Giorno: 18 gennaio 2017

Belgrado nel cuore di ghiaccio dell’Europa

Fotoservizio di Dante Prato e Laura Danzi

«Poche settimane fa ho provato ad attraversare il confine con l’Ungheria per arrivare in Germania, ma la polizia ci ha scoperti è ha cominciato a picchiarci. Con me c’erano anche bambini di dieci anni e la polizia ha picchiato anche loro». Nonostante ci sia un timido sole a illuminare il volto di Farid la temperatura di Belgrado, alle 14, è ben al di sotto dello zero. Questo ragazzo afghano di venti anni, stretto nel suo cappotto arancione, ci racconta una storia che non è più nuova. Non lo è alle nostre orecchie, non lo è a quelle di milioni di europei, ma che ancora una volta tutti quanti continuiamo ad ignorare.

Dietro la stazione ferroviaria della capitale serba, a meno di un chilometro dal centro storico, più di mille migranti hanno dato vita ad un nuovo insediamento informale. Un piazzale circondato da capannoni ed ex depositi, da diversi mesi, è diventato la nuova casa per migliaia di persone provenienti principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria e Kurdistan. Sono soprattutto giovani uomini, molti adolescenti, qualche bambino; tutti bloccati a Belgrado nel loro viaggio lungo la rotta balcanica. Proprio quella che l’Europa dice che non esiste più. Proprio quella che, a seguito degli accordi tra l’Unione europea e la Turchia, da marzo dovrebbe essere stata definitivamente sbarrata. In realtà, seppur i numeri siano leggermente diminuiti, la balkan route è tutt’altro che chiusa. Si sono aperte nuove strade, che nella maggior parte dei casi sono ancora più insicure e rischiose.

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«In Serbia — ci racconta Andrea Contenta, Humanitarian affairs officer di Medici senza frontiere — ci sono circa 8000 migranti. 6000 vivono in campi governativi che, a causa del sovraffollamento e delle scarse condizioni igieniche, non rappresentano certo un esempio di accoglienza dignitosa, mentre 1700 persone vivono a Belgrado».

C’è un cancello proprio dietro l’angolo della piazza della stazione, sembra un normale parcheggio con tanto di custode, ma dentro ci sono centinaia di persone già in fila ad attendere che Hot Food Idomeni, un’organizzazione autorganizzata che avevamo già incontrato alconfine tra la Grecia e la Macedonia (leggi qui il reportage), arrivi a fornirgli un pasto caldo. Una zuppa e un pezzo di pane, quanto basta per non morire di fame, per cercare di riscaldare il corpo già provato dal freddo polare.

L’unico riparo sono i capannoni abbandonati che circondano il piazzale, un materasso lurido e una coperta. L’unica soluzione è accendere un fuoco, bruciare qualsiasi cosa possibile alla ricerca di un po’ di calore.

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«L’aria all’interno dei magazzini è irrespirabile — ci racconta Alì, un adolescente pakistano — , dormire tutte le notti così diventa davvero pericoloso per la salute. Ma la scelta tra il morire di freddo e rischiare un’intossicazione è facile».

Il numero di migranti assiderati nell’ultimo periodo è aumentato considerevolmente, qualsiasi fonte di calore è vitale. Negli ultimi giorni Medici senza frontiere, oltre che del lavoro sanitario si sta occupando anche di distribuire coperte. Il termometro di notte tocca meno venti. In queste condizioni anche lavarsi diventa proibitivo. L’unico modo è scaldare l’acqua sul fuoco e approfittare di ogni singola goccia, mentre quella che finisce a terra sull’asfalto gelato, alza nuvole di vapore spettacolari. «Sono circa quattro mesi che parliamo con il municipio, con il Ministero della salute e il governo per cercare di installare dei bagni e delle docce — aggiunge preoccupato Andrea –, ma ci hanno risposto che non era proprio il caso, mentre le persone continuano a vivere qui senza un bagno e senza acqua corrente». E continueranno a viverci, perché il confine con l’Ungheria è bloccato, mentre i migranti in Serbia continuano ad arrivare o a ritornare. «La Serbia rischia di diventare una nuova Calais all’interno dei Balcani — conclude il responsabile di Msf –, molte delle persone che sono qui erano già arrivate in Austria o in Germania, sono state poi trasferite in Bulgaria, a causa delle leggi di Dublino, e si ritrovano di nuovo qui. La Serbia rischia di diventare un grosso campo aperto, circondata dai confini dell’Europa, non gode dei benefici dell’Unione ma ne paga comunque le conseguenze».

Un cane che si morde la coda, mentre le persone continuano a morire. Mentre continuiamo a pagare la Turchia perché blocchi i migranti lungo il confine siriano, mentre stringiamo dispendiosi accordi commerciali con paesi come la Libia perché arginino i flussi, le persone continuano ad arrivare in maniera ancora più difficoltosa e sopponendosi a condizioni sempre peggiori. La linea politica europea in tema di gestione dei flussi migratori fatta di muri, fili spinati e esternalizzazione dei confini, non solo non sta funzionando, ma mostra tutta la sua disumanità.

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Totò e la rappresentazione dell’Oriente

Il saggio di Edward Said intitolato “Orientalismo” risulta ancora oggi, nonostante i suoi limiti ed i suoi anni, estremamente attuale. La connotazione mistificatoria e stereotipata del concetto di “Oriente” enucleata da Said ha trovato esempi estremamente rappresentativi nel cinema italiano del ‘900…. Continue Reading →

Totò e la rappresentazione dell’Oriente

Il saggio di Edward Said intitolato “Orientalismo” risulta ancora oggi, nonostante i suoi limiti ed i suoi anni, estremamente attuale. La connotazione mistificatoria e stereotipata del concetto di “Oriente” enucleata da Said ha trovato esempi estremamente rappresentativi nel cinema italiano del ‘900…. Continue Reading →

Bolzano — Protesta dei richiedenti asilo “Vogliamo i documenti!”

Si sono presentati in quaranta, lunedì mattina, nonostante il freddo e il vento gelido, davanti la questura di Bolzano per protestare, per l’ennesima volta, contro i tempi di attesa biblici per essere auditi dalla Commissione territoriale di Verona che valuta le domande di protezione internazionale.
Una quarantina di richiedenti asilo afghani e pachistani, da mesi oramai rinchiusi all’interno di un centro di accoglienza, hanno deciso di manifestare il loro dissenso in maniera dura, seppur pacifica, mettendoci, come sempre più spesso accade, la faccia e il corpo. La risposta della questura, manco a dirlo, è stata quella di blindare il gruppo ai limiti di un parco con un ingente spiegamento di forze dell’ordine in assetto antisommossa.
Daya, pachistano, era tra coloro che hanno portati avanti la protesta. “Sono 18 mesi che cerco di sopravvivere all’interno dei centri di accoglienza” ci racconta “sono stato in questura a Bolzano a metà del 2015 per consegnare i documenti che poi sono stati spediti a Verona. Ad oggi nessuna risposta. Nel frattempo vivo in un limbo, non posso lavorare, ho pochissimi contatti con italiani, non ho la minima libertà di movimento”.
La condizione di Daya è quella di migliaia di richiedenti asilo in Italia, intrappolati in un circuito infernale di leggi mal scritte e mal fatte, sintomo di una costante situazione emergenziale inventata ad hoc e connotata da ritardi tipici della burocrazia italiana. Un circolo vizioso che porta a ricevere una risposta, mediamente, dopo due o tre anni. In molti di loro lamentano il fatto, inoltre, della severità della Commissione territoriale e delle modalità del colloquio. Ci confidano che i loro amici sono stati sottoposti ad un interrogatorio, con domande calzanti che puntavano a metterli in contraddizione. Alcuni di loro hanno ricevuto il diniego nonostante arrivino da zone non sicure colpite da attentati terroristici. “Temiamo di non ricevere nessuna protezione e di essere rimpatriati, ma nel nostro Paese non ci è rimasto nulla, solo morte e dolore”.
A Bolzano la situazione sembra precipitata nell’ultimo periodo, nonostante un sostanziale rallentamento del passaggio di migranti nella tratta Verona/Monaco. Oltre ad una chiara difficoltà nell’accoglienza di questi ultimi, una ventina di richiedenti asilo vive per strada da una settimana circa con temperature che hanno sfiorato i dieci gradi sotto lo zero.
Nell’assurdità della situazione, degradante e disumanizzante per chi vive ostaggio di una risposta, spesso negativa, andrebbero però indagate le responsabilità della questura di Bolzano che, spesso, non si è dimostrata particolarmente solerte nel formalizzare le richieste di asilo attraverso il modello C3 e poi inviare i documenti.
Sullo sfondo a completare il cerchio delle responsabilità, le istituzioni, Comune e Provincia in primis, che non solo restano sorde alle richieste dei migranti e volontari che chiedono un’accoglienza dignitosa, ma che non hanno mai negato il fastidio di dover accogliere, a tal punto da non aver ancora ritirato la circolare Critelli.
La morte di Abeil, a inizio dicembre, sembra già essere stata dimenticata!

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Il ratto del serraglio

L’altro giorno ho letto questo articolo.  Tratta del nuovo allestimento dell’opera di Mozart Il ratto del serraglio. L’oggetto della quetione è l’allestimento contemporaneo, nel quale il regista austriaco ha sostituito ai Turchi i combattenti di daesh, come da immagine che segue: … Continua a leggere

Il ratto del serraglio
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

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Il percorso di orientamento rappresenta uno strumento volto ad analizzare le precedenti esperienze di lavoro per poter ricostruire il proprio passato e delineare un progetto futuro di vita. Un percorso di vita che riparta dalla consapevolezza delle proprie capacità, innescando un processo volto a stimolare la proprie capacità di resilienza. L’utenza di questo percorso è costituita da richiedenti asilo i quali affrontano un percorso di transizione totale, affrontare in maniera trasversale un percorso di orientamento è essenziale per creare le fondamento per l’inserimento nella vita sociale ed economica del nostro paese.

Outplacement, percorsi di inserimento sociale e lavorativo:

L’Outplacement si rivolge a coloro che non hanno un obiettivo professionale definito, o il cui obiettivo professionale sembra essere irraggiungibile.
Anche le persone senza esperienze professionali possono aver bisogno di definire meglio le proprie capacità e aspirazioni professionali, e di progettare e mettere in atto percorsi professionali. In questo caso i beneficiare del corso sono immigrati, quindi persone che hanno deciso di abbandonare il proprio luogo di origine alla ricerca di un futuro migliore. I percorsi di Outplacement sono mirati a sostenere, individualizzare e potenziare le capacità e le competenze dei singoli beneficiari.

Lo scopo è di mettere in grado le persone di progettare il proprio futuro personale, in questa ottica diventa fondamentale riconoscere e metabolizzare il proprio percorso migratorio, identificare gli obiettivi da raggiungere e il sistema per realizzarlo.

I traguardi personali non possono essere imposti dall’operatore, ma devono nascere autonomamente dal vissuto dei beneficiari, i quali sono gli unici a poter rispondere nel modo più adeguato ai propri bisogni formativi, lavorativi e alla definizione del proprio percorso migratorio. Consegue che l’operatore offre un punto di vista esterno con cui confrontarsi e una guida al percorso che comunque ciascuno dei beneficiari deve compiere per:

1* identificare competenze e potenzialità da investire nell’elaborazione/realizzazione di un progetto di inserimento sociale professionale e migratorio
2* acquisire autonome capacità di autovalutazione e scelta e autodeterminazione
3* sviluppare, rispetto a sé, quadri di riferimento socio-culturali e registri emotivi appropriati per affrontare positivamente situazioni di transizione/cambiamento, per investire sulla propria progettualità;
4* la ristrutturazione cognitiva, per favorire il passaggio da un atteggiamento rinunciatario a un’attivazione diretta nella ricerca di lavoro o di informazioni.
5* costruire un progetto di sviluppo umano
6* la ristrutturazione cognitiva, per favorire il passaggio da un atteggiamento rinunciatario a un’attivazione diretta nella ricerca di lavoro o di informazioni.

Metodologia:
Il Target di persone che partecipato al corso risulta essere diverso da quelli che possono essere considerati utenti “classici”. La letteratura di settore è carente se non priva nell’offrire materiale specifico da utilizzare in questi casi, quindi risulta indispensabile avere un approccio etno-antopologico . Come metodologia di lavoro si è preferito usare le tecniche di educazione non formale e momenti di peer education, permettendo ai beneficiari di essere i creatori dei contenuti e non soggetti passivi di lezioni frontali.

Strumenti:
Gli strumenti utilizzati sono costituiti da:
Attività di presentazione e analisi dei bisogni, attraverso giochi di gruppo e attività semi strutturate

Cos’è il lavoro? Attività di confronto collettivo sulla concezione del lavoro, e sulle emozioni che suscitano. Attraverso l’utilizzo di cartelloni e post it i beneficiari riescono a concretizzare i propri vissuti

Il filo rosso del Lavoro; con l’utilizzo di fogli e colori i beneficiari sono stati chiamati a organizzare in maniera temporale la propria storia lavorativa, utilizzando colori diversi a seconda del sentimento legato all’esperienza di lavoro. Discussione finale e confronto di gruppo

Le mie competenze; per ogni esperienza si è chiesto di elencare le azioni pratiche svolte e le responsabilità legate al proprio ruolo.

Cos’è il mio lavoro; partendo dalle caratteristiche identificate in ogni lavoro svolto in precedenza, attività pratiche, intellettuali, lavoro autonomo, dipendente, in gruppo o svolto singolarmente, i beneficiari hanno dovuto analizzare queste esperienze per capire se quella professione è stata un’esperienza soddisfacente oppure no, quali erano le mansioni nelle quali si riusciva meglio e quelle nelle quali non si era particolarmente idonee. Cercare di capire i lavoro svolti per necessità e quelli fatti realmente per interesse personale.

Le mie caratteristiche personali; in questo caso ai beneficiari è stato chiesto di elencare le proprie caratteristiche personali, individuando in maniera particolare tutte quegli atteggiamenti che vengono fuori o si accentuano nei luoghi di lavoro.

Il mio lavoro ideale; E’ stato chiesto ai beneficiari di pensare a 3 lavori ideali che possono o hanno l’intenzione di fare in futuro. Per ogni professione inoltre è stato chiesto di elencare una serie di attività proprie di quel lavoro e le caratteristiche personali predominati per quel tipo di lavoro, quali ad esempio lavoro in gruppo, alta responsabilità, gestione del lavoro ecc.. Per ogni caratteristica personale o lavorativa bisogna capire se questa è da acquisire oppure già presente nel proprio bagaglio di esperienza personale.

Decidere di utilizzare del materiale mutuato da altri settori è stato di sicuro una scelta efficace che permette a tutti di esprimere il proprio vissuto, i proprio punti di orgoglio personale e le proprie ansie.

Per far capire il coinvolgimento dei beneficiari mi piace ricordare due episodi, un signore Pakistano sui 45 anni che ci mostra il biglietto da visita del suo negozio di abbigliamento e un altro signore che mi mostra la foto della sua sartoria. Non si può negare che sia stato un percorso difficile, chiedere di riflettere sulla propria storia personale a persone che hanno lasciato la propria Nazione, i propri affetti e la propria vita alla ricerca di un futuro.

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Migranti e necropolitica

Non ha nome, è lì tra i vecchi binari, i vecchi magazzini. In un altro mondo, un mondo accanto al mondo, rifugiati si riscaldano bruciando vecchie traversine dei binari, nell’ex stazione ferroviaria di Belgrado. A ridosso del scintillante Waterfront, un mostro immobiliare di lusso che tra poco cancellerà la jungle già nascosta da immensi cartelloni immobiliari di famiglie sorridenti con vista sul Danubio. Flash delle contraddizioni del capitale. Dietro, 2.000 esseri profughi organizzano turni per riscaldare un po’ di acqua calda e rimanere puliti dignitosi. Di notte temperature a meno 20 gradi. E mi chiedo che tipo di vitalità ci vuole per sopravvivere a meno 20… La forza del movimento libero forse?

Un odore acre che permea tutto e si attacca nel fondo dei polmoni. Tutti tossiscono, polmoniti forse pneumonie, ipotermie in corso. Nel grigio del fumo, come un archivio vivente, assalgono le immagini dell’archivio storico, quello storico, quello dell’apertura dei campi, il disastro della Seconda guerra mondiale. Germania anno zero, Europa anno zero, Europa 2017.

Un’umanità ridotta ai bracieri.

Coperte grigie sulle spalle, dalle coperte tutte uguali si riconoscono. Tremanti. Uomini rigettati nell’oscurità, fuori dal corpo sociale.

“Ebbene, storia, la contro-storia che nasce con il racconto della lotta delle razze, parlerà proprio della parte dell’ombra, a partire da quest’ombra. Sarà il discorso di quelli che non possiedono la gloria, o di quelli che l’hanno perduta, e si trovano ora — per un certo tempo forse, ma sicuramente a lungo — nell’oscurità e nel silenzio. Tutto questo farà sì che [… ] il nuovo discorso sarà una presa di parola che irrompe, un appello: “ (…). Noi usciamo dall’ombra. Non avevamo diritti e non avevamo gloria, ma proprio per questo prendiamo la parola e cominciamo a raccontare la nostra storia”. Questa presa di parola accomuna il tipo di discorso emergente [… ] a una sorta di rottura profetica.”

Michel Foucault, “Bisogna difendere la società” (1976)

Attraverso il fumo denso opaco, scorgo occhi verdi di speranza, quelli degli altipiani dell’Hindu Kush. Accanto alle pozzanghere gelate, contrastano come foto-shock mute, le infradito, le crocks, i piedi nudi gelati nelle scarpe da tennis sfondate e senza più suola, piedi nudi, alcuni persino in ciabatte d’albergo. Tutti hanno camminato mesi, per ritrovarsi nel limbo della jungle di Belgrado, tra le frontiere dell’Europa chiusa. Rotta balcanica (ufficialmente) chiusa, anche se continuano ad arrivare. L’altro giorno uno di loro è stato portato in ospedale per un mezzo congelamento di un piede. Uno a nord sul confine con l’Ungheria è morto di ipotermia.

Ad accendere i fuochi, scorgo bambini, alcuni non hanno più di dieci anni. I bimbi in questa storia, rappresentano la metà dei circa 8.500 rifugiati in Serbia, afghani pachistani, iracheni e siriani — tutti provenienti da zone di guerra. Quelli che sono fuori dei campi, a Belgrado, trovano rifugio nel più grande grande squat dell’Europa centrale, un’altra jungle, come Calais e Ventimiglia. Appena entrata, uno sviene a terra, scosso da forti tremori, si teme un’ipotermia in corso. Loro rifiutano di farsi registrare dalle autorità, per paura di venir rinchiusi nei 15 campi in Serbia o deportati, pushed-back, come accade ogni giorno, verso i confini macedoni o bulgari. E poi parte la catena del refoulement (respingimento, NdR) Serbia, Macedonia, ecc… Condizioni igieniche mostruose, gravide di una catastrofe umanitaria, come avverte da mesi Msf, che con una clinica mobile nel parco avverte e cura un’epidemia di malattie della pelle per ora contenuta. Un unico piatto caldo al giorno, distribuito da volontari, senza nomi, quelli che sono già intervenuti dal 2015 in Grecia, a Idomeni e sulla rotta balcanica (Hotfood Idomeni per le donazioni).

Perché il governo serbo, per paura del cosiddetto presunto “appello d’aria”, ha pubblicato una lettera pubblica per vietare alle Ong internazionali di distribuire cibo e vestiti a Belgrado ai migranti non registrati nei campi e che dormono all’adiaccio. L’inverno più duro alle porte, temperature notturne a meno 20. Deterrenza contemporanea. Si smaschera allora…. il progetto è di farli soffrire nella carne e nello spirito? Impazzire… E qual è il limite? Quando decine cadranno di polmonite, ipotermia, assideramento? Quando si molteplicheranno i casi di morti di gelo, le amputazioni (già tre casi l’inverno scorso), quando gli arti saranno rotti come le menti, di quest’umanità ridotta alla diversità? Nascondersi sempre, vivere negli anfratti, nelle fratture del capitalismo denunciandone con la propria esistenza, il volto mostruoso. Alzarsi ancora. Rifugiati a ridosso del Waterfront come una beffa, una denuncia di corpi viventi, sotto la neve.

Sadismo o piuttosto necropolitica migratoria? A che punto allora si muoverà la comunità internazionale? Quando la soglia diventa “soglia critica”? Le domande sorgono, qui nel cuore dell’Europa, nel vecchio impero Ottomano, ora attraversato e violento, e riecheggiano le parole di Achille Mbembe in Necropolitica:

«La sovranità in questi luoghi equivale alla capacità di definire chi conta e chi non conta, chi è eliminabile e chi non lo è».

«Creare dei mondi di morte, forme nuove e uniche di esistenza sociale, nelle quali popolazioni intere sono assoggettate a condizioni di vita che equivalgono a collocarle in condizione di “morti in vita”».

Achille Mbembe, Necropolitica, ombre corte 2016 (Necropolitics, 2003).

«Morti in vita», riflessione.

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Photo credit: Mario Badagliacca

Deportazioni

Questi rifugiati respinti, che nessuno vuole, a parte i siriani di prima classe e nemmeno più loro dopo l’Accordo con la Turchia che permette di respingere interi nuclei familiari sopravvissuti alle bombe, indietro, persino verso la Siria. Quei respinti, che vivono tra i rifiuti, chi li rappresenta? Respinti tra Stati, come in un ping pong, dalle violentissime e xenofobe polizie ungherese e croata a colpi di pestaggi, pepper spray negli occhi, deportazioni e cani sguinzagliati. Addosso. Persino spari da arma da fuoco, in Croazia, secondo alcune testimonianze. Riportati in Serbia, finiscono per ritornare allo squat di Belgrado e riprovarci. Perché la Serbia, punto nodale tra gli Stati europei balcanici, è diventata una trappola dopo la chiusura della rotta balcanica, una specie di “discarica” per i non wanted refugees, pachistani, afghani per la maggioranza. In tutto circa 10.000 in tutto il paese, da statistiche non ufficiali (l’Unhcr li stima a 7.000) e nonostante la chiusura, continuano ad arrivare, 50 a giorno, tanti minori non accompagnati. La metà dei profughi in Serbia sono bimbi. Tutti hanno provato il border crossing almeno 3 volte, alcuni persino ventina di volte. Venti volte respinti.

La pelle archivio

Sulla pelle, i segni: ferite da manganelli, dissuasori elettrici, morsi da cane, maltrattamenti, umiliazioni, alcuni fatti saltare dai vagoni, le porte dei container rinchiuse sulle sulle caviglie strappate, piedi rotti, uomini con stampelle, a Kelebija, Subotica, Shid, Preševo. Come in un archivio vivente, la violenza della frontiera sui corpi. La sovranità, barbarie-Europa stampata a vita, sulla pelle.

«Le tracce di queste chirurgie demiurgiche persistono a lungo nella forma di figure umane che di certo sono vive, ma la cui integrità fisica è stata sostituita da pezzi, frammenti, pieghe e ferite immense che difficilmente si rinchiuderanno. La funzione di questi pezzi è mantenere davanti agli occhi della vittima, e chi sta intorno a lui o a lei, lo spettacolo morboso dell’amputare.» Achille Mbembe

Non voler vedere che è in corso un’eliminazione. Europa-negazione.

Nella tende del Community center gestiti da volontari internazionali, a Kelebija, entry point in Ungheria, una cinquantina di algerini fa a gara per mostrarmi le ferite di questa violenza di frontiera. Mentre ricaricano le batterie, cellulare bussola. Questa ferita è dovuta ai pestaggi della polizia ungherese, dall’altra parte della recinzione, questa sulla caviglia, a Shid, qua un cane mi ha attaccato, qua ho il segno del morso, a Preševo, qua in Ungheria, dall’altra parte del confine, ci hanno arrestati, e chiesto di camminare verso la Serbia, in piena notte. La prassi è anche di confiscare i cellulari, impunità che si diffonde come una macchia. Polizia di guanti neri. A Subotica una pattuglia ci ha fatto scendere di forza dai treni, il mio piede si è rotto nella porta del container. Qualcuno cammina con le stampelle, qualcuno è esaurito, un altro sta impazzendo. Mesi nei boschi, in capanne di foglie ad aspettare un varco o un smuggler. Con il rumore di un’improbabile apertura dei confini, la speranza non cessa mai, anche nei posti disperati, sorrisi immensi totali. Intanto all’altezza del duty free, uomini obbligati a rintannarsi nei boschi, mentre i tir di merci passanno, liberi. Uomini rintanati nei boschi.

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Photo credit: Mario Badagliacca

Un’umanità ridotta ai boschi. Europa 2017.

E poi c’è la lunga scia invisibile di deportazioni illegali, persino di richiedenti asilo registrati ai confini, i numeri sono registrati nei rapporti dell’Unhcr. 51, 150, 109. Unchr denuncia pure il netto incremento delle deportazioni illegali di migranti che cercano di raggiungere l’Europa passati per la Rotta Balcanica. «Circa 1.000 persone dal Medioriente, Asia e Africa sono stati espulsi nel solo mese di Novembre sulla rotta balcanica… di più dei mesi precedenti», dichiara la portavoce dell’Unhcr in Serbia, Mirjana Milenkovska. Fino al caso emblematico del 17 dicembre, dove un’intera famiglia curdo-siriana, registrata a Belgrado dalle autorità e in corso di trasferimento al campo di Boseligradj, centro-sud, viene fatta scendere dal bus, portata in un furgone delle forze speciali e abandonnata, due donne e un bimbo di due anni, in pieno nulla, nei boschi sul confine bulgaro, e consigliata di camminare verso la Bulgaria a meno 11 gradi. Grazie agli attivisti di Info-Park, sono scampati all’ipotermia. E quanti casi di deportazioni e scomparse nei freddi boschi dei confini balcanici? Non lo sapremo probabilmente mai. Barbarie-Europa avanza. Eliminabili.

E mi chiedo allora se basterà quel reportage, quelle prove, quella denuncia, l’ennesima. Mi chiedo se basteranno i loro occhi, le loro parole, le loro ferite, non vittime ma eroi, è la rivoluzione che avanza e la sua punta avanzata, è qua. E mi chiedo il senso di questo pezzo, se la narrazione non dovrebbe semplicemente riassumersi in un unica parola, il disumano.

A qualche centinaia da noi, sulle frontiere, sono in corso

Rastrellamenti, ratonnade, deportazioni in mezzo alle notti, pestaggi infiniti. Cadono dai treni, muoiono di gelo, congelati, assiderati nei boschi sui confini, costretti a camminare di notte in nuove marce forzate, uno è stato gettato in un lago ghiacciato, sui petti, vedo i morsi dei cani. Non ricorda nulla a nessuno… Se non è una lenta politica di eliminazione, questa, uomini-rifiuti, respinti, eliminabili. Necropolitica migratoria.

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Photo credit: Mario Badagliacca

Migranti morti di gelo

Dal mio ritorno, e mentre chiudo quest’articolo a casa al caldo, giungono le notizie di morti annunciate sul confine bulgaro-turco, nei pressi del monte Strandzha, perché è l’unico carico a non aver recinti, passaggio del confine nella neve (30cm): nella sola prima settimana di gennaio 2017 sono morti di assideramento, 4 persone, migranti e solo nelle ultime 24 ore ci sono stati sette casi di congelamento a Belgrado.

Due giovani uomini iracheni, di 28 e 35 anni, ritrovati nei pressi del paese di Izvor, regione di Burgas, Sud-Est Bulgaria, 6 gennaio 2017.

Nella stessa zona, una donna somala è stata rirovata il 2 gennaio 2017 nei pressi di Ravadinovo. I compagni di viaggio, raccontano che sono stati costretti ad abbandonarla, perché non aveva più la forza di camminare.

Un altro afghano è morto di ipotermia, dopo aver traversato a nuoto il fiume Evros, a Nord della Grecia, ritrovato nei pressi di Didymoteicho, il 3 gennaio 2017.

E già il 26 dicembre un irachene richiedente asilo era stato costretto dai trafficanti ad abbandonare la propria sorella sul confine bulgaro, perché troppa stremata per camminare.

Mi sorprendo a scrivere queste cose come se fossero normali. “Lasciata indietro tra i boschi perché stremata, nel gelo, morta di gelo”. A 2000 km da casa nostra. Un orrore, un Novecento di ritorno.

Eliminazione. Racconti da Seconda guerra mondiale, di marce forzate, di morte per stenti, di esaurimento e di gelo. Non Siberia 1917, non Germania anno zero, Europa 2017. Barbarie-Europa.

Belgrade-Kelebija-Roma, 11 gennaio 2017

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“La città di pan di zenzero” di Jennifer Steil

Ai nostri piedi si stendeva la fantasia di pan di zenzero che è la Città Vecchia di San’a: un agglomerato di case color biscotto, decorate con quella che ha l’aspetto di glassa bianca, circondato da mura spesse e alte. Non avevo mai visto una città così bella. Queste poche righe sono sufficienti a immergerci nella […]

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