Leoni o sciacalli

di Lorenzo Forlani

In questo clima di rinnovata caccia alle streghe, trovo assai controproducente un atteggiamento che vedo essere condiviso in modo crescente da molti amici musulmani.

Interpellati, accerchiati, esaminati dalla giuria popolare italiota sulla loro presunta indifferenza (o addirittura presunta connivenza) rispetto alle stragi umane consumatesi negli ultimi tempi, molti di loro – assolutamente in buona fede e nella posizione di non sapere da che parte iniziare a “giustificarsi” o discolparsi – tendono a trincerarsi dietro lo scudo di frasi che credono innocue se non addirittura concilianti ma che non si accorgono che invece fanno il gioco degli avvoltoi islamofobi.

“L’islam è religione di pace”; “l’islam è tolleranza”; “l’islam amore, contro la guerra”; “la mia religione è splendida, Bin Laden non è un vero musulmano”; e così via.

Ragazzi, non è così che dovete difendervi, ove ce ne sia bisogno. A ben vedere, è proprio questo l’atteggiamento che i razzisti mascherati vogliono vedere da voi: una affannosa presa di distanza; una imbarazzata e incerta corsa contro il fantasma dell’islamofobia, che a volte sembra potervi risucchiare nel vortice del senso di colpa, che per osmosi vi si attacca al collo.

I condor del settarismo non aspettano altro: specie quelli che in altri campi sono considerati degli “intellettuali”, come Giuliano Ferrara, attendono giorno e notte il momento per ironizzare o alludere al doppiogiochismo presumibilmente insito in queste posizioni, che vendono al pubblico di pecorelle smarrite come delle “dissimulazioni”, come delle dimostrazioni dell’ambiguità di fondo dei musulmani, che “a parole parlano di pace ma poi mettono le bombe o tagliano gole”.

Così non va bene, e mi rendo conto che ci sia bisogno di fare attenzione ad esprimere le proprie opinioni. Chiedersi ad esempio se sia il caso – come comunità musulmane – di accettare inviti in studio a trasmissioni tv che non solo sono di pessima qualità, che non solo hanno il preciso obiettivo di isolare ulteriormente gli emarginati, che non solo sono basate sul nulla, ma che sopratutto si propongono quasi sempre di mettere a confronto – con vile scorrettezza – interlocutori consapevolmente inadeguati.

E non mi riferisco al fatto che gli ospiti non sappiano nulla di islàm ma si ostinino a discettarne: quello ci può stare – che devi fare? – è il lato problematico della libertà d’espressione.

Il problema è l’asimmetria: davvero una ragazzina musulmana – educata, sensibile, pacifica – che frequenta le scuole medie può gestire un contraddittorio con Magdi Allam, Sallusti e Ferrara, animali da palcoscenico e professionisti della diffamazione preventiva, del buttarla in caciara mantenendo l’atteggiamento di chi la sa assai lunga?

Davvero un simpatico e devoto ragazzo marocchino di 18 anni, che forse da un anno ha iniziato a dedicarsi alla difficoltosa e oscura esegesi personale dei versetti del Corano che impara a memoria sin da quando è piccolo – e che quindi forse sta iniziando a capire, contestualizzarne, storicizzarne e somatizzarne i contenuti – può “difendere” una tradizione religiosa di 1400 anni – che ha coinvolto 4 continenti e miliardi di persone di etnie diverse – dagli assalti di gente che ha il solo scopo di denigrarla, questa tradizione?

Ricordo come fosse ieri che qualche anno fa, all’indomani dell’omicidio di una ragazza pakistana nella provincia di Brescia, a “Porta a Porta” fu invitata una ragazzina egiziana di 11 anni, undici, per parlare di islàm, del dissociarsi dalla lapidazione (!), della condivisione dell’omicidio d’onore, dei diritti umani, ecc. I suoi dirimpettai erano: Khaled Fouad Allam, Bruno Vespa (mai visto così incalzante con le domande, sembrava Piero Ricca che incontra Berlusconi), Carlo Panella, un radicale a caso, Daniela Santanchè e in collegamento un imam di Segrate, anche in stato abbastanza confusionale.

La ragazzina fu aggredita in modo continuato (e accusata di dire “quello che le ordina il padre”, che presumibilmente la teneva legata giorno e notte), anche con domande apparentemente banali (“è giusto ammazzare un adultero?”), a cui per evidente timore, per chiara impreparazione personale (undici anni eh!) e disabitudine a stare in tv – tantomeno di fronte a sciacalli affamati – rispondeva sillabando, o trincerandosi dietro a “non posso dirlo io, lo stabilisce Allah”, o “io non lo so, ma credo alla Legge di Dio, solo Dio sa”; risposte che venivano raccolte al balzo dai suoi aguzzini per rinvigorire i loro anatemi.

E così via per un paio d’ore, dalle quali la ragazzina ne usciva come la angelica e furbacchiona nipotina di Bin Laden, tanto tenera in viso e nei modi quanto pronta a compiere un eventuale attentato seduta stante. Fiera di aver nascosto al pubblico impaurito dal Sig. Islàm le sue diaboliche peculiarità.

Eppure in Italia esistono accademici, sia di fede musulmana che non, o anche religiosi (anche qui: musulmani e non) assai preparati, la cui partecipazione ad alcuni dibattiti – che in ogni caso scontano il fatto che sono trasmissioni tv, con tutto ciò che comporta in termini di eliminazione delle complessità dalla discussione – sarebbe assai utile: non certo per dare risposte definitive e preconfezionate ma sicuramente per rendere il quadro meno opaco. Ma, soprattutto, per non permettere che venga stuprata l’informazione, per evitare che vi siano avvoltoi che giocano con le carcasse di chi non sa nemmeno per quale motivo debba essersi meritato la morte “televisiva”, o l’umiliazione, o l’accerchiamento.

Perché ai talk show invitano sempre i ragazzini, o magari quei musulmani che sì, sono integratissimi (a volte vengono trattati da immigrati clandestini, magari senza considerare che sono italiani di seconda generazione e che sono quindi un prodotto umano occidentale, che hanno solo scelto l’islàm come fede), ma che di islàm – proprio perché sono a tutti gli effetti occidentalizzati e poco interessati alla religione – non sanno nulla se non ciò che gli hanno raccontato i loro padri da piccoli?

Perché il clima di paura diffusosi presso le comunità musulmane in italia sta modificando, secondo me, il loro atteggiamento rispetto al mondo che li circonda: li ha ormai stretti in un angolo, costretti a gettare con una certa urgenza acqua sul fuoco ardente dell’”islàm che fa paura”, impedendo loro di chiarire cosa sia l’islàm in sè, o di parlarne serenamente e seriamente.

Troppo urgente, nel momento in cui un musulmano deve “discolparsi” per i fatti di Parigi, la necessità di dire “la mia religione è pace”, “quello non è islàm”, inducendo lo spettatore a commentare con un saccente “eh, come no, la pace” e a fare facili battutine.

Quella puntata mi rimase impressa, e da quel giorno è nella mia memoria come il paradigma della messa in scena islamofoba: un format che è stato poi ripreso da tutti i canali televisivi nazionali, come in questi giorni ho potuto ahimè constatare.

Il fatto è che – se proprio vogliono andare ospiti – i ragazzi musulmani dovrebbero studiare di più, ricordandosi che dall’altra parte c’è gente che, pur avendo studiato su Topolino, dedica buona parte del proprio tempo a costruire castelli d’infamia contro l’islam, per cui è necessario perlomeno rimpinguare il bagaglio di luoghi comuni con una qualche parvenza di veridicità.

Questi ragazzi spesso pensano di andare a discutere della propria fede ma non sanno che vengono invitati in una Gabbia (spesso di nome e di fatto), dove fuori ci sono quelli che lanciano le monetine, invece che le noccioline. In una trappola.

Studiate ragazzi, non rinnegate mai la vostra enorme, millenaria tradizione e cercate la vostra strada, che si parli di quella intima e spirituale o quella della vostra idea del rapporto tra fede e ragione, tra Stato e religione, tra morale e politica.

L’islàm “moderato” – dispiace apparire formalmente d’accordo su questo con i vari islamofobi nostrani, ma per fortuna su presupposti diversi – non esiste. E ciò non significa, come pensano questi ultimi, che quindi i musulmani siano “non moderati” (cioè violenti), nè tantomeno significa che esiste solo quello “radicale”. Non esiste perché è l’aggettivo ad essere sbagliato. Un aggettivo che non si accorda col sostantivo cui è riferito.

L’islàm è una religione, una fede, un sistema di valori, una tradizione storico-filosofica, una cultura. Non ha senso definirlo moderato o meno. Si può forse essere cattolici moderati? No, se con “moderato” non ci si limita ad intendere “che si rifiuta di prendere le armi o usare violenza per perseguire i suoi scopi” (qui dovremmo aprire una lunga pagina sull’islamismo, o sull’islam politico, che non è di per sè affatto violento… dunque può essere “moderato”…).

Non è l’islam a poter essere moderato. Sono le persone ad essere moderate o meno, pacifiche o meno, violente o meno. E le persone sono quello che sono a causa di una molteplicità di fattori, di cui quello religioso non è che una parte minima.

Se sei una persona pacifica, comprensiva e dialogante, lo saranno anche il tuo islam, il tuo cristianesimo, il tuo ateismo. Viceversa, se sei un violento, razzista, stai sicuro che questi elementi si rifletteranno anche sul modo in cui vivrai la tua religione, o in cui vivrai il tuo ateismo. Così, il tuo islam, il tuo cristianesimo, il tuo induismo, il tuo buddhismo (chi ha detto che i buddhisti sono pacifici? Avete presente cosa sta succedendo ai musulmani Rohingya in Birmania?), il tuo ateismo saranno violenti e settari. Bin Laden poteva anche essere un “vero musulmano” (nel senso che adempie ai 5 pilastri) ma era innanzitutto un essere umano con evidenti problemi, tra i quali la sociopatia. Rappresentava se stesso e i suoi sodali, non l’islàm o i musulmani.

Lo storico afghano Tamim Ansary ha usato recentemente queste parole, che trovo assai adeguate:

“L’islam è una religione, come tutte le altre, con una serie di idee e di pratiche relative alla morale, all’etica, a Dio, al cosmo e alla morte. Ma allo stesso tempo potrebbe essere inserito in una classe completamente diversa, che include il comunismo, la democrazia parlamentare, il fascismo e così via, poiché l’islam è anche un progetto sociale, un’idea di come dovrebbe essere gestita la politica e l’economia, con un sistema legale, civile e penale tutto suo.

Ma l’islam può anche essere inserito all’interno di un’altra classe ancora, che include la civiltà cinese, indiana, occidentale e così via, perché esiste un intero universo di manufatti culturali […] che può essere definito propriamente islamico.
Leoni o sciacalli?

O l’islam può essere visto come una storia mondiale parallela a tutte le altre, le quali si contaminano reciprocamente. Visto in questa luce, l’islam è una vasta narrazione che si dipana lungo i secoli, ancorata alla nascita di quella prima comunità alla Mecca e a Medina quattordici secoli fa.”

Leggendo queste righe ci si accorge quanta complessità tendiamo a sacrificare quando parliamo a cuor leggero di islàm per parlare di eventi di cronaca e affini.

Anche l’affermazione “l’islàm è religione di pace” inizio a trovarla problematica, poichè foriera di facili sarcasmi e, anche qui, penso sia sciocco e riduttivo definire una civiltà, una cultura e una religione sulla base di un facile slogan, di una parola.

Il Corano e la Sunna non parlano solo di pace, come è ovvio che sia. Parlano anche di guerra, di amore, di politica, di rapporti sociali, di commercio, di famiglia, di accordi e di mancati accordi. Mi pare assurdo mortificarne la complessità nel segno della “pace”. Conoscete forse altre religioni, ideologie, culture della “pace”? Forse persino i “pacifisti” non sono poi così tanto pacifici.

Il problema principale sta nel disintossicare il dibattito pubblico sull’islàm da categorie di giudizio fuorvianti, rigide e che Edward Said non avrebbe esitato a definire etnocentriche. Smetterla di trattare un sistema di valori, una civiltà intera come fosse un feticcio, un “palcoscenico teatrale appeso all’Occidente” (cit.), di cui di volta in volta mettere in luce un minimo aspetto e farne il banner pubblicitario, appiattendo o eliminando i risultati dell’opera di commistione dell’Islàm stesso con le etnie, le culture e gli spazi geografici che ha abbracciato o incontrato, mutuandone degli aspetti o venendo a costituire il risultato di una loro rielaborazione.

E questo discorso non può che essere rivolto anzitutto ai musulmani (con i razzisti ho perso la speranza), che si chiedono come presentare a un occhio e un orecchio profano il loro sistema di valori, al quale eventi di cronaca fanno indirettamente una pessima pubblicità.

Rifiutatevi di farvi mettere in mezzo, di farvi invogliare a dare risposte da dentro/fuori, da sì/no, di dissociarvi dalle nefandezze come musulmani anzichè come semplici esseri umani dotati di raziocinio.

E pretendete – ripeto, pretendete – dibattiti televisivi paritari, simmetrici, in cui uno sciacallo adulto non abbia come interlocutore un cucciolo di zebra. Per citare/mutuare Giuliano Ferrara (sic!): “agli sciacalli si risponde con un branco di leoni”. Che si sa: quando gli sciacalli li vedono, scappano via.

 

Leoni o sciacalli è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.