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La proposta per carcerare i gay in Egitto e altre notizie che non leggerete sui giornali

In Egitto una proposta di legge per criminalizzare omosessualità

il Cairo – Un parlamentare egiziano ha intenzione di presentare una proposta di legge che propone la carcerazione di chiunque promuova o sia impegnato in una relazione con persone dello stesso sesso. Questo provvedimento prevederebbe l’introduzione di pene detentive fino a 10 anni di reclusione per le persone impegnate in una relazione omosessuale, secondo l’agenzia di stampa Reuters, venuta in possesso della bozza di tale disegno di legge.

Amnesty International ha definito questa proposta “un altro ‘chiodo nella bara’ per i diritti delle persone omosessuali in Egitto”. “Se dovesse passare, questa legge rafforzerebbe ulteriormente lo stigma sociale e gli abusi contro le persone, basati sul loro orientamento sessuale”, ha detto a ReutersNajia Bounaim, direttrice delle campagne per il nord Africa di Amnesty International. “Le autorità egiziane devono immediatamente rigettare questo progetto di legge e porre fine a questa allarmante ondata di persecuzioni omofobiche”, ha aggiunto Bounaim.

In Egitto l’omosessualità non è esplicitamente vietata, ma questo non ferma la repressione della polizia. L’articolo 9 della legge numero 10 del 1961, che punisce la prostituzione e “gli atti contro la decenza e la morale pubblica”, è spesso usato per reprimere la comunità LGBT.

 


La Nigeria apre un’inchiesta sulle 26 donne trovate morte a Salerno

 

di Bosun Odedina da Lagos, Nigeria

Lagos – L’Assemblea Nazionale nigeriana ha lanciato oggi un’inchiesta per appurare la cause della morte delle 26 donne trovate senza vita a bordo di una nave spagnola nel porto di Salerno. Le risultanze dell’indagine dovranno essere presentate entro quattro settimane. I membri della commissione d’inchiesta sentiranno le autorità libiche per appurare le circostanze della tragedia.

 


 

Marocco: violenze contro gli insegnanti, indetto uno sciopero nazionale

Rabat – In Marocco gli insegnanti hanno indetto uno sciopero di due giorni per protestare contro casi di violenza che hanno colpito in docenti, chiedendo maggiore protezione al governo. Lo sciopero nazionale di due giorni è stato indetto da diversi sindacati degli insegnanti e ha registrato adesioni tra il 70% e l’80% secondo quanto dichiarato da uno dei sindacati. Secondo quanto riporta l’Associated Press, il ministero dell’Educazione non ha ancora rilasciato dati ufficiali sulla partecipazione alla protesta.
 


Togo: continuano violenti le proteste dell’opposizione
 

Lomé – In Togo continuano le proteste dell’opposizione contro il presidente Faure Gnassingbe, in carica da 12 anni. Giovedì 9 novembre l’opposizione ha manifestato contro il governo per la terza volta in una settimana, promettendo di continuare fino alle dimissioni del presidente. Gli Stati Uniti hanno emesso un avviso per i propri cittadini in viaggio per il Togo, evidenziando la violenza delle proteste, soprattutto nella città settentrionale di Sokodé. Il padre dell’attuale presidente del Togo, ha governato il Paese dal 1967 al 2005 e da allora Faure Gnassngbe ha ereditato la posizione, consolidando un potere che da 50 anni rimane nella stessa famiglia.

 

 


George Weah chiede nuove elezioni in Liberia

Monrovia – In Liberia il partito del candidato alle elezioni George Weah ha chiesto che il processo elettorale sia ripristinato in maniera “tempestiva”, dichiarando che rispetterà la decisione della corte suprema di rimandare il ballottaggio. La Liberia sta affrontando con difficoltà il primo passaggio pacifico di potere da oltre 70 anni. Lunedì 6 novembre la corte suprema ha sospeso il secondo turno delle elezioni presidenziali previste per il giorno successivo, per consentire lo svolgimento di indagine su accuse di frode elettorale.

Uno dei candidati del primo turno, Charles Brumskine, aveva chiesto al tribunale di rimandare il voto per permettere di indagare possibili frodi avvenute durante il voto del 10 ottobre. Al primo turno Brumskine, candidato del Liberty Party era arrivato terzo. Al ballottaggio, rimandato a data da destinarsi, si sarebbero dovuti affrontare l’ex calciatore George Weah e il vicepresidente in carica Joseph Boakai. I candidati si sfidano per succedere a Ellen Johnson Sirleaf, premio Nobel per la pace nel 2011.
 

 


La Turchia ricostruirà 26mila case distrutte durante la guerra al Pkk

di Giuseppe di Donna da Ankara, Turchia

Ankara – Il governo turco ricostruirà 26 mila abitazioni distrutte durante gli ultimi anni del conflitto tra le forze di sicurezza turche e l’organizzazione terroristica separatista del Pkk. L’annuncio è stato dato dal ministro dell’Urbanistica turco Mehmet Ozhaseki, che ha rivelato che, dalla ripresa del conflitto nel luglio 2015 ad oggi circa 70 mila abitazioni hanno subito danni, in molti casi talmente gravi da imporre una ricostruzione ex novo. “Non è giusto che tanta gente soffra dei danni del terrorismo, per questo costruiremo 26 mila nuove abitazioni in sei mesi – ha dichiarato Ozhaseki – i compound militari saranno rimossi dalle città e dai centri abitati“.

Secondo il ministro è precisa responsabilità dello stato risarcire i propri concittadini dopo il duro intervento delle forze di sicurezza turche nel sud est del Paese, caratterizzato da mesi di coprifuoco tra la fine del 2015 e la prima metà del 2016. “Da un lato c’è il pugno dello stato, che deve far sentire la propria forza e colpire i terroristi. Dall’altro c’è la mano dello stato che con compassione ripara le ferite di chi è stato vittima del conflitto”, ha dichiarato Ozhaseki.

 


Nigeria: “I leader africani riciclano 50 miliardi di dollari ogni anno”

di Bosun Odedina da Lagos, Nigeria

L’ex presidente della Nigeria, Olusegun Obasanjo ha dichiarato che leader politici e esponenti sia del settore pubblico che del privato in Africa, riciclano illegalmente ogni anno una somma monstre pari a 50 miliardi di dollari. L’ex presidente ha spiegato che l’aumento di queste cifre, destinate alla crescita socio-economica e lo sviluppo del continente africano, danno grandi preoccupazioni a tutti i leader, del presente e del passato. Ha aggiunto che tutti devono contribuire a lottare questo trend preoccupante.

 


Turchia: Il Paese ricorda Ataturk a 79 anni dalla morte

di Giuseppe di Donna da Ankara, Turchia

Ankara – Il 10 novembre è un giorno in cui la Turchia svela il proprio volto e la propria identità: ricorre infatti in questa data l’anniversario della morte di Mustafa Kemal, “Ataturk“, il padre della Repubblica, guida nella difficile transizione del Paese dal collasso dell’impero ottomano allo Stato che voleva repubblicano, laico, moderno. L’uomo che insegnò ai turchi che, per affrontare le sfide di un mondo in cambiamento, bisognava guardare ai modelli occidentali: aderire a uno stile di vita europeo abbandonando influenze orientali, a partire da alfabeto arabo, calendario islamico e abbigliamento che potesse connotare la fede islamica. 

 


Il Ghana celebra regina madre centenaria nel rispetto tradizioni

di Francesca Spinola da Accra, Turchia

Accra – Nana Yaa Anamah II porta una pezza di stoffa bianca sul capo e un numero imprecisato di pesanti collane di “beads“, grani di vetro o altre pietre dure colorate, che non sono indossate a caso, ma hanno ciascuna un significato. Lei è una regina, una “queen mother” e in Ghana è venerata e rispettata come una vera regnante. Nana Yaa Anamah sta per compiere 102 anni e ha governato la sua gente per ben 75 anni. In questi giorni la sua foto campeggia su tutti i quotidiani di questo paese dell’Africa Occidentale dove l’etnia Akhan, circa il 60% della popolazione, parla diverse lingue ed è guidata da diversi “chiefs and queens“, in base all’area in cui vivono.

 


Ghana: ‘Big data for good‘ per uno sviluppo sostenibile

di Francesca Spinola da Accra, Turchia

Accra – Predire cosa serve per raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile che il Ghana si è dato. Questo l’obiettivo dell’iniziativa “Big Data for Good“, promossa da Vodafone Ghana, insieme al Ghana Statistical Service e alla Vodafone Group Foundation. Iniziativa che vuole usare i cosiddetti “insights“, le informazioni che derivano dall’utilizzo della telefonia mobile, “per migliorare le previsioni legate allo sviluppo sostenibile”.

Per Joakim Reiter, capo degli affari esterni del Gruppo Vodafone, questa iniziativa “no profit” è legata al concetto ormai diffuso che usare i dati prodotti dalle reti di telefonia cellulare può aiutare a prendere decisioni in grado di migliorare la vita delle persone. Il modo è semplice, i “big data for good” servono, secondo il portavoce di Vodafone, a far prendere decisioni più mirate ai cosiddetti “decision maker“, su temi importanti come la salute e la sanità, l’agricoltura, i trasporti, solo per citarne alcuni.

 


Israele: tre startup raccolgono $180 milioni in un giorno

Gerusalemme – In Israele in una sola giornata tre startup hanno annunciato di aver ottenuto fondi per centinaia di milioni di dollari. Mercoledì 8 novembre Compass (compra vendita immobili online), Yotpo (gestione dei commenti dei consumatori per azinede) e Mitrassist (assistente via app per chi soffre di rigurgito mitralico) hanno annunciato di aver ottenuto finanziamenti per circa 180 milioni di dollari, mentre una startup israeliana si prepara a affrontare in tribunale la principale azienda tech al mondo per valore di mercato, Apple.​

 


L’app nigeriana che permette di navigare gratis su internet

AbujaSliide Airtime è una popolarissima app in Nigeria che permette a chi la scarica di navigare gratis dal proprio smartphone mostrando contenuti personalizzati sul lock screen degli utenti. È stata nominata l’app più innovativa al mondo al Global World Congress di quest’anno, la migliore app africana nel 2016 ai premi Apps Africa e Corbyn Munnik, il suo ad e cofondatore, è stato inserito da Forbes nella lista dei 30 under 30 africani da tenere d’occhio.

Che fine ha fatto la rivoluzione siriana?

Caduta Raqqa, la guerra continua. Ma la partita non è solo militare. Anche se la rivolta civile che scosse il regime sembra lontana. E c’è chi pensa non ci sia mai stata. Chiedetelo ai siriani che quella rivoluzione l’hanno fatta. E hanno ancora in testa un’idea di futuro per la Siria

Lorenzo Declich
Martedì, 31 Ottobre 2017

Manifestazioni durante la rivoluzione siriana. REUTERS/Majed Jaber Manifestazioni durante la rivoluzione siriana. REUTERS/Majed Jaber

La città di Raqqa,  la cosiddetta capitale siriana dell’organizzazione dello Stato Islamico, è caduta. A conquistarla sono le Syrian Democratic Forces, guida curda, contingenti arabi, aviazione – sempre più letale e sempre meno “intelligente” – degli americani. È uno dei tanti capitoli di una guerra della quale ancora non vediamo la fine, una delle molte guerre siriane, per l’esattezza: quella di Is contro tutti.


LEGGI ANCHE : Raqqa, il senso di una fine


Una guerra che perderà di intensità ma permarrà a lungo: i perdenti di oggi sono annichiliti ma ben lungi dall’essere sconfitti anzi, intuiamo che i terroristi in Siria vanno sempre più radicandosi, riproducendo ciò che in Iraq è già da tempo una realtà: una sotteranea rete di relazioni basata su interessi economico-criminali. (Su questo tema consigliamo la lettura di questa importante testimonianza apparsa sul New Yorker.)

La partita in Siria non è solo militare, anzi. Quello di Raqqa, e con Raqqa gran parte dell’area orientale del Paese, è solo un esempio: mentre ci si incammina verso un qualcosa che sarebbe bene definire “pacificazione” più che “pace”, si aprono i file a medio termine più importanti: sociale, politico, economico.

E’ in frangenti come questi che ci si chiede quale sarà davvero il futuro della Siria, se ci sarà spazio per qualcosa di più di un regime tirannico che maltratta i suoi sudditi e si fa imporre l’agenda dai propri alleati esterni (Russia, Iran, Cina). Ed è a questo punto del ragionamento che ci chiederemo “che fine ha fatto la rivoluzione siriana?”. Che fine hanno fatto quelle decine di migliaia di persone che scendevano in piazza per chiedere riforme sociali, politiche, economiche? Sono ancora in grado di fare qualcosa? Di cambiare le carte in tavola?

Per prima cosa, rispondendo a queste domande, non bisogna dare per scontato che tutti siano d’accordo sul suo “frame”. Molti, cioè, diranno che la rivoluzione siriana non c’è stata, che era tutto un complotto internazionale contro la “ridente Siria” di Bashar al-Asad, poi tradottosi in un attacco imperialista in grande stile.

Invece ciò che in Siria è avvenuto a partire dai primi mesi del 2011 è molto chiaro: un rivolta pacifica che, dopo una repressione violentissima e cieca, è divenuta una vera e propria rivoluzione le cui due anime nonviolenta e armata hanno convissuto fino all’irruzione, da ambo le parti, delle potenze straniere piccole e grandi che hanno trasformato il conflitto da “guerra in Siria” a “guerra per la Siria” e hanno letteralmente cancellato dallo scenario i siriani stessi.

L’antidoto migliore per capire se qualcosa di quella rivoluzione rimane, e per smascherare i cospirazionismi, si ottiene tracciando solchi nella storia, solchi che attraversano i luoghi comuni. Si pensi un uomo come Mazen Darwish, ad esempio, uno dei più importanti attivisti per i diritti umani della Siria. La sua attività politica inizia ben prima della rivolta, nel 2004 (quando fondò il Syrian Center for Media and Freedom of Expression). Lo ritroviamo oggi, dopo anni di carcere nelle prigioni di Asad (l’ultima volta è stato detenuto dal 2013 al 2015). E quando si tratta di parlare di vincitori e vinti in Siria dice: “Non si tratta di decidere chi ha vinto. Si tratta di capire come facciamo a liberare i detenuti, a far cessare la tortura, a ritrovare le persone scomparse”.

Darwish, cioè, dice le stesse cose che diceva prima, durante e dopo la rivolta, la rivoluzione e la guerra siriane. Dice di essere ancora in lotta per vincere la pace, non la guerra: questo da sempre fa. Quest’uomo non è parte di chissà quale complotto, è semplicemente una persona che vuole cambiare le cose nel suo Paese e nessuno lo ferma, mai, se non con le cattive.

Quindi, alla domanda “che fine ha fatto la rivoluzione siriana”, si potrebbe semplicemente rispondere: chiedi a Mazen Darwish, a Yara Badr, a Yassin al-Haj-Saleh, a Razan Ghazzawi e a quelli come loro, che sono ancora tanti. Chiedi a quei siriani che la rivoluzione l’hanno fatta e che non sono scomparsi nelle carceri di Asad, non sono finiti nelle mani dello Stato Islamico o di qualche altro gruppo jihadista, non sono morti sotto i bombardamenti e ancora vogliono libertà, dignità e cittadinanza, le tre parole chiave della rivoluzione.

Questi siriani, sebbene non li vediamo quasi mai comparire in televisione o sui giornali, hanno costruito in questi anni un’idea di futuro per il loro Paese, un’idea ben diversa da quella che possono avere un Putin, un Ruhani, un Trump, un Erdogan o un petromonarca a scelta fra i più vieti.

Certo le circostanze non sono favorevoli. Si pensi che una delle nuove iniziative per la costruzione di una Siria civile e democratica si intitola “Noi esistiamo“.

A causa della loro debolezza dovremmo rivolgerci ai “padroni del mondo?” Cioè a leader politici che hanno dimostrato tutto il loro cinismo e una peculiare mancanza di scrupoli? Da cittadini, da persone democratiche che conoscono il significato dell’espressione “diritti umani”, la nostra risposta dovrebbe essere un sonorissimo “no”.

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Esperto di mondo islamico contemporaneo, Lorenzo Declich è autore del recente “Siria, la rivoluzione rimossa” (edizioni Alegre)

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WWE signs first woman wrestler from Arab world in global push

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World Wrestling Entertainment Inc. signed its first female performer from the Arab world on Sunday, smashing cultural taboos as the U.S.-based pageant seeks to piledrive its way into lucrative foreign markets.

Shadia Bseiso, a Jordanian versed in jiu-jitsu, dreams of encouraging more Arab women to take up sports – and of one day maybe even crashing a metal chair over WWE mega-star John Cena.

“Female athletes are finally getting the credit they deserve. The world is more open to that, and in terms of how the region will react to it, I‘m hoping its going to be very positive,” said Bseiso.

While women exercising in public is rare in the Arab world and the local entertainment industry often relegates them to docile roles, big companies such as Nike have stepped up advertising geared towards female athletes.

Still, the high octane physicality and outrageous storylines of professional wrestling remain a novelty in the region.

Speaking to Reuters in the WWE’s Dubai office, Bseiso said she made sure to tell her parents about her colorful career choice in person.

After announcing she would join the ranks of the WWE, they paused in disbelief for a moment, she said, worried for her safety in the often bruising shows.

They support her fully, she added, as she now heads to the company’s Orlando, Florida, training center for grueling in-ring training and what WWE calls “character development” – transformation into one of their trademark big personalities.

She has a Jordan-themed persona in mind, she says, declining to elaborate.

For decades a quintessential if curious emblem of Americana, professional wrestling has now won die-hard fans in the Arab world and beyond, and features widely in apparel and toys.

WWE’s reach deeper into new demographics makes plenty of business sense for the $1.5 billion Connecticut company, which has also recently signed several Indian and Chinese athletes in the hope of snaring millions of potential new devotees.

“Recruiting Shadia to join our developmental system underscores WWE’s ongoing commitment to building a talent roster as diverse as our fan base,” said Paul “Triple H” Levesque, WWE Executive Vice President and himself a popular wrestler.

Bseiso insists the quirky genre has room to expand if only fans could find a hero from home.

“As it is, the WWE’s incredibly popular in the Middle East, but I think having athletes from the region who grew up here – it will change things. You finally have someone to root for.”

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