Categoria: International Tahrir

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

L’Egitto di el-Sisi


http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
SN: Praticamente sì.

RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

RB: Ci spieghi meglio.
SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

Il futuro di piazza Tahrir

RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

Sugli autori
Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

(1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
(2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Tunisia: “dialogo nazionale” o “riscatto del regime”?

di Fathi Chamkhi

29 ottobre 13
Fonte: http://www.communianet.org/

Pubblichiamo questo articolo di Fathi Chamkhi, esponente del Fronte Popolare Tunisino. Chamkhi analizza lo stato dell’arte della rivoluzione tunisina, evidenziandone i pericoli e le contraddizioni ma anche tracciando una strada che possa ridare forza ed impeto ad un processo tuttora in atto.

Lo scorso 5 ottobre è iniziato il “Congresso nazionale per il dialogo” sulla base di una bozza scritta dal quartetto politico che patrocina questo dialogo. Di fatto si tratta di una riproposizione del dialogo nazionale lanciato dallo stesso quartetto nel maggio scorso, interrotto dall’assassinio del leader del Fronte popolare Mohamed Brahmi.Solo le organizzazioni politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente hanno accettato questo dialogo. I suoi compiti sono quelli di concludere la redazione della Costituzione, promulgare una nuova legge elettorale, fissare la data delle elezioni e mettersi d’accordo su un nuovo governo provvisorio con ampi poteri che dovrebbe essere presieduto da una personalità indipendente, tutto questo nell’arco di un mese.Il Fronte Popolare è stato isolato da questo processo, solo 3 dei 14 partiti che ne fanno parte hanno partecipato all’incontro. Alla fine l’obbiettivo sarà quello di tirar fuori Tunisi dalla crisi e di attivare una “transizione democratica”.

Questo “dialogo” rappresenta però l’opposto di quello che centinaia di manifestazioni, sit-in e scioperi, che hanno riunito in tutto il paese migliaia di persone, chiedevano. Il loro obbiettivo infatti era ottenere lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e di tutti i poteri che da essa scaturiscono, specialmente il governo provvisorio. Questo movimento rivoluzionario accusa gli islamisti e i loro alleati di aver tradito la rivoluzione, di essere responsabili dell’aggravarsi della crisi e del deterioramento della sicurezza nel paese. Questo significa anche la cancellazione definitiva del mandato elettorale da dove deriva la legittimità a governare di Enhadda.

Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia locale è stata strutturata e focalizzata sul mercato estero e i benefici sono stati ampiamente raccolti dalle forze della globalizzazione capitalista neoliberista. Il risultato di questa rapina a mano armata è stata una enorme distesa di insicurezza, esclusione e povertà. Questo sistema aveva bisogno di un potere politico repressivo per essere mantenuto per un periodo di tempo più ampio.
Rompendo l’equilibrio di forze che ha permesso alla ricca minoranza di sfruttare la maggioranza, i poveri, le classi oppresse, grazie alla sollevazione rivoluzionaria, sono riusciti a cacciare il dittatore Ben Alì e a creare le condizioni politiche per rompere tutte le catene che li hanno condannati alla miseria e sottoposti all’oppressione.

Ma il processo rivoluzionario deve ancora affrontare molti ostacoli. Da un lato, i dubbi, le ambiguità, l’opportunismo dei partiti di sinistra e la mancanza di fiducia della classe operaia e della gioventù. Dall’altro l’adesione di un parte del movimento rivoluzionario al blocco controrivoluzionario. Infine, l’ostinato rifiuto della minoranza dominante, che detiene il potere economico e politico, a soddisfare le esigenze più urgenti delle classi lavoratrici, insistendo sulla fuga in avanti del capitalismo neoliberista, continuando con la sua politica di austerità, i suoi inganni e la sua ideologia reazionaria con le sue molteplici sfaccettature.
Se a questo si aggiunge l’enorme pressione esercitata dalle forze imperialiste sulle principali organizzazioni sociali e politiche, si ottiene un’idea delle forze controrivoluzionarie che cercano di tagliare la strada per l’emancipazione e la libertà per le classi lavoratrici e i giovani. Questa crisi rivoluzionaria accelera la trasformazione della crisi sociale in crisi economica, finanziaria, politica ed ambientale. Seguendo il percorso di Ben Ali, accelerando la liberalizzazione capitalista neoliberista dell’economia e il rafforzamento delle misure di austerità sociale, Ennahdha semplicemente sta facendo cadere la maschera religiosa che le dava accesso al potere. Smascherando di fatto la natura borghese, corrotta e reazionaria mostrata in piena luce.

Per intensificare il processo rivoluzionario, è necessario mantenere la pressione delle continue mobilitazioni popolari contro Ennahdha, al fine di isolarli, per ridurre il loro danno ideologico, per limitare la pericolosità politica e sociale ed espellerli dal potere. Tuttavia, la direzione della FP, che è riuscita a stare alla testa del movimento rivoluzionario, è stata travolta nella direzione sbagliata dai partiti borghesi che l’hanno fatta aderire al Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) che preparava il “dialogo nazionale”. Una vera e propria ancora di salvezza per Ennahdha, che cade così in basso che a malapena riesce a mantenere la testa fuori dall’acqua.
Ora, salvare il partito islamico è l’ultima preoccupazione del regime economico dominante. Lo scopo della controrivoluzione è di far deragliare la rivoluzione! Tutti i bellissimi discorsi sul “migliore interesse della Tunisia”, la “transizione democratica”, ” la salvezza nazionale”, il “consenso nazionale”, ecc. sono retorica meschina che cerca di nascondere alle masse questo obiettivo. Nel 1987, Ben Ali, i suoi partner e dei suoi accoliti, nascosero al popolo tunisino i dettagli del colpo di stato sotto un sacco di discorsi e slogan destinati a calmare i tunisini.

Il compito controrivoluzionario del partito islamico non è finito, le classi dominanti ne hanno ancora bisogno per reprimere il movimento rivoluzionario. Ennahdha però sta perdendo credibilità. Non ha dato nessuna risposta ai drammi sociali; Ennahdha ha perso gran parte della fiducia di cui godeva tra le classi lavoratrici prima di arrivare al potere, tradendo le speranze che alcuni hanno avuto in essa. La legittimità che ottenne alle elezioni è svanita. La controrivoluzione ha bisogno di una nuova situazione per porre fine alla resistenza sociale. Gli islamisti sono consapevoli di questo, ma sono paralizzati dal drammatico cambiamento della situazione in Egitto.

L’omicidio di Belaïd a febbraio, Brahmi dopo, a luglio, ha causato un vero elettroshock. Ennahdha, in assenza di una corretta reazione del FP, è riuscita ad assorbire l’impatto del primo omicidio. Ma, al momento, sta soffrendo gli effetti del secondo. La crisi politica, che è la più evidente, continua nonostante il “dialogo nazionale”. La situazione economica e sociale piuttosto catastrofica, il degrado della sicurezza soprattutto considerando la proliferazione di gruppi jihadisti, così come gli errori e strafalcioni degli islamisti al potere, sono stati più che evidenti per una significativa parte della popolazione. In più la forte e adeguata reazione della direzione del FP, in risposta all’ultimo omicidio, chiamando il popolo tunisino alla mobilitazione per cacciare gli islamisti dal potere, ha contribuito a indebolire e isolare Ennahdha.
La chiamata del FP è stata ampiamente supportata. Il movimento è cresciuto ed è arrivato fino a Tunisi da tutto il Paese, concludendosi con le massicce mobilitazioni del 6 e 13 agosto nella Capitale.

Parallelamente all’estensione e alla radicalizzazione del movimento rivoluzionario però le pressioni dei partiti borghesi, dei ministeri degli esteri dei paesi imperialisti, della direzione della confindustria tunisina spingevano il FP verso la via del “dialogo nazionale” .
Fin dall’inizio, Nida Tounes, il principale partito borghese, ha voluto portare il FP nel Fronte di salvezza Nazionale, nato poche ore dopo vaer lanciato il famoso “appello al popolo” del FP. L’obiettivo di Nida Tunes, versione modernista di Ennahdha, è chiara: da un lato fermare il FP, deviare la sua linea rivoluzionaria, e dall’altro, lavorare ai bordi di Ennahdha per costringerlo a normalizzare le relazioni con esso e creare intorno a loro una vasta coalizione politica la cui funzione principale sarà il supporto politico per il nuovo governo e con la missione di attuare l’accordo con il FMI istituito il 7 giugno. Per quanto riguarda le elezioni dipendono dalla capacità del governo e della coalizione politica che lo sostiene di realizzare la politica di austerità e di preparare il terreno per le elezioni che avranno lo scopo di consolidare la vittoria della controrivoluzione. Ma ancora manca molto perché tutto ciò si realizzi.

Possiamo dire che il FP ha sbagliato ad accettare il dialogo con questi banditi quando sono ormai tre anni che le masse hanno un’attitudine anti-imperialista e anti-capitalista piuttosto evidente? Non importano le ragioni di questo spostamento a destra, le conseguenze saranno disastrose per il processo rivoluzionario a meno che non viene corretta la direzione velocemente, mentre c’è ancora tempo per farlo. Il FP ha un bel da fare! C’è un processo rivoluzionario che dovrebbe portare a buon fine. Inoltre, è necessario correggere l’orientamento senza indugio riprendere la battaglia contro la politica di austerità e la liberalizzazione capitalista dettata dagli accordi con l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. La mobilitazione deve continuare a spazzare via istituzioni e poteri emersi dalle elezioni del 23 ottobre e combattere in difesa delle libertà fondamentali.
Per migliorare le possibilità di successo in questi compiti, il FP deve continuare la sua costruzione, che ha abbandonato negli ultimi mesi a favore delle esigenze del FSN.

Traduzione di Dario Di Nepi

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

A dialogo con Patrizia Mancini, redattrice di Tunisie-In-Red.org

di Vanessa Bilancetti Ultima modifica il Venerdì, 25 Ottobre 2013 12:36

Dove va la Tunisia? La rivoluzione è alle spalle? Quale futuro per la sinistra e per il dissenso?

L’intervista si è tenuta a Roma venerdì 17 ottobre. Lo stesso giorno a Goubellat erano stati uccisi due agenti delle forze dell’ordine in uno scontro a fuoco con gruppi salafiti. Il 23 ottobre, il giorno in cui sarebbe dovuto cominciare il dialogo nazionale, 6 agenti sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco Sidi Ali Ben Oun, in seguito al quale le opposizioni si sono convocate in sit-in permanente alla Kasbah di Tunisi, fino alla caduta del governo. DinamoPress ha ospitato molti racconti dalla Tunisia di Patrizia, e siamo ora molto contenti di averla conosciuta dal vivo potendo raccogliere le sue opinioni dal vivo.


Una situazione politica di instabile staticità: il Dialogo Nazionale

Il 25 luglio 2013 è stato assassinato il deputato Mohamed Brahmi, il secondo omicidio politico di un leader del Fronte Popolare (raggruppamento di partiti di sinistra e di nazionalisti), imputato a gruppi salafiti operanti nel Paese.

Ci sono molto dubbi riguardo i mandanti di questo omicidio. L’associazione per la ricerca della verità sugli assassini di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi – su cui ho già scritto in seguito alla loro conferenza stampa – ha fatto emergere una serie di documenti del Ministero degli Interni da cui risulta come lo stesso Ministero fosse stato avvisato del pericolo imminente dell’attentato. Risulterebbe anche che i due commissariati di Cartagine e di Ariana avessero ricevuto delle informazioni di cui non hanno tenuto conto. Su questo il Ministero degli Interni ha sconfessato solo le date di alcuni documenti utilizzati dall’associazione, ma non la sostanza del loro contenuto.

A seguito dell’omicidio di Mohamed Brahmi è nato il movimento del Bardo (il quartiere dove c’è la sede dell’Assemblea Costituente), inizialmente un vero e proprio sollevamento popolare, con momenti di fortissima tensione, anche perché il tutto avveniva immediatamente dopo gli avvenimenti in Egitto che hanno portato alla destituzione, manu militari, del presidente Morsi, del movimento dei Fratelli Musulmani.

All’inizio il movimento era costituito anche dai giovani, così come durante la Kasbah 1 e 2, e infatti in prima fila c’erano, tra gli altri, Néjib Abidi, militante della prima ora e regista engagé e Aziz Amani, blogger arrestato già durante la rivoluzione contro Ben Alì.Vi erano anche i “sanculottes” delle periferie tunisine e delle regioni dell’interno e le famiglie delle vittime della rivoluzione insieme a i feriti.

Il 24 agosto, dopo quasi un mese di sit-in, i giovani hanno deciso di ritirarsi dalla piazza , perché quel sit-in era diventato lo show dei partiti dell’opposizione che lo avevano esautorato dalla propria valenza rivoluzionaria, trasformandolo in una fiera.

Così la piazza è rimasta in mano Nidaa Tounes, un partito di destra e di stampo benalista, dove tantissime persone del vecchio regime si stanno riciclando, non ultimo Lazhar Akermi un ex segretario generale del RCD (Partito di Ben Alì).

Se inizialmente il sit-in del Bardo poteva avere una valenza rivoluzionaria, così come i sit-in della Kasbah nel 2011, per molti motivi, non ultimo l’incapacità di organizzazione e la mancanza di leadership della gioventù tunisina, i partiti, come Nidaa Tounes, ne hanno sopito le potenzialità, monopolizzato dai 70 deputati dell’opposizione che si sono autosospesi per protesta dall’Assemblea Nazionale Costituente.

Il Fronte Popolare, che tiene insieme partiti di sinistra radicale e partiti stampo nazionalista arabo, si è alleato con Nidaa Tounes, nel Fronte di Salvezza Nazionale, insieme a tutte le altre opposizioni.

Questo ha creato molte discussioni al suo interno, anche se non ci sono state scissioni, e molti mal di pancia, soprattutto nei militanti delle regioni interne, allontanando completamente i giovani simpatizzanti che non si sentono più rappresentanti da nessun partito.Nel frattempo l’UGTT, la centrale sindacale tunisina, che ha un ruolo storico e politico fondamentale, ha formato con l’UTICA, “la confindustria” tunisina, la Lega per i Diritti dell’Uomo e l’Ordine Nazionale degli Avvocati, un quartetto per favorire il dialogo nazionale tra il governo e l’opposizione in sit-in al Bardo.

Anche qui c’è una grossa contraddizione, perché l’UGTT in questa alleanza rischia di dover fare concessioni alla rappresentanza padronale in termini di controllo dei conflitti e azzeramento delle vertenze in corso. Inoltre, vi è dell’ambiguità nel ruolo che il sindacato ha assunto in questa fase e cioè il fatto di essere allo stesso tempo mediatore fra i partiti e parte in causa nell’opposizione al governo della Troika.

Anche fra i blogger e i giovani attivisti indipendenti, gli stessi che nel 2011 si incontravano nei locali del sindacato per organizzarsi, si è diffusa l’opinione che l’UGTT si sia istituzionalizzata e questo distacco è sempre più profondo.

Le condizioni per il dialogo nazionale erano sostanzialmente quattro: lo scioglimento di questo governo (con la conseguente formazione di un nuovo governo di tecnici che dovrebbe solo portare il Paese a nuove elezioni a tutti i livelli), l’immediata formazione dell’istanza per le elezioni (ISIE), l’accelerazione del processo costituzionale con l’aiuto di una commissione di esperti costituzionalisti per rivedere tutta la Carta,l’immediata formazione dell’Istanza per il controllo dell’audio-visuale (regole per la par-condicio).

Il problema forse è che per l’attuazione di questo programma vengono richiesti tempi obiettivamente troppo ristretti e il pericolo rappresentato da un governo di tecnocrati, così come è avvenuto in altri paesi.

Chiedere lo scioglimento del governo e di elezioni a tutti i livelli è necessario, perché Ennahda ha continuato, come succedeva durante il periodo di Ben Alì, a nominare tutte le cariche locali e regionali, in base alla vecchia legislazione dell’epoca della dittatura, dimostrando scarsa “immaginazione” (o nessuna volontà?) rivoluzionaria nel rivedere le modalità delle nomine.

Quindi, ci troviamo in un Paese dove nessuno è stato eletto nelle rappresentanze locali con una marea di gente incompetente, incapace e corrotta che ricopre ruoli di potere, ma invece di far riferimento a Ben Alì, fa riferimento ad Ennahda. In questo caso il problema evidentemente non è la religione, ma un sistema che è rimasto mafioso e corrotto.

Il Fronte Popolare si trova un una vicolo cieco all’interno di questo Fronte di Salute Nazionale: se all’inizio sembrava solo una scelta tattica, ora sembra addirittura che abbia intenzione di presentarsi alla prossime elezioni insieme a Nidaa Tounes.

In ogni caso la redazione della Costituzione era quasi conclusa e l’Istanza per le elezioni pronta: chiedere di ricominciare tutto da capo significa bloccare di nuovo il Paese. Inoltre, bisogna riconoscere che la Costituzione, sulla spinta delle lotte, aveva riconosciuto i diritti delle donne, la piena libertà di espressione, senza alcun riferimento alla Sharia. Ripeto, a mio avviso, la richiesta di sciogliere il governo è assolutamente legittima, ma ciò deve avvenire tramite forti mobilitazioni popolari e certamente non con l’appoggio dell’esercito, perché questo governo non ha mai ascoltato le istanze sociali che emergono con forza dalle lotte presenti in tutta la Tunisia, oltre che aver ceduto alle pressioni internazionali e degli Usa.

Lo scontro laici–religiosi, una trappola per la sinistra?

Qual è il vero problema della sinistra tunisina? E’ di essere caduta nel tranello dello scontro laici e religiosi, in un paese dove il 90% è religioso o comunque si dichiara rispettoso dei valori islamici. I problemi sono altri: l’emarginazione totale di alcune regioni della Tunisia che non hanno avuto alcuno sollievo dalla cacciata di Ben Alì, la povertà in aumento, l’esclusione totale dei giovani dalla vita sociale e politica.

In occidente piace molto questa storia dello “scontro di civiltà”, ma la sinistra tunisina come primo obiettivo dovrebbe porsi quello di difendere le classi meno abbienti, la classe operaia e contadina, le fasce emarginate dalla società, non rincorrere lo scontro fra “il cattivo islamico e il laico buono”.

E’ innegabile che ci sia un aumento della violenza di stampo fondamentalista, in particolare al confine con l’Algeria. Probabilmente questi gruppi sono finanziati dall’estero, anche se non si sa bene da chi. Bisogna ammettere che l’Arabia Saudita è il più grande nemico delle primavere arabe.

Ennahda è un partito con molte correnti interne, la minoritaria è quella più vicina alle istanze democratiche, la più forte è quella di ispirazione sunnita, dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, questa lotta tra correnti è nascosta, ma molto forte. E’ probabile che una parte deviata del Ministero degli Interni e correnti minoritarie salafite abbiano a che fare con gli omicidi di Belaid e Brahmi.

Purtroppo sia Ennhada che i salafiti sono molto abili nel lavoro nelle periferie e fra la povera gente. E infatti oggi proprio nelle banlieues più povere fa presa la vulgata salafita e fondamentalista, laddove la sinistra non ha saputo radicarsi per la sua incapacità di parlare ai disoccupati e agli emarginati dalla società, tanto meno l’élite francofona! La diffusione della predicazione salafita (e jihadista) nei quartieri delle periferie questa diffusione è stata prima favorita anche da Ennhada, ma ora si sta ritorcendo contro lo stesso partito islamico.

La libertà di espressione, le verità nascoste.

Un altro discorso che in occidente piace molto è quello sulla libertà di espressione. Va detto subito che la libertà di espressione in Tunisia esiste, forse è l’unica vera acquisizione della rivoluzione, ma esistono anche leggi fatte dal regime precedente che Ennahda , o meglio il governo della Troika, non ha cambiato. Il sistema giuridico e poliziesco è esattamente lo stesso di Ben Alì. E quindi si assiste spesso ad una schizofrenica applicazione di regole in aperto contrasto con le nuove libertà, ma spesso dietro presunti attacchi alla libertà d’espressione si nascondono attacchi molto più politici, in particolare contro la gioventù che ha fatto la rivoluzione.

L’esplosione della parola che c’è stata dopo la rivoluzione infatti non si è persa in Tunisia. Invece si stanno colpendo con una repressione durissima i giovani che hanno fatto la rivoluzione, gli artisti sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile all’estero. Ma poi ci sono tanti processi di cui non parla nessuno, in cui c’è un accanimento terribile contro i giovani tunisini che hanno alzato la voce.

C’è un ragazzo, di cui abbiamo seguito il caso, Jihed Mabrouk, che è stato rinviato a giudizio per non essersi presentato alla leva militare, eppure è sulla sedia a rotelle dal 2011, per ferite riportate in seguito a scontri con la polizia benalista. La sua vera colpa? Essersi lamentato sui media per la lentezza della giustizia militare.

Ci sono ancora ragazzi in prigione per assalti al commissariato o alle sedi del partito di Ben Alì durante la rivoluzione, in azioni che hanno contribuito alla caduta del regime, per le quali le persone non dovrebbero subire processi!

Un caso eclatante è stato quello di Sabri Safaru, a cui un poliziotto ha tirato un colpo di pistola in pieno viso, distruggendogli la mascella . La sua colpa? Essersi rifiutato di rientrare a casa, come gli era stato intimato dagli agenti. O Yasmin che è stata processata per aver tirato un uovo sul muro del Ministero degli Interni, o ancora il regista Nessreddine Shili, oggi in prigione per aver gettato un uovo contro il Ministero della Cultura.

Weld15 è un rapper che è stato arrestato per la seconda volta e, ad oggi è in prigione per aver scritto una canzone in cui si definiscono i poliziotti come dei cani. Un altro rapper, Klai BBJ, è stato rilasciato solo in questi giorni.

Poi c’è la storia dell’arresto degli 6 artisti: Néjib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayad, SKander Ben Abid. La polizia è entrata in casa senza mandato, arrestando tutti per uso di droga. Per l’utilizzo di hascish in Tunisia si può arrivare fino ad un anno di condanna, senza la possibilità di attenuanti. La sera prima a Nèjib era stato rubato in casa l’hard disk contenente tutto il suo nuovo film, dove denunciava la complicità della polizia tunisina con i trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche migratorie della UE.

E ancora: Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver pubblicato delle caricature del profeta, così come il suo collega e amico Ghazi Beji, condannato in contumacia e ora rifugiato politico in Francia. Questo è passato come il primo caso di censura dopo la rivoluzione, ma la questione non è così semplice come sembra – utile la lettera di Azyz Amami http://www.rue89.com/2013/09/24/lettre-dun-activiste-tunisien-a-edgar-morin-soutenez-246019 ad un giornale francese per comprendere fino in fondo la situazione.Jabeur e Ghazi avevano denunciato tutti i traffici esistenti all’interno di una società collegata alle Ferrovie dello Stato, clientelismo, peso dell’appartenenza ai clan finanziari, ecc. Sono stati denunciati da un imam, cugino di una delle persone accusate di corruzione, per aver criticato l’Islam, cosa che hanno effettivamente fatto. Il giorno dopo la predica un avvocato, conosciuto per il suo passato pro Ben Alì, li ha denunciati sulla base di una legge coloniale del 1905 contro la blasfemia. In realtà come ci dice Azyz, Jabeur e Ghazi avevano “preso posizione” contro tutto ciò che non è cambiato dopo la rivoluzione.Ad oggi Jabeur è in prigione, ed è stato picchiato ripetutamente, perché chi va dentro per blasfemia è considerato alla stregua di un pedofilo. Esiste una grande campagna per sostenerlo: #FreeJabeur.

In conclusione…

Sulla Tunisia sono meno ottimista, ma non si torna più indietro, non tornerà ad essere una dittatura. Si andrà verso una normalizzazione dei processi politici, i conflitti verranno dalla base del sindacato e dai giovani rivoluzionari e su questo bisogna dare man forte. O il Fronte Popolare fa marcia indietro o il conflitto verrà da altre parti. Oggi la Tunisia è nel caos, ma il cambiamento ha bisogno di tempi lunghi.

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

La Siria tra rivoluzione e controrivoluzione

Di Gilbert AchcarTerry Conway

4 ottobre 2013


Gilbert Achcar, autoredel nuovo libro The People Want, è stato intervistato da Terry Conway per la rivista britannica “Socialist Resistance”  http://socialistresistance.org/5531/syria-between-revolution-and-counter-revolutions


TC: Potrebbe darci una valutazione sull’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?
GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, ovvero che quanto è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come è stata definita dai media, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta. Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra delle  cosiddette ‘rivoluzioni  colorate’.  Io, da parte mia, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà e che quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario di lungo periodo che si sarebbe sviluppato lungo molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da questo punto di vista, quanto successo finora è solamente la fase iniziale del processo. In alcuni paesi sono riusciti ad andare oltre la fase iniziale rovesciando i governi esistenti, come nel caso di Egitto, Tunisia e Libia – i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E possiamo vedere che questi paesi sono ancora in pieno subbuglio, in stato instabilità – il che è normale in  periodi rivoluzionari.
Chi vuole credere che l’insurrezione araba sia finita o che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sventura ho sottolineato il fatto che questo era in realtà inevitabile dal momento che elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate esistenti in questi paesi. Ho sostenuto che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, considerando le vere radici del processo rivoluzionario.
Questo processo rivoluzionario di lungo periodo è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione, specialmente giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le reali ragioni fondamentali dell’esplosione, e fino a quando queste cause non vengono affrontate, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo non proporrà soluzioni a questi problemi fondamentali fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want  [Il popolo vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe inevitabilmente fallito. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.
E’ quindi in corso un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di avanzamenti e periodi di arretramenti – talvolta periodi di ambiguità. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo assistito a questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata in una democrazia da parte di un movimento di massa che ha chiesto le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse fatte al popolo. Allo stesso tempo, e in questo sta, naturalmente, l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, sia tra i settori egemoni della sinistra larga che tra i liberali.


TC:  Quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?
GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 è parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene negli altri paesi: è parte dello stesso fenomeno e guidato dalle stesse cause fondamentali – da uno sviluppo bloccato e da una disoccupazione in particolare giovanile. La Siria non fa decisamente eccezione – è anzi uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della regione. Questa situazione è il risultato delle politiche neoliberiste degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente di quelle del figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare raggiungendo un livello in cui quasi un terzo della popolazione si trovava sotto la soglia nazionale di povertà, con una disoccupazione in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le sottostimate cifre ufficiali segnalavano il 15% di disoccupati in termini generali, e oltre un terzo per quanto riguarda i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime estremamente corrotto – nel quale il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese controllando, è opinione diffusa, oltre metà dell’economia. Ed è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e governa il paese da diversi decenni.
Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia mobilitata. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.
Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in gran parte per mezzo del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime è fondato su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione, gli Alauiti.
Con un esercito totalmente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era sbagliata. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.
Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno portato rapidamente a guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni con cui deve confrontarsi l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non costituissero una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita e dalle varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.
Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere all’interno dell’insurrezione siriana un risultato favorevole ai loro interessi , trasformando la rivoluzione democratica – che costituirebbe una minaccia per loro – in una guerra settaria. In questo caso c’è stata una reale convergenza tra loro e la principale controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio n Siria ci sono state manifestazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione: organizzate e guidate da giovani in rete tra loro attraverso i social media; manifestazioni molto coraggiose con chiare rivendicazioni sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano dirette da Al Qaida, esattamente quello che sosteneva Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente, dicendo a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici, combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, quanto invece sostenerci.
Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per fomentare lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che i gruppi di Al Qaida siano infiltrati e manipolati dal regime. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria come per gli altri paesi della regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole una cosiddetta ‘transizione ordinata’; un cambio di mano con una sostanziale continuità della struttura statale. Washington e Londra continuano a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’, spiegando di aver sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato, rimuovendo solamente Saddam Hussein; se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà”.

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di dirigerla e di gestirla mentre loro erano impegnati in negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che ottenesse le dimissioni del padre in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo limite quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi riguardo le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che  Obama ha chiamato anche un anno ‘soluzione yemenita’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, aveva ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove tira ancora molti fili. Questa è solamente una presa in giro, una vera frustrazione per le forze radicali di quel paese. Questo è anche il motivo per cui in Yemen nulla è finito, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.
Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente fiammata è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, con la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva tracciato la sua ‘linea rossa’ riguardo l’uso delle armi chimiche. Anche mentre mettevano in conto gli attacchi, spiegavano però che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero influenzato l’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo nel quale segnalava che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non alterassero l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.
Le potenze occidentali non vorrebbero dare alcun appoggio sostanziale – specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha scritto il presidente dello Stato Maggiore interforze statunitense, Martin Dempsey, “in Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronte.”


TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe giusto considerarla come la quarta colonna, in questo caso?
GA: Non l’ ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In questo senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.


TC: Non è forse vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe sostenesse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana ha davvero pochi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero favorevoli alle rivoluzioni, possiamo assistere ad atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano o di Mosca che descrivono l’intera insurrezione come jihadista. E ci sono persone che guardano alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene sul piano politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come molto più progressisti a paragone della Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio, aliquota unica di imposta sui redditi al 13%, imprenditori banditi, e così via. Ci sono molti più motivi per considerare la Russia come un paese imperialista piuttosto che antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e l’assoluto opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese; nel 1983-85, ha condotto o appoggiato guerre contro i campi palestinesi in Libano; nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale e filo-statunitense di Hariri in Libano; e durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso per cui  il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime estremamente opportunista che non esita a cambiare campo e alleanze per promuovere i propri interessi.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?
GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%. Questo significa che la maggioranza delle forze agiscono sotto la bandiera del Libero esercito siriano (FSA), anche se parte di queste hanno una tendenza islamica. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Questo parlando dei gruppi armati – perché per quanto riguarda la resistenza popolare, in grande maggioranza le persone non sono interessate a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.


TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza è organizzata e quali siano le sue principali richieste?
GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, così come in tutti gli altri paesi della regione, per la maggior parte giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che chi è di sinistra non potrebbe evitare di sostenere.

La seconda fase è stata la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questa è stata una differenza importante rispetto alla Libia dove il Consiglio Nazionale Transitorio si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, per quanto anche in quel caso vi fossero dei problemi. Il CNS è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, a parte alcuni collegamenti. E’ stato creato con interferenze della Turchia e del Qatar; l’Emirato ha finanziato il CNS, specialmente la Fratellanza Musulmana che era ed è ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale in esilio.
Ma nello stesso CNS si possono trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico Popolare, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’CNS e ne hanno riconosciuto il ruolo di leadership dell’opposizione. Anche in questo caso, da un punto di vista di sinistra si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’CNS  – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è un programma abbastanza sociale, ma d’altra parte non è sicuramente diretto dalla sinistra radicale.
Il CNS è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana; questa resta fondamentalmente una coalizione di forze il cui raggio è simile a quello delle forze coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.
In seguito, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo assistito all’emergere di gruppi islamici jihadisti radicali che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha prevalentemente combattenti che provengono da fuori della Siria e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra l’Esercito Siriano Libero, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale, e i gruppi di al-Qaida.
E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti radicali sono sempre più rifiutati dalle correnti dominanti dell’opposizione, ma si capisce anche che quest’ultim non può condurre una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale e la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del’ESL.


TC: Come ha risposto l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?
GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alaouiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Ma non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e quelle provocate dalle forze contrarie al regime, queste ultime commesse prevalentemente dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.
Naturalmente ci sono reazioni feroci da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa ci si aspetta? Questo non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la popolazione. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. – analogamente a quanto successo nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti, e se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.
Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – ed effettivamente sono denunciati dall’opposizione e dall’ESL. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di scala tra le uccisioni settarie di  massa del regime e quelle commesse dalle forze contrarie al regime.


TC: Quale è la relazione con la lotta curda?
GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi, il primo perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti perché volevano che si unissero a loro. Il CNS includeva nel suo programma il riconoscimento dei diritti delle minoranze – senza arrivare a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione, ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, per quanto personalmente sarei naturalmente completamente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha colto l’occasione per prendere il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e che ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non intervengono direttamente nella guerra civile, sono occupati a controllare la loro area, stabilendo un’autonomia de-facto come è accaduto in Iraq. Non credo che in futuro possano perderla  – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.


TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dall’ESL? Chiaramente la situazione umanitaria è disastrosa, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?
GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente orribile. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista, abbiamo assistito alla creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per sostituirla; non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o o qualcosa del genere, sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di riempire il vuoto di potere creato dal crollo delle strutture statali locali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare,  è stata molto più sotto il controllo islamico di quanto sia accaduto in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, contrastare la regime e quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

Traduzione a cura di Solidarietà Internazionalista

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

In Siria esiste anche l’autorganizzazione contro regime e gruppi islamisti

 

 

Traduzione a cura di http://www.communianet.org 

Per più di due anni la maggior parte degli osservatori ha analizzato il processo rivoluzionario siriano in termini geopolitici, dall’alto, ignorando le dinamiche politiche e socioeconomiche che scaturivano dal basso. La minaccia di un intervento occidentale ha solamente rafforzato l’idea di uno scontro tra due fazioni: gli Stati occidentali e le monarchie del Golfo da una parte, Iran, Russia ed Hezbollah dall’altra. Ci rifiutiamo di scegliere tra questi due schieramenti e rifiutiamo questa logica del “male minore” che condurrà soltanto alla sconfitta della rivoluzione siriana e dei suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il rifiuto del settarismo. Il nostro sostegno va al popolo rivoluzionario che lotta per la sua libertà e l’emancipazione. Infatti solo un popolo in lotta provocherà non solo la caduta del regime, ma anche la creazione di uno stato laico e democratico e la progressiva affermazione della giustizia sociale. Una società che rispetti e garantisca il diritto di ognuno a praticare la propria religione e che rispetti l’eguaglianza dei propri cittadini senza discriminarli su basi religiose, etniche e di genere. Solo le masse che sviluppino il proprio potenziale di mobilitazione possono realizzare il cambiamento attraverso l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria. Ma oggi questo abc incontra un profondo scetticismo da parte di numerosi ambienti di sinistra in occidente. Ci viene detto che scambiamo i nostri desideri con la realtà, che ci può essere stato un principio di rivoluzione in Siria due anni e mezzo fa ma che le cose sono cambiate. Ci viene detto che il jihadismo è subentrato nella lotta contro il regime e che non si tratta più di una rivoluzione bensì di una guerra e che c’è bisogno di scegliere un fronte per trovare una soluzione concreta. Tutto il “dibattito” a sinistra è avvelenato da questa logica “campista”, delle volte accompagnata da teorie della cospirazione che confondono le differenze fondamentali tra la sinistra e la destra – specialmente quella estrema. Quando un giornalista riporta ciò che ha visto sul campo, nelle zone sotto il controllo dei ribelli, e confuta la narrazione dominante sull’egemonia jihadista viene semplicemente ignorato. Qualcuno aggiugne che queste storie sono parte delle menzogne dei media che puntano a rendere l’opposizione presentabile per giustificare un intervento imperialista e per questo non possiamo dargli credito. Abbiamo chiesto a Joseph Daher, un attivista rivoluzionario siriano membro della Corrente di Sinistra Rivoluzionaria che attualmente vive in Svizzera, di illustrarci lo stato dei movimenti popolari nel suo paese, precisamente dell’autorganizzazione delle masse nelle regioni liberate, della lotta contro il settarismo e contro gli islamisti. Ciò che ne esce è chiaro: si, la rivoluzione è ancora viva in Siria ed ha bisogno della nostra solidarietà. [LCR Web] [1] 

 

Comitati popolari, elezioni ed amministrazioni civili 

 Dall’inizio della rivoluzione le principali forme di organizzazione sono stati i comitati popolari a livello regionale, cittadino e di villaggio. I comitati popolari sono state le vere avanguardie del movimento che ha mobilitato il popolo per le proteste. Da allora le regioni liberate dal regime hanno sviluppato delle forme di autogestione fondate sull’organizzazione delle masse. I consigli popolari eletti sono nati per gestire queste regioni liberate a dimostrazione che era il regime che aveva provocato una situazione di anarchia, non il popolo. In alcune regioni liberate dalle forze armate del regime sono state fondate le amministrazioni civili per compensare l’assenza dello stato ed assumersi i suoi compiti in numerosi settori, ad esempio la gestione di scuole, ospedali, strade, acquedotti, elettricità e comunicazioni. Queste amministrazioni civili vengono costituite per elezione e per consenso popolare e tra i loro compiti principali c’è quello di fornire i servizi civili, la sicurezza e la pace civile. Le libere elezioni locali nelle zone “liberate” sono state le prime da quarant’anni a questa parte. È questo il caso della città di Deir Ezzor, alla fine del febbraio 2013, dove Ahmad Mohammad, un elettore, ha dichiarato che “vogliamo uno stato democratico, non uno stato islamico. Vogliamo uno stato laico governato dai civili, non dai mullah.” Questi consigli locali riflettono il senso di responsabilità e la capacità dei cittadini di prendere l’iniziativa per gestire i propri interessi affidandosi al proprio staff manageriale e alle proprie esperienze. Ce ne sono di diversi tipi sia nelle regioni ancora sotto il controllo del regime sia in quelle che se ne sono liberate. Un altro esempio concreto di questa dinamica di autogestione si è visto all’assemblea fondativa della Coalizione dei Giovani Rivoluzionari in Siria, avvenuta agli inizi di giugno ad Aleppo. La riunione ha raccolto un ampio settore di attivisti dei comitati e comitati di coordinamento che hanno svolto un ruolo importante sul campo sin dall’inizio della rivoluzione. Vengono da varie regioni del paese e rappresentano ampi settori della società siriana. La conferenza è stata presentata come un momento fondamentale per rappresentare la gioventù rivoluzionaria di tutte le comunità. Ciò non significa che queste esperienze non abbiano dei limiti, come la scarsa rappresentanza delle donne e di alcune minoranze. Non si tratta di indorare la realtà ma di ristabilire la verità. 

 

 

L’esempio di Raqqa 

 La città di Raqqa, l’unico capoluogo di provincia liberato dal regime dal marzo 2013, è un illustre esempio di autogestione delle masse. Raqqa, che ancora subisce i bombardamenti da parte del regime, è completamente autonoma ed è la popolazione locale che gestisce tutti i servizi per la collettività. Un elemento altrettanto importante nella dinamica popolare della rivoluzione è la proliferazione di giornali indipendenti prodotti dalle organizzazioni popolari. Il numero di testate è passato dalle tre esistenti prima della rivoluzione – tutte gestite dal regime – a più di sessanta. A Raqqa spesso sono i giovani a guidare le organizzazioni popolari, che si sono moltiplicate fino a contare alla fine di maggio più di 42 movimenti sociali ufficialmente registrati. I comitati popolari hanno organizzato numerose campagne. Un esempio è la campagna “la bandiera rivoluzionaria mi rappresenta”, che consiste nel dipingere la bandiera della rivoluzione sui muri dei quartieri e nelle strade della città per opporsi alla campagna degli islamisti che cerca di imporre la sua bandiera nera. Sul fronte culturale nel centro della città è andato in scena uno spettacolo che prendeva in giro il regime di Assad e agli inizi di giugno le organizzazioni popolari hanno allestito una mostra di arte ed artigianato locale. Sono stati istituiti dei centri per prendersi cura dei più giovani e per curare i disordini psicologici provocati dalla guerra. Gli esami di maturità a giugno e luglio sono stati completamente organizzati dai volontari. Esperienze simili di autogestione si trovano in molte zone liberate ed è inutile dire che le donne svolgono un ruolo eccezionale in questi movimenti e nelle proteste in generale. Ad esempio il 18 giugno scorso nella città di Raqqa c’è stata una grande protesta di massa guidata dalle donne di fronte al quartier generale del gruppo islamista Jabhat al-Nusra per richiedere la liberazione dei prigionieri. I manifestanti hanno innalzato slogan contro Jabhat al-Nusra denunciando le loro azioni e non hanno esitato ad utilizzare il primo slogan intonato a Damasco nel febbraio 2011: “Il popolo siriano rifiuta di essere umiliato”. Il gruppo “Haquna” (che significa “i nostri diritti”), composto da molte donne, ha anche organizzato numerosi raduni contro i gruppi islamisti a Raqqa, utilizzando parole d’ordine come “Raqqa è libera, abbasso Jabhat al-Nusra”. Nella città di Deir Ezzor lo scorso giugno gli attivisti locali hanno lanciato una campagna che cercava di incoraggiare i cittadini a partecipare al processo di sorveglianza e a documentare le pratiche dei consigli popolari locali. Tra le altre cose li incitava a promuovere i propri diritti e la cultura dei diritti umani all’interno della società. In particolare è stato posto l’accento sull’idea dei diritti e della giustizia per tutti. 

 

Contro gli islamisti 

 Sono le stesse organizzazioni popolari che sempre più spesso si oppongono ai gruppi armati islamisti. Quest’ultimi vogliono utilizzare la forza per assumere il controllo delle zone liberate anche se non hanno radicamento nel movimento popolare e non appartengono alla rivoluzione. Ad esempio la città di Raqqa ha assistito ad una continua resistenza contro i gruppi islamisti. Da quando la città è stata liberata, nel marzo 2013, sono state organizzate numerosissime proteste contro l’ideologia e le pratiche autoritarie dei gruppi islamisti. Ci sono state manifestazioni di solidarietà con gli attivisti arrestati e detenuti nelle carceri islamiste. Queste proteste hanno permesso la liberazione di alcuni attivisti, ma numerosi altri rimangono ancora oggi in prigione, come il famoso Padre Paolo e molti altri tra cui il figlio dell’intellettuale Yassin Hajj, Firas. Proteste simili contro le pratiche reazionarie ed autoritarie degli islamisti hanno avuto luogo ad Aleppo, Mayadin, al-Qusayr e in altre città come Kafranbel. Queste lotte proseguono ancora. Nel quartiere aleppino di Bustan Qasr gli abitanti hanno protestato tante volte per denunciare le azioni del Consiglio della Sharia di Aleppo, che riunisce numerosi gruppi islamisti. Il 23 agosto i manifestanti di Bustan Qasr mentre stavano condannando il massacro con armi chimiche compiuto dal regime contro la popolazione di Ghouta, stavano anche chiedendo la liberazione del noto attivista Abu Maryam, rinchiuso ancora una volta dal Consiglio della Sharia. Alla fine di giugno 2013 nello stesso quartiere i manifestanti hanno innalzato lo slogan “Vaffanculo al Consiglio Islamico” in protesta contro le politiche repressive ed autoritarie di quest’ultimo. L’indignazione popolare è scoppiata anche dopo l’assassinio di un ragazzino di 14 anni, che pare avesse fatto un commento blasfemo nei confronti del Profeta Maometto in una barzelletta, compiuto da jihadisti stranieri appartenenti al gruppo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Durante una protesta contro il consiglio islamico a Bustan Qasr gli attivisti hanno urlato “Che vergogna, che vergogna, i rivoluzionari sono diventati shabiha” paragonando il consiglio islamico alla polizia segreta del regime siriano in chiara allusione alle loro pratiche autoritarie. Ogni venerdì ci sono delle manifestazioni. Durante quella del 2 agosto 2013 i Comitati di Coordinamento Locale (LCC), che svolgono un ruolo importante ed utile sia all’interno della rivoluzione che nel fornire cibo, beni e servizi alla popolazione e ai rifugiati, hanno dichiarato ciò che segue in un comunicato: “in un messaggio unificato dalla rivoluzione al mondo intero, confermiamo che il rapimento di attivisti e di altri membri fondamentali della rivoluzione, a meno che questi non siano agenti della tirannia, ostacola la libertà e la dignità della rivoluzione.” Questo messaggio era direttamente indirizzato a quei gruppi islamisti reazionari. Ugualmente il 28 luglio gli LCC hanno scritto un comunicato intitolato “La tirannia è una, che sia in nome della religione o del laicismo” respingendo sia gli islamisti che il regime. Dovremmo anche notare che alcune forze jihadiste, come Jabhat al-Nusra ed ISIS, stanno cercando di rendersi egemoni in alcune zone liberate attaccando gli attivisti ed i battaglioni dell’FSA piuttosto che lottando contro il regime, mentre molti jihadisti che si stanno riversando in Siria da paesi come l’Iraq ed il Libano non si stanno raggruppando al fronte. Piuttosto stanno concentrando i loro sforzi per consolidare il controllo delle aree settentrionali del paese controllate dai ribelli. Dopo la caduta di Raqqa nel marzo 2013 molti combattenti di Jabhat al-Nusra si sono diretti in questa provincia lasciando a metà le operazioni di resistenza ad Homs, Hama ed Idlib. Alla fine di maggio durante la battaglia per Qusayr si notava l’assenza dei combattenti di Jabhat al-Nusra. Agli inizi di giugno i rinforzi ribelli si sono concentrati sulla presa di Talbiseh, una città a nord di Homs, mentre i combattenti di Jabhat al-Nusra hanno preferito rimanere nelle zone liberate per colmare il vuoto lasciato dagli affiliati dell’Esercito Libero Siriano. Ribadiamo che questi gruppi jihadisti ed islamisti reazionari sono nemici della rivoluzione, insieme a tutti quei gruppi che promuovono il settarismo, il rapimento, la tortura e l’omicidio come pratica di potere. Alcuni casi recenti confermano il loro comportamento reazionario. Per esempio la presa della città di Ma’loula è stata presentata dall’account ufficiale di Jabhat al-Nusra come parte della campagna di vendetta “Occhio per occhio”, lanciata dopo l’attacco chimico a Ghouta. Una delle foto dell’attacco a Ma’loula venne pubblicata su Facebook con un verso del Corano che recit: “Allah ci dia la pazienza e la vittoria sugli infedeli” – il che forse non era il migliore slogan da utilizzare mentre al-Qaida lancia un attacco in cui un islamista giordano si è fatto saltare alle porte del più antico villaggio cristiano del paese. L’ISIS è stato anche accusato di estorcere le tasse con la forza ai proprietari dei negozi in numerose zone sotto il proprio controllo, come a Raqqa (dove arrivano anche fino a 15,000 lire siriane), Tell Abiyad ed altre città. Un paio di settimane fa l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha ricevuto un filmato che ritraeva dei combattenti dell’ISIS mentre decapitavano due uomini. L’uomo nel video dichiara che questi uomini stavano cooperando con il regime. Gli attivisti di Aleppo hanno riferito che l’esecuzione ha avuto luogo alla fine di agosto vicino il villaggio di al-Dweiraniya, questo tipo di comportamenti deve essere condannato come i loro attacchi contro gli attivisiti rivoluzionari e contro i battaglioni dell’FSA. 

 

 

Arabi e Kurdi uniti. 

 Nella parte nord-orientale del paese, popolata dai kurdi, i recenti scontri tra gli islamisti e le milizie kurde del PYD (legato al PKK) hanno condotto alla nascita di molte iniziative popolari degli attivisi locali che miravano a mostrare la fratellanza tra i kurdi e gli arabi di quella regione e per riaffermare che la rivoluzione popolare siriana è per tutti e che condanna razzismo e settarismo. Durante le battaglie nella provincia di Raqqa la città di Tall Abyad ha visto la creazione della brigata “Chirko Ayoubi”, unitasi alla brigata del Fronte Kurdo il 22 luglio 2013. Questa brigata riunisce insieme arabi e kurdi che hanno pubblicato una dichiarazione comune che denuncia le violazioni commesse dai gruppi islamisti ed i tentativi di dividere il popolo siriano su basi etniche e settarie. Sfortunatamente alcune forze dell’FSA hanno combattuto insieme agli islamisti. Ad Aleppo il 1 agosto è stata indetta una manifestazione nel quartiere Achrafieh – popolato per lo più da kurdi – che ha portato centinaia di persone in piazza per sostenere la fratellanza tra arabi e kurdi, per condannare gli atti commessi dai gruppi estremisti islamisti contro la popolazione kurda e per inneggiare all’unità del popolo siriano. Nella città di Tell Abyad, che ha visto violenti scontri, gli attivisti hanno provato ad organizzare numerose iniziative per terminare gli scontri tra i due gruppi, per fermare le partenze (espulsioni?) forzate di civili e per creare un comitato popolare per governare la città e promuovere delle iniziative congiunte tra le due popolazioni al fine di raggiungere una quadra con mezzi pacifici. Questi tentativi sono ancora in corso malgrado gli scontri continui tra gli islamisti e le milizie kurde. Nella città di Amouda una trentina di attivisti si sono radunati il 5 agosto con le bandiere rivoluzionarie siriane e quelle kurder innalzando uno striscione che recitava “Homs ti amo” per mostrare solidarietà alla città assediata dall’esercito del regime siriano. Nella città di Quamishli – dove vivono arabi (cristiani e musulmani), kurdi ed assiri – gli attivisti locali hanno organizzato numerosi progetti per assicurare la coesistenza e l’amministrazione di alcuni quartieri tramite dei comitati congiunti. Nella stessa città l’Unione dei Liberi studenti Kurdi ha lanciato una piccola campagna web per invocare la libertà, la pace, la fratellanza, la tolleranza e l’eguaglianza per il futuro della Siria. In moltissime situazioni il movimento popolare siriano non ha mai smesso di ribadire il rifiuto del settarismo, malgrado i tentativi del regime e dei gruppi islamisti di attizzare questo pericoloso incendio. I manifestanti hanno continuato fino ad oggi a ripetere slogan come “Siamo tutti siriani, siamo tutti uniti” e “No al settarismo”. Così i comitati popolari e le organizzazioni svolgono un ruolo cruciale nel continuare il processo rivoluzionario, poichè sono gli attori essenziali che permettono al movimento popolare di resistere. Non si tratta di sminuire il ruolo della resistenza armata, ma quest’ultimo dipende dai movimenti popolari per proseguire la sua lotta. 

 

“La morte piuttosto che l’umiliazione” 

 In conclusione, la rivoluzione siriana è ancora lì, continua e non si fermerà. Continuerà malgrado la guerra senza quartiere condotta dal regime contro il movimento popolare e malgrado i suoi ripetuti massacri contro la popolazione civile; continuerà malgrado le minacce interne provenienti dai gruppi islamisti e reazionari. Sebbene rappresentino una minoranza questi gruppi sono pericolosi e sono anche nemici della rivoluzione a causa della loro opposizione agli obiettivi della rivolta democratica per la democrazia e la giustizia sociale, per la loro ideologia settaria e per le loro pratiche autoritarie. Così come i manifestanti durante la manifestazioni continuano a cantare “Il popolo siriano non verrà umiliato” e “morte piuttosto che l’umiliazione” il movimento popolare continuerà la sua lotta fino alla vittoria degli obiettivi della rivoluzione. Viva le rivoluzioni del popolo! Potere e Ricchezza al popolo!

 

 

Post Scriptum sull’intervento straniero e le mobilitazioni contro la guerra 

 La Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, insieme a cinque altre organizzazioni socialiste rivoluzionarie della regione [2], ha dichiarato la propria opposizione a qualsiasi possibile e futuro intervento occidentale condannando allo stesso tempo gli interventi omicidi e distruttivi dell’Iran, della Russia e di Hezbollah a sostegno del regime di Assad nella sua guerra contro i rivoluzionari. Questa dichiarazione era anche contro i gruppi jihadisti reazionari e terroristi sostenuti dalle monarchie del golfo che vogliono trasformare questa rivoluzione popolare in una guerra settaria perchè temono la vittoria ed il dilagare della rivoluzione per l’intera regione fino ai loro confini. Sappiamo che l’intervento statunitense non ha l’intenzione di rovesciare il regime ma solo, in accordo con le parole di Obama, di punire l’attuale leadership siriana, di salvare la faccia dell’amministrazione statunitense, dopo tutte le minacce riguardo l’utilizzo di armi chimiche, e di indurre il regime a negoziare. Gli Stati Uniti potrebbero attaccare solo per difendere i propri interessi vitali, oltre a quelli di Israele. Noi, la Corrente della Sinistra Rivoluzionaria in Siria, chiediamo invece la fornitura di armi senza condizioni politiche alle componenti democratiche dell’Esercito Libero Siriano ed anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione bisognosa dentro e fuori la Siria. L’FSA non è una forza islamista come detto da numerosi media, sono numerosi battaglioni rappresentativi delle infinite sfaccettature della società siriana, composta da musulmani sunniti, alawiti, cristiani, drusi, kurdi, assiri etc.. In molte regioni sottostanno e collaborano con l’autorità civile, lavorando a stretto contatto con i consigli locali. Hanno combattuto per assicurare che la loro lotta contro Assad aprirà la strada ad una nuova società democratica. In alcune regioni controllate dall’FSA ci sono delle assemblee settimanali in cui i cittadini possono parlare liberamente e possono rivolgere le proprie preoccupazioni direttamente alle autorità locali. Contemporaneamente il regime di Assad, il cosiddetto difensore delle minoranze come detto da qualcuno, ha distrutto più di trenta chiese dall’inizio della rivoluzione. Affermiamo di nuovo il nostro sostegno alla rivoluzione siriana e ai suoi obiettivi: democrazia, giustizia sociale ed il no al settarismo. Detto questo la cosiddetta solidarietà con il popolo siriano è una barzelletta, o meglio un insulto, quando proviene da quelle organizzazioni e quelle persone che dicono no all’intervento straniero occidentale mentre non parlano degli interventi stranieri di Russia, Iran ed Hezbollah. Soprattutto quando non gli importava niente e non hanno speso una sola parola per condannare il martirio di più di 100,000 persone, i molteplici massacri, i milioni di profughi e le devastazioni commesse dal regime di Assad sin dall’inizio della rivoluzione. Inoltre non hanno mai sostenuto il movimento popolare per la democrazia e la giustizia sociale, anzi lo hanno indebolito e /o hanno provato a ritrarlo come una cospirazione, seguendo alla lettera la propaganda del regime. La solidarietà si deve basare innanzitutto sul sostegno al movimento popolare per la sua rivoluzione per la democrazia e la giustizia sociale in Siria ed in ogni dove, e sull’internazionalismo. In altre parole bisogna sostenere il popolo nella sua lotta per l’emancipazione e la liberazione. Solo quando questo punto è chiaro si possono innalzare tali slogan. Qualsiasi cosa accada la pensiamo come la Gioventù Rivoluzionaria Siriana di Homs, che ha diramato un manifesto con su scritto: “Le dichiarazioni di Obama e degli altri non ci interessano. Abbiamo iniziato la nostra rivoluzione e saremo coloro che la porteranno a compimento. La nostra unità è più forte di qualsiasi attacco esterno.” La rivoluzione è ancora viva e continua…ed ha bisogno della nostra solidarietà! 

 

Note [1] Questo articolo è stato pubblicato sul blog Syria Freedom Forever l’8 settembre 2013 con la seguente nota: «Questo post è una traduzione dal francese di un articolo pubblicato sul sito della Lega Comunista Rivolzionaria [belga] mercoledì 4 settembre 2013. L’articolo è stato tradotto da Emanuele Calitri. [2] “Sosteniamo la Rivoluzione del Popolo siriano. No all’intervento straniero” pubblicato anche su International Viewpoint.

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

Egitto: costituito un nuovo fronte ‘anti-fratellanza ed anti-esercito’

Traduzione e commento a cura di InfoOut

Abbiamo tradotto questo articolo pubblicato da Jadaliyya che annuncia il lancio del “Fronte del cammino rivoluzionario” in Egitto. La nuova piattaforma di lotta include esponenti e militanti legati alle più forti organizzazioni politiche e culturali del movimento rivoluzionario egiziano. Al di là di piccoli partiti, spicca infatti il Movimento 6 Aprile, il Fronte Democratico, e i Giovani di Giustizia e Libertà. Durante la conferenza stampa, partecipata anche da intellettuali e personalità autorevoli del movimento, come l’economista Gamal, sono state promosse diverse campagne e appuntamenti di lotta. Rivendicando la destituzione di Mubarak, e successivamente di Morsi e del governo islamista, quest’ultimo evento deturnato dalla violenta e lacerante iniziativa dell’esercito, il “fronte del cammino rivoluzionario” promette di contribuire al rilancio e alla direzione del movimento della contrapposizione sociale per conseguire gli obiettivi della rivoluzione, traditi prima dalla Fratellanza e contrastati dal regime militare.

 

Il fronte dei Rivoluzionari è stato lanciato martedì al Cairo per fornire “un percorso alternativo ai militari e alla Fratellanza Musulmana”.

 

Un nuovo fronte, soprannominato “Fronte del cammino rivoluzionario” che punta a dare un’alternativa alla corrente “polarizzazione” tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana è stato lanciato martedì nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di figure politiche di spicco, attivisti e gruppi.

“Sono passati due anni e mezzo da quando la rivoluzione è iniziata e gli egiziani non hanno ancora raggiunto il loro sogno di costruire una nuova repubblica che dia loro democrazia, giustizia ed eguaglianza”, secondo la dichiarazione fondativa del fronte letta dall’illustre economista di sinistra Wael Gamal.

“Milioni di persone sono scese in strada due volte: una volta nel gennaio 2011 per abbattere il regime di Mubarak, che è stato fondato sulla corruzione e sull’oppressione…E una seconda volta nel giugno 2013, costringendo Mohamed Morsi a dimettersi dopo aver perso la sua legittimazione a causa dei tentativi della Fratellanza di monopolizzare la vita politica e di instaurare nuovamente un regime oppressivo”, aggiunge la dichiarazione.

L’obiettivo del fronte, ha spiegato Gamal, è lavorare per la redistribuzione della ricchezza, raggiungere la giustizia sociale, combattere la formazione di un regime oppressivo, conseguire l’uguaglianza tra cittadini, impostare il cammino per una giustizia transitoria e adottare misure di politica estera che garantiscano l’indipendenza nazionale.

L’appello per una “Carta egiziana dei diritti” sarà una delle tante campagne che il fronte si propone di sviluppare, e includerà la raccolta di almeno un milione di firme su un documento dei diritti che sancirà i desiderata degli egiziani in merito ai diritti civili, economici, politici e culturali.

Il noto attivista Alaa Abdel-Fattah, il membro fondatore del movimento 6 Aprile Ahmed Maher, il rinomato scrittore Ahdaf Soueif, e l’avvocato del lavoro Haitham Mohamadein erano tra le molte figure politiche presenti per annunciare il lancio del nuovo fronte.

“Un’equa cittadinanza , il diritto alla salute, il diritto all’educazione, il diritto al salario minimo e a processi giusti sono tra i molti punti che devono essere inclusi nella carta dei diritti” ha affermato l’attivista per il lavoro e membro dei Socialisti Rivoluzionari Mohamadein.

“Gli obiettivi della rivoluzione sono stati dimenticati e pertanto c’è bisogno di questo fronte”, ha detto il membro del 6 aprile Maher.

Secondo Abdel-Fattah, l’adesione al nuovo fronte sarà aperta solo alle singole persone, anche se molte di esse appartengono a specifici gruppi politici o partiti. Il fronte deve fornire un corpo democratico centralizzato che possa tenere insieme una rete di singoli attivisti e movimenti, ha spiegato.

Lo studente e attivista Wesam Atta, membro dei Giovani di Giustizia e Libertà, ha detto che sabato si terrà un incontro per accettare le proposte di adesione e formare commissioni nei diversi governatorati.

Il fronte include già membri di spicco del 6 Aprile, del Fronte Democratico 6 Aprile, del Partito per un Egitto Forte, dei Rivoluzionari Socialisti e dei Giovani di Giustizia e Libertà.

L’esercito egiziano ha guidato una coalizione di forze politiche per rimuovere Mohamed Morsi della Fratellanza Musulmana dalla presidenza in luglio, dopo proteste nazionali di massa contro il presidente precedentemente eletto.

 

[Questo articolo è apparso originariamente su Ahram Online]

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

LE PRIGIONI TUNISINE PER LA PRODUZIONE ARTISTICA.

Intorno alle 4 del mattino tra il sabato del 21 e la domenica del 22 settembre 2013, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, accompagnati da due amici artisti, studenti impegnati politicamente, ed attivisti, sono stati arrestati al domicilio di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.
Non siamo riusciti ad ottenere che poche informazioni. Sappiamo solo che sono stati prima condotti al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, nel quale sono rimasti circa 12 ore, e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica.
Attualmente, ignoriamo del tutto dove possano essere stati portati, e quali siano le loro condizioni di salute. Nessun motivo ufficiale del loro arresto è stato diramato.

NEJIB ABIDI, 29 anni è regista e presidente dell’Asso Chaabi, anziano sindacalista dell’UGET. E’ noto per le sue opposizioni radicali al governo di Ben Ali e a quelli che l’hanno seguito dopo il 14 gennaio 2011. Alla vigilia del suo arresto, uno dei due dischi rigidi contenenti i filesdel suo documentario in preparazione sono stati rubati da casa sua, il resto di un altro disco rigido è stato formattato. Nejib è apparso pubblicamente per l’ultima volta durante i concentramenti a sostegno di Jabeur Mejri e di Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.
YAHYA DRIDI, 26 anni, è tecnico del suono e segretario generale di Asso Chaabi. Lavora da molto tempo con Nejib. Erano stati da poco in Italia per necessità legate alle riprese. Attenti alle questioni della giustizia sociale, Yahya era è coinvolto in lavori impegnati. Abita tra la Tunisia e la Francia, dove svolge la sua attivitàartistica.

ABDALLAH YAHYA, 34 anni, è realizzatore. Il suo documentario « Noi siamo qui » è uscito l’anno scorso. mette in luce la vita quotidiana degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche chilometro dalla capitale, dove sono concentrati gli scioperi, la miseria economica e le difficoltà sociali. Il suo prossimo film, « Il Ritorno », in fase finale di realizzazione, è anch’esso prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. Presente sulla scena musicale contestataria da più di 10 anni, lavora con Nejib, Yahia e Mahmoud al loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista. Ha lavorato con numerose personalità del panorama alternativo e contestatario in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, clarinettista e studente dell’ISEC, come due amici studenti, artisti ed attivisti.

L’arresto ha avuto luogo quando si riunirono per lavorare alla musica del film di Nejib.
Questo arresto prova ancora una volta che il sistema di “sicurezza” e repressivo del governo e della polizia è a tuttoggi attivo. Il governo attuale, che deve la sua esistenza a tutti i giovani ed i meno giovani che hanno superato le loro paure e rovesciato il dittatore nel corso della Rivoluzione, non ha alcuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua attiva gioventù. Esso depotenzia la nostra Rivoluzione, e si beffa dei nostri diritti. I nostri amici lottano per la libertà e la giustizia ogni giorno, Attraverso scelte di vita che fanno avanzare la nostra società, hanno una reale preoccupazione per gli altri e soprattutto per i loro concittadini, disprezzati dal sistema. Il loro arresto si inscrive nella linea di quella di Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili che cerca di pugnalare al cuore la Libertà di espressione e la Libertà di conscienza. Qeste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati stessi che avevano garantito la loro inclusione nella Costituzione e nel governo si vantavano di aver stabilito uno Stato di Diritto. Siamo stufi di dover constatare tutte queste ingiustizie che si abbattono sui giovani tunisini rivoluzionari, quando poi allo stesso tempo, membri del RDC sono rimessi in libertà, e criminali escono dai tribunali assolti, in sospensione e, soprattutto, siamo stufi che ancora non si sappia chi ha ucciso Chokri Belaid et Mohamed Brahmi.
Tramite questo comunicato, rivendichiamo alto e forte:
– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH, SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAY BBJ E DI TUTTI QUELLICHE SUBISCONO LA REPRESSIONE CIRCA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE E DI OPINIONE.

– STOP ALLE PERSECUZIONI VERSO LA GIOVENTU’ E IN PARTICOLARE CONTRO CHI CONTINUA A LOTTARE PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE.

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA EREDITATO DAL REGIME DEL 7 NOVEMBRE, CHE VIVE DELLA COLLABORAZIONE TRA POLIZIA E GIUSTIZIA.

Fonte: Tunisiens Libres et Modernes
https://www.facebook.com/Tunisiens.Libres.et.Modernes/posts/600898483285686

Traduzione di Fiore Haneen Tafesh Sarti

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Noi appoggiamo la rivoluzione del popolo siriano – No all’intervento straniero

Dichiarazione di: Socialisti Rivoluzionari (Egitto), Corrente rivoluzionaria di Sinistra (Siria), Unione dei Comunisti (Iraq), Al-Mounadil-a (Marocco), Forum Socialista (Libano).

Domenica 31 agosto 2013

Più di 150 mila le persone uccise, centinaia di migliaia i feriti e i resi disabili, milioni di persone sfollate all’interno della Siria e all’estero; città, villaggi e quartieri sono stati distrutti, completamente o in parte, tramite l’utilizzo di ogni tipo di arma: aerei da guerra, missili scud, bombe e carri armati, tutti pagati con il sudore e il sangue del popolo siriano. E tutto ciò col pretesto di difendere la patria e raggiungere l’equilibrio militare con Israele (la cui occupazione dei territori siriani è di fatto protetta dal regime che non è stato in grado di rispondere a nessuna delle sue continue aggressioni).

Eppure, nonostante le enormi perdite abbattutesi sui Siriani, e le calamità a loro inflitte, nessuna organizzazione internazionale o paese di rilievo – o anche uno minore – ha sentito la necessità di offrire concreta solidarietà e supporto ai Siriani nella loro battaglia per i diritti più elementari, la dignità umana e la giustizia sociale.

L’unica eccezione sono stati i Paesi del Golfo e in particolare il Qatar e l’Arabia Saudita. Tuttavia il loro scopo era di controllare la natura del conflitto e di guidarlo nella direzione di un conflitto settario, distorcendo la rivoluzione siriana e puntando ad annullarla, come riflesso del loro timore più profondo che la fiamma rivoluzionaria avrebbe finito per raggiungere i loro paesi. Così hanno appoggiato i gruppi oscurantisti Tafkiri provenienti, per la maggior parte, dai quattro angoli del mondo per imporre una visione grottesca per il governo basato sulla shari’a islamica. Questi gruppi sono stati impegnati, di volta in volta, in terrificanti massacri contro i cittadini siriani che si opponevano alle loro misure repressive, e un aggressioni all’interno di aree sotto il loro controllo o sotto attacco, come l’esempio più recente dei villaggi nella campagna di Latakia.
Un grande blocco di forze ostili, provenienti da tutto il mondo, sta cospirando contro la rivoluzione del popolo siriano, scoppiata in tandem con le rivolte che, negli ultimi tre anni, hanno coinvolto la regione Araba e il Maghreb. Le rivoluzioni di questi popoli hanno avuto lo scopo di mettere fine a una storia di brutalità, ingiustizia e sfruttamento, e ottenere i diritti alla libertà, alla dignità e alla giustizia sociale.

Tuttavia questo non ha solo provocato brutali dittature locali, ma anche la maggior parte delle forze imperialiste che cercano di portare avanti il loro furto delle ricchezze del nostro popolo, in aggiunta alle varie classi reazionarie e le forze in tutte queste zone e nei paesi circostanti.
Per quanto riguarda la Siria, l’alleanza che combatte contro la rivoluzione comprende una miriade di forze settarie reazionarie, guidate dall’Iran, dalle milizie confessionali dell’Iraq e, purtroppo, le forze d’attacco di Hezbollah, che sta affondando nel pantano di difendere un regime dittatoriale profondamente corrotto e criminale.

Questa spiacevole situazione ha colpito anche una sezione importante della tradizionale sinistra araba con radici staliniste, sia nella stessa Siria, che in Libano, Egitto e nel resto del mondo arabo – e del mondo in generale – chiaramente incline verso il regime di Assad. La giustificazione è che alcuni lo vedono come un regime “forte” o addirittura “di resistenza”, nonostante la sua lunga storia – durante la sua permanenza al potere – di protezione dell’occupazione sionista delle Alture del Golan, la continua e sanguinosa repressione di vari gruppi di resistenza ad Israele, sia palestinesi che libanesi (o Siriani), e il rimanere inattivo e servile dalla guerra dell’Ottobre 1973, riguardo l’aggressione di Israele ai territori siriani. Questa propensione avrà gravi ripercussioni sull’ordinaria posizione siriana circa la sinistra in generale.

Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, in particolare, non sono stati in grado di condannare i crimini del regime, che il popolo siriano ha respinto continuamente e pacificamente per più di sette mesi, mentre le pallottole dei cecchini e la shabbiha prendevano i manifestanti uno ad uno e giorno dopo giorno e mentre gli attivisti più influenti erano detenuti e sottoposti alle peggiori forme di tortura e di eliminazione nelle prigioni e nei centri di detenzione. Per tutto il tempo, il mondo è rimasto completamente in silenzio e in uno stato di totale passività.

Questa situazione è continuata con una piccola differenza anche dopo che il popolo in rivolta ha deciso di prendere le armi e l’emergere di quello che è ora conosciuto come il Libero esercito Siriano (FSA), il cui comando e i cui soldati provengono, per la maggior parte, dall’esercito regolare. Questo ha portato a una terribile escalation di crimini commessi dal regime.
L’imperialismo russo, il più importante alleato del regime baathista di Damasco, che li rifornisce di ogni tipo di supporto, rimane in guardia per bloccare qualsiasi tentativo di condannare quei crimini al Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non trovano un vero problema nella continuazione dello status quo, con tutte le ripercussioni apparenti e la distruzione del paese. Questo nonostante le minacce e le intimidazioni utilizzate dal presidente degli Stati Uniti, ogni qual volta qualcuno nell’opposizione solleva la questione dell’uso di armi chimiche da parte del regime, fino all’ultima escalation, quando si è ritenuto che sia stata oltrepassata la “linea rossa”.

E ‘chiaro che Obama, che dà l’impressione di voler andare avanti con le sue minacce, si sarebbe sentito in grande imbarazzo se non l’avesse fatto, dal momento che non solo questo avrebbe avuto un impatto negativo sul presidente, ma ne avrebbe risentito anche l’immagine di stato potente e arrogante che l’America riveste agli occhi dei paesi arabi asserviti e del mondo intero.
L’imminente attacco contro le forze armate siriane è, in sostanza, guidato dagli Stati Uniti. Tuttavia, si verifica con la comprensione e la cooperazione dei paesi imperialisti alleati, anche in assenza di razionalizzazione attraverso la solita farsa, conosciuta come “legittimità internazionale” (vale a dire le decisioni dell’ONU, che era e rimane rappresentante degli interessi delle grandi potenze, sia in conflitto che alleate, a seconda delle circostanze, delle differenze, e degli equilibri fra loro). In altre parole, l’attacco non attenderà il Consiglio di sicurezza a causa del prevedibile veto russo-cinese.

Purtroppo, molti nell’opposizione siriana stanno scommettendo su questo attacco e sulla posizione degli Stati Uniti in generale. Essi ritengono che questo creerebbe un’opportunità per loro per prendere il potere, scavalcando il movimento e le masse e la loro decisione indipendente. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, che i rappresentanti di questa opposizione e l’FSA non hanno avuto riserve a fornire informazioni agli Stati Uniti circa gli obiettivi proposti per l’attacco.
In ogni caso, noi siamo d’accordo su quanto segue:

• L’alleanza imperialista occidentale colpirà diverse posizioni e parti vitali delle infrastrutture militari e civili siriane (con diverse vittime, come al solito). Tuttavia, come ha voluto sottolineare, gli attacchi non saranno destinati a rovesciare il regime. Essi sono semplicemente destinati a punire, detto con le parole di Obama, l’attuale leadership siriana e salvare la faccia dell’amministrazione degli Stati Uniti, dopo tutte le minacce che riguardo l’uso di armi chimiche.

• Le intenzioni del presidente americano di punire la leadership siriana non derivino, in alcun modo, dalla solidarietà di Washington per la sofferenza dei bambini che sono caduti nelle stragi Ghouta, ma derivano piuttosto dal suo impegno per quelli che Obama chiama gli interessi vitali degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, oltre a agli interessi e alla sicurezza di Israele.

• L’esercito siriano e dei suoi alleati regionali, guidato dal regime iraniano, non avranno abbastanza coraggio, molto probabilmente, per mettere in atto quelle che sembravano essere minacce da parte dei loro alti funzionari che qualsiasi attacco occidentale contro la Siria infiammerebbe tutta la regione. Ma questa opzione rimane sul tavolo, come opzione finale e con risultati catastrofici.

• L’imminente assalto imperialista occidentale non intende sostenere la rivoluzione siriana in alcun modo. Avrà lo scopo di spingere Damasco al tavolo delle trattative e di permettere a Bashar al-Assad di ritirarsi dal primo piano, mantenendo comunque il regime in atto, migliorando allo stesso tempo notevolmente le condizioni per rafforzare la posizione dell’imperialismo americano nella futura Siria contro l’imperialismo russo.

• Più coloro che partecipano alla continua mobilitazione popolare – che sono più consapevoli, di principi e dediti al futuro della Siria e del suo popolo – realizzano questi fatti, le loro conseguenze, i risultati, e agiscono di conseguenza, più questo contribuirà ad aiutare la il popolo siriano a scegliere con successo una vera leadership rivoluzionaria. Nel processo di una lotta impegnata, basata sugli interessi attuali e futuri del loro popolo questo produrrebbe un programma radicale coerente con quegli interessi, che potrebbe essere promosso e messo in pratica sulla strada della vittoria.

No ad ogni forma di intervento imperialista, sia Americano che Russo.

No a tutte le forme di intervento settario reazionario, sia dell’Iran che dei Paesi del Golfo.

No all’intervento di Hezbollah, che merita il massimo della condanna.

Basta con le illusioni riguardante l’imminente attacco Americano.

Aprire i depositi di armi per il popolo siriano, per lottare per la libertà, la dignità e la giustizia sociale.

Vittoria a una Siria libera e democratica e basta per sempre con la dittatura di Assad e tutte le dittature.

Lunga vita alla rivoluzione del popolo siriano.

Fonte: http://www.al-manshour.org/en/statement-by-rev-socialists-marxists-on-us-attack-on-syria

Traduzione di Luana Andronico

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Egitto. I rivoluzionari difronte alla controrivoluzione: costruire l’alternativa all’esercito ed ai Fratelli Musulmani.

Riguardo i colloqui di “esclusione”[dal processo politico] e di “riconciliazione” i Socialisti Rivoluzionari non possono costruire la loro posizione isolati dagli umori e dagli orientamenti delle masse – malgrado le loro forti contraddizioni interne. Queste masse non accetteranno una riconciliazione con la Fratellanza Musulmana. Come dichiarammo:”suonare le trombe della riconciliazione pone sullo stesso piano l’assassino e la vittima e ciò è completamente inaccettabile senza portare ad un giusto processo gli assassini dei martiri – tutti i martiri – e coloro che hanno istigato alla violenza.” Se le masse influenzate dai media e dalla propaganda borghese vogliono escludere la Fratellanza ignorando l’esercito e gli elementi delvecchio regime, dobbiamo anche attaccare il ritorno dello stato di Mubarak sotto il vessillo di Al-Sisi, che è più pericoloso d iMuhammed al-Beltagi [il leader dei Fratelli Musulmani].

In queste circostanze dobbiamo dire direttamente,coraggiosamente, chiaramente e senza esitazione “Abbasso il regime militare…no al ritorno dei feloul [gli esponenti del regimedi Mubarak NdT]… no al ritorno della Fratellanza Musulmana”.

Siamo preoccupati dell’isolamento?

Non c’è dubbio che le tattiche del Socialismo Rivoluzionario si fondano da una parte sulla determinazione del livello di sviluppo della coscienza delle masse e della classe operaia, sia nelle loro basi che nella loro avanguardia, dall’altra sull’analisi delle possibilità e delle opportunità di sviluppare e rafforzare il movimento di massa durante il corso della rivoluzione.

Oggi il movimento di massa ha grandi contraddizioni al suo interno ed affronta delle grandi sfide, forse la più grande di queste è l’apparente riconciliazione di un settore delle masse con le istituzioni dello stato, in particolare l’esercito ed il Ministero dell’Interno – la testa ed il cuore della controrivoluzione. Tuttavia nonostante la grande frustrazione che colpisce grandi settori di rivoluzionari che hanno lottato contro lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) nell’anno e mezzo successivo alla rivoluzione e che hanno continuato a lottare contro il regime di Morsi l’unico modo per avere un ruolo importante nel movimento è di avere a che fare con esso, di comprenderne le contraddizioni senza sottovalutarne o esagerarne il potenziale.

L’alleanza degli elementi del vecchio regime e dei media liberali con i servizi di sicurezza, l’esercito ed il Ministero dell’Interno è riuscita ad influenzare le masse proiettando una falsa immagine di neutralità dell’esercito e della polizia, che vengono ritratti come amici del popolo contro Morsi, la Fratellanza ed i loro alleati islamisti, anche tentando di cancellare gli omicidi e le torture dello stato dalla memoria delle masse. Molte forze politiche, specialmente l’opportunista Fronte di Salvezza Nazionale,la campagna Tamarod e la Corrente Popolare, hanno recitato il ruolo più sporco nel ripulire questa immagine tramite i loro proclami sulla “serrata dei ranghi”. Lodano il ruolo dell’esercito e delle istituzioni dello stato nel soddisfare la richiesta del popolo di chiudere con il regime della Fratellanza, che considerano il più grande pericolo per la Rivoluzione Egiziana. Tuttavia la visione dell’ “esercito salvatore” rappresenta solo un piccolo strato della coscienza delle masse. Quasi tutti i partiti stanno lavorando per rafforzare questa visione, ma sotto sotto rimangono vive le richieste della rivoluzione ed i suoi obiettivi: pane, libertà e giustizia sociale.

Non possiamo perdere di vista che tra queste contraddizioni larghi settori delle masse hanno una grande sicurezza di sé, malgrado tutti questi specchietti per le allodole e la falsa “guerra al terrorismo”. Dall’inizio della rivoluzione hanno genuinamente imposto la loro volontà ed hanno rovesciato due presidenti e quattro governi. Questa sicurezza, che risiede sotto le contraddizioni superficiali, è ciò che li ha spinti ad insorgere contro Morsi e ciò che permetterà di completare la lotta contro il nuovo governo,non appena diverranno chiare le sue linee guida politiche ed economiche contrarie agli interessi delle masse. Ciò malgrado vi sia una parziale speranza in alcuni settori che il governo soddisferà le loro richieste.

A questo punto dobbiamo trovare ogni modo possibile per raggiungere il nucleo genuino della coscienza dei poveri e delle masse lavoratrici, il cui interesse fondamentale è di continuare la rivoluzione. Dobbiamo continuare ad evidenziare le enormi capacità che le masse hanno mostrato nell’ondata del 30 giugno e nelle precedenti ondate della rivoluzione propagandone le vere richieste e mobilitandosi per ottenerle in ogni provincia e in ogni posto di lavoro. Ma ciò non deve indurci a nascondere alcune nostre linee politiche e i nostri principi per godere di un sostegno temporaneo.

Al contrario se nascondessimo i nostri slogan o le nostre linee politiche per obiettivi di breve termine diventeremmo soltanto degli opportunisti e questo non è il modo in cui operano i Socialisti Rivoluzionari. Abbiamo sempre evitato l’opportunismo ed abbiamo costruito il nostro progetto organizzativo tra le masse e per la vittoria della rivoluzione egiziana. Ad esempio non possiamo smettere di attaccare le menzogne dei media del vecchio regime e dei liberali borghesi, o smettere di condannare la controrivoluzione portata avanti oggi dall’esercito e dal Ministero degli Interni. Non possiamo smettere di ricordare i crimini dello SCAF e dei compagni di Mubarak e smettere di chiedere che vengano messi a processo insieme a quei capi della Fratellanza che nelle scorse settimane si sono distinti per aver istigato alla violenza sguinzagliando dei disgustosi sentimenti settari. In ogni caso non possiamo attenuare i nostri attacchi politici contro gli elementi del vecchio regime e gli opportunisti nel governo Beblawi, contro le palesi tendenze liberiste di questo esecutivo e contro il consolidamento dello stato repressivo causato dalla nomina dei nuovi governatori provinciali. Non possiamo smussare le nostre critiche agli enormi poteri e privilegi che la costituzione assegna all’esercito, al suo controllo di circa il 25%dell’economia egiziana, alla continuazione dell’umiliante accordo di Camp David e così via. Dobbiamo continuare per una questione di principio.

Minimizzare il ritorno dello stato di Mubarak e della repressione militare è estremamente pericoloso. Lo stato di Mubarak, che non è scomparso dalle scene dall’inizio della rivoluzione, oggi ritorna con pieni poteri, privo di crisi interne e con il supporto di ampi settori delle masse. È questa situazione che ci spinge a partire all’attacco contro questo regime ed i suoi simboli, visto che non attenderà a lungo prima di aggredire tutti coloro che chiederanno che si compia la rivoluzione.

Dalla nostra posizione potrebbe conseguire un temporaneo isolamento dalle masse. Il nostro messaggio non verrà subito recepito dalla maggioranza malgrado tutti gli sforzi che compiamo sui posti di lavoro, nelle università e nei territori. In realtà questo isolamento è già iniziato prima del 30 giugno a causa delle nostre posizioni contro l’esercito, il vecchio regime e la Fratellanza, ma non dobbiamo cadere nella frustrazione: fin quando le contraddizioni resteranno presenti nella coscienza delle masse il movimento rimarrà un veicolo che può essere colpito da vari fattori che lo porteranno su sentieri tortuosi e non verso un percorso dritto e crescente. Il reale volto del regime repressivo attualmente al potere si rivelerà agli occhi delle masse che pian piano cominceranno a lottare contro di esso.

Ciò non significa un completo isolamento dalle masse visto che ci sono decine di migliaia di giovani rivoluzionari che hanno combattuto contro il regime militare sotto i vessilli della Rivoluzione Egiziana ed hanno portato avanti la lotta contro il regime di Morsi. Sono ancora radicati nei principi del socialismo rivoluzionario, hanno meno contraddizioni e non stanno puntando sulle istituzioni statali,soprattutto sull’esercito che è la spina dorsale della controrivoluzione. Costoro saranno attratti dalle posizioni dei Socialisti Rivoluzionari dopo aver visto come le forze politiche si sono svendute ai militari e al nuovo governo da loro nominato. Da questa prospettiva la situazione è migliore di quanto lo sia stata dopo l’11 febbraio 2011, quando per mesi solo i Socialisti Rivoluzionari e pochi altri singoli attivisti lottavano contro lo SCAF.

Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi abbiamo l’opportunità di attrarre alcuni di questi rivoluzionari per rafforzare le nostre fila ed avere un ruolo più stabile nelle prossime ondate della rivoluzione. Contemporaneamente vogliamo anche integrare i lavoratori ed i poveri che hanno fatto la rivoluzione ed hanno partecipato all’ondata del 30 giugno per ottenere quegli obiettivi che non si sono realizzati. È della massima importanza rianimare il progetto del Fronte Rivoluzionario con quei partiti di sani principi che non sono finiti delle braccia dello stato e del nuovo governo e che non si sono nemmeno alleati con gli islamisti,ma bensì hanno sempre cercato di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione Egiziana.

I Socialisti Rivoluzionari

Egitto, 15 agosto 2013

Traduzione di Emanuele Calitri
Testo originale:http://revsoc.me/letters-to-comrades/ysqt-hkm-lskr-l-lwd-lflwl-l-lwd-lkhwn

Testo in inglese:http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article3073

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org

Sviluppo e difficoltà dei processi rivoluzionari nel mondo arabo. Intervista a Gilbert Achcar

Una conversazione con Gilbert Achcar, marxista rivoluzionario di origine libanese, docente alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra.

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

 

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

 

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

 

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.

Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.

Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

 

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

 

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.

Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

 

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.

Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

 

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?

 
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.

In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.

Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…

Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.

Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.

Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

 

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.

In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

 

Intervista raccolta il 29 luglio da Jacques Babel. Traduzione mia. (a.m. 3/8/13).

http://www.npa2009.org/

http://www.vientosur.info/

Traduzione di Antonio Moscato
http://www.antoniomoscato.altervista.org