Nel contesto di un’industria tessile in declino e di una disoccupazione crescente, il destino delle 67 operaie della Mamotex di Chebba, fabbrica specializzata nella confezione per marche europee, sembrava segnato. Dopo vent’anni di attività, il proprietario dell’azienda a deciso di chiudere i battenti, minacciando così il posto di lavoro delle sue dipendenti, rimaste senza paga dall’inizio dell’anno. Inkyfada
Giorno: 16 novembre 2016
La lotta delle operaie della Mamotex: dall’autogestione alla disperazione
Nel contesto di un’industria tessile in declino e di una disoccupazione crescente, il destino delle 67 operaie della Mamotex di Chebba, fabbrica specializzata nella confezione per marche europee, sembrava segnato. Dopo vent’anni di attività, il proprietario dell’azienda a deciso di chiudere i battenti, minacciando così il posto di lavoro delle sue dipendenti, rimaste senza paga dall’inizio dell’anno. Inkyfada
La lotta delle operaie della Mamotex: dall’autogestione alla disperazione
Nel contesto di un’industria tessile in declino e di una disoccupazione crescente, il destino delle 67 operaie della Mamotex di Chebba, fabbrica specializzata nella confezione per marche europee, sembrava segnato. Dopo vent’anni di attività, il proprietario dell’azienda a deciso di chiudere i battenti, minacciando così il posto di lavoro delle sue dipendenti, rimaste senza paga dall’inizio dell’anno. Inkyfada
Io, macellaia di Algeri
Bent Meziane (la figlia di Meziane), così si fa chiamare, è macellaia dal 1987. Nel suo negozietto curato della periferia di Algeri, ripercorre, tra due clienti, la sua storia e la sua visione di donna macellaia. Radio M
Io, macellaia di Algeri
Bent Meziane (la figlia di Meziane), così si fa chiamare, è macellaia dal 1987. Nel suo negozietto curato della periferia di Algeri, ripercorre, tra due clienti, la sua storia e la sua visione di donna macellaia. Radio M
Io, macellaia di Algeri
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A Falerna (CZ) ordinanza di sgombero per il “Residence degli Ulivi”
Riceviamo e pubblichiamo.
Appello per i dannati di Falerna
Tre anni fa, una circolare emanata dal Ministero dell’Interno in data 18…
A Falerna (CZ) ordinanza di sgombero per il “Residence degli Ulivi”
Riceviamo e pubblichiamo.
Appello per i dannati di Falerna
Tre anni fa, una circolare emanata dal Ministero dell’Interno in data 18…
La población olvidada del milagro español
PABLO ELORDUY publicado en DIAGONAL Nato nel 2005, Diagonal è un magazine madrileno, on-line e cartaceo, e si definisce di “informazione…
La población olvidada del milagro español
PABLO ELORDUY publicado en DIAGONAL Nato nel 2005, Diagonal è un magazine madrileno, on-line e cartaceo, e si definisce di “informazione…
La rotta balcanica non si arresta — March of Hope parte terza
Il muro di Erdogan, l’accordo UE-Turchia, il filo spinato sempre più presente e polizia in antisommossa ad ogni confine.
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Segnaliamo questo Master in Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Padova.
Università degli Studi di Padova
Master in Studi Interculturali
Saperi e pratiche per l’accoglienza dei richiedenti asilo
Iscrizioni aperte…
Segnaliamo questo Master in Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Padova.
Università degli Studi di Padova
Master in Studi Interculturali
Saperi e pratiche per l’accoglienza dei richiedenti asilo
Iscrizioni aperte…
Riflessioni sui recenti eventi in Marocco dopo la morte di Mouhcine Fikri
Dopo la morte del pescivendolo l’ondata di proteste apre nuovi scenari per il Marocco
L’articolo Riflessioni sui recenti eventi in Marocco dopo la morte di Mouhcine Fikri sembra essere il primo su Arabpress.
Mosse rischiose nella mappa del conflitto in Siria
L’intervento diretto delle forze internazionali sul campo di battaglia rappresenta la strategia migliore per salvaguardare i propri interessi nel teatro siriano
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Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara
Un vecchio detto era solito dire: L’Egitto scrive, il Libano stampa e l’Iraq legge. Ma con gli sconvolgimenti politici e sociali che i paesi del Nord Africa e del Levante arabo hanno vissuto negli ultimi anni, questo detto in parte non vale più, almeno dal punto di vista editoriale. O vale solo in parte: il … Continua a leggere Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara →
Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara
Un vecchio detto era solito dire: L’Egitto scrive, il Libano stampa e l’Iraq legge. Ma con gli sconvolgimenti politici e sociali che i paesi del Nord Africa e del Levante arabo hanno vissuto negli ultimi anni, questo detto in parte non vale più, almeno dal punto di vista editoriale. O vale solo in parte: il … Continua a leggere Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara →
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Un vecchio detto era solito dire: L’Egitto scrive, il Libano stampa e l’Iraq legge. Ma con gli sconvolgimenti politici e sociali che i paesi del Nord Africa e del Levante arabo hanno vissuto negli ultimi anni, questo detto in parte non vale più, almeno dal punto di vista editoriale. O vale solo in parte: il … Continua a leggere Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara →
Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara
Un vecchio detto era solito dire: L’Egitto scrive, il Libano stampa e l’Iraq legge. Ma con gli sconvolgimenti politici e sociali che i paesi del Nord Africa e del Levante arabo hanno vissuto negli ultimi anni, questo detto in parte non vale più, almeno dal punto di vista editoriale. O vale solo in parte: il … Continua a leggere Premi letterari made in Golfo: IPAF vs Katara →
Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)
Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.
Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale
Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.
In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.
Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)
Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.
Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale
Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.
In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.
Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)
Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.
Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale
Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.
In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.
Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)
Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.
Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale
Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.
In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.
Una tegola per Trump dalla Corte penale internazionale (aggiornato)
Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – Paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari Paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra». Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il testo del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai.
Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è Fatou Bensouda (nella foto in alto a sinistra), una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition n.d.r.) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che «Questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati Uniti nel conflitto in Afghanistan». Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti.
una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale
Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Stati Uniti molto probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini ed eventuale verdetto tant’è che oggi hanno respinto al mittente definendo ingiustificata e inappropriata un’indagine di questo tipo sul loro operato anche perché, dicono, gli Stati Uniti hanno un apparato di giustizia “robusto”, in grado quindi di sistemare da solo le cose di casa. Sono comunque in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale (il Burundi è stato il pirmo, in ottobre). E oggi si è aggiunta pure la Russia dopo una risoluzione Onu che condanna le violazioni in Crimea. La firma sul decreto è di Vladimir Putin.
In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard – colpire i deboli e lasciar stare i potenti – questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.