master post laurea in qualunque materia. Chi capisce l’arabo può ascoltare questo programma radiofonico di circa 30 minuti sulla relazione tra scuola siriana ed ideologia. La radio è Souriali.


‫المدارس السورية والأيديولوجية السياسية‬
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‫برنامج أخد وعطا بحلقتنا اليوم راح نحكي عن الأدلجة السياسية والحزبية بالعملية التعليمية ضمن المدارس السورية بالمناطق الخاضعة للنظام السوري، وراح نحكي عن التجارب البديلة اللي عم تظهر بالمناطق الخارجة ع‬ Continua a leggere

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

La fame come arma di guerra La politica del “piegatevi o morite di fame” si è ri…

La fame come arma di guerra
La politica del “piegatevi o morite di fame” si è rivelata tra le armi più efficaci nelle mani del regime. L’assedio di medioevale memoria con cui Assad ha costretto a tregua che sono rese di fatto vari quartieri di Damasco ed altre aree come il centro storico di Homs. Un documentario lungo un ora realizzato dalla tv americana CBS ci porta tra profughi e civili sotto assedio per raccontare la fame.


War and hunger
www.cbsnews.com
Scott Pelley reports on the men and women of the World Food Programme who are risking their lives to save Syrians from starvation Continua a leggere

Afghanistan, la vendetta di una madre

Articolo di Katia Cerratti “Erano le 5 del mattino quando il check-poimt di mio figlio ha subito l’attacco dei Talebani. Quando i combattimenti si sono intensificati, non sono riuscita a trattenermi e così ho raccolto un’arma e ho risposto al fuoco.” Così, Reza Gul, madre di un poliziotto ucciso dai talebani pochi giorni fa, ha […]

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Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]


[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]


[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]


[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano


di Claudio Bertolotti

La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2]regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero “cellule dormienti” delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell’Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell’esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 

Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]



[1]L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2]L. Trombetta, cit.
[3]Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare


di Claudio Bertolotti
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad). 
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare


di Claudio Bertolotti
Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad). 
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare


di Claudio Bertolotti
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Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.

Libano: verso le elezioni presidenziali


di Claudio Bertolotti


Un lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.

Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

Sicurezza, conflittualità e situazione umanitaria

Sul piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo ministro libanese Tammam Salam.

Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.

Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.

Libano: verso le elezioni presidenziali


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Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

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Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.

Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.

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Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.

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Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.

In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.

Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.

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Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.

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Golfo: crollano le Borse dopo la decisione OPEC

(Agenzie) Le Borse delle monarchie petrolifere del Golfo sono crollate in quella che è la prima giornata di attività dopo la decisione dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) di mantenere il suo limite di produzione nonostante la sovrabbondanza dell’offerta, facendo scendere ulteriormente i prezzi del greggio. La decisione dell’OPEC è invece stata accolta i maniera positiva dalle […]

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Twiza nel cuore della Medina di Tunisi

Foto di Francsca Oggiano

Le sue antiche pareti hanno visto le riunioni dei Sufi, i mistici dell’Islam, l’ansia del primo giorno di scuola di tanti bambini e il riposo dei viandanti. Diventata una semplice abitazione, nella primavera scorsa la zāwiya di Tunisi è stata restituita alla sua funzione sociale dalla passione artistica e culturale di un gruppo di ragazzi tunisini e italiani.

 

 

30 Novembre 2014
di: 
Giada Frana*

Mubarak e il “processo del secolo”: un passo avanti o indietro?

Di Salma El Shahed. Al-Arabiya (30/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Dopo essersi trascinato per anni, il “processo del secolo”, come lo chiamano i media egiziani, è terminato ieri con l’assoluzione dell’ex presidente Hosni Mubarak da tutte le accuse, tra cui quella di aver ordinato l’uccisione dei manifestanti durante le proteste del 2011. Per alcuni, […]

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Egitto: sale il numero delle vittime negli scontri al Cairo

(Agenzie) Sale a due il numero di persone rimaste uccise durante gli scontri tra manifestanti e polizia egiziana che sono scoppiati al Cairo in seguito alla notizia dell’assoluzione dell’ex presidente Hosni Mubarak da qualsiasi accusa. Secondo quanto riportato da ministero della Salute egiziano, altre nove persone sono rimaste ferite nelle violenze, avvenute nella piazza Abdel-Moneim Riad, non […]

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Gerusalemme: incendio a una scuola bilingue araba-ebraica

(Agenzie) Una scuola bilingue di Gerusalemme, dove vengono insegnati arabo ed ebraico, è stata oggetto di ciò che la polizia sospetta sia stato un attacco piromane dal ritrovamento di una scritta sul muro che riportava il messaggio “Non si coesistere con il cancro”. Secondo il giornale israeliano Haaretz, che ha riportato la notizia, la Max Rayne Hand in […]

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Egitto, Mubarak prosciolto. “Prevedibile sentenza soft per situazione politica”

Nessun colpevole per la morte dei manifestanti durante i 18 della rivoluzione del 2011. La sentenza di sabato che ha scagionato l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, il suo ex Ministro degli Interni e sei funzionari della sicurezza, si lega a doppio filo alla situazione politica attuale che dalla deposizione del presidente islamista Morsi ha visto […]

L’articolo Egitto, Mubarak prosciolto. “Prevedibile sentenza soft per situazione politica” proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Egitto, Mubarak prosciolto. “Prevedibile sentenza soft per situazione politica”

Nessun colpevole per la morte dei manifestanti durante i 18 della rivoluzione del 2011. La sentenza di sabato che ha scagionato l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, il suo ex Ministro degli Interni e sei funzionari della sicurezza, si lega a doppio filo alla situazione politica attuale che dalla deposizione del presidente islamista Morsi ha visto […]

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Palestina: Lega Araba presenterà bozza di risoluzione all’ONU

(Agenzie) I ministri degli Esteri dei Paesi membri della Lega Araba si sono accordati per presentare ufficialmente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una bozza di risoluzione per fissare una scadenza per la proclamazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, non è stato dichiarato quando la bozza verrà presentata. A questo fine, è stata anche creata una commissione […]

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Putin e Assad: presidenti per sempre

Di Hassan Haidar. Al-Arabiya (27/11/2014). Traduzione e sintesi di Carlo Boccaccino. Nessuno assomiglia a Bashar al-Assad più di Vladimir Putin. Entrambi ricorrono alla violenza per restare al potere, il primo all’interno del proprio Paese dopo esser stato interrotto nella sua espansione esterna, il secondo al di fuori dei propri confini per evitare problemi interni. Tutti e […]

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Video del dibattito “Il popolo kurdo contro l’Isis”

Pubblichiamo il video del dibattito tenutosi a Roma lo scorso 20 novembre, promosso da Sinistra Anticapitalista, con la partecipazione degli attivisti kurdi Ylmaz Orkan e Haskar Kirmizigul e del giornalista siriano Fouad Roueiha. Il confronto è stato aperto, vivace e interessante, coinvolgendo per oltre due ore e mezza gli oltre cinquanta partecipanti.

Video del dibattito “Il popolo kurdo contro l’Isis”

Pubblichiamo il video del dibattito tenutosi a Roma lo scorso 20 novembre, promosso da Sinistra Anticapitalista, con la partecipazione degli attivisti kurdi Ylmaz Orkan e Haskar Kirmizigul e del giornalista siriano Fouad Roueiha. Il confronto è stato aperto, vivace e interessante, coinvolgendo per oltre due ore e mezza gli oltre cinquanta partecipanti.

Turchia nega attacchi a Kobane dal suo territorio

(Agenzie) Le autorità di Ankara hanno negato che i jihadisti di Daish (conosciuto in Occidente come ISIS) abbiano attaccato Kobane dal territorio turco. La dichiarazione, rilasciata dall’ufficio del primo ministro, ha definito come una “bugia” che uno degli attacchi che hanno colpito la città siro-curda nelle ultime ore sia stato effettuato passando per la Turchia.  

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L’onere della prova e gli eroi bambini

(di Lorenzo Declich, per Nazione Indiana).  Ci sono volte in cui la semplice esposizione di cose presenti lancia messaggi molto chiari. In principio, dunque, vi racconterò cosa ho nel mio […]

L’onere della prova e gli eroi bambini

(di Lorenzo Declich, per Nazione Indiana).  Ci sono volte in cui la semplice esposizione di cose presenti lancia messaggi molto chiari. In principio, dunque, vi racconterò cosa ho nel mio […]

Passaggi d’autore: Intrecci Mediterranei

passa 110La decima edizione del Festival del Cortometraggio Mediterraneo Passaggi d’Autore: intrecci mediterranei, si svolgerà a Sant’Antioco dal 4 all’8 dicembre 2014. Saranno cinque giornate dedicate ai cortometraggi di registi provenienti dai Paesi del Mediterraneo.

Siria: Daish attacca Kobane dalla Turchia

(Agenzie) Secondo alcuni ufficiali e attivisti curdi, i combattenti di Daish (conosciuto in Occidente come ISIS) avrebbero lanciato un attacco sulla città di Kobane dalla Turchia, il primo del suo genere. Nawaf Khalil, un portavoce del Partito di unione democratica (PYD) siro-curdo, ha dichiarato che militanti di Daish in Turchia hanno attaccato il punto del confine siro-turco […]

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Questione palestinese: il nuovo cammino intrapreso dall’Europa

Articolo di Roberta Papaleo. La riconciliazione palestinese aveva già messo sull’attenti la comunità internazionale, ma l’ultimo conflitto che ha colpito la Striscia di Gaza la scorsa estate ha di certo avuto una ripercussione molto più profonda rispetto al passato, specialmente in Europa. Un primo indizio di questo maggiore impatto è stata la decisione del nuovo […]

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Yemen: incontro tra partiti rivali

(Agenzie) Il principale partito islamista sunnita dello Yemen, Islah, ha riportato di aver incontrato i ribelli sciiti Houthi in un meeting che potrebbe aiutare ad allentare le tensioni politiche del Paese e farlo uscire dallo stallo per la lotta al potere. Il partito Islah ha infatti dichiarato che una delegazione si è incontrata con Abdel-Malek al-Houthi. leader […]

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La Tunisia ospita la 25ª edizione delle Giornate Cinematografiche di Cartagine

(Agenzie) Dal 29 novembre fino al prossimo 6 dicembre, la Tunisia ospiterà la 25ª edizione delle Giornate Cinematografiche di Cartagine, un festival del film con cadenza biennale fondato nel 1966 dall’allora ministro della Cultura tunisino Chedli Klibi. Creato per instaurare un dialogo tra la riva Nord e la riva Sud del Mediterraneo e per mettere in contatto […]

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Egitto: Mubarak assolto da tutte le accuse

(Agenzie) Hosni Mubarak, ex presidente egiziano, è stato assolto dalla corte da tutte le accuse a suo carico, sia quelle per corruzione nell’affare della venditaa vendita di gas a Israele, sia quelle per omicidio per la morte di centinaia di manifestanti durante le rivolte del 2011. Assieme a Mubarak, assolti dall’accusa di complicità in omicidio anche  l’ex […]

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Papa Francesco in Turchia condanna “violenza barbarica” di Daish

(Agenzie) Durante la sua prima visita in Turchia come Pontefice, papa Francesco ha affermato che la forza militare è giustificata per fermare Daish (conosciuto in Occidente come ISIS) e ha invitato i leader musulmani a condannare la “violenza barbarica” contro i cristiani, gli yazidi e le altre minoranze religiose. Con lo scopo di consolidare i legami […]

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Cucina egiziana: ful mudammas, zuppa di fave

Con la ricetta di oggi vi proponiamo un piatto della cucina egiziana tra i più tradizionali nel Paese: il ful mudammas, la zuppa di fave! Ingredienti: 500g di fave secche 1 o 2 pomodori ½ cetriolo ½ peperone verde 1 cipolla piccola succo di limone 2 cucchiai d’olio d’oliva 1 uovo sodo spezie: cumino, origano, pepe […]

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L’incanto turchese di Samarcanda

“Samarcanda: crocevia di culture”. Fondata nel 7° secolo A.C. con il nome di Afrasiab, poi distrutta da Genghis Khan del 13° secolo, Samarcanda ha vissuto l’epoca di maggior sviluppo nel periodo dell’impero Timuride, tra il 14° e il 15° secolo, e i suoi siti monumentali sono oggi dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. La città era parte del […]

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I marocchini che partono per la Siria e l’Iraq

Di Yassine Majdi e Wadii Charrad. TelQuel (26/11/14). Traduzione di Alessandra Cimarosti. L’associazione Osservatorio del Nord dei Diritti dell’Uomo (ONERDH) ha pubblicato, il 23 novembre, un rapporto riguardante i marocchini che entrano a far parte delle fila dei jihadisti combattenti in Iraq e Siria. Intitolato “Le caratteristiche socio-demografiche dei giovani combattenti marocchini in Siria e […]

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Iraq: combattenti Daish uccisi in raid USA

(Agenzie). Decine di combattenti di Daish (conosciuto in occidente come ISIS) sono stati uccisi da raid americani a nord della città irachena di Mosul. I raid americani contro Daish in Iraq continuano. Mosul, la seconda città più importante dell’Iraq che ospita circa due milioni di iracheni, ha visto l’avanzata travolgente dei combattenti di Daish verso […]

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Cattedrale scambiata per moschea: la gaffe di un partito britannico

Al-Arabiya. Il Partito dell’Indipendenza britannico (UKIP) è stato oggetto di derisione su vari sociale network dopo aver confuso la Cattedrale di Westminster con una moschea. La gaffe dell’UKIP ha immediatamente scatenato una reazione sulla rete, specialmente su Twitter, dove gli utenti hanno creato gli hashtag #thingsthatarenotamosque e #ThingsThatAreNotMosques #thingsthatarenotamosque Disney World #UKIP pic.twitter.com/lNoJPMqU1r — joel rayner (@joe_n1nety) November […]

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Francia: soluzione conflitto Israele-Palestina in due anni

(Agenzie). Il Ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha affermato che bisogna lavorare per trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese entro due anni. Fabius è intervenuto davanti ai deputati francesi riuniti per discutere la mozione di riconoscimento di uno Stato palestinese presentata dai socialisti. Il voto della mozione sarà il 2 dicembre prossimo. Fabius è quindi a favore […]

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Palestina: italiano ferito durante gli scontri con l’esercito israeliano

(Agenzie). Un italiano di 30 anni è rimasto ferito a Nablus negli scontri con l’esercito israeliano. Il ragazzo, membro di un gruppo di solidarietà con il popolo palestinese, è ricoverato all’ospedale di Ramallah. La Farnesina ha confermato la notizia e ha dichiarato che il giovane attivista è fuori pericolo e le sue condizioni di salute sarebbero stabili. 

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Tunisia: Marzouki presenta ricorso per risultati primo turno

(Agenzie). Moncef Marzouki, presidente uscente e candidato al ballottaggio delle elezioni presidenziali, ha presentato ricorso contro le votazioni svoltesi lo scorso 23 novembre. Le votazioni per il secondo turno, che si dovevano tenere il prossimo 14 dicembre, sono quindi state spostate al 23. In caso di ulteriore ricorso la data subirà una nuova modifica.  

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Egitto: cortei, arrestati membri Fratelli Musulmani

(Agenzie). Si registra alta tensione in Egitto per il via a manifestazioni indette dal Fronte Salafita e dalla Confraternita per “l’identità islamica”. Sono stati già arrestati 107 membri della Fratellanza Musulmana e sono stati uccisi un colonnello dell’esercito e un soldato da colpi d’arma da fuoco sparati da un’auto che poi ha preso la fuga verso est […]

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Palestina: il parlamento francese discute riconoscimento, il voto il 2 dicembre

(Agenzie) Il parlamento francese ha dibattuto sulla proposta di risoluzione sul riconoscimento della Palestina come Stato, mozione non vincolante che verrà votata il prossimo 2 dicembre. Il testo, presentato ai deputati francesi da Bruno Le Roux, a capo del gruppo socialista, invita “il governo a riconoscere lo Stato di Palestina in modo da raggiungere un […]

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Diario dall’altro Iraq/6. Ricchezze

Foto di Pierluigi Giorgi

“Poco prima di arrivare a Lalish, c’è un pozzo petrolifero. Ce lo indica la fiamma, che brucia 24 ore su 24 ore e non ha nulla a che vedere con la sacralità del tempio. Ricorda che l’Iraq è un paese profondamente ricco.” Un nuovo racconto di Stefano Nanni dall’Iraq.  

 

 

 

28 Novembre 2014
di: 
Stefano Nanni – Kurdistan iracheno

Al via il viaggio apostolico del Papa in Turchia

(Agenzie). Il Papa inizia il suo viaggio in Turchia da oggi 28 novembre fino al 30. L’arrivo all’Aeroporto Esemboğa di Ankara è previsto per le 13 (ora locale – le 12 italiane) e dopo l’accoglienza e la visita al museo di Atatürk, è prevista una visita al presidente della repubblica turca, Erdogan. Questo viaggio apostolico, il sesto […]

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“Antigone of Syria”, il teatro come terapia per le donne siriane rifugiate

Di Christine Abi Azar. Raseef 22 (24/11/2014). Traduzione e sintesi di Claudia Avolio. In copertina una foto delle donne siriane durante il workshop teatrale (fonte: Aperta Productions) Sono scappate da una terra che mormora all’essere umano di uccidere il proprio fratello per acquisire il potere. Hanno assistito allo smembramento delle loro famiglie tra cimitero e […]

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Palestina: oggi la Francia vota su riconoscimento

(Agenzie) Il parlamento francese si sta preparando a votare oggi una mozione per il riconoscimento della Palestina, similmente a quanto già accaduto per Gran Bretagna, Irlanda e Spagna. La votazione, come le altre non vincolanti ma dal valore fortemente simbolico, deciderà se i legislatori francesi sono pronti a riconoscere l’Autorità Palestinese come “Stato di Palestina”. Secondo alcune […]

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I primi tempi della rivoluzione: giovani si oppongono con i loro corpi all’ingre…

I primi tempi della rivoluzione: giovani si oppongono con i loro corpi all’ingresso dei carri armati nella città costiera di Banda, il polo petrolchimico della Siria. Qualche mese dopo questa cittadina ed il sobborgo di Baida sono state teatro del più feroce massacro settario a danno della comunità sunnita permane del regime. Molte delle vittime furono bambini, la gran parte uccisi con armi bianche:sgozzato o fatti a pezzi. Ho raccolto la testimonianza di una delle prime persone della Mezza Luna Rossa giunte sul luogo, quando posso traduco e diffondo


‫بانياس الشباب بصدور عارية ضد الدبابات‬
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La nuova vita degli ebrei in Iran: “Ci sentiamo al sicuro”

Dice Mahvash Kohan che ora va meglio. Che ora, addirittura, «nessuno se ne vuole andare da qui». «Non come negli anni Ottanta, quando avevamo paura e ed eravamo sotto pressione – racconta –. Oggi non siamo più preoccupati. Ci sentiamo al sicuro e gustiamo la libertà». Kohan è una donna iraniana ed ebrea. Vive a […]

L’onere della prova e gli eroi bambini

di Lorenzo Declich

Ci sono volte in cui la semplice esposizione di cose presenti lancia messaggi molto chiari. In principio, dunque, vi racconterò cosa ho nel mio computer, nella cartella “hero boy”, dove ho messo diversi video scaricati da YouTube. Aggiungerò a questa descrizione alcuni dettagli, facilmente reperibili in rete.…

Questo è un articolo pubblicato su Nazione Indiana in: L’onere della prova e gli eroi bambini
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Angelo Ou: la memoria storica dei primi cinesi in Italia

La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

Angelo Ou: la memoria storica dei primi cinesi in Italia

La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

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La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

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La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

Angelo Ou: la memoria storica dei primi cinesi in Italia

La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

Angelo Ou: la memoria storica dei primi cinesi in Italia

La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

Angelo Ou: la memoria storica dei primi cinesi in Italia

La storia dei cinesi a Milano coincide con la storia dei cinesi in Italia, perché fu nella metropoli lombarda che un secolo fa approdarono i primi 40 immigrati, tutti maschi e tutti provenienti dallo Zhejiang, provincia a sud di Shanghai che ha per capoluogo Hangzhou, descritta da Marco Polo come «la più nobile città del mondo e la migliore». Si chiama Wu Xinghua (detto Angelo Ou), 67enne figlio del 1°flusso … | Continua a leggere

Una primavera araba in Algeria?

Di Adam al-Sabiri. Al-Akhbar (25/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Alcuni rappresentanti diplomatici dell’Unione Europea hanno intavolato colloqui con diverse organizzazioni politiche algerine, tra le quali il Comitato per  le Libertà e la Transizione Democratica affiliato all’opposizione. La cosa ha fatto infuriare le forze pro-governative, che hanno accusato l’opposizione di “tradimento”, esacerbando le tensioni tra le […]

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Gaza: Israele lancia granata alla frontiera orientale

(Agenzie) L’esercito israeliano ha riportato di aver lanciato una granata verso la parte orientale di Gaza in risposta a degli spari che avevano colpito un veicolo israeliano a controllo della frontiera. La scorsa domenica, truppe israeliane avevano ucciso un contadino palestinese vicino al confine settentrionale con Gaza, dichiarandolo come un incidente. Si tratta degli eventi più […]

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Sarkozy inciampa sulle origini di Rachida Dati

(Agenzie) Durante un incontro a Boulogne-Billancourt, l’ex presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy ha fatto un commento sul suo vecchio ministro della Giustizia, Rachida Dati, evocandone le sue origini come motivo di competenza. E ciò ha scatenato la polemica. Sarkozy ha infatti dichiarato di aver voluto “Rachida Dati come Guardasigilli perché mi ero detto che lei, […]

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Il nuovo ruolo dei curdi nello scacchiere mediorientale

k adib 110bisI violenti attacchi subiti in Iraq e l’assedio di Kobanê stanno sensibilizzando l’opinione pubblica sul più numeroso popolo senza Stato al mondo, diventato ormai un alleato chiave nella coalizione internazionale anti-jihadista. L’intervista di Babelmed al giornalista curdo iracheno Adib Fateh Alì.

Conferenza OPEC su riduzione produzione del petrolio

(Agenzie) L’OPEC, il cartello internazionale dei produttori di petrolio, si riunirà quest’oggi a Vienna in una conferenza storica: sul tavolo la riduzione della produzione. Il calo dei prezzi del petrolio, che ha raggiunto i valori più bassi degli ultimi quattro anni, preoccupa la finanza globale e aveva fatto ipotizzare una drastica riduzione della produzione del greggio fissata […]

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Islam: a Genova si parla di west Africa

Se dico “Africa” è facile che la prima immagine che vi salti in mente sia quella del bambino denutrito col pancione, oppure quella della donna africana con lo sguardo incantato e il petto nudo che porta tonnellate di roba sulla testa (se siete leghisti magari penserete subito al vu’ cumprà coi Rolex)… ma se ora dico “Islam”, vi verrà quasi naturale pensare ai tagliagole keniani, a Boko Haram, e a … | Continua a leggere

Islam: a Genova si parla di west Africa

Se dico “Africa” è facile che la prima immagine che vi salti in mente sia quella del bambino denutrito col pancione, oppure quella della donna africana con lo sguardo incantato e il petto nudo che porta tonnellate di roba sulla testa (se siete leghisti magari penserete subito al vu’ cumprà coi Rolex)… ma se ora dico “Islam”, vi verrà quasi naturale pensare ai tagliagole keniani, a Boko Haram, e a … | Continua a leggere

Islam: a Genova si parla di west Africa

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Islam: a Genova si parla di west Africa

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Le diverse tattiche e strategie della guerriglia afgana (aggiornato)

Questa mattina un terrorista suicida ha preso di mira a Kabul l’ambasciata britannica colpendo un convoglio nella zone Est della città sulla Jalalabad Road  (l’ambasciata si trova  invece nel lungo vialone che collega Shar-e-Naw a Wazir Akhbar Khan). Le vittime sono già almeno sei e tantissimi i feriti. Praticamente tutti civili anche se non è ancora chiaro chi c’era nell’auto presa di mira dal kamikaze davanti alla legazione del Regno unito e che apparteneva appunto all’ambasciata (a quanto pare un funzionario della stazione diplomatica). Per ora non c’è rivendicazione  ma probabilmente arriverà (la rivendicazione è arrivata in effetti qualche ora dopo): per quanto odioso, l’attentato rientra nella tattica dei talebani dal momento che l’auto di un’ambasciata cui fanno capo gli invasori è un obiettivo militare. Infine, come nel pomeriggio si è capito, faceva parte di un piano preordinato che nella tarda giornata ha colpito il centralissimo quartiere di Wazier Akbar Khan, non molto lontano proprio dal luogo in cui si trova l’ambasciata del Regno unito (è stata colpita la International Relief & Development, una Ong americana che per l’80% utilizza fondi Usaid. Anche questo elemento è in parte una novità ma va considerato che l’Ird è uno dei principali colossi umanitari americani che gestisce un budget – in una quarantina di Paesi tra i quali l’Afghanistan fa la parte del leone – di circa 500 milioni di dollari l’anno. Solo nel settore delle costruzioni stradali ha gestito un progetto triennale nel Sud del Paese dell’Hindukush del valore di 400 milioni di dollari).


Ma di fatti assai più odiosi ne sono accaduti parecchi: il più terribile è di qualche giorno fa – il 24 novembre – quando nella provincia di Paktika, nel distretto di  Yahya Khel, un suicida si è fatto esplodere tra la folla che assisteva a una partita di pallavolo: quello che certo non si può ritenere un attentato contro un obiettivo militare, si è trasformato in una strage con almeno 45 vittime e almeno una sessantina di feriti. Tutti civili. E’ stato attribuito alla Rete Haqqani, nota per le attività stragista che non fanno caso ai civili (anzi sembrano prenderli di mira) pur se al momento al Rete non ha rivendicato (ma raramente lo fa e anzi forse questo rientra nella sua strategia di portare tensione, terrore e confusione di ruoli).

Chi certo non lo ha fatto (pur senza però prendere le distanze dalla strage) sono i talebani di mullah Omar, il cui portavoce telematico è il sito dell’Emirato islamico d’Afghanistan che, in compenso, riporta dal 10 settembre la nascita di un “Dipartimento per la prevenzione sulle vittime civili“, evidente legame con il codice di condotta pubblicato sempre dai talebani col quale la guerriglia in turbante ha cercato di rimarcare la differenza tra le azioni contro il nemico e gli effetti sulla popolazione civile. Forse non è un caso che il link all’articolo di settembre sia in questi giorni in bella vista sul sito che risponde ai dettami della shura di Quetta, ossia a una parte – la più rilevante politicamente e forse la più numerosa ma non per forza la sola attiva – diretta dal capo dei credenti con un occhio leso.

Quel che forse si può mettere in rilevo è che la provincia di Paktika è al confine col Nord Waziristan, regione tribale pachistana dove è in atto una guerra a tutti gli effetti che ha già prodotto vittime, feriti e un numero enorme di sfollati, molti dei quali transfughi in Afghanistan. Un conflitto e i suoi effetti sempre nefasti quale che ne sia obiettivo (nel caso la guerra ai talebani pachistani e agli stranieri da loro alloggiati nelle aree tribali del Pakistan) ne produce altri, o meglio favorisce le azioni peggiori specie da parte di gruppi che hanno una matrice ideologica iperradicale e una tattica di attentati kamikaze senza distinzione (è il caso degli Haqqani).

Argomento poco consolante ma che serve comunque a farci esercitare dubbi e  distinguo e soprattutto e non considerare i talebani un copro unico, omogeneo e fedele a un solo pensiero e a un solo capo. Questo è anzi il vero problema di mullah Omar che non sembra aver alcun controllo sulla Rete Haqqani.

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Tunisia: secondo incontro degli scrittori euro-maghrebini

(Agenzie) Numerosi autori europei e maghrebini, provenienti da Tunisia, Marocco, Romania, Algeria, Slovenia, Portogallo, Mauritania, Austria, Belgio, Spagna, Libia e Malta, parteciperanno alla seconda edizione dell’incontro degli scrittori euro-maghrebini, che si terrà tra Tunisi e Kairouan nei giorni dal 27 al 29 novembre. Organizzata dalla Delegazione dell’Unione Europea a Tunisi in collaborazione con PEN International, un’organizzazione internazionale […]

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I cristiani di Siria, tra il regime e gli islamisti

tazzina 30x22traspachris 110I cristiani non si possono classificare sotto la stessa etichetta politica. Oltre alle perdite umane, hanno patito la distruzione di chiese e conventi: a Malloula, Homs e Aleppo. Molti i rapimenti, come quello di Padre dall’Oglio, ostile al regime, scomparso il 29 luglio 2014 e di cui non si sa più nulla. In un paese distrutto, quale sarà il loro futuro?

Gli arabi israeliani pubblicano le loro foto da “cittadini di seconda classe”

(Agenzie) Centinaia di arabi israeliani hanno pubblicato sui loro profili Facebook delle foto con un timbro con la dicitura “cittadino di seconda classe” in ebraico per protestare contro la possibile istituzionalizzazione della discriminazione contro le minoranze che la legge sullo Stato nazionale promossa da Israele potrebbe provocare. Sana Jamalia, una graphic designer di Haifa, ha lanciato […]

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Il governo israeliano approva la legge sullo Stato ebraico

Di Ziad Halabi. Al-Arabiya (23/11/2014). Traduzione e sintesi di Domenica Zavaglia. Il governo israeliano ha votato a favore del contestato disegno di legge che prevede il rafforzamento della natura ebraica dello Stato d’Israele in merito al suo “carattere democratico”. In base a tale legge, la definizione di Israele nelle Leggi Fondamentali, che sostituiscono la Costituzione, sarà […]

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Egitto: 78 minori incarcerati per partecipazione a manifestazioni pro-Morsi

(Agenzie). Il tribunale dei minori di Alessandria ha emesso un ordine di carcerazione da 2 a 5 anni contro 78 minorenni, con l’accusa di far parte della Fratellanza Musulmana e di aver partecipato a manifestazioni in favore dell’ex presidente Mohammed Morsi. I ragazzi, di età compresa tra i 13 e i 17 anni, sono accusati […]

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Iraq: peshmerga riprendono controllo regione sud di Kirkuk

(Agenzie). Le forze peshmerga (esercito del curdistan iracheno)  hanno ripreso il controllo di zone strategiche a sud di Kirkuk, in mano delle forze jihadiste di Daish (conosciuto in Occidente come ISIS). I militanti di Daish avevano lanciato un’offensiva su tre fronti contro le forze curde disposte nella zona,. La regione è molto importante dal punto di vista […]

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Afghanistan: 5 morti e 30 feriti in attacco suicida a Kabul

(Agenzie). Attentatore suicida ha colpito una vettura dell’ambasciata britannica di Kabul provocando la morte di 4 persone e il ferimento di 30 civili. Il veicolo, che dalle prime ricostruzioni sarebbe stato l’obiettivo dell’attentato, è stato colpito da una moto. A bordo del veicolo non vi erano funzionari stranieri. Secondo l’agenzia di stampa Afghana Khaama Press, i talebani […]

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Marzouki-Essebsi: una campagna elettorale infuocata

Di Kaouther Larbi. Al Huffington Post Maghreb (25/11/2014). Traduzione e sintesi di Chiara Cartia. Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia vedranno l’ottuagenario Beji Caid Essebsi, a capo del partito anti-islamista Nidaa Tounes, confrontarsi con il presidente uscente Moncef Marzouki, arrivati entrambi lontano davanti agli altri candidati nei risultati del primo turno. La campagna per il secondo […]

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Turchia: Erdogan risponde alle critiche sulla parità uomo-donna

(Agenzie) In seguito alle numerose e dure critiche contro di lui dopo le dichiarazioni di pochi giorni fa, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è difeso contro le “calunnie” dicendo che nel corso della sua carriera ha sempre difeso i movimenti per i diritti delle donne. Il presidente turco ha accusato i media per aver […]

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Palestina-UE: Mogherini conferma necessità di uno Stato

(Agenzie) In apertura al dibattito sul riconoscimento della Palestina come uno Stato discusso oggi nella sessione plenaria del Parlamento Europeo, Federica Mogherini, Alto Rappresentante UE per la Politica Estera, ha ribadito che per assicurare la pace in Medio Oriente c’è bisogno dell’esistenza di uno Stato palestinese. La Mogherini ha però anche sottolineato che il processo […]

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OLP condanna legge israeliana sullo Stato nazionale

(Agenzie) Il Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha duramente condannato l’approvazione da parte del governo israeliano del nuovo disegno di legge che sancisce che Israele come patria del solo popolo ebraico. Il comitato ha criticato la decisione commentando che essa mira ad eliminare la soluzione a due Stati e che “il disegno di […]

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Instagram e i “Rich kids” dal mondo arabo

In questa sfilata del lusso sembra proprio aver vinto l’occidente. L’occidente delle borse e degli occhiali da sole firmati, delle auto di lusso, degli orologi da migliaia di dollari. L’occidente dell’esibizionismo. Ispirati ai Rich kids of Instagram, a metter in mostra per primi i cliché della ricchezza giovanile sono stati i Rich Kids of Tehran […]

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Siria: ONU vuole inviare più aiuti

(Agenzie). Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di garantire lo stanziamento di aiuti per un altro anno in Siria. Valerie Amos, l’alto funzionario per gli aiuti umanitari dell’ONU ha chiesto al Consiglio di rinnovare l’autorizzazione che scadrebbe a gennaio prossimo, per l’invio di aiuti alla Siria per un altro anno, vista la […]

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La rabbia del Movimento Sudista in Yemen continua

Di Khalid Al-Karimi. Yemen Times (25/11/2014). Traduzione e sintesi di Cristina Gulfi Il 7 novembre scorso, in Yemen è stato formato un nuovo governo – un governo tecnico, basato sulle competenze e non sull’appartenenza politica. Tuttavia, la presa di Sana’a da parte degli Houthi ha intensificato le rivendicazioni separatiste da parte del Movimento Sudista. Le […]

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Canti d’amore del Mediterraneo

kudsi 110Kudsi Erguner & Esemble – Se il cielo fosse innamorato se il mare non conoscesse l’amore. Sabato 29 novembre 2014 dalle 21:00 alle 23:00 – Teatro Acacia, Napoli.

Yemen: fatto esplodere principale oleodotto del Paese

(Agenzie) Secondo fonti interne, alcuni esponenti di tribù yemeniti hanno fatto esplodere il principale oleodotto per le esportazioni del Paese, bloccandone i flussi. Le fonti hanno riportato che l’oleodotto, che si estende per una lunghezza di 435 km dai giacimenti ad Est di Sana’a fino a un terminal nei pressi del porto di Hudayda, era già stato bersaglio […]

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Egitto: riaprirà il valico di Rafah per due giorni

(Agenzie). L’Egitto ha annunciato che riaprirà il valico di Rafah, dopo che era stato chiuso per circa un mese in seguito ad un attacco mortale avvenuto nel Sinai. Rafah, unico punto di collegamento per il palestinesi col resto del mondo che non sia controllato da Israele, riaprirà dalle 16 alle 19 mercoledì e dalle 7 […]

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Israele: disegno legge per rimuovere guardie palestinesi da al-Aqsa

(Agenzie). Ufficiali della sicurezza israeliana stanno spingendo per proporre un disegno di legge che rimuova le guardie palestinesi dalla moschea di al-Aqsa. Secondo il giornale israeliano Haaretz, il ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Yitzhak Aharonovitch, ha già discusso di questa proposta di legge con il procuratore generale Yehuda Weinstein.  

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Siria: sale il numero delle vittime a Raqqa

(Agenzie) Sono almeno 130 le persone rimaste uccise e 50 i feriti in seguito agli attacchi aerei sulla provincia siriana di Raqqa, al momento sotto il controllo dei militanti Daish (conosciuto in Occidente come ISIS). Tra le vittime, oltre 100 erano civili. La Commissione Generale della Rivoluzione Siriana ha riportato che nella sola città di Raqqa, […]

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Libano: muore a 87 la cantante e attrice Sabah

(Agenzie) La cantante e attrice libanese Jeanette Feghali, nota come Sabah, è morta oggi all’età di 87 anni. Sabah è stata la prima cantante araba a esibirsi all’Olympia di Parigi, alla Carnegie Hall di New York, al Picadilly Theatre di Londra e alla Sidney Opera House in Australia. Conosciuta in Libano come “Sabbouha”, l’artista ha iniziato […]

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Marocco: al via la 2ª edizione del Forum Mondiale dei Diritti Umani

(Agenzie) A partire dal 27 fino al 30 novembre, il Marocco ospiterà la seconda edizione del Forum Mondiale dei Diritti Umani nella città di Marrakech. Nel dicembre 2013, fu il Brasile ad ospitare la prima edizione di questo evento, radunando 5.000 partecipanti di 30 diversi Paesi. Il Forum di Marrakech sarà caratterizzato dai due momenti chiave, […]

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Palestina: Parlamento Europeo discute riconoscimento, rimandato voto risoluzione

(Agenzie) Il Parlamento di Strasburgo discuterà oggi in sessione plenaria la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina, dopo aver annunciato il rinvio del voto di una risoluzione sul riconoscimento, previsto per domani, fino al 18 dicembre prossimo. Secondo alcuni diplomatici israeliani, il voto della risoluzione sarebbe stato rimandato per tre ragioni principali: le difficoltà emerse tra i vari […]

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9 raid aerei del regime su Al Raqqa, nord est della Siria: numerosi morti tra…

9 raid aerei del regime su Al Raqqa, nord est della Siria: numerosi morti tra i civili. (purtroppo, la capitale della parte siriana di IS)
Secondo alcune stime (ad esempio quelle di chi ha pubblicato questo video) i morti sarebbero 90, 115 secondo الرقة تذبح بصمت Raqqa is Being Slaughtered Silently: Syrian regime fighter jets intensified their bombing raids on the city of Raqqa today (November 25) at 14:09, carrying out 9 airstrikes that pounded residential areas in the city center, the first of which targeted “The Yellow Warehouse”, north of Raqqa, the 2nd and 3rd struck “the Industrial Zone – al-Sawajeen Alley”, north east of Raqqa, the 4th and 5th pounded al-Henni Mosque in the city center, destroying its minaret, the 6th struck “al-Mashlab – House of Mohammed al-Othman”, near the Music Institute, while the 7th targeted the Museum Square, which is a local market in the city center, the 8th struck The Post Office – near the bus station, following which all of the passengers on the buses were evacuated, and the 9th raid pounded an area in the vicinity of al-Fourousiyah district.
The air rais killed 115 civilians and wounded over 100 others, the biggest death toll of an air raid in Syria to date, in addition to destroying 25 houses and over 40 shops, along with the minaret of al-Henni Mosque, which collapsed in the aftermath of the attack.
Hospitals in the city are struggling due to the shortages in medical instruments and supplies as overstretched medical crews attempt to treat the injured

La traduzione della didascalia del video:

Un video mostra la distruzione e la strage di civili compiuta dall’ aeronautica criminale di Assad. Almeno 87 vittime e 100 feriti, tutti civili innocenti!

Zaid Al-fares: #الرقة || #فيديو

فيديو يوضح الدمار الهائل والمجازر بحق المدنيين من طيران الاسد المجرم
أكثر من 87 شهيد و أكثر من 100 جريح .. وكلهم من المدنيين العزل .!!
تكالب علينا العالم أجمع … حسبي الله ونعم الوكيل على كل ظالم


‫#الرقة || #فيديو فيديو يوضح الدمار الهائل والمجازر بحق المدنيين من طيران الاسد المجرم أكثر من 87 شهيد و أكثر من 100 جريح .. وكلهم من المدنيين العزل .!! تكالب علينا العالم أجمع … حسبي الله ونعم الوكيل على كل ظالم‬ Continua a leggere

Italiana..ma da quando?

Sara, store la nuova redattrice di yallaitalia, generic si presenta così. “Signorina, ma si bastard…voglio dire mischiata?…ehm…cioè….meticcia? No, perché comunque complimenti, eh…. È davvero bella!” C’è un antico detto cinese per cui: “se le parole pronunciate non sono migliori del silenzio, conviene star muti”. Peccato che io sono una di quelle persone che non riesce a star zitta neppure quando ha torto. Figuriamoci se ha ragione. O perlomeno era quello … | Continua a leggere

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#Raqqa, #Siria – 25 novembre 2014 – Circa 90 persone sono rimaste uccise e deci…

#Raqqa, #Siria – 25 novembre 2014 –
Circa 90 persone sono rimaste uccise e decine ferite nel corso di un pesante attacco lanciato martedì pomeriggio dalle forze del regime siriano su diverse zone nella città di Raqqa, colpita da almeno nove attacchi …


Chronik-Fotos
#Raqqa, #Siria – 25 novembre 2014 –
Circa 90 persone sono rimaste uccise e decine ferite nel corso di un pesante attacco lanciato martedì pomeriggio dalle forze del regime siriano su diverse zone nella città di Raqqa, colpita da almeno nove attacchi aerei; secondo gli attivisti tra le vittime anche donne e bambini.

Immagini dalle zone colpite dai bombardamenti aerei delle forze del regime sulla città di Raqqa
http://youtu.be/tAVGDMM14nA
https://youtu.be/78uSb9dlWUU (Immagini forti)

[Foto] Il minareto di una moschea distrutto dai bombardamenti aerei
http://on.fb.me/1thjqwh
http://on.fb.me/11W1QXs
[Foto] Auto bruciate in seguito ai bombardamenti aerei del regime
http://on.fb.me/1AQ4VY8
[Foto] Distruzione in via Al Quwatli oggi
http://on.fb.me/11tp2MO
[Foto] Corpi di alcune vittime
http://on.fb.me/1xSmjsZ (Immagine forte)
[Foto] Ricerca di famigliari tra le vittime dei bombardamenti
http://on.fb.me/1rq3xDl
http://on.fb.me/1vdNcoU Continua a leggere

#Raqqa, #Siria – 25 novembre 2014 – Circa 90 persone sono rimaste uccise e deci…

#Raqqa, #Siria – 25 novembre 2014 –
Circa 90 persone sono rimaste uccise e decine ferite nel corso di un pesante attacco lanciato martedì pomeriggio dalle forze del regime siriano su diverse zone nella città di Raqqa, colpita da almeno nove attacchi aerei; secondo gli attivisti tra le vittime anche donne e bambini.

Immagini dalle zone colpite dai bombardamenti aerei delle forze del regime sulla città di Raqqa
http://youtu.be/tAVGDMM14nA
https://youtu.be/78uSb9dlWUU (Immagini forti)

[Foto] Il minareto di una moschea distrutto dai bombardamenti aerei
http://on.fb.me/1thjqwh
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[Foto] Auto bruciate in seguito ai bombardamenti aerei del regime
http://on.fb.me/1AQ4VY8
[Foto] Distruzione in via Al Quwatli oggi
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[Foto] Corpi di alcune vittime
http://on.fb.me/1xSmjsZ (Immagine forte)
[Foto] Ricerca di famigliari tra le vittime dei bombardamenti
http://on.fb.me/1rq3xDl
http://on.fb.me/1vdNcoU

Vedi alla voce: Barriera

Può essere rassicurante, una barriera. Tanto rassicurante da non apparire – a prima vista – nulla di più di un muro che delimita un parcheggio. Tanto neutrale – all’apparenza – da risultare persino invisibile. La Barriera. Era il 1989, d’estate. Non era ancora arrivato novembre. Al Martin-Gropius-Bau, uno dei centri della vivacissima e reclusa cultura […]

Vedi alla voce: Barriera

Può essere rassicurante, una barriera. Tanto rassicurante da non apparire – a prima vista – nulla di più di un muro che delimita un parcheggio. Tanto neutrale – all’apparenza – da risultare persino invisibile. La Barriera. Era il 1989, d’estate. Non era ancora arrivato novembre. Al Martin-Gropius-Bau, uno dei centri della vivacissima e reclusa cultura […]

Vedi alla voce: Barriera

Può essere rassicurante, una barriera. Tanto rassicurante da non apparire – a prima vista – nulla di più di un muro che delimita un parcheggio. Tanto neutrale – all’apparenza – da risultare persino invisibile. La Barriera. Era il 1989, d’estate. Non era ancora arrivato novembre. Al Martin-Gropius-Bau, uno dei centri della vivacissima e reclusa cultura […]

Elezioni parlamentari in Bahrein: sfatato il “mito della maggioranza”

Di Salman Aldossary. Asharq al-Awsat (24/00/2014). Traduzione e sintesi di Francesca De Sanctis. In occasione delle elezioni parlamentari in Bahrein, più del 51% degli iscritti alle liste elettorali si è recato alle urne nonostante la campagna di boicottaggio promossa dalla Società Nazionale Islamica Al-Wifaq, principale esponente dell’opposizione sciita nel Paese. Nonostante gli appelli intimidatori delle fatāwā religiose, […]

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Non è in questo modo che si sconfiggeranno Isis & C.

mcc43 Ci sono molte ragioni che spiegano l’emergere e il dilagare dell’Isis, tutte chiaramente esposte nell’articolo Il Jihadismo: il frutto di una lunga manipolazione socio-culturale e di una propaganda dell’odio. Migliaia di giovani hanno dato un calcio al nostro eldorado e sono andati a mettere in gioco la loro vita nelle file dell’Isis. Inconcepibile per noi, disposti […]

Rojava: le case delle donne

Quest’articolo apparentemente breve raccoglie un mondo grandissimo, che ho in parte sfiorato. Sono righe che fanno percepire all’istante l’empatia, la familiarità, la vicinanza umana e politica che si sente pulsare dentro nei confronti di queste donne, le combattenti kurde di Kobane, così come le tante e tante altre, siriane, che da anni resistono ad una […]

Rojava: le case delle donne

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L’Italia e i palestinesi: cosa è andato storto?

Per decenni l’Italia è stata considerata il paese europeo più solidale con il popolo palestinese e la sua causa. Poi le cose sono cambiate. Nell’ultimo decennio media e dibattiti pubblici hanno de-politicizzato o demonizzato la catastrofe palestinese. Nell’immaginario comune Israele è diventato “noi” e i palestinesi “gli altri”. Cosa è andato storto? L’analisi di Mjriam Abu Samra. 

 

 

25 Novembre 2014
di: 
di Mjriam Abu Samra per Jadaliyya*

Iran: UE estende sollevamento sanzioni

(Agenzie) In seguito alla decisione del gruppo 5+1 si prolungare i negoziati sul nucleare iraniano fino alla fine del prossimo giugno 2015, il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso di estendere il periodo di sollevamento delle sanzioni contro l’Iran Tale sospensione contempla, tra le altre, misure riguardanti la vendita di petrolio  e quelle relative all’importazione, l’acquisto o […]

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In Turchia, abbiamo un problema serio con la “natura”

Di Kanat Atkaya. Hurriyet Daily News (25/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Intervenendo al vertice dal titolo “Donne e Giustizia”, ospitato dall’Associazione Donne e Democrazia (KADEM), il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato: “Non si possono mettere le donne e gli uomini nella stessa posizione: è contro natura”. Precisamente, il presidente ha usato […]

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“Urban Chic”, la collezione autunno-inverno di Amina K.

La donna moderna di Amina K ha un guardaroba versatile e di stile. Essendo lei stessa una di queste donne, Amina Khalil, la designer dietro al brand Amina K., ha nominato la sua nuova collezione Autunno/Inverno 2014 “Urban Chic”, ispirata allo stile della donna contemporanea egiziana, la donna che si incrocia nelle strade del Cairo. […]

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Presidenziali Tunisia risultati ufficiali: Essebsi e Marzouki al ballottaggio

(Agenzie). Sono usciti i risultati ufficiali delle elezioni presidenziali in Tunisia: l’ex Primo ministro Beji Caid Essebsi, rappresentante del partito Nidaa Tounes e il presidente uscente Moncef Marzouki vanno al ballottaggio. Il primo con il 39,46% dei voti mentre il secondo con il 33,43%. Ci sarà dunque un secondo turno il 28 dicembre prossimo per decidere chi […]

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Il Libano e il vuoto presidenziale

Di Salim Nissar. Al-Hayat (22/11/2014). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio. L’assenza del capo dello stato in Libano ormai da sei mesi ha portato ad una paralisi amministrativa che ha colpito tutte le istituzioni del Paese. Di recente, il capo del governo, Tammam Salam, ha anche negato la celebrazione della Festa dell’Indipendenza, in attesa dell’elezione di […]

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Yemen: presunto drone americano colpisce Yemen orientale

Al-Jazeera. Secondo quanto riportato da un inviato di Al-Jazeera, un presunto drone americano avrebbe effettuato un raid aereo colpendo la provincia di Shabwa, nello Yemen orientale.
Per il momento non sono state riportate notizie su eventuali vittime …

Verso la 7ª edizione del Cairo International Women’s Film Festival

Barakabits. Il prossimo 29 novembre aprirà la 7ª edizione del Cairo International Women’s Film Festival che presenterà una vasta selezione di opere di produttrici cinematografiche di tutto il mondo. Il Festival sarà caratterizzato da 60 produzioni di 40 diversi Paesi, che saranno proiettate, in arabo e in inglese, in tre diverse location: il teatro Falaki, presso […]

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Tunisia: presidenziali, risultati quasi definitivi

(Agenzie). Risultati quasi definitivi per le elezioni presidenziali svoltesi in Tunisia la scorsa domenica, 23 novembre 2014. Stando ad una dichiarazione fatta in esclusiva dall’agenzia Anadolu, l’ex Primo ministro Beji Caid Essebsi, 87 anni, rappresentante del partito Nidaa Tounes ha ottenuto il 39,5% dei voti contro il 33,4% del presidente uscente Moncef Marzouki. Queste le percentuali ottenute dagli […]

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Conferenza di Masoumeh Ebtekar al SIOI di Roma

(Agenzie) La vice presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Masoumeh Ebtekar, presenterà domani 26 novembre una conferenza dal titolo “Lo spirito del dialogo e il nostro viaggio verso la perfezione”. La conferenza si terrà presso la sede della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI), a Roma, e verrà introdotta dal suo vice presidente Riccardo Sessa.  

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Rifugiati siriani in sciopero della fame davanti al parlamento greco

(Agenzie) Sono circa 150 i rifugiati siriano che hanno iniziato uno sciopero della fame di fronte alla sede del parlamento greco per fare pressione sul governo di Atene affinché garantisca loro i diritti di residenza e un lavoro temporaneo. Lo sciopero è iniziato in seguito alle proteste della scorsa settimana in piazza Syntagma, la più importante […]

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Summit tra imam e rabbini a New York

(Agenzie). Date le alte tensioni tra ebrei e musulmani, un gruppo di 60 rabbini ed imam si sono incontrati a New York per cercare di colmare il divario tra le due comunità di fedeli. I leader spirituali delle due religioni si sono incontrati per il “2014 Summit of Washington Area Imams and Rabbis” e hanno condiviso un pranzo […]

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Libia: nuovo raid aereo sull’aeroporto di Tripoli

(Agenzie) Secondo quanto riportato da alcuni testimoni, un nuovo raid aereo è stato effettuato sull’aeroporto di Mitiga, l’unica struttura aeroportuale di Tripoli, poche ore dopo un attacco rivendicato dalle forze dell’ex generale Khalifa Haftar. Secondo le fonti, il primo attacco non avrebbe provocato danni né al terminal né alle piste d’atterraggio. I voli sono stati […]

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Egitto: sgomberato distretto di Rafah

(Agenzie). Il distretto di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, è stato sgomberato dalle forze di sicurezza egiziane per creare una zona cuscinetto di circa 14 km, al fine di impedire l’ingresso in territorio egiziano di terroristi e agenti delle intelligence straniere. Le case rase al suolo sono 680 oltre alle altre 122 […]

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Donne in Yemen: quali speranze?

Di Bushra Nasr. Your Middle East (24/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. In Yemen, le donne subiscono il peso di gravi problemi e difficoltà che hanno profonde radici culturali. Affrontano sfide quali l’analfabetismo, l’accesso limitato all’istruzione e alla sanità, i matrimoni prematuri. Questo oltre alla marginalizzazione sociale e all’assenza dalla scena politica del Paese sui vari […]

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Il Jihad e le cantonate americane

mcc43 Google+ – I “non pericolosi” Abu Bakr al-Baghdadi e . Abdul Rahim M.Dost – AlQaeda e Isis: i falsi nemici – Wesley Clark sull’incompetenza del Pentagono   La guerra al terrorismo jihadista come viene condotta dagli Stati Uniti riserva momenti di sconcerto, volendo credere che si tratti di abbagli e non d’ incomprensibili tattiche segrete, […]

Ricordo di un amico: il commercialista che tenne a battesimo Lettera22

Si sono svolti stamane a Roma i funerali di Giovanni Cuono da Montecorice, dov’era nato il 7 maggio del 1949. Era il commercialista di Lettera22, negli anni diventato una delle colonne (nascoste) della nostra agenzia. Che fosse abile a far di conto lo dice una lunga attività professionale, che fosse anche un amico – curioso come noi delle cose del mondo – non era scontato. Abbiamo avuto in tanti anni rapporti tra i più diversi con chi costituisce la macchina giuridico amministrativa di un’agenzia giornalistica. Ma Giovanni Cuono aveva una marcia in più: aveva un animo capace di applicare a una materia forzatamente asciutta e assai poco sexy – come la matematica applicata al fisco – il tratto che ce lo rese prima simpatico, poi ineludibile consigliere, infine amico. Tanto che – lo vogliamo ricordare – in un momento di passata difficoltà, quando il Fisco ci aveva riempito di cartelle di Equitalia, Giovanni ci disse che al nostro rosso in banca avrebbe fatto fronte con un’iniezione di denaro di tasca sua. Non ce ne fu bisogno ma le sue parcelle rimasero a lungo inevase e lui chiudeva un occhio: «lascia fottere», sembrava volesse dire con quell’aria sorniona che accompagnava la laconica comicità delle sue battute «la vita è altro che un paio di cartelle esattoriali». Cartelle che però esigevano una puntuale corsa all’ufficio delle imposte a contrattare dilazioni ed esibire carte…..

Segue su Lettera22

Palestina: rinviata presentazione bozza risoluzione

(Agenzie) Riyad al-Maliki, ministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese, ha annunciato che la presentazione della bozza di risoluzione sullo Stato di Palestina al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che era prevista per la fine di novembre, verrà posticipata, benché non sia stato definito alcun termine temporale. Secondo le fonti, Maliki ha spiegato che l’OLP ha deciso per il […]

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Arabia Saudita: ristoratori criticati per “divieto di accesso alle donne single”

(Agenzie) La Società Nazionale per i Diritti Umani (NSHR) ha chiesto a diversi ristoranti sauditi di togliere i cartelli di divieto d’accesso per le donne non accompagnate da una figura maschile. In una dichiarazione, la NSHR ha descritto tali cartelli come illegali, affermando che dovrebbero essere immediatamente rimossi in quanto affissi su richiesta dei proprietari dei […]

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Turchia: per Erdogan non ci può essere la parità dei sessi

(Agenzie). Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, durante un summit su donne e giustizia a Istanbul, ha affermato che “le donne non possono essere naturalmente uguali agli uomini”. E ancora: “uomini e donne non possono essere trattate allo stesso modo perché è contro la natura umana”. Secondo Erdogan non si può chiedere alle donne di svolgere […]

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Se la jam session si fa ad Amman

Galleria d’arte e tea bar, Fann wa Chai è la location trendy ideale per sessioni acustiche live. Basel Khoury, giovane artista giordano che si ispira alle grandi voci classiche della musica araba, come Umm Khaltoum, Fairouz e Waadi el-Safi. gioca in casa e incontra la cantautrice algerina Souad Massi per dare spazio all’improvvisazione. In questo […]

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Nucleare iraniano: colloqui estesi fino a inizio luglio 2015

(Agenzie) L’agenzia di stampa iraniana e il ministero degli Esteri britannico hanno confermato che i colloqui sul nucleare iraniano con le potenze occidentali verranno estesi fino all’inizio del prossimo luglio 2015. Il gruppo dei 5+1 e l’Iran dovevano decidere oggi 24 novembre il destino del programma nucleare iraniano e delle sanzioni sulla Repubblica Islamica, termine stabilito lo […]

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Ballerini di swing palestinesi e israeliani sfidano lo status quo

Al-Arabiya. Anche se a pochi chilometri di distanza, ma separati da un muro e tanti posti di blocco, una troupe di ballerini di swing palestinesi e israeliani hanno deciso di incontrarsi in Irlanda e sfidare lo status quo. Dopo aver tentato diversi incontri nei Territori Occupati e in Israele, i ballerini si sono incontrati in […]

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Se è una femmina si chiamerà Anna

Neither panic nor gossip: non sono incinta! Non sono incinta no, generic ma mai come questa volta rinnovare la carta d’identità ha dato il via ad un travaglio, che persino le più affollate sale parto del mondo se lo sognano! Catastrofismi da #oddiostomalissimoinquestafototessera? Siete fuori strada. Problemi di tempistica nella riconsegna del documento? Ancora acqua. Smarrimento o furto di qualcosa? Ora cominciamo a ragionare Dopo mesi passati a contemplare la … | Continua a leggere

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Cristiani d’Algeria, una differenza discriminata

tazzina 30x30abstractchri 110Caccia alle streghe contro i convertiti. L’ascesa dell’islamismo ha spinto gli ultimi cristiani ad abbandonare il loro culto o a esiliarsi in Europa. Nel 2006 una legge sulla gestione dei luoghi di culto è stata adottata per penalizzare il proselitismo non musulmano.

Perché El Sisi non sarà ospite del vertice di Doha?

Di Tariq al-Homayed. Asharq al-Awsat (22/11/2014). Traduzione e sintesi di Mariacarmela Minniti. Il vertice consultivo dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) tenutosi in Arabia Saudita ha messo la parola fine alla complicata pagina del conflitto fra i Paesi del Golfo, con il conseguente ritorno degli ambasciatori di Arabia Saudita, Emirati e Bahrein […]

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Siria: avanzata curda su Kobane

(Agenzie). I combattenti curdi continuano a guadagnare punti e terreno contro Daish (conosciuto in occidente come ISIS) per quanto riguarda la città curda di Kobane, a nord della Siria. Gli attivisti segnalano che le forze curde stanno avanzando a nordest della città strategica e che almeno 18 combattenti di Daish sono stati uccisi.

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Bahrein: nulla di fatto, si torna al voto il 29

(Agenzie). Un nulla di fatto in Bahrein per le elezioni parlamentari svoltesi lo scorso sabato 22 novembre 2014. Nonostante l’affluenza al 51% alle urne, soltanto 6 deputati sono stati eletti al primo turno. Per l’assegnazione degli altri 34 seggi di cui è composta l’Assemblea Nazionale, si andrà al ballottaggio il 29 novembre prossimo. L’opposizione ha […]

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Nucleare iraniano: possibile estensione dei colloqui

(Agenzie) Il termine per la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, previsto per oggi 24 novembre alle h23:00, potrebbe essere ulteriormente esteso. I rappresentanti diplomatici del gruppo 5+1 e dell’Iran sostengono che restano ancora dei punti da discutere e che l’estensione del termine è una delle opzioni. L’accordo, proposto lo scorso anno a Ginevra, contempla le modalità con […]

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Iran: Ghavami rilasciata su cauzione

(Agenzie). Ghoncheh Ghavami,venticinquenne di Teheran con cittadinanza iraniana e britannica, è stata rilasciata, pagando una cauzione di 30mila dollari. La ragazza era stata condannata a un anno di carcere per aver tentato di assistere a una partita di pallavolo maschile tra Iran e Italia. Accusata di “propaganda contro il sistema”, aveva protestato contro il divieto […]

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Kngine, la risposta egiziana a Google

Barakabits. Acronimo di “knowledge Engine”, Kngine è un motore di ricerca intelligente elaborato in Egitto da Haytham e Ashraf al-Fadeel, i suoi due co-fondatori. Diversamente dagli altri motori di ricerca, infatti, Kngine non fornisce link alle risposte degli utenti, ma piuttosto dà risposte dirette alle loro domande sotto forma di testo, mappe, tabelle, liste o grafici. Secondo i […]

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Israele mette in guardia Francia per voto Palestina

(Agenzie). Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il riconoscimento della Palestina da parte della Francia sarebbe una mossa irresponsabile. “Ovviamente sono preoccupato per il voto della Francia sul riconoscimento di uno stato palestinese, perché avverrebbe senza che vi sia la pace” ha detto Netanyahu, aggiungendo anche che i palestinesi vogliono un loro stato […]

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L’Europa vende illusioni ai palestinesi

Di Basel Turjman. Elaph (18/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Ha suscitato scalpore la Svezia, con la sua decisione del riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese, che ha posto gli altri Stati dell’Unione Europea dinnanzi a due situazioni difficili: la prima, riguardante la loro responsabilità morale davanti al mondo, ossia quella di fare pressioni su tutti […]

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Tunisia: affluenza per presidenziali al 64%

(Agenzie). Durante la giornata di ieri in cui i tunisini sono stati chiamati a votare per le elezioni presidenziali, si è registrata un’affluenza ai seggi elettorali del 64%. I risultati non sono ancora definitivi ma sembra che il candidato del partito di Nidaa Tounes, Caid Essebsi, andrà al ballottaggio con il presidente uscente Mouncef Marzouki. Al terzo posto […]

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Yemen: Movimento Sudista dichiara formazione proprio governo

(Agenzie) Il Movimento Sudista yemenita per l’indipendenza della regione meridionale del Paese ha rilasciato una dichiarazione nella quale afferma che ha intenzione di formare un suo governo indipendente. Il Movimento ha inoltre fissato il 30 novembre come data ultima per l’evacuazione dal Sud del Paese di tutti gli impiegati governativi e le forze armate del Nord. I […]

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El Sisi a Roma, prima visita in Europa

(Agenzie) Il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi sarà in visita a Roma nei giorni 24 e 25 novembre, prima tappa della sua prima visita in Europa dall’inizio del suo mandato. El Sisi si incontrerà prima con il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, per discutere questioni bilaterali, mentre la giornata del 25 sarà dedicata al […]

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Quel voto su Israele “Stato della nazione ebraica”

Le bozze sono tre. Tutte sostengono che «Israele è lo Stato della Nazione ebraica». Tutte, fanno notare in tanti, «non scrivono nemmeno una volta la parola “eguaglianza”». E anche se le differenze sono poche, in alcuni casi risultano fondamentali. Ma soltanto una di quelle bozze (scarica e leggi qui), alla fine, sarà messa al voto. […]

Convegno per la promozione della lingua e cultura araba

Venerdì 28-29 novembre 2014 Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, buy 1 – Milano Seminario “La lingua araba tra passato e presente” ore 15.00 – Aula Pio XI Introducono Ali Al HALAWANY, nurse Console Generale della Repubblica Araba d’Egitto Giovanni Gobber, pharmacy Preside della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere Wael FAROUQ, Docente di lingua e cultura araba Interventi “Quando il mondo parlò l’arabo” di Salah FADL … | Continua a leggere

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Convegno per la promozione della lingua e cultura araba

Venerdì 28-29 novembre 2014 Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 – Milano Seminario “La lingua araba tra passato e presente” ore 15.00 – Aula Pio XI Introducono Ali Al HALAWANY, Console Generale della Repubblica Araba d’Egitto Giovanni Gobber, Preside della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere Wael FAROUQ, Docente di lingua e cultura araba Interventi “Quando il mondo parlò l’arabo” di Salah FADL “La lingua araba … | Continua a leggere

Convegno per la promozione della lingua e cultura araba

Venerdì 28-29 novembre 2014 Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 – Milano Seminario “La lingua araba tra passato e presente” ore 15.00 – Aula Pio XI Introducono Ali Al HALAWANY, Console Generale della Repubblica Araba d’Egitto Giovanni Gobber, Preside della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere Wael FAROUQ, Docente di lingua e cultura araba Interventi “Quando il mondo parlò l’arabo” di Salah FADL “La lingua araba … | Continua a leggere

Convegno per la promozione della lingua e cultura araba

Venerdì 28-29 novembre 2014 Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 – Milano Seminario “La lingua araba tra passato e presente” ore 15.00 – Aula Pio XI Introducono Ali Al HALAWANY, Console Generale della Repubblica Araba d’Egitto Giovanni Gobber, Preside della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere Wael FAROUQ, Docente di lingua e cultura araba Interventi “Quando il mondo parlò l’arabo” di Salah FADL “La lingua araba … | Continua a leggere

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Venerdì 28-29 novembre 2014 Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 – Milano Seminario “La lingua araba tra passato e presente” ore 15.00 – Aula Pio XI Introducono Ali Al HALAWANY, Console Generale della Repubblica Araba d’Egitto Giovanni Gobber, Preside della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere Wael FAROUQ, Docente di lingua e cultura araba Interventi “Quando il mondo parlò l’arabo” di Salah FADL “La lingua araba … | Continua a leggere

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Turchia-Iran-Kurdistan: l’arte delle triangolazioni

Hürriyet Daily News (17/11/2014). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo. Risolta la scaramuccia sui pedaggi ai camion per il trasporto di merci, la scorsa settimana Iran e Turchia hanno affrontato la questione del prezzo del gas, secondo Ankara da diminuire. Questioni economiche trattate sullo sfondo dei ben più significativi e intricati rapporti tra Turchia, Iran e […]

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Presidenziali in Tunisia: dati sull’affluenza e primi exit poll

(Agenzie) In attesa della diffusione dei risultati definitivi, prevista per il prossimo 26 novembre, le prime stime alla fine del primo turno di votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica tunisina sembrano suggerire che in dicembre ci sarà bisogno di un’altro giro di elezioni. I primi sondaggi, diffusi dalla televisione di Stato, vedono in testa Béji […]

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US e Iran a Vienna

Il 24 novembre si conclude un ciclo durato due anni e mezzo di colloqui tra l’Iran e le maggiori potenze occidentali volti ad impedire che il paese mediorientale si doti di centrali nucleari in grado di produrre armi letali. I negoziati sono stati impostati su un meccanismo di do ut des, ovvero, alla riduzione delle […]

US e Iran a Vienna

Il 24 novembre si conclude un ciclo durato due anni e mezzo di colloqui tra l’Iran e le maggiori potenze occidentali volti ad impedire che il paese mediorientale si doti di centrali nucleari in grado di produrre armi letali. I negoziati sono stati impostati su un meccanismo di do ut des, ovvero, alla riduzione delle […]

US e Iran a Vienna

Il 24 novembre si conclude un ciclo durato due anni e mezzo di colloqui tra l’Iran e le maggiori potenze occidentali volti ad impedire che il paese mediorientale si doti di centrali nucleari in grado di produrre armi letali. I negoziati sono stati impostati su un meccanismo di do ut des, ovvero, alla riduzione delle […]

US e Iran a Vienna

Il 24 novembre si conclude un ciclo durato due anni e mezzo di colloqui tra l’Iran e le maggiori potenze occidentali volti ad impedire che il paese mediorientale si doti di centrali nucleari in grado di produrre armi letali. I negoziati sono stati impostati su un meccanismo di do ut des, ovvero, alla riduzione delle […]

Arabia Saudita: Obama invita alla normalizzazione dei rapporti con Teheran

Elaph. In occasione della visita a Washington del principe saudita Mutaib bin Abdullah, ministro della Guardia Nazionale del regno, il presidente americano Obama ha invitato l’Arabia Saudita a lavorare sulla normalizzazione delle relazioni tra Riyad e Teheran nel prossimo futuro. La notizia arriva da una fonte anonima del Golfo, nel quadro dei colloqui sul nucleare iraniano, […]

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Golfo: monito delle Ong alle petromonarchie

Agenzie (23/11/2014). Organizzazioni non governative e movimenti sindacali hanno invitato le petromonarchie del Golfo a porre fine agli abusi ai danni di milioni di lavoratori stranieri. In una dichiarazione congiunta diffusa da Human Rights Watch, 90 Organizzazioni non governative (Ong) e sindacati di varie parti del mondo hanno esortato le autorità delle monarchie della Penisola araba […]

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Cisgiordania: la rappresaglia dei coloni

Haaretz (23/11/2014). Coloni israeliani nella notte hanno incendiato la casa di una famiglia palestinese in un villaggio nei pressi di Ramallah, in Cisgiordania, lasciando scritte razziste sui muri vicini. Brutto risveglio stamane per gli abitanti del villaggio di Khirbet Abu Falah, dove nella notte i coloni hanno bussato alla porta di una famiglia palestinese e non sentendo […]

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Turchia: armi ed esperti militari a sostegno dei peshmerga

Rudaw (23/11/2014). Consulenti militari turchi sono attesi nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno (Krg) per insegnare ai combattenti peshmerga l’uso di armi sofisticate nella guerra contro Daish (conosciuto in Occidente come Isis). Il ministro per gli affari parlamentari del Krg Mawlud Bawamurad ha fatto sapere che sarà Ankara a provvedere alla preparazione militare dei peshmerga […]

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Nucleare: l’Iran chiede di prolungare i colloqui

El Watan (23/11/2014). Tehran chiede di poter prolungare i negoziati sul programma nucleare, in corso a Vienna con il gruppo 5+1, nel caso in cui entro stasera non si dovesse concludere l’accordo. “Siamo sempre intenzionati a raggiungere un accordo politico da qui a stasera”, precisa una fonte diplomatica iraniana da Vienna, “questo permetterà di lavorare in seguito sui dettagli […]

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Bahrein diviso in due

Articolo di Silvia Di Cesare Si sono aperti questa mattina i seggi elettorali in Bahrein. La popolazione è chiamata a votare per scegliere i membri della Camera dei Deputati del Parlamento e delle assemblee municipali. La scelta verrà fatta tra 419 candidati: 266 in gara per la carica di parlamentare e 153 per quella di […]

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John Cantlie “Se io fossi il Presidente degli Stati Uniti…”

mcc43 “Lend me your ears”,  sesto video di  John Cantlie “If I were the US President today…”  suo secondo articolo in Dabiq5 Catturare una persona e tenerla in ostaggio è un atto scellerato. La condanna morale da sola, purtroppo, è inefficace per salvare la vita al prigioniero. Allora, se un cittadino di una qualsiasi nazione […]

Nascondere le bionde Nel paese infuria la guerra, il regime abbatte intere citt…

Nascondere le bionde

Nel paese infuria la guerra, il regime abbatte intere città, gli americani bombardano ed i geni di IS pensano alle anime dei siriani: impongono il divieto di fumo a suon di scudisciate sulla pubblica piazza, utilizzando la loro difussissima rete di check point (dotati anche di personale femminile per perquisire sotto i niqab delle signore) per verificare che nessuno introduca questo nefasto prodotto della mollezza occidentale nella casa dei pii mussulmani. Ed ecco che la creatività dei siriani, che amano ripretere “la Necessità è la madre delle Idee”, si ingegna per trovare soluzioni e non dover rinunciare ad uno dei pochi vizi che qualcuno possa ancora permettersi. Queste foto vengono da Deir Al Zaur

https://fbcdn-sphotos-f-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xpa1/v/t1.0-9/p100x100/10305043_317414481776722_3380359257447633738_n.jpg?oh=b5a5b04fc1a2ec61978ee1d3419d66ec&oe=54D583E7&__gda__=1423070721_6560e0becceae2b1d6baa89477fe8a43

‫Syria Newsdesk – مكتب أخبار سوريا‬

‫مدخنو دير الزور يبتكرون أساليباً جديدة للحصول على السجائر الجمعة 21 تشرين الثاني 2014دير الزور – تيم رمضانابتكر المدخنون في محافظة ديرالزور شرق سوريا، الخاضعة لسيطرة تنظيم الدولة الإسلامية، طرقاً جديدة للحصول على السجائر، في ظل منعٍ وتشديد يفرضه تنظيم الدولة على المدخنين. يصف أبو محمد، أحد سكان مدينة البوكمال بريف دير الزور الشرقي، لمكتب أخبار سوريا أنه حاول مراراً الإقلاع عن التدخين، لكن محاولاته باءت بالفشل، كما أنه جلد أربع مرات وتعرض للسجن على أيدي عناصر التنظيم، لكن التبغ يعد أساسياً في حياته، بحسب وصفه، الأمر الذي دفعه لاستغلال مهارته في تربية الحمام للحصول على السجائر، خاصة وأن تنظيم الدولة لايحرم تربيتها، كما يقول.ويقوم أبو محمد بالتوجه صباح كل يوم إلى مدينة القائم العراقية، برفقة أحد طيوره، ثم يقوم بابتياع علبة سجائر ويثبتها تحت جناح الطير، ويطلقها لتصل الى منزله، ومعها علبة السجائر، وبهذا يحصل على مبتغاه، إذ أن التنظيم لا يسعه وضع حواجز للحمام في الجو. من جهته يشكو أبو موسى، أحد أهالي مدينة الميادين بريف دير الزور الشرقي، من أن بيع مادة التبغ اصبح أمراً شبه مستحيل ومحفوفاً بالمخاطر، إلا أنه تجارة مربحة لا يستطيع أي بائعٍ التخلي عنها بسهولة، ما يجعله يعمد إلى وضع السجائر بين أرغفة الخبز ويبيعها للمدخنين، على أمل أن لا يكتشف تنظيم الدولة حيلته، أما أبو عمر، وهو شاب مدخن يقيم في مدينة دير الزور، فيقول أن ” ولعه الشديد” بالتدخين، يفرض عليه التنقل بعلبة سجائره أينما ذهب، لذلك لجأ إلى إفراغ سجائره في علبة دواء يضعها في جيبه، ويتنقل بها بين عناصر تنظيم الدولة الذين ينتشرون في شوارع وأحياء دير الزور. من الجدير بالذكر أنَّ التدخين في المناطق التي يسيطر عليها تنظيم الدولة يعد مخاطرة، إذ أن كثيرا من حوادث الجلد قد وقعت سابقاً وحصلت في الأماكن الخاضعة لسيطرة التنظيم وتراوحت بين 20 و80 جلدة، كما أن التنظيم فرض غرامة مالية تصل إلى عشرة آلاف دولار، مع سجنِ لمدة شهر لكل من يتاجر بمادة التبغ أو يسهل عملية بيعها.#أخبار #سوريا #دير_الزور‬ Continua a leggere

Egitto, giornalisti arrestati e picchiati: “Governo distrugge la libertà di stampa”

Lo scorso 10 Novembre Alain Gresh, direttore della rivista francese Le Monde Diplomatique, discuteva di politica egiziana in un caffè del centro del Cairo quando la polizia è intervenuta e lo ha portato al commissariato assieme ai suoi interlocutori. “Sono rimasto due ore sotto interrogatorio”, spiega Gresh nel suo racconto sul sito di Al Jazeera English. […]

L’articolo Egitto, giornalisti arrestati e picchiati: “Governo distrugge la libertà di stampa” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Egitto, giornalisti arrestati e picchiati: “Governo distrugge la libertà di stampa”

Lo scorso 10 Novembre Alain Gresh, direttore della rivista francese Le Monde Diplomatique, discuteva di politica egiziana in un caffè del centro del Cairo quando la polizia è intervenuta e lo ha portato al commissariato assieme ai suoi interlocutori. “Sono rimasto due ore sotto interrogatorio”, spiega Gresh nel suo racconto sul sito di Al Jazeera English. […]

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Egitto, giornalisti arrestati e picchiati: “Governo distrugge la libertà di stampa”

Lo scorso 10 Novembre Alain Gresh, direttore della rivista francese Le Monde Diplomatique, discuteva di politica egiziana in un caffè del centro del Cairo quando la polizia è intervenuta e lo ha portato al commissariato assieme ai suoi interlocutori. “Sono rimasto due ore sotto interrogatorio”, spiega Gresh nel suo racconto sul sito di Al Jazeera English. […]

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Egitto, giornalisti arrestati e picchiati: “Governo distrugge la libertà di stampa”

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4 minuti di barili La bambina che si vede nei primi secondi canta il suo popolo…

4 minuti di barili

La bambina che si vede nei primi secondi canta il suo popolo che si è alzato per chiedere la libertà e che oggi non è più al sicuro dentro casa propria… poi BUM ecco il barile. In 4 minuti questo video cerca di dare un diea di cosa siano questi strumenti di morte, strumenti casuali, indiscriminati. Un orrore da cui non si può fuggire perchè nessuno sà dove cadranno, nè chi li lancia nè chi li subisce questi barili carichi di esplosivo e ferraglia, qualche volta anche di gas tossico (cloro).

Radio Free Syria scrive:

This is a four-minute video. You can turn it off, walk away after watching. Syrian men, women and children, trapped in this nightmare every day for almost four years, can’t.
For the people of Syria, whose only ‘crime’ has been to demand freedom from a genocidal hereditary dictatorship, this is the everyday nightmare unleashed by the Assad regime in response.
Will you raise your voice to support freedom or will you be another silent accomplice to Assad’s ongoing genocide?

#asadwarcrimes #savechildrenofsyria #universalchildrenday

٤ دقائق من رعب البراميل المتفجرة


4 MIN OF HORROR | SYRIA DEATH BARRELS | رعب براميل الموت

Feeling hell already? this is what our brothers in Syria have been going through for the past 4 years. Winter is here, please let’s not forget them, let’s he… Continua a leggere

Summit Africa-Turchia: prospettive

Le Matin (22/11/14). Con il summit del 19-21 novembre a Malabo, la Turchia, partner ufficiale dell’Unione Africana dal 2008, tenta di rafforzare i rapporti di cooperazione politica, economica e securitaria. Quello tra Turchia e Africa è un partenariato vincente secondo le stime ufficiali, che ha raggiunto nel 2013 un volume d’affari di 23 miliardi di dollari, contro i 9 […]

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Egitto: morte sotto i ferri

Elaph (22/11/14). Le organizzazioni della società civile che si battono contro le mutilazioni genitali femminili (Mgf) in Egitto esprimono la loro indignazione per l’assoluzione di un medico della provincia di Dakhalia, che ha provocato la morte di una ragazza durante l’operazione. Nonostante nel 2008 sia stata promulgata una legge che vieta la circoncisione femminile, in Egitto il […]

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Prime presidenziali pluraliste in Tunisia

El Watan (22/11/14). Oggi in Tunisia si tengono le prime elezioni presidenziali pluraliste del dopo Ben Ali, considerate un altro passo della transizione verso la democrazia. Sono 27 i candidati in lizza per la carica di Presidente della repubblica in Tunisia, tra i quali il favorito è l’ex Primo ministro Beji Caid Essebsi, 87 anni, il […]

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Vince World Muslimah Awards e chiede Palestina libera

(Agenzie). Fatma Ben Guefrache, 25enne tunisina, ha vinto il concorso di bellezza World Muslimah Awards 2014 in Indonesia. 18 finaliste tra cui una dottoressa e un infomatica, hanno sfilato con abiti scintillanti sullo sfondo di antichi templi. La tunisina che di mestiere fa l’informatica ha vinto un orologio d’oro, un pellegrinaggio alla Mecca e un […]

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Tunisia: chiuso confine con Libia per pericolo Daish

(Agenzie). Pare che la Tunisia abbia chiuso il confine con la Libia all’indomani delle elezioni presidenziali che si terranno domani 23 novembre 2014. La motivazione sarebbe ilpericolo Daish (conosciuto in occidente come ISIS), che secondo la sicurezza tunisina sta cercando di attuare un controllo anche sulla vicina Libia, dopo aver dichiarato di voler stabilire una […]

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Bahrain: (e)lezioni parlamentari

Your Middle East (22/11/2014). Oggi in Bahrain si tengono le prime elezioni parlamentari dalle proteste e dalla sanguinosa repressione del regime nel 2011, ma il principale partito di opposizione Al Wefaq e altre forze politiche boicottano le urne. Paese a maggioranza sciita (70%), governato dal 1780 dalla dinastia sunnita dei Khalifa, il Bahrain oggi sceglie la […]

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Un compromesso storico in Tunisia? Cosa può insegnare Roma a Cartagine

Di Jonathan Laurence. Brookings (19/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Benché sia improbabile che il primo turno delle elezioni presidenziali della prossima domenica individueranno un vincitore assoluto, la Tunisia può comunque vantare il maggior successo democratico del tortuoso percorso del post-primavera araba. All’inizio di quest’anno, l’Assemblea Nazionale Costituente, guidata dagli islamisti, ha proclamato una Costituzione pluralista che ha permesso […]

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Libano: annullata Festa dell’Indipendenza

(Agenzie) I festeggiamenti per il 71° anniversario dell’Indipendenza del Libano, previsti per il prossimo sabato, sono stati annullati a causa del vuoto presidenziale che caratterizza il Paese ormai da più di 5 mesi. “Il capo del governo Tammam Salam ha annunciato (…) che non ci saranno celebrazioni quest’anno”, ha riportato il ministro dell’Informazione libanese Ramzi Jreij.  

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Merkel: riconoscere la Palestina non è la strada giusta

(Agenzie). Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha sottolineato l’opposizione della Germania nel riconoscere la Palestina. A differenza dei suoi vicini Svezia, Francia e Spagna, la Germania, l’alleato europeo più vicino ad Israele, non seguirà la stessa strada. Berlino supporta dunque la soluzione dei due stati, per cui il riconoscimento unilaterale della Palestina sembra non andare verso […]

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Cucina tunisina: assidat zgougou, crema di semi di pino d’Aleppo

Con la ricetta di oggi vi proponiamo un dolce tipo della tradizione culinaria tunisina, che viene soprattutto preparato in occasione del Mawlid al-Nabi, il giorno in cui i musulmani sunniti festeggiano la nascita del profeta. Ecco come preparare l’assidat zgougou, la crema di semi di pino d’Aleppo! Ingredienti: Per la crema d’assidat: 1kg di semi di pino […]

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Iran: Kerry stasera a Parigi per nucleare

(Agenzie). Il segretario di Stato americano John Kerry sarà stasera a Parigi per consultare i partner europei in vista della scadenza lunedì prossimo di un accordo sul nucleare iraniano. Lascerà Vienna dunque dove ha partecipato ai negoziati sempre sulla questione del nucleare in Iran. Da quanto sembra, anche il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, […]

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Medio Oriente: verso una Terza Intifada? Una conversazione con Dominique Vidal

Di Marco Cesario L’attacco terrorista alla sinagoga nel sobborgo di Har Nof, in cui hanno trovato la morte quattro rabbini ed un poliziotto druso, segna una nuova ennesima tappa nell’escalation di violenze che si perpetrano in Terra Santa dalla fine delle ostilità a Gaza Si tratta di un attentato orribile poiché avviene in un luogo […]

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Sulle tracce di Lawrence d’Arabia: il Wadi Rum

<< Il tramonto cremisi infuocava le stupende rocce e gettava lunghi fasci di luce sui muri del viale principale.>> T.E. Lawrence   Nel 1917, quando T.E. Lawrence, giovane ufficiale, viene inviato per la prima volta nel deserto per individuare i ribelli hashemiti ai quali si sarebbe unito in rivolta contro l’impero ottomano, si trova in […]

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Il Principe Harry in visita in Oman

(Agenzie). Il principe Harry, invitato dal sultano Qabus bin Said al Said, è arrivato in Oman dove è stato ricevuto dal Ministro per i Beni e le attività Culturali. Il principe si è intrattenuto con i cittadini di Muscat nella tradizionale danza della spade. Il principe Harry e il suo entourage ha visitato diverse zone turistiche del paese tra cui […]

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Egitto: radio di stato censura il cantante Hamza Namira

(Agenzie). Famoso per le sue canzoni sulla rivoluzione, la libertà e la giustizia civile, il cantante egiziano Hamza Namira, è stato bandito dalla radio statale. Il capo della radio ha dichiarato che,  secondo una normale procedura, il cantante non è stato approvato dalla commissione interna. Con 4,5 milioni di fan su Facebook e 2,4 su Twitter […]

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Il popolo curdo (e la componente curda del popolo siriano), l’ISIS e la rivoluzi…

Il popolo curdo (e la componente curda del popolo siriano), l’ISIS e la rivoluzione siriana: l’audio dell’iniziativa al circolo di Sinistra Anticapitalista.

Una discussione che a me è parsa interessante, perchè oltre a raccontare il modello del Rojava e le conquiste sociali e politiche dei curdi si è cercato di problematizzarlo, di porlo all’interno del contesto più largo della situazione in Siria ed Iraq e di andare oltre alle semplificazioni attraverso cui spesso si guarda alla storia che si scrive al di là del mare come se si guardasse una partita di calcio in cui bisogna scegliere quale casacca ci piace di più per poi tifare in maniera acritica.

Sono 2 ore e mezza, senza alcun editing e senza sistemazione dei volumi o particolare attenzione in fase di registrazione, ma sono comunque ascoltabili per chi fosse interessato: nihil impossibile volenti.

p.s.
ovviamente io non partecipavo come rappresentate della resistenza curda.


Il Popolo Kurdo contro l’Isis . Intervista collettiva con i rappresentanti della resistenza kurda
www.mixcloud.com
Registrazione audio dell’incontro tenutosi a Roma il 20 novembre 2014, presso il Circolo di Sinistra Anticapitalista nel quartiere San Lorenzo Intervista collettiva con – Ylmaz Orkan, membro del Kurdistan Nationall Congress – Haskar Kirmizigul della Fondazione Internazionale delle Donne Libere Kurde… Continua a leggere

Il centro Mazaya, simbolo del coraggio e del lavoro delle donne siriane

Syria Untold (19/11/2014). Traduzione di Claudia Avolio. In copertina le donne del centro Mazaya reggono la più lunga bandiera della rivoluzione siriana, da loro realizzata (fonte: pagina Facebook del centro) Il centro Mazaya (parola araba per “vantaggi”) è stato fondato da un piccolo gruppo di volontari per potenziare il ruolo delle donne e mandare un […]

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Tunisia: ancora alto il livello della disoccupazione

(Agenzie) A quasi quattro anni dalla deposizione dell’ex presidente Ben Ali, il livello di disoccupazione in Tunisia resta alto e continua a crescere. Secondo statistiche ufficiali, il tasso di disoccupazione è cresciuto di due punti percentuali rispetto al 2010 (oggi 15% contro il 13%). Il numero di disoccupati nel Paese è di più di 600.000, tra cui circa […]

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Elezioni presidenziali tunisine: inizia il voto all’estero

(Agenzie) Si aprono oggi i seggi per le elezioni presidenziali tunisine per i cittadini residenti all’estero, anticipando il voto nazionale del prossimo 23 novembre. Sono circa 360.000 gli elettori registrati all’estero, distribuiti in 45 Paesi nel mondo arabo, in Europa e nelle Americhe. Faranno eccezione la Libia, la Siria e l’Iraq, dove il voto non verrà […]

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Giordania: arrestato vice leader Fratellanza per critiche agli EAU

(Agenzie) Le autorità giordane hanno arrestato Zaki Bani Rushaid, vice leader della Fratellanza Musulmana in Giordania, per aver criticato la decisione degli Emirati Arabi Uniti di designare il movimento politico islamista (e i suoi affiliati locali) come organizzazione terroristica. Si tratta del primo arresto negli ultimi anni di una figura di spicco dell’opposizione politica. Il pubblico […]

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Quattro palestinesi arrestati per piano omicidio del ministro israeliano Lieberman

(Agenzie) Secondo fonti ufficiali locali, Israele ha arrestato 4 palestinesi sospettati di aver pianificato un attacco omicida contro il ministro degli Affari Esteri Avigdor Lieberman. Pare che il piano fosse stato escogitato dai 4 uomini durante il conflitto di Gaza della scorsa estate. Una dichiarazione rilasciata dalla Shin Bet, l’intelligence israeliana, ha identificato 3 dei detenuti come […]

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Il Forum di Marrakech boicottato

Di Ignacio Cembrero. El Mundo (19/11/14). Traduzione di Alessandra Cimarosti. In estate, il ministro degli Interni gli ha proibito i campi scuola nei quali tentava di sensibilizzare i giovani sui diritti umani; a settembre gli ha bloccato un seminario di formazione; il primo fine settimana di novembre, ha impedito non meno di una ventina di […]

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La perdita della privatezza (Umberto Eco, June 2014)

L’uso del Facebook per la spettacolarizzazione dei fatti propri è oggigiorno in ascesa, soprattutto – e con sorpresa forse – da parte di accademici, pubblici intellettuali, od opinionisti abbastanza noti. Spesso costoro scambiano l’importanza (o la mera notorietà) del loro lavoro per interesse pubblico generale nei confronti dei loro fatti personali. Già Twitter e le sempre più numerose […]

La perdita della privatezza (Umberto Eco, June 2014)

L’uso del Facebook per la spettacolarizzazione dei fatti propri è oggigiorno in ascesa, soprattutto – e con sorpresa forse – da parte di accademici, pubblici intellettuali, od opinionisti abbastanza noti. Spesso costoro scambiano l’importanza (o la mera notorietà) del loro lavoro per interesse pubblico generale nei confronti dei loro fatti personali. Già Twitter e le sempre più numerose […]

La perdita della privatezza (Umberto Eco, June 2014)

L’uso del Facebook per la spettacolarizzazione dei fatti propri è oggigiorno in ascesa, soprattutto – e con sorpresa forse – da parte di accademici, pubblici intellettuali, od opinionisti abbastanza noti. Spesso costoro scambiano l’importanza (o la mera notorietà) del loro lavoro per interesse pubblico generale nei confronti dei loro fatti personali. Già Twitter e le sempre più numerose […]

Decapitazioni e attentati suicidi: il nuovo furore in Libia

Di Abdallah Schleifer. Al-Arabiya (18/11/2014). Traduzione e sintesi di Carlo Boccaccino. La situazione in Libia è decisamente difficile. Tra giugno e ottobre si sono verificate diverse decapitazioni, alcune di membri delle Forze Speciali dell’esercito libico, altre di civili, legate a questioni religiose. Ma da lunedì il ritmo si è intensificato e sono stati decapitati un soldato […]

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Turchia: Amnesty denuncia crisi rifugiati siriani

(Agenzie). Amnesty International ha denunciato la situazione dei profughi siriani in Turchia: centinaia di migliaia vivono a rischio di povertà. Dal rapporto stilato emerge che solo 220mila rifugiati siriani sono sopitati nei campi profughi in Turchia, su un totale di 1 milione e 600mila. I restanti, che devono arrangiarsi da soli, stanno lottando per la sopravvivenza. […]

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Alluvionati e imbrattati. I copti di Genova alla riscossa

“ISIS MERDE”: PENSA SIA UNA MOSCHEA, no rx MA È UNA CHIESA COPTA. Leggo questa notizia e alzo le sopracciglia: incredibile, and un idiota (come se non ne avessi mai visto uno)! Oltre il danno, la beffa: ora a imbrattare le chiese copte sono gli estremisti islamici e gli anti-estremisti islamici… Ma non mi posso trattenere dal pensare un’altra malizia: porca miseria, ma questi quante cattedrali c’hanno!? Vivo a Genova, … | Continua a leggere

Alluvionati e imbrattati. I copti di Genova alla riscossa

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Marocco: summit omaggia le donne imprenditrici

(Agenzie). La quinta edizione del Global Entrepreneurship Summit è a Marrakech, in Marocco. Della durata di tre giorni, il Summit prevede una giornata dedicata alle donne imprenditrici, al loro ruolo nelle imprese e nella crescita economica. Organizzato in partnership con gli Stati Uniti, il Summit ospita più di 3000 leader mondiali dell’economia e politici da tutto […]

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New York Times vuole sperimentare versione in Arabo

(Agenzie). Mark Thompson, l’amministratore delegato della New York Times Company, è stato intervistato in occasione dell’Abu Dhabi Media Summit e ha dichiarato che il New York Times ha intenzione di sperimentare una sua versione in lingua araba. Già esistente in inglese e in cinese, adesso guarda alla pubblicazione in altre lingue e l’Arabo è tra […]

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Gerusalemme: Israele approva costruzione di 78 nuovi insediamenti

(Agenzie) Il governo israeliano ha approvato la costruzione di 78 nuove unità abitative a Gerusalemme Est, delle quali 50 nel quartiere di Har Homa e 28 in quello di Ramot. Nabil Abu Rdainah, un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas, ha commentato la notizie dicendo che queste decisioni sono il seguito di una politica israeliana che non […]

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Iraq: forze curde continuano operazioni contro Daish

(Agenzie). Le forze peshmerga curde, appoggiate dall’esercito iracheno, stanno portando avanti le operazioni contro Daish (conosciuto in occidente come ISIS), cercando di riconquistare territori nelle province di Diyala e Kirkuk. Jaber Yawer, un portavoce dei peshmerga, ha detto che le forze curde hanno lanciato un’operazione congiunta con l’esercito iracheno per liberare le città di Saadiya e Jalula, nella provincia di […]

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Arabia Saudita chiede all’ONU di aggiungere Hezbollah alla lista nera

(Agenzie) L’Arabia Saudita ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di includere Hezbollah nella sua lista delle “organizzazioni terroristiche”, benché il gruppo libanese non era stato incluso nella lista nera diffusa dal regno lo scorso marzo. In quell’elenco, il governo di Riyad aveva menzionato Daish (conosciuto in Occidente come ISIS), i ribelli yemeniti Houthi, il Fronte […]

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Tempo fa scrivevo di come gli attacchi contro Jabhat Al Nusra e Ahrar al Sham av…

Tempo fa scrivevo di come gli attacchi contro Jabhat Al Nusra e Ahrar al Sham avrebbero favorito il terrorismo.

Non sono l’unico a pensarla così: JAN ha infatti estremizzato le sue posizioni ed i comportamenti di molte loro brigate somigliano sempre più a IS (almeno sul fronte nord). La cosa gli è costata sicuramente la perdita di parte della sua base popolare ma contemporaneamente è in corso un processo di avvicinamento tra le posizioni della gente e quelle delle fazioni islamiste più “dure”, dato che (ammesso che non siano coordinati con Damasco) gli attacchi statunitensi di fatto favoriscono il regime, come affermano molti analisti statunitensi e la stragrande maggioranza dei rivoluzionari siriani sul campo, siano essi laici o islamici. Intanto il primo effetto della brillante politica della coalizione è stata frammentare ancor di più l’opposizione armata, causando lotte intestine, spingere una parte della popolazione verso fazioni sempre più oltransiste. L’unica dinamica positiva che sembra derivarne è la crescita di consapevolezza dell’impossibilità di una soluzione militare e la crescente vogllia di ritorno alla lotta civile e non violenta dei primi mesi della rivoluzione, quelli che in tanti e tante mi hanno descritto con parole come “il più bel periodo della mia vita”.


US attacks against Nusra confuse locals
syriadirect.org
November 19, 2014 By Brent Eng and Mohammed al-Haj Ali AMMAN: Warplanes from the US-led coalition bombed the Jabhat a-Nusra-controlled town of Harem in northern Idlib Tuesday night for the third time in two weeks, reported the monitoring group Syrian Observatory for Human Rights. Tuesday’s atta Continua a leggere

L’Europa ha fatto poco per la Siria, ora vuol fare ancora meno

Di Ibrahim Fayyad. Your Middle East (16/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. All’inizio della primavera araba, la “promozione della democrazia” europea è stata messa alla prova. Per nostra amara sorpresa, le parole non sono corrisposte alle azioni. La risposta iniziale dell’UE è stata cauta e tiepida. Un anno dopo lo scoppio delle rivolte, Štefan Füle, […]

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Il pensiero politico islamico e la lotta per la democrazia: presentazione a Roma…

Il pensiero politico islamico e la lotta per la democrazia: presentazione a Roma di “Oltre la democrazia”, il nuovo libro di Massimo Campanini.

Il professor Massimo Campanini è già stato autore di vari libri sulle varie forme dell’islam politico ed insegna all’università Orientale di Napoli. Sicuramente questo suo nuovo lacvoro ci aiuterà a capire le sfide ideologichee che si pongono nel mondo arabo nell’era post-panarabismo e quindi a capire anche le differenze tra i tanti attori politici e militari che a vario titolo sventolano la bandiera dell’islam nei paesi della primavera araba ed in Siria, sanguinoso laboratorio pratico di ogni estremismo e di ogni corrente islamista.

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Egitto: richiesta pena di morte per Morsi con l’accusa di spionaggio

(Agenzie) Secondo fonti giudiziarie, l’ex presidente Morsi, insieme ad altri 35 membri della Fratellanza Musulmana, rischia la pena di morte dopo essere stato accusato di essere un “spia” del palestinese Hamas e del libanese Hezbollah. In base a quanto riportato dalle fonti, la procura generale sostiene che la Fratellanza aveva intenzione di proclamare il Sinai […]

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Tunisia: cinque giorni per cinque anni

Di Salma Bouraoui. L’Economiste Maghrébin (18/11/2014). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. La campagna elettorale si è fatta dura, i candidati alle presidenziali stanno entrando nel rush finale prima del prossimo 23 novembre, data in cui si svolgeranno le prime elezioni presidenziali libere e dirette in Tunisia, con la presenza di una concorrenza politica così “spietata” da […]

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La lista nera degli Emirati

Di Abdulrahman al-Rashed. Asharq al-Awsat (17/11/2014). Traduzione e sintesi di Cristina Gulfi Gli Emirati Arabi Uniti sono il secondo Paese arabo del Golfo, dopo l’Arabia Saudita, ad aver definito il movimento Houthi Ansar Allah come gruppo terrorista – un passo significativo, soprattutto in quanto riorganizza le relazioni in una regione dai cambiamenti politici pericolosi. Ansar […]

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Diario dall’altro Iraq/5. Pane e fango

“Dio li guarda dall’alto, a lui dovremo rispondere alla fine” mi dice J. con aria convinta. E io mi chiedo se Dio guardava anche sui villaggi mentre la gente fuggiva, l’estate scorsa. Se guarda chi dorme nelle tende o dentro le case di Dohuk, mentre piove”. Un nuovo racconto di Stefano Nanni dall’Iraq. 

 

 

19 Novembre 2014
di: 
Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*

GP da record: 60.000 biglietti venduti per la gara di Abu Dhabi

The National.ae. Il Gran Premio di Abu Dhabi di Formula 1 del prossimo fine settimana, ultimo della stagione, si preannuncia già un successo: sono infatti ben 60.000 i biglietti acquistati per assistere all’evento, segnando un record senza precedenti. Lo scorso anno, sono stati venduti 55.000 biglietti. “Con tutti i biglietti venduti, possiamo dire ufficialmente che il […]

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La città in guerra

  Il nostro occhio di spettatori distratti si è infine posato su Gerusalemme, la città dolente. L’occhio della gente che guarda i Tg, ascolta la radio, legge i giornali si è posato su Gerusalemme, la città senza pace. Il sangue ha toccato un luogo santo, una sinagoga, nel momento della preghiera, intimo e debole di […]

La città in guerra

  Il nostro occhio di spettatori distratti si è infine posato su Gerusalemme, la città dolente. L’occhio della gente che guarda i Tg, ascolta la radio, legge i giornali si è posato su Gerusalemme, la città senza pace. Il sangue ha toccato un luogo santo, una sinagoga, nel momento della preghiera, intimo e debole di […]

La città in guerra

  Il nostro occhio di spettatori distratti si è infine posato su Gerusalemme, la città dolente. L’occhio della gente che guarda i Tg, ascolta la radio, legge i giornali si è posato su Gerusalemme, la città senza pace. Il sangue ha toccato un luogo santo, una sinagoga, nel momento della preghiera, intimo e debole di […]