All Tomorrow’s Parties

di Anatole Fuksas

Gia dalle prime ore susseguenti si poteva intuire la natura degli attentati del 15 novembre a Parigi, si poteva immaginare chi fossero davvero gli attentatori, perché da subito era chiaro chi fossero le vittime.  Già leggendo Pierre Janaszak, 35 ans, animatore radio e TV che era al Bataclan vari pensieri venivano alla mente: «Ils étaient trois je pense et ils tiraient juste dans le tas. Ils étaient armés avec de gros fusils, j’imagine que c’est des kalachnikov, ça faisait un boucan d’enfer. Ils n’arrêtaient pas de tirer. Il y avait du sang partout, des cadavres partout. On entend hurler, tout le monde essaie de fuir, les gens se piétinaient, c’était l’enfer.» Soprattutto, se a questa testimonianza si ricollegava la tempestiva rivendicazione, in particolare nel passaggio che spiega come: «Huit frères portant des ceintures d’explosifs et des fusils d’assaut ont pris pour cible des endroits choisis minutieusement à l’avance au cœur de la capitale française».

Sembrava subito strano che l’attacco ai crociati non si fosse tramutato in un assalto a qualche simbolo cristiano o a qualche bersaglio istituzionale. Appariva soprattutto significativo che gli attentatori avessero assaltato un tempio parigino del rock, che avessero deciso di smitragliare alla cieca giovani usciti per sentire musica e ritrovatisi ammucchiati al suolo a fingersi morti per sopravvivere. Ancor più significativo appariva subito il fatto che avessero preso d’assalto luoghi tipici quel mondo urbano emancipato dai cosiddetti valori tradizionali, a due passi da Charlie Hebdo, dalla rue Oberkampf, Belleville, Ménilmontant, il Canal Saint-Martin, dove s’incontra di tutto, ma veramente di tutto, meno che il francese medio.

Veniva subito da domandarsi che razza di scontro di civiltà sia mai questo, da pensare se, piuttosto, non si potesse riconoscere il caratteristico odio di classe dei subalterni gramsciani, il Lumpenproletariat del 18 brumaio o dei ceti medi declassati dalla crisi della Germania post-Weimar, dei poliziotti celebrati da Pasolini dopo Valle Giulia, di quelli che massacravano giovani inermi alla Diaz a Genova. E così via. All’idea dello scontro tra Islam e Occidente subito si sovrapponeva l’immagine di una più profonda guerra mondiale, vittime della quale apparivano chiaramente i ceti urbani emancipati dai valori tradizionali, quegli edonisti dediti alla lussuria del rock, al piacere di uscire la sera, di esprimere liberamente le proprie opinioni. Un po’ il seguito di Charlie Hebdo, ma meno simbolico, più feroce e concreto. Il precipitato violento della classica frustrazione, malcelata dietro vaniloqui mal coraneggianti, non dissimile da quella di Brevik nei confronti di coetanei più fighi di lui.

D’altra parte, non è casuale che la prima vittima di questi orrendi individui sia il ceto medio siriano, ridotto alla fuga, profugo in giro per tutta europa. E nemmeno è casuale che le Pen, Salvini e tutti gli xenofobi occidentali abbiano come bersaglio polemico proprio quei ceti urbani emancipati dai valori tradizionali addosso ai quali sparano questi altri orrendi individui. Veniva da subito difficile sopportare i richiami ideologici allo scontro di civiltà tra Islam e Occidente, riecheggiato da campane che lavorano per polarizzare l’opinione pubblica in questa direzione, nascondendo la realtà della posta in gioco. Che è e rimane la libertà di essere e vivere seguendo il proprio desiderio, la propria libertà di essere come si vuole. A Parigi come a Damasco.

Il quadro appare oggi più chiaro e Libération ha evidentemente adottato posizioni molto chiare al riguardo, titolando “Génération Bataclan” e spiegando che la vittima degli attentati è la “jeunesse qui trinque”. Come spiega lo storico specialista di Medio Oriente Jean Luizard in un’intervista a Mediapart: «Dans les quartiers attaqués, on peut voir des jeunes, cigarette et verre à la main, sociabiliser avec ceux qui vont à la mosquée du quartier. C’est cela que l’EI veut briser, en poussant la société française au repli identitaire, […] que chacun considère l’autre non plus en fonction de ce qu’il pense ou de ce qu’il est, mais en fonction de son appartenance communautaire». La commovente testimonianza di Erwan le Gal apparsa sulla sua pagina Facebook illustra chiaramente la natura degli obiettivi, in particolare del Carillon: «ce petit bar de quartier en bas de la maison, dans le 10e arrondissement, à l’intersection des rues bichat et alibert. la famille d’amokrane (papi amo pour les intimes), émigre de kabylie après-guerre».

Dal racconto di Erwan, che veramente prende allo stomaco, emerge chiaramente che «autrement dit, le carillon c’était d’abord un lieu qui incarnait pour ces fanatiques tout ce qu’ils exècrent : une certaine idée de la vie». Questa idea della vita che gli attentatori hanno voluto colpire è «celle qui consiste à prendre le temps de boire un café en terrasse, de lire, de rire, de partager une bouteille de vin avec des amis avec qui on ne partage pas forcément les mêmes orientations (religieuses, sexuelles, politiques), de fumer, d’écouter de la musique». Dunque, a differenza di quanto si sente strombazzare in giro, non sono sotto attacco i valori occidentali. Non è sotto attacco la famiglia tradizionale. Non è sotto attacco il comune benpensante francese o europeo, magari cristiano, forse proprio cattolico. Non sono sotto attacco le sue chiese, il suo lavoro, le sue giornate in fila nel traffico. Non è sotto attacco la sua televisione perennemente accesa sul nulla, la sua casa spettrale, non è sotto attacco il suo vuoto interiore, la sua incapacità di ridere.

Sotto attacco c’è un’idea di libertà che abbraccia il mondo intero e si realizza in luoghi speciali come il Carillon, dove indipendentemente da chi tu sia, da dove tu provenga, da cosa tu faccia o non faccia, dal tuo orientamento sessuale, politico o calcistico, c’è una sedia sfondata e un bicchiere per te, una bottiglia da stappare, una sbronza rumorosa e il piacere di stare insieme. Questo è il bersaglio che questi assassini si sono dati ed è qui che sono andati a smitragliare persone inermi e pacifiche, solo colpevoli del fatto di non condividere la loro miope visione identitaria della vita, la loro incapacità di essere qualcosa che hai deciso da solo. Questi assassini sono francesi, occidentali anche loro da quattro generazioni, animati dalla stessa rabbia che fomenta i loro simili di tutto il mondo, figure che tutti quanti in una qualche misura abbiamo incrociato, nel nostro percorso di vita parallelo, che col loro non s’incontra mai, nemmeno all’infinito. E che la sorte ce ne scampi, dalla banalità del normale, del comme il faut, dei decerebrati che oggi inneggiano alla guerra di religione, all’odio raziale, alle frontiere da chiudere, ai rifugiati da rimpatriare.

È con loro che siamo in guerra, da sempre, indipendentemente dal loro sesso, dalla loro razza, dalla loro religione. Perché da una parte ci sono le persone che esercitano la loro libertà, che ne chiedono di più, che se non la trovano se la prendono, dall’altra le stragrandi maggioranze incapaci di farlo che vivono prigioniere dei valori tradizionali, schiumano rabbia per la propria incapacità e se la prendono con chi è invece capace. Questa è l’unica guerra che c’è. La razza, la religione, la nazionalità sono etichette di comodo e circostanza, stupidagini che solleticano la profonda crisi identitaria dei ceti medi, capaci di sentirsi protagonisti della propria vita solo quando si agita un idolo, si sventola una bandiera, si addita un nemico. Per costoro non si può nemmeno arrivare a provare pena, solo profondo disinteresse per la noia che esprimono. La noia di vite tutte uguali, trincerate dietro simulacri di normalità agitati con violenza appena possibile.

Sono tutti uguali. E noi siamo diversi, soprattutto da loro, ma anche tra di noi. Perché ci piace così. Ci piace essere e sentirci diversi, perché è proprio la diversità di ogni individuo che rende speciale la sua vita, unica, irripetibile, diversa, appunto, da tutte le altre. Come quella delle vittime di questi orrendi attentati, che sentiamo vicine come se le conoscessimo, non perché fossero uguali a noi, ma proprio perché non lo erano, proprio perché condividiamo il piacere di essere ognuno come cazzo ci pare. E proprio per questo beviamo alla loro, e alla nostra, con le lacrime agli occhi, questo sì, ma senza paura. Perché abbiamo ragione noi. E questa guerra la vinceremo.

Questo pezzo è apparso il 16 novembre qui: http://divertimentideldesiderio.tumblr.com/post/133335194739/all-tomorrow-parties

All Tomorrow’s Parties è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.