La resistenza e la rivoluzione a Kobane (e dintorni)

di Lorenzo Declich

La cittadina curdo-siriana di Kobane è stata sotto assedio per più di un mese.

A combattere erano gli assalitori di Daesh (IS, Stato islamico, Daesh, ISIS, ISIL chiamateli come volete), e i difensori curdi e arabi: YPG/YPJ e brigate dell’Esercito Siriano Libero.

A poche centinaia di metri dai luoghi dello scontro, in territorio turco, erano appostati diversi mezzi blindati dell’esercito regolare turco.

La maggior parte dei civili a Kobane era stata evacuata, ne restava in città un numero che, a seconda delle fonti, variava dalle poche centinaia (soprattutto vecchi, sembra) ai 5000-6000.

L’IS attaccava la città da tutte le direzioni eccetto quella nord, dove si trova la frontiera con la Turchia.

Lì, appunto, stanziavano i mezzi blindati turchi.

L’esercito turco è stato impegnato a sedare i tentativi di entrata in Siria di civili curdi e turchi che, appartenenti o meno a organizzazioni politiche di qualche genere, volevano andare a Kobane per unirsi ai combattenti che difendevano la città.

A un certo punto su Kobane hanno iniziato a volare bombardieri americani che hanno attaccato postazioni di Daesh in città e nelle retrovie.

Se la cosa fosse avvenuta un po’ prima gli obiettivi sarebbero stati di più facile individuazione, dicono diverse fonti.

Ma di fatto l’intervento dell’aviazione, anche se con una tempistica errata, ha spostato l’ago della bilancia in favore dei difensori, che hanno preso fiato e guadagnato terreno.

Negli ultimi giorni, poi, si è sbloccata la situazione a nord. I turchi hanno riaperto la frontiera selettivamente – hanno permesso ad altri curdi, i peshmerga iraqeni, di portare aiuti militari e umanitari.

Poco prima gli aerei dell’alleanza avevano iniziato a lanciare medicine e armi dall’alto.

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Essendo uno dei luoghi di scontro più accesi con Daesh, l’assedio di Kobane ha ricevuto in Europa e negli Stati Uniti ampia copertura.

Vista la vicinanza con la frontiera turca i giornalisti hanno potuto assistere ai combattimenti da una distanza decisamente ravvicinata, anche se rare sono le testimonianze video “da dentro”.

In tempo reale abbiamo potuto assistere a eventi simbolici come l’imposizione della bandiera di Daesh sulla collina più alta e, a giorni di distanza, la sua successiva eliminazione.

Abbiamo potuto visualizzare decine di mappe che registravano il progresso dellla battaglia: l’avanzata di Daesh, il suo ritiro.

Abbiamo letto centinaia di tweet di persone che si trovavano lì.

Abbiamo toccato con mano la repressione turca, l’arrivo di diversi gruppi di persone, curdi o meno, che manifestavano e volevano entrare.

Abbiamo registrato il moto globale di solidarietà che in Turchia ha scatenato la repressione e ha  prodotto decine di morti.

Molti articoli e reportage hanno sottolineato le peculiarità delle enclave curde siriane.

Il toponimo “Rojava” ha fatto il giro del mondo così come l’”esperimento” di autogoverno e autonomia, sancito da una carta, da una dichiarazione di principi, lì messo in pratica.

Il mondo ha conosciuto i combattenti curdi dell’YPG, e soprattutto le combattenti curde dell’YPJ, bracci armati del partito curdo siriano del PYD.

Negli ultimi giorni sono state messe in campo diverse campagne volte alla raccolta di fondi e aiuti da destinare ai curdi del Rojava.

Ma per diversi motivi, prima di tutto a causa delle note e perniciose esigenze di semplificazione che affliggono gli operatori dei mezzi di informazione, l’opinione pubblica ha identificato Kobane col Curdistan.

L’attenzione si è concentrata su generici “diritti del popolo curdo”, quel “popolo senza Stato” che da un secolo subisce vessazioni di ogni genere.

In tanti hanno chiesto alla comunità internazionale di farsi carico delle responsabilità derivanti dall’aver “lasciato i curdi da soli”.

Il fatto è che fra quei curdi resistenti c’erano – come ho scritto all’inizio – degli arabi che erano accorsi in loro aiuto.

E come vedremo quelli lì erano degli arabi speciali che non avevano lasciato soli quei particolari curdi.

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Sebbene i media abbiano dato ampio risalto alla vicenda di Kobane la copertura dell’evento è stata parziale, o meglio selettiva.

Alcuni elementi, di certo molto interessanti, sono stati messi in risalto, altri non sono stati presi in considerazione, o ignorati, o negati.

Il primo riguarda il combattimento vero e proprio o meglio l’identità dei combattenti.

Se da una parte c’erano degli indifferenziati ed efferati seguaci del Neocaliffo di Mossul dall’altra c’erano degli indifferenziati e generosi/coraggiosi curdi, aiutati talvolta da singoli o gruppi provenienti da mondi lontani e giunti in loco per dare il loro apporto.

Abbiamo incontrato “storie di solidarietà” antibarbarie: ad esempio quella di un americano, Jordan Matson, che “ha lasciato la sua ragazza, ha smesso di cercare lavoro ed è andato a Kobane”. O anche quella, un po’ meno decrittabile, dei bikers tedeschi e olandesi.

Molto meno abbiano sentito parlare della “cabina di regia” chiamata “Vulcano dell’Eufrate” (Burkan al-Furat), frutto di un accordo siglato nello scorso settembre dai curdi dell’YPG/YPJ e diversi gruppi di combattenti arabi locali o provenienti da aree ora occupate da Daesh, la maggior parte dei quali appartenenti all’Esercito Siriano Libero.

Parliamo di un numero di combattenti che oscilla dalle 300 alle 1000 unità. Un numero che può aver fatto la differenza in battaglia.

Cercando nel web si trovano le specifiche di questo accordo e diverse analisi riguardanti la sua natura.

La questione è controversa. YPG/YPJ e Esercito Siriano Libero si sono scontrati in passato, quando Daesh non esisteva.

L’Esercito Siriano Libero accusava i curdi siriani di collaborare col regime ed effettivamente per un lungo periodo le enclave curde hanno mantenuto rapporti stabili con l’amministrazione di Asad, in cambio di un’autonomia sempre più marcata.

Mentre il PYD costruiva l’autonomia, non senza compiere forzature per conquistare l’egemonia politica, l’Esercito Libero Siriano – che al contrario dell’YPG/YPJ era costantemente sotto il fuoco del regime – si andava sfaldando a causa di dissidi interni, mancanza di foraggiamenti, infiltrazioni di criminali comuni.

Si gonfiavano altri gruppi armati anti-Asad, quei gruppi come il Fronte islamico che, invece, ricevevano copiosi aiuti dai paesi del Golfo.

E si gonfiava anche la Jabhat al-nusra, che nell’aprile del 2013 rivelò la sua connessione con al-Qaida e nel cui corpo era germinata Daesh.

Nell’est della Siria, e attorno alle zone settentrionali a maggioranza curda, questa organizzazione era dominante.

Lì, come altrove, ciò che rimaneva dell’Esercito Siriano Libero si coordinava con la Jabhat al-nusra che si scontrava anche con i curdi.

Il paradigma cambiò con la nascita di Daesh, che rese la Jabhat al-nusra ininfluente in quelle aree e schiacciò l’Esercito Siriano Libero i cui combattenti, in parte, ripiegarono nelle aree curde, dove trovarono accoglienza.

Sono questi combattenti ad aver ricostituito un qualche coordinamento fra gruppi ormai allo sbaraglio dell’Esercito Siriano Libero, fra cui milita fra l’altro una brigata curda (Jabhat al-akrad), e ad aver inaugurato un nuovo corso.

C’è chi dice che questa cabina di regia esploderà nel preciso momento in cui Daesh sarà eliminato, sottolineando che i curdi del PYD in altre aree (ad esempio Hasake) si coordinano col regime contro Daesh.

E’ possibile, ma c’è chi racconta, invece, che le operazioni congiunte hanno messo in linea posizioni che fino a poco tempo fa sembravano inconciliabili e ha determinato nuove consapevolezze, nuove fratellanze.

E’ possibile anche questo. Fra le certezze che abbiamo c’è il comunicato del comando generale dell’YPG su Kobane del 19 ottobre scorso, un testo che sottolinea l’apporto dell’Esercito Siriano Libero e la collaborazione dell’YPG/YPJ con esso.

I maligni farebbero notare che i turchi qualche giorno prima avevano chiesto all’YPG/YPJ di confluire nell’Esercito Siriano Libero come pre-condizione per l’apertura delle frontiere. Questa dichiarazione, dunque, potrebbe essere niente altro che una strizzatina d’occhio a Erdogan. Ma non si può non tener conto dell’atteggiamento americano che, oltre a dare una mano dall’alto, ha sviluppato un’iniziativa diplomatica volta a convincere i turchi a cedere su Kobane, cosa che in una certa misura, come abbiamo visto è avvenuta.

E, inoltre, non bisogna dimenticare che i turchi, oltre a bloccare la frontiera e a reprimere con la violenza tutte le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei resistenti di Kobane, hanno negli ultimi giorni bombardato alcune postazioni del PKK, il partito dei lavoratori curdi di Turchia, descritto da molti come “la madre” del PYD ma soprattutto, di fatto, organizzazione omologa al PYD dal punto di vista ideologico (da notare, in questo quadro, che lo stesso PYD al suo interno ha una propria dinamica di sviluppo nella quale, affermano alcuni, le nuove generazioni prendono sempre maggiore influenza, allontanandosi dalla vecchia guardia, più legata al PKK).

Sembra dunque che il tributo dell’YPG all’Esercito Siriano Libero non sia un esercizio di cerchiobottismo, non sia un modo per tenersi buoni i turchi.

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Ma nel comunicato c’è molto di più, c’è qualcosa che ci fa aprire lo sguardo su uno scenario finora non colto né raccolto e che il lettore medio di notizie su Kobane probabilmente non ha mai nemmeno immaginato:

Combattere il terrorismo e costruire una Siria libera e democratica sono la base dell’accordo che abbiamo firmato con le fazioni dell’Esercito Siriano Libero. Come è evidente, il successo della rivoluzione dipende dallo sviluppo di queste relazioni fra tutte le fazioni e le forze del bene in questo paese (cit.).

In queste due frasi troviamo una rivoluzione, un’idea di futuro e un paese, la Siria, in cui questa rivoluzione e questa idea di futuro si proiettano.

Troviamo un piano di solidarietà interetnico, interlinguistico, interreligioso che sfugge ai reticoli nei quali sono stati imprigionati molti dei dispacci provenienti da Kobane.

Non si ringraziano i fratelli curdi di Iraq, di Iran, di Turchia.

Non c’è un Curdistan libero e democratico nel comunicato dell’YPG.

Al curdocentrismo del quale si è intriso il nostro mondo dell’informazione, che rende i curdi tutti uguali ed esclude dal racconto tutti gli altri, fra cui quei curdi che in Siria e in Iraq combattono o parteggiano per la parte opposta – ossia con Daesh – questo comunicato oppone un’altra realtà, della quale dovremmo parlare.

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Ho sotto gli occhi l’immagine di due curdi risalente agli inizi del ‘900. La didascalia recita: “Mesopotamia – tipi di curdi massacratori”. Perché massacratori? Perché i primi massacri di armeni, in Turchia (1894-1896), li fecero anche i curdi.

I curdi, insieme a turchi, arabi, turkmeni e yörük, furono al tempo inquadrati da irregolari in una cavalleria sultaniale, la Hamidiye, che prendeva di mira le comunità armene.

Passo a un’altra immagine, risalente al 1908. Siamo nella piazza principale di Urfa, l’antica Edessa, ma oggi Şanlıurfa, per gli arabi ar-Ruha, per i curdi Riha, per gli armeni Urha, per gli assiri Urhoy, una città che si trova a meno di 60 chilometri da Kobane, in quello che oggi definiamo “Curdistan turco”.

La pluralità di denominazioni della città riflette la sua storia “mista”. E’ il 24 luglio, il giorno della restaurazione della costituzione in Turchia da parte del sultano. Nella piazza ci sono persone di lingue, culture e religioni diverse. Turchi, curdi, armeni, assiri, tatari, arabi e così via.

Ora Şanlıurfa è una città mista, ma molto meno mista di prima. Negli anni 1915-1916 fu toccata dal massacro degli armeni (e degli assiri): il 40% della popolazione (che allora era di 75.000 persone) fu sterminata. Non ci sono più armeni a Urfa, almeno non quelli di una volta. Erano circa 25.000.

La cosa iniziò con una “resistenza armena”. Un’ immagine, risalente al 1915, ritrae “civili armeni di Urfa che si difendono dai turchi e dai curdi, luglio 1915″.

Oggi diverse associazioni curde riconoscono le responsabilità curde nei massacri degli armeni, ma se mettete a confronto le mappe “storiche” del Kurdistan e quelle dell’Armenia vedrete che si sovrappongono un bel po’.

Con questo non voglio dimostrare quanto siano illegittime le rivendicazioni dei nazionalisti curdi o quelle degli armeni della diaspora, né il contrario.

Vorrei far riflettere sul fatto che tutti i nazionalismi sono escludenti e non si vede il motivo per cui un nazionalismo possa essere più valido e meno potenzialmente genocida di un altro.

Di certo i curdi sono stati perseguitati in diverse forme e a più riprese in ognuno dei paesi nei quali si sono ritrovati a vivere dopo i trattati che seguirono alla conferenza di Parigi del 1919-1920, che non diedero loro uno Stato.

Ma ancora nel 1908 i curdi semplicemente “non erano”, o meglio “non erano riconosciuti come qualcosa a sé nell’impero ottomano”.

Nelle elezioni che seguirono alla promulgazione della costituzione turca nel 1908 nessun seggio parlamentare andò specificamente a curdi.

Il nuovo parlamento era composto di 147 turchi, 60 arabi, 27 albanesi, 26 greci, 14 armeni, 10 slavi e 4 ebrei.

Forse, ma dovrei controllare, fra quei 146 turchi c’era qualche “turco di montagna”.

Insomma, voglio inserire la questione curda in un quadro problematico ma, soprattutto, ricordare che, se la questione è dire sì a uno “Stato curdo” come “risarcimento” per i torti subiti, apriamo il vaso di Pandora di contenziosi centenari.

E, contestualmente, voglio ricordare che non tutti i curdi sono nazionalisti, anzi: come in un qualsiasi altro contesto linguistico-culturale vi è chi non ha la minima voglia o il minimo interesse a promuovere l’idea di uno Stato indipendente.

Diverso, e ancora una volta molto complesso, si fa il discorso se parliamo di autonomia, un concetto che coinvolge la possibilità di esprimere una identità e anche un certo patriottismo che può superare le frontiere degli Stati.

Guardando alla distribuzione delle comunità curde nei diversi paesi vediamo che ognuna di esse ha una corrente autonomista che si articola anche in base alla risposta che le rivendicazioni ricevono in quei paesi.

In Iran l’autonomia curda è negata, in Iraq è sancita, in Turchia è (o era dopo i recenti eventi) in discussione, in Siria è stata negata fino alla rivoluzione del 2011 quando Asad, per “tenere buoni” i curdi l’ha promessa, insieme alla concessione di una cittadinanza fino a quel momento semplicemente ignorata.

In tutti questi paesi, e la comunità internazionale non è da meno, l’idea di uno Stato curdo indipendente non è neanche presa in considerazione.

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Fra i gruppi certamente autonomisti ma non nazionalisti ci sono evidentemente i curdi siriani del PYD. Ma, appunto, sarà bene specificare di quale autonomia parliamo.

In Iraq l’autonomia dei curdi si è tradotta, in breve, nella gestione del potere nelle zone di pertinenza, alle dipendenze dal governo centrale iraqeno, con una conseguente lotta fra potentati, più o meno intensa.

In Siria, come hanno sottolineato da più parti, il modello – prodottosi in tempo di guerra – è diverso sotto molti punti di vista.

Il procedere del processo di autonomia ha segnato, anche grazie al disinteresse crescente del regime di Asad nei confronti delle aree curde, un cammino di autogestione meno controllato dall’alto, anche se egemonizzato dal PYD.

Si tratta di un modello che trova il suo più diretto parallelo a pochi passi dal Curdistan siriano, in altre zone della Siria, sebbene queste siano state esperienze immensamente più difficili viste le “attenzioni” (cioè i bombardamenti) ricevute dal regime.

Negli anni seguenti alla rivolta del 2011 molti territori in Siria sono stati gestiti con metodi e mentalità profondamente simili a quelli che ritroviamo a Kobane.

Quelle frasi, sopra riportate, del comando dell’YPG suonano molto familiari a molti siriani, soprattutto a quelle migliaia di attivisti che in Siria hanno costruito forme di autoorganizzazione e autogoverno omologhe a quelle che ritroviamo a Kobane.

Suonano invece “uniche” e “isolate”, oltre che molto esotiche, nel resto del mondo, dove la rivoluzione siriana, citata dal comando dell’YPG, è quasi completamente sconosciuta o disconosciuta.

O nascosta dietro a stereotipate guerre etcniche e/o religiose.

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Consiglio qui alcune letture:

SYRIA: The life and work of anarchist Omar Aziz, and his impact on self-organization in the Syrian revolution

The struggle for Kobane: an example of selective solidarity

We need to support forms of liberation struggle unconditionally

#‎Important‬ ‪#‎Our_Waar_Is_Burning‬

Questo è un articolo pubblicato su Nazione Indiana in: La resistenza e la rivoluzione a Kobane (e dintorni)
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