“Io non sono siriano e non posso esprimere ciò che hanno espresso altri siriani, posso soltanto dire che Sham non merita quello che sta succedendo, non merita un’Europa smemorata, un’Europa goffa e degli europei inospitali.”
Giorno: 2 novembre 2016
“Sham Sham. Persone, cose e luoghi siriani” di Giuseppe Alizzi
“Io non sono siriano e non posso esprimere ciò che hanno espresso altri siriani, posso soltanto dire che Sham non merita quello che sta succedendo, non merita un’Europa smemorata, un’Europa goffa e degli europei inospitali.”
“Sham Sham. Persone, cose e luoghi siriani” di Giuseppe Alizzi
“Io non sono siriano e non posso esprimere ciò che hanno espresso altri siriani, posso soltanto dire che Sham non merita quello che sta succedendo, non merita un’Europa smemorata, un’Europa goffa e degli europei inospitali.”
Mercoledì 2 novembre — ore 16.30
Una corrispondenza di Pio D’Emilia (Sky Tg 24) che si trova in questo momento a bordo dellaVos Hestia, una nave di Save the Children…
Departida lunes 31 de octubre de 2016 desde Pozzallo (RG): fotos y videos della rueda de prensa
Dos meses en viaje por Sicilia, incluso Calabria, Puglia, Basilicata, Campania y Lazio con etapa final Roma el 22 de diciembre. Durante el…
#overthefortress caravan sets out from Pozzallo: 3400 km and 40 stops in Southern Italy
See the video of the press conference
5 € for 10 km: support Overthefortress’ campervan
A two-month trip from Sicily to Rome inside and…
La nuova leadership del Marocco in Africa
Non si ferma “l’offensiva” del Marocco in Africa subsahariana. Negli ultimi tre anni le visite di Mohammed VI nei Paesi a sud del Marocco sono diventate un appuntamento annuale fisso, quasi una tradizione. Nel 2013: Senegal, il Gabon e la Costa d’Avorio, Paesi con cui il Regno Alawita ha sempre avuto dei rapporti intensi. Nel […]
L’articolo La nuova leadership del Marocco in Africa sembra essere il primo su MaroccOggi.
La nuova leadership del Marocco in Africa
Non si ferma “l’offensiva” del Marocco in Africa subsahariana. Negli ultimi tre anni le visite di Mohammed VI nei Paesi a sud del Marocco sono diventate un appuntamento annuale fisso, quasi una tradizione. Nel 2013: Senegal, il Gabon e la Costa d’Avorio, Paesi con cui il Regno Alawita ha sempre avuto dei rapporti intensi. Nel […]
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La nuova leadership del Marocco in Africa
Non si ferma “l’offensiva” del Marocco in Africa subsahariana. Negli ultimi tre anni le visite di Mohammed VI nei Paesi a sud del Marocco sono diventate un appuntamento annuale fisso, quasi una tradizione. Nel 2013: Senegal, il Gabon e la Costa d’Avorio, Paesi con cui il Regno Alawita ha sempre avuto dei rapporti intensi. Nel […]
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La nuova leadership del Marocco in Africa
Non si ferma “l’offensiva” del Marocco in Africa subsahariana. Negli ultimi tre anni le visite di Mohammed VI nei Paesi a sud del Marocco sono diventate un appuntamento annuale fisso, quasi una tradizione. Nel 2013: Senegal, il Gabon e la Costa d’Avorio, Paesi con cui il Regno Alawita ha sempre avuto dei rapporti intensi. Nel […]
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“Rivoluzioni Violate”. Il nostro primo libro
E’ stato pubblicato il 31 ottobre scorso e presentato per la prima volta a Roma al Salone dell’Editoria Sociale. E’ “Rivoluzioni Violate”: il nostro primo libro.
“Rivoluzioni Violate”. Il nostro primo libro
E’ stato pubblicato il 31 ottobre scorso e presentato per la prima volta a Roma al Salone dell’Editoria Sociale. E’ “Rivoluzioni Violate”: il nostro primo libro.
“Rivoluzioni Violate”. Il nostro primo libro
E’ stato pubblicato il 31 ottobre scorso e presentato per la prima volta a Roma al Salone dell’Editoria Sociale. E’ “Rivoluzioni Violate”: il nostro primo libro.
Studente saudita picchiato a morte negli USA
(Agenzie). Hussain Saeed al-Nahdi, studente saudita 24enne di Buraydah, è stato aggredito fuori una pizzeria di Menomonie, Wisconsin, USA, nella notte tra sabato e domenica scorsi da un assalitore non ancora identificato. La morte di Nahdi, studente presso l’Università Wisconsin-Stout, è stata causata dalle gravi ferite riportate alla testa durante l’aggressione. La polizia è ancora alla ricerca del […]
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Arabia Saudita e Golfo: vittime di un’equazione imprecisa
La decadenza che investe l’intera regione araba è conseguenza di visioni politiche effimere strumentalizzate da un progetto espansionista iraniano
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Pakistan. L’evidente conflitto armato in Kashmir genera il diritto alla protezione internazionale
Si ringrazia l’Avv. Dora Zappia per la segnalazione ed il puntuale commento.
Si ringrazai l’Avv. Amarilda Lici per la segnalazione ed il commento.
Gambia — Protezione sussidiaria al richiedente: in caso di un eventuale rimpatrio, il ricorrente potrebbe subire trattamenti degradanti a…
Sgombero della Jungle. Un’altra sconfitta dell’Europa dei diritti
Jungle. Questo è il nome che hanno dato al più longevo campo profughi d’Europa.
Pakistan — Status di rifugiato al richiedente omosessuale
Si ringrazia l’Avv. Dora Zappia per la segnalazione ed il commento.
Marocco: è iniziata la rivoluzione
La gente stava aspettando che la rivoluzione iniziasse in Marocco, ma l’oppressione e la paura sono sempre state un ostacolo sulla strada verso la libertà. Ma stavolta è diverso.
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Nuovi arrivi in libreria: “Il luogo stretto” di Faraj Bayrakdar
Quando esce un libro di poesia in libreria, è sempre una bella notizia. Ma quando a essere pubblicato è un libro di poesie tradotto dall’arabo, e scritto da un poeta siriano che ha passato 14 anni della sua vita in prigione, beh, è più di una bella notizia. Proprio oggi esce nelle librerie italiane Il … Continua a leggere Nuovi arrivi in libreria: “Il luogo stretto” di Faraj Bayrakdar →
Nuovi arrivi in libreria: “Il luogo stretto” di Faraj Bayrakdar
Quando esce un libro di poesia in libreria, è sempre una bella notizia. Ma quando a essere pubblicato è un libro di poesie tradotto dall’arabo, e scritto da un poeta siriano che ha passato 14 anni della sua vita in prigione, beh, è più di una bella notizia. Proprio oggi esce nelle librerie italiane Il … Continua a leggere Nuovi arrivi in libreria: “Il luogo stretto” di Faraj Bayrakdar →
Rohyniga, un mese di silenzio
La situazione che ormai da un mese ha fatto un inferno del confine birmano bangladese, dove vive la minoranza musulmana dei Rohyngia, sta letteralmente esplodendo nelle mani di Aug san Suu Kyi, la Nobel birmana che è formalmente una consulente del governo e ministro degli Esteri ma de facto la protagonista della politica civile in un Paese che sta facendo i conti con la difficile transizione da regime militare a nuovo modello di democrazia asiatica. In Giappone in questi giorni e appena tornata da un viaggio in India (e, prima, da un incontro con Barack Obama), la donna diventata famosa per il suo coraggio nella difesa dei diritti viene adesso accusata di un eccessivo attivismo diplomatico, volto a trovare finanziamenti per il suo Paese, che sembra però allontanarla dai problemi interni: più o meno sottovoce c’è chi la accusa – sul dossier Rohyngia – di girarsi dall’altra parte o, peggio, di sostenere la linea dei militari con cui il suo partito, la Lega per la democrazia, condivide il potere in una difficile convivenza.
Proprio durante il suo viaggio americano Suu Kyi aveva detto al Washington Post che la situazione nello stato di Rakhine «richiedeva tempo», ma ormai le operazioni militari in quest’area del Paese hanno praticamente sigillato la zona da un mese, impedendo non solo aiuti umanitari agli sfollati Rohyngia (già vittime di pogrom anti musulmani in passato) ma vietando a giornalisti o attivisti di monitorare quanto accade. All’agenzia Reuters, diversi testimoni hanno confermato violenze e intimidazioni, stupri e minacce. Tutto è cominciato quando un gruppo islamista ha attaccato il 9 ottobre una postazione militare. Da quel momento si è scatenata una repressione furiosa per dare la caccia agli islamisti ma con diverse decine di morti, arresti e patenti violazioni. Suu Kyi ha inizialmente sostenuto la tesi dei militari e cioè quella di una giusta reazione contro le incursioni oltre frontiera di jihadisti allenati all’estero, ma poi – mentre scarse ma puntuali notizie denunciavano l’aggravarsi della situazione – si è chiusa in un pesante silenzio.
In realtà non ha fatto finta di nulla. Fonti di stampa sostengono che almeno dieci giorni fa, il governo – dunque la signora in giallo – abbia mandato ai militari una lista di 13 domande sulla vicenda ma a tutt’oggi non avrebbe ricevuto risposta. L’equilibrio è difficile e i militari hanno una lunga tradizione di impunità e totale indipendenza. Suu Kyi, dicono i delusi, spingerebbe però troppo poco e anzi tollererebbe – per la quieta sopravvivenza del suo governo – non solo le scorribande belliche ma anche il dominio nell’economia dei militari. Momento difficile insomma e proteste internazionali, dall’Onu e dagli Stati Uniti. Silenzio invece dagli indiani e, naturalmente, dai cinesi, entrambi impegnati a sistemare il loro puzzle di alleanze nel Sudest asiatico. Quanto al Giappone, non è soltanto un antico sostenitore del Myanmar anche quand’era solidamente in mano alla Giunta, ma non è un Paese solito prender pozioni nette sulle scelte politiche interne dei suoi alleati.
Nel mirino dell’esercito c’è il gruppo Aqa Mul Mujahidin, formazione armata che conterebbe circa 400 combattenti e che si è già scontrato con le forze di sicurezza. Sarebbe legata alla Rohingya Solidarity Organization – un gruppo armato smantellato in passato – e guidata dal 45enne Havistoohar, di un villaggio dell’area di Maungdaw, che sarebbe stato in Pakistan con i talebani e riceverebbe finanziamenti dal Medio Oriente.
I Rohyngia, popolazione autoctona dello Stato di Rakhine (o Arakan) o, secondo altre fonti, originaria del Bengala, sono circa un milione e 300mila individui di cui oltre 100mila vivono in campi per sfollati. Il Myanmar non riconosce loro lo status di minoranza e rappresentanza. Sono solo “gente che professa l’islam”.
Rohyniga, un mese di silenzio
La situazione che ormai da un mese ha fatto un inferno del confine birmano bangladese, dove vive la minoranza musulmana dei Rohyngia, sta letteralmente esplodendo nelle mani di Aug san Suu Kyi, la Nobel birmana che è formalmente una consulente del governo e ministro degli Esteri ma de facto la protagonista della politica civile in un Paese che sta facendo i conti con la difficile transizione da regime militare a nuovo modello di democrazia asiatica. In Giappone in questi giorni e appena tornata da un viaggio in India (e, prima, da un incontro con Barack Obama), la donna diventata famosa per il suo coraggio nella difesa dei diritti viene adesso accusata di un eccessivo attivismo diplomatico, volto a trovare finanziamenti per il suo Paese, che sembra però allontanarla dai problemi interni: più o meno sottovoce c’è chi la accusa – sul dossier Rohyngia – di girarsi dall’altra parte o, peggio, di sostenere la linea dei militari con cui il suo partito, la Lega per la democrazia, condivide il potere in una difficile convivenza.
Proprio durante il suo viaggio americano Suu Kyi aveva detto al Washington Post che la situazione nello stato di Rakhine «richiedeva tempo», ma ormai le operazioni militari in quest’area del Paese hanno praticamente sigillato la zona da un mese, impedendo non solo aiuti umanitari agli sfollati Rohyngia (già vittime di pogrom anti musulmani in passato) ma vietando a giornalisti o attivisti di monitorare quanto accade. All’agenzia Reuters, diversi testimoni hanno confermato violenze e intimidazioni, stupri e minacce. Tutto è cominciato quando un gruppo islamista ha attaccato il 9 ottobre una postazione militare. Da quel momento si è scatenata una repressione furiosa per dare la caccia agli islamisti ma con diverse decine di morti, arresti e patenti violazioni. Suu Kyi ha inizialmente sostenuto la tesi dei militari e cioè quella di una giusta reazione contro le incursioni oltre frontiera di jihadisti allenati all’estero, ma poi – mentre scarse ma puntuali notizie denunciavano l’aggravarsi della situazione – si è chiusa in un pesante silenzio.
In realtà non ha fatto finta di nulla. Fonti di stampa sostengono che almeno dieci giorni fa, il governo – dunque la signora in giallo – abbia mandato ai militari una lista di 13 domande sulla vicenda ma a tutt’oggi non avrebbe ricevuto risposta. L’equilibrio è difficile e i militari hanno una lunga tradizione di impunità e totale indipendenza. Suu Kyi, dicono i delusi, spingerebbe però troppo poco e anzi tollererebbe – per la quieta sopravvivenza del suo governo – non solo le scorribande belliche ma anche il dominio nell’economia dei militari. Momento difficile insomma e proteste internazionali, dall’Onu e dagli Stati Uniti. Silenzio invece dagli indiani e, naturalmente, dai cinesi, entrambi impegnati a sistemare il loro puzzle di alleanze nel Sudest asiatico. Quanto al Giappone, non è soltanto un antico sostenitore del Myanmar anche quand’era solidamente in mano alla Giunta, ma non è un Paese solito prender pozioni nette sulle scelte politiche interne dei suoi alleati.
Nel mirino dell’esercito c’è il gruppo Aqa Mul Mujahidin, formazione armata che conterebbe circa 400 combattenti e che si è già scontrato con le forze di sicurezza. Sarebbe legata alla Rohingya Solidarity Organization – un gruppo armato smantellato in passato – e guidata dal 45enne Havistoohar, di un villaggio dell’area di Maungdaw, che sarebbe stato in Pakistan con i talebani e riceverebbe finanziamenti dal Medio Oriente.
I Rohyngia, popolazione autoctona dello Stato di Rakhine (o Arakan) o, secondo altre fonti, originaria del Bengala, sono circa un milione e 300mila individui di cui oltre 100mila vivono in campi per sfollati. Il Myanmar non riconosce loro lo status di minoranza e rappresentanza. Sono solo “gente che professa l’islam”.
Rohyniga, un mese di silenzio
La situazione che ormai da un mese ha fatto un inferno del confine birmano bangladese, dove vive la minoranza musulmana dei Rohyngia, sta letteralmente esplodendo nelle mani di Aug san Suu Kyi, la Nobel birmana che è formalmente una consulente del governo e ministro degli Esteri ma de facto la protagonista della politica civile in un Paese che sta facendo i conti con la difficile transizione da regime militare a nuovo modello di democrazia asiatica. In Giappone in questi giorni e appena tornata da un viaggio in India (e, prima, da un incontro con Barack Obama), la donna diventata famosa per il suo coraggio nella difesa dei diritti viene adesso accusata di un eccessivo attivismo diplomatico, volto a trovare finanziamenti per il suo Paese, che sembra però allontanarla dai problemi interni: più o meno sottovoce c’è chi la accusa – sul dossier Rohyngia – di girarsi dall’altra parte o, peggio, di sostenere la linea dei militari con cui il suo partito, la Lega per la democrazia, condivide il potere in una difficile convivenza.
Proprio durante il suo viaggio americano Suu Kyi aveva detto al Washington Post che la situazione nello stato di Rakhine «richiedeva tempo», ma ormai le operazioni militari in quest’area del Paese hanno praticamente sigillato la zona da un mese, impedendo non solo aiuti umanitari agli sfollati Rohyngia (già vittime di pogrom anti musulmani in passato) ma vietando a giornalisti o attivisti di monitorare quanto accade. All’agenzia Reuters, diversi testimoni hanno confermato violenze e intimidazioni, stupri e minacce. Tutto è cominciato quando un gruppo islamista ha attaccato il 9 ottobre una postazione militare. Da quel momento si è scatenata una repressione furiosa per dare la caccia agli islamisti ma con diverse decine di morti, arresti e patenti violazioni. Suu Kyi ha inizialmente sostenuto la tesi dei militari e cioè quella di una giusta reazione contro le incursioni oltre frontiera di jihadisti allenati all’estero, ma poi – mentre scarse ma puntuali notizie denunciavano l’aggravarsi della situazione – si è chiusa in un pesante silenzio.
In realtà non ha fatto finta di nulla. Fonti di stampa sostengono che almeno dieci giorni fa, il governo – dunque la signora in giallo – abbia mandato ai militari una lista di 13 domande sulla vicenda ma a tutt’oggi non avrebbe ricevuto risposta. L’equilibrio è difficile e i militari hanno una lunga tradizione di impunità e totale indipendenza. Suu Kyi, dicono i delusi, spingerebbe però troppo poco e anzi tollererebbe – per la quieta sopravvivenza del suo governo – non solo le scorribande belliche ma anche il dominio nell’economia dei militari. Momento difficile insomma e proteste internazionali, dall’Onu e dagli Stati Uniti. Silenzio invece dagli indiani e, naturalmente, dai cinesi, entrambi impegnati a sistemare il loro puzzle di alleanze nel Sudest asiatico. Quanto al Giappone, non è soltanto un antico sostenitore del Myanmar anche quand’era solidamente in mano alla Giunta, ma non è un Paese solito prender pozioni nette sulle scelte politiche interne dei suoi alleati.
Nel mirino dell’esercito c’è il gruppo Aqa Mul Mujahidin, formazione armata che conterebbe circa 400 combattenti e che si è già scontrato con le forze di sicurezza. Sarebbe legata alla Rohingya Solidarity Organization – un gruppo armato smantellato in passato – e guidata dal 45enne Havistoohar, di un villaggio dell’area di Maungdaw, che sarebbe stato in Pakistan con i talebani e riceverebbe finanziamenti dal Medio Oriente.
I Rohyngia, popolazione autoctona dello Stato di Rakhine (o Arakan) o, secondo altre fonti, originaria del Bengala, sono circa un milione e 300mila individui di cui oltre 100mila vivono in campi per sfollati. Il Myanmar non riconosce loro lo status di minoranza e rappresentanza. Sono solo “gente che professa l’islam”.
Rohyniga, un mese di silenzio
La situazione che ormai da un mese ha fatto un inferno del confine birmano bangladese, dove vive la minoranza musulmana dei Rohyngia, sta letteralmente esplodendo nelle mani di Aug san Suu Kyi, la Nobel birmana che è formalmente una consulente del governo e ministro degli Esteri ma de facto la protagonista della politica civile in un Paese che sta facendo i conti con la difficile transizione da regime militare a nuovo modello di democrazia asiatica. In Giappone in questi giorni e appena tornata da un viaggio in India (e, prima, da un incontro con Barack Obama), la donna diventata famosa per il suo coraggio nella difesa dei diritti viene adesso accusata di un eccessivo attivismo diplomatico, volto a trovare finanziamenti per il suo Paese, che sembra però allontanarla dai problemi interni: più o meno sottovoce c’è chi la accusa – sul dossier Rohyngia – di girarsi dall’altra parte o, peggio, di sostenere la linea dei militari con cui il suo partito, la Lega per la democrazia, condivide il potere in una difficile convivenza.
Proprio durante il suo viaggio americano Suu Kyi aveva detto al Washington Post che la situazione nello stato di Rakhine «richiedeva tempo», ma ormai le operazioni militari in quest’area del Paese hanno praticamente sigillato la zona da un mese, impedendo non solo aiuti umanitari agli sfollati Rohyngia (già vittime di pogrom anti musulmani in passato) ma vietando a giornalisti o attivisti di monitorare quanto accade. All’agenzia Reuters, diversi testimoni hanno confermato violenze e intimidazioni, stupri e minacce. Tutto è cominciato quando un gruppo islamista ha attaccato il 9 ottobre una postazione militare. Da quel momento si è scatenata una repressione furiosa per dare la caccia agli islamisti ma con diverse decine di morti, arresti e patenti violazioni. Suu Kyi ha inizialmente sostenuto la tesi dei militari e cioè quella di una giusta reazione contro le incursioni oltre frontiera di jihadisti allenati all’estero, ma poi – mentre scarse ma puntuali notizie denunciavano l’aggravarsi della situazione – si è chiusa in un pesante silenzio.
In realtà non ha fatto finta di nulla. Fonti di stampa sostengono che almeno dieci giorni fa, il governo – dunque la signora in giallo – abbia mandato ai militari una lista di 13 domande sulla vicenda ma a tutt’oggi non avrebbe ricevuto risposta. L’equilibrio è difficile e i militari hanno una lunga tradizione di impunità e totale indipendenza. Suu Kyi, dicono i delusi, spingerebbe però troppo poco e anzi tollererebbe – per la quieta sopravvivenza del suo governo – non solo le scorribande belliche ma anche il dominio nell’economia dei militari. Momento difficile insomma e proteste internazionali, dall’Onu e dagli Stati Uniti. Silenzio invece dagli indiani e, naturalmente, dai cinesi, entrambi impegnati a sistemare il loro puzzle di alleanze nel Sudest asiatico. Quanto al Giappone, non è soltanto un antico sostenitore del Myanmar anche quand’era solidamente in mano alla Giunta, ma non è un Paese solito prender pozioni nette sulle scelte politiche interne dei suoi alleati.
Nel mirino dell’esercito c’è il gruppo Aqa Mul Mujahidin, formazione armata che conterebbe circa 400 combattenti e che si è già scontrato con le forze di sicurezza. Sarebbe legata alla Rohingya Solidarity Organization – un gruppo armato smantellato in passato – e guidata dal 45enne Havistoohar, di un villaggio dell’area di Maungdaw, che sarebbe stato in Pakistan con i talebani e riceverebbe finanziamenti dal Medio Oriente.
I Rohyngia, popolazione autoctona dello Stato di Rakhine (o Arakan) o, secondo altre fonti, originaria del Bengala, sono circa un milione e 300mila individui di cui oltre 100mila vivono in campi per sfollati. Il Myanmar non riconosce loro lo status di minoranza e rappresentanza. Sono solo “gente che professa l’islam”.
Rohyniga, un mese di silenzio
La situazione che ormai da un mese ha fatto un inferno del confine birmano bangladese, dove vive la minoranza musulmana dei Rohyngia, sta letteralmente esplodendo nelle mani di Aug san Suu Kyi, la Nobel birmana che è formalmente una consulente del governo e ministro degli Esteri ma de facto la protagonista della politica civile in un Paese che sta facendo i conti con la difficile transizione da regime militare a nuovo modello di democrazia asiatica. In Giappone in questi giorni e appena tornata da un viaggio in India (e, prima, da un incontro con Barack Obama), la donna diventata famosa per il suo coraggio nella difesa dei diritti viene adesso accusata di un eccessivo attivismo diplomatico, volto a trovare finanziamenti per il suo Paese, che sembra però allontanarla dai problemi interni: più o meno sottovoce c’è chi la accusa – sul dossier Rohyngia – di girarsi dall’altra parte o, peggio, di sostenere la linea dei militari con cui il suo partito, la Lega per la democrazia, condivide il potere in una difficile convivenza.
Proprio durante il suo viaggio americano Suu Kyi aveva detto al Washington Post che la situazione nello stato di Rakhine «richiedeva tempo», ma ormai le operazioni militari in quest’area del Paese hanno praticamente sigillato la zona da un mese, impedendo non solo aiuti umanitari agli sfollati Rohyngia (già vittime di pogrom anti musulmani in passato) ma vietando a giornalisti o attivisti di monitorare quanto accade. All’agenzia Reuters, diversi testimoni hanno confermato violenze e intimidazioni, stupri e minacce. Tutto è cominciato quando un gruppo islamista ha attaccato il 9 ottobre una postazione militare. Da quel momento si è scatenata una repressione furiosa per dare la caccia agli islamisti ma con diverse decine di morti, arresti e patenti violazioni. Suu Kyi ha inizialmente sostenuto la tesi dei militari e cioè quella di una giusta reazione contro le incursioni oltre frontiera di jihadisti allenati all’estero, ma poi – mentre scarse ma puntuali notizie denunciavano l’aggravarsi della situazione – si è chiusa in un pesante silenzio.
In realtà non ha fatto finta di nulla. Fonti di stampa sostengono che almeno dieci giorni fa, il governo – dunque la signora in giallo – abbia mandato ai militari una lista di 13 domande sulla vicenda ma a tutt’oggi non avrebbe ricevuto risposta. L’equilibrio è difficile e i militari hanno una lunga tradizione di impunità e totale indipendenza. Suu Kyi, dicono i delusi, spingerebbe però troppo poco e anzi tollererebbe – per la quieta sopravvivenza del suo governo – non solo le scorribande belliche ma anche il dominio nell’economia dei militari. Momento difficile insomma e proteste internazionali, dall’Onu e dagli Stati Uniti. Silenzio invece dagli indiani e, naturalmente, dai cinesi, entrambi impegnati a sistemare il loro puzzle di alleanze nel Sudest asiatico. Quanto al Giappone, non è soltanto un antico sostenitore del Myanmar anche quand’era solidamente in mano alla Giunta, ma non è un Paese solito prender pozioni nette sulle scelte politiche interne dei suoi alleati.
Nel mirino dell’esercito c’è il gruppo Aqa Mul Mujahidin, formazione armata che conterebbe circa 400 combattenti e che si è già scontrato con le forze di sicurezza. Sarebbe legata alla Rohingya Solidarity Organization – un gruppo armato smantellato in passato – e guidata dal 45enne Havistoohar, di un villaggio dell’area di Maungdaw, che sarebbe stato in Pakistan con i talebani e riceverebbe finanziamenti dal Medio Oriente.
I Rohyngia, popolazione autoctona dello Stato di Rakhine (o Arakan) o, secondo altre fonti, originaria del Bengala, sono circa un milione e 300mila individui di cui oltre 100mila vivono in campi per sfollati. Il Myanmar non riconosce loro lo status di minoranza e rappresentanza. Sono solo “gente che professa l’islam”.
Rohyniga, un mese di silenzio
La situazione che ormai da un mese ha fatto un inferno del confine birmano bangladese, dove vive la minoranza musulmana dei Rohyngia, sta letteralmente esplodendo nelle mani di Aug san Suu Kyi, la Nobel birmana che è formalmente una consulente del governo e ministro degli Esteri ma de facto la protagonista della politica civile in un Paese che sta facendo i conti con la difficile transizione da regime militare a nuovo modello di democrazia asiatica. In Giappone in questi giorni e appena tornata da un viaggio in India (e, prima, da un incontro con Barack Obama), la donna diventata famosa per il suo coraggio nella difesa dei diritti viene adesso accusata di un eccessivo attivismo diplomatico, volto a trovare finanziamenti per il suo Paese, che sembra però allontanarla dai problemi interni: più o meno sottovoce c’è chi la accusa – sul dossier Rohyngia – di girarsi dall’altra parte o, peggio, di sostenere la linea dei militari con cui il suo partito, la Lega per la democrazia, condivide il potere in una difficile convivenza.
Proprio durante il suo viaggio americano Suu Kyi aveva detto al Washington Post che la situazione nello stato di Rakhine «richiedeva tempo», ma ormai le operazioni militari in quest’area del Paese hanno praticamente sigillato la zona da un mese, impedendo non solo aiuti umanitari agli sfollati Rohyngia (già vittime di pogrom anti musulmani in passato) ma vietando a giornalisti o attivisti di monitorare quanto accade. All’agenzia Reuters, diversi testimoni hanno confermato violenze e intimidazioni, stupri e minacce. Tutto è cominciato quando un gruppo islamista ha attaccato il 9 ottobre una postazione militare. Da quel momento si è scatenata una repressione furiosa per dare la caccia agli islamisti ma con diverse decine di morti, arresti e patenti violazioni. Suu Kyi ha inizialmente sostenuto la tesi dei militari e cioè quella di una giusta reazione contro le incursioni oltre frontiera di jihadisti allenati all’estero, ma poi – mentre scarse ma puntuali notizie denunciavano l’aggravarsi della situazione – si è chiusa in un pesante silenzio.
In realtà non ha fatto finta di nulla. Fonti di stampa sostengono che almeno dieci giorni fa, il governo – dunque la signora in giallo – abbia mandato ai militari una lista di 13 domande sulla vicenda ma a tutt’oggi non avrebbe ricevuto risposta. L’equilibrio è difficile e i militari hanno una lunga tradizione di impunità e totale indipendenza. Suu Kyi, dicono i delusi, spingerebbe però troppo poco e anzi tollererebbe – per la quieta sopravvivenza del suo governo – non solo le scorribande belliche ma anche il dominio nell’economia dei militari. Momento difficile insomma e proteste internazionali, dall’Onu e dagli Stati Uniti. Silenzio invece dagli indiani e, naturalmente, dai cinesi, entrambi impegnati a sistemare il loro puzzle di alleanze nel Sudest asiatico. Quanto al Giappone, non è soltanto un antico sostenitore del Myanmar anche quand’era solidamente in mano alla Giunta, ma non è un Paese solito prender pozioni nette sulle scelte politiche interne dei suoi alleati.
Nel mirino dell’esercito c’è il gruppo Aqa Mul Mujahidin, formazione armata che conterebbe circa 400 combattenti e che si è già scontrato con le forze di sicurezza. Sarebbe legata alla Rohingya Solidarity Organization – un gruppo armato smantellato in passato – e guidata dal 45enne Havistoohar, di un villaggio dell’area di Maungdaw, che sarebbe stato in Pakistan con i talebani e riceverebbe finanziamenti dal Medio Oriente.
I Rohyngia, popolazione autoctona dello Stato di Rakhine (o Arakan) o, secondo altre fonti, originaria del Bengala, sono circa un milione e 300mila individui di cui oltre 100mila vivono in campi per sfollati. Il Myanmar non riconosce loro lo status di minoranza e rappresentanza. Sono solo “gente che professa l’islam”.
‘La fine del mondo’: Il viaggio di una poetessa dalla Siria ad Algeri
La poeta Sirio-Palestiniana Dima Yousef ha lasciato Yarmouk, in Siria, per Algeri. Questa è la sua storia.
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