L’immigrato italiano

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Questa fotografia ritrae mio nonno. Saranno stati gli anni 70 e non so bene dove sia stata scattata. Sicuramente stava facendo una gita. Ha scarpe da ginnastica usate, un binocolo, porta una giacca troppo elegante ed indossa una polo. Lo vedete l’altro uomo? Quello che cammina ben vestito con la mano in tasca? Quello è sicuramente un cittadino svizzero, dove i miei nonni sono emigrati, e sta guardando mio nonno. Sta guardano quello spaccone che si mette in posa per farsi una foto, con indosso dei cenci e pure accoppiati male. Parliamo degli anni dell’iniziativa Schwarzenbach culminata con il referendum del 7 giugno 1970 contro l’inforestierimento, soprattutto degli italiani.

Mio nonno è stato un grandissimo lavoratore; ha contribuito a costruire la via ferrata, ha lavorato in ristoranti, in ospedali come tutto fare, e faceva quanto più non posso. E’ partito da una terra e da una guerra che non poteva offrirgli più nulla, nonostante lavorasse da quando aveva 7 anni, giorno e notte.

In Svizzera non è andata meglio. Il costante razzismo nei confronti degli italiani era dilaniante e rendeva quasi impossibile integrarsi; dai loro racconti, infatti, le loro compagnie non erano composte da persone Svizzere. Mia mamma poi, è nata in Svizzera. Ha vissuto per 34 anni in Svizzera e ha partorito sua figlia in Svizzera. Ma non è mai stata cittadina Svizzera. Siamo sempre stati italiani.

E’ arrivata in Italia a 34 anni senza quasi sapere una parola nella nostra lingua e per me è stato lo stesso. Ricorda con terrore e con molto dolore le iniziative Schwarzenbach che l’hanno accompagnata durante la sua infanzia, adolescenza ed il resto della sua vita in quel paese.

Riguardare questa foto mi ha fatto sorridere. Oggi puntano tutti il dito contro i richiedenti protezione internazionale perché posseggono un cellulare, vestiti nuovi e non sono deperiti.
Vero, la differenza sta nell’assistenzialismo, i nostri nonni non lo hanno ricevuto: ma a quale prezzo? Quante sofferenze e vicissitudini hanno dovuto affrontare? Vogliamo essere quel mondo? Quel tipo di mondo?

Non si possono fare dei veri e propri paragoni, tuttavia il meccanismo rimane perlopiù invariato. Chissà cosa pensavano i vicini della mia famiglia? Chissà quante brutte parole sono state rivolte loro per mera ignoranza e xenofobia?

Riguardo quel binocolo e sorrido. Nonno, che ci dovevi fare con quel pesantissimo binocolo, custodito così tanto gelosamente? Quel binocolo che sopravvive ancora oggi.
Quel binocolo è uno status. E’ una voce che grida: “Ce l’ho fatta anche io! Sono qui in mezzo a voi e vivo!”.

Eppure quel binocolo, quel telefonino, quei cappelli curati, quelle scarpe nuove danno fastidio; fanno credere che le persone che ci stanno chiedendo aiuto non ne abbiano davvero bisogno, che sia tutta una messinscena.

Spesso, quando le persone si rivolgono a noi operatori dell’accoglienza, ci rimproverano queste cose e spesso non sappiamo cosa rispondere loro. La dignità, questa sperduta.

E’ difficile rispondere al mondo che un orologio non significa nulla, è solo un modo per appartenere ad un nuovo mondo. E’ difficile far comprendere che quando non hai nulla, perché nel tuo paese ormai globalizzato non hai soldi per vestire e mangiare, l’unica cosa che vorresti fare, seppure in un primo momento, è omologarti a tutti gli altri senza sentirti necessariamente diverso, escluso. Allora sì che potremmo comprendere che la prima cosa che fanno alcuni beneficiari, con il loro primo pocket, è comprare un cappello, delle scarpe, una qualsiasi cosa che non lo faccia sentire maggiormente diverso e discriminato. Non possiamo fingere di non sapere che essere povero, non possedere nulla, non sia pregiudicante. Essere un richiedente protezione internazionale lo è, essere povero anche. Se sei entrambe le cose sei doppiamente discriminato. Le persone, gli esseri umani, spesso non vogliono essere compatiti, vogliono che siano loro riconosciute abilità e dignità e molto spesso, questo, non lo facciamo.

E’ per questo che nei percorsi di accoglienza, quelli buoni, quelli dignitosi, sono di vitale importanza i percorsi individuali. Puoi fare percorsi individuali quando hai tre operatori e accogli 100 persone? No. Molto semplice.

Quanto ancora dovrà durare questa enorme differenza tra CAS e SPRAR? Per quanto ancora dovremo vedere migliaia di persone finire nelle grinfie di “lavoratori” (perché non posso chiamarli operatori) incompetenti o, comunque, messi in condizione di non poter svolgere adeguatamente il proprio lavoro, permettendo ai propri capi di arricchirsi a dismisura?
Quanto ancora?

Nel frattempo guardo il binocolo di mio nonno e penso a quanto sia stato fiero di poterlo sfoggiare. A quanto avrà riflettuto prima di comprarlo (contadino che non spendeva soldi “inutilmente; gli sfizi e le vacanze non si sono mai visti nella loro umile vita) e a quanto ci teneva per non permettere a nessuno di toccarlo.
Penso a quel binocolo e a mio nonno l’immigrato.

Sabrina Yousfi, cooperaia Alternata SI.Lo.S

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