Giorno: 26 maggio 2016

India e Pakistan. Paura della bomba.

La firma del presidente Bush suggella, nel dicembre del 2006, l’accordo di cooperazione sul nucleare civile tra Stati Uniti e India. E’ un accordo che consente al governo indiano di acquistare reattori e combustibile nucleare e di adoperare know how americano in fatto di tecnologie avanzate. L’iter ha richiesto diversi mesi ma alla fine Delhi e Washington si dicono soddisfatte. E’ una capitolo centrale della politica asiatica in tema di armamento nucleare, in un continente dove l’atomica fa parte del patrimonio militare cinese e russo ma il nucleare “illegale”, ossia fuori dal Trattato di non proliferazione nucleare (Npt), conta almeno quattro Paesi (India, Pakistan, Corea del Nord e Israele). Per India e Pakistan la bomba è comunque una realtà dichiarata e rivendicata in un equilibrio precario che, con l’accordo del 2006, assiste a un’accelerazione. Pechino e Islamabad hanno seguito l’iter dell’accordo con apprensione: i pachistani soprattutto. L’equilibrio del terrore, garantito dal possesso dell’atomica, è sempre stato il filo rosso sul quale si è giocata la partita tra India e Pakistan, gemelli separati nel 1947 dalla Partition dell’India britannica. E Islamabad si sente sempre un passo indietro.

Le tensioni tra i due Paesi, al di là delle guerre (1947-1965-1971) o degli “incidenti” (Kargil 1999), non sono mai mancate neppure in tempo di pace. Una pace armata. Nel 1986 ad esempio, l’Operation Brasstacks, condotta dall’India in Rajastan al confine occidentale col Pakistan, mette immediatamente Islamabad in allarme: Delhi del resto, in quelle che ha annunciato come normali “esercitazioni”, ha schierato 600mila uomini e tutto il dispositivo della marina e dell’aeronautica. Una sorta di prova generale in caso di attacco al Pakistan. A Islamabad fanno i conti. Delhi può colpire le centrali pachistane in 3 minuti, i pachistani in 8. La tensione è alle stelle. Non è la prima volta. Non sarà l’ultima. Nel 1988, sui due fronti, si assiste a una dimostrazione di forza: cinque esplosioni nucleari in India l’11 maggio seguite da altrettante in Pakistan il 28 e da una sesta il 30. Il confronto fortunatamente rientrerà, scongiurando uno scontro tra i due colossi nucleari, ma l’episodio segna indelebilmente i rapporti tra i due Paesi che, nel 2001 con l’attacco al parlamento indiano, e nel 2008, dopo gli attentati nel cuore di Bombay, tornano a farsi bollenti: la guerra, fortunatamente solo diplomatica, agita più o meno apertamente lo spauracchio del first strike nucleare. Soprattutto nel 2001 lo spettro di un conflitto con la possibilità dell’uso di testate nucleari (circa un centinaio a testa), diventerà una possibilità reale per mesi e sarà la diplomazia internazionale a raffreddare gli animi di due Paesi retti allora da governi forti (il dittatore militare Musharraf in Pakistan) e molto nazionalisti (il Bjp al governo di Delhi). Da allora la tensione si è allentata ma il processo di riconciliazione tra i due Paesi continua ad essere in alto mare mentre non rallenta la corsa agli armamenti, un pericolo che, soprattutto gli Stati Uniti, ma anche la Russia, vorrebbero scongiurare.

Il programma nucleare pachistano inizia nel 1972 quando al potere c’è Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir e l’uomo che il generale-dittatore Zia ul Haq farà impiccare. Bhutto è un civile, modernista e di idee socialiste, ma teme la supremazia militare dell’India, il vicino che è grande quattro volte più del Pakistan e il cui programma nucleare è iniziato nel 1967. Bhutto darà l’incarico di preparare la bomba a Munir Ahmad Khan, a capo della Pakistan Atomic Energy Commission dal 1972 al 1991 e che aveva già coperto un posto di rilievo nell’International Atomic Energy Agency (Aiea). Il premier pachistano la vuole entro quattro anni, impresa che però riuscirà solo ad Abdul Qadeer Khan – il padre del Progetto Kahuta e dell’atomica pachistana – nel 1984, due anni prima – non a caso – dell’operazione Brasstacks. Nell’88 Islamabad è in grado di fare i primi test. Attualmente la preoccupazione pachistana è legata all’attesa che l’India sviluppi definitivamente il suo primo sottomarino nucleare il che ha già portato il Paese dei puri a lavorare su un simile progetto. Non è un mistero che la tecnologia che riguarda il nucleare provenga in buona parte dalla Cina, la principale alleata del Pakistan nel quadrante, anche se Pechino ha sempre smentito.

Se quella della simmetria nucleare tra India e Pakistan è la prima preoccupazione (è difficile stabilire quale delle due potenze abbia la maggior capacità di offesa) è emersa negli ultimi anni una nuova questione: ossia la possibilità che in un Paese dove la minaccia terroristica è elevata, un’eventuale vittoria dei jihadisti doti l’islam radicale della bomba nell’unica nazione a maggioranza musulmana che la possieda. Ovviamente si tratta di un pericolo teorico anche se molto temuto (recentemente ribadito da un rapporto dell’Harvard Kennedy School): attualmente la catena di comando in caso di conflitto nucleare è condivisa e porta alla National Command Authority cui è a capo il primo ministro e che è formata da cinque ministri coadiuvati dal capo di Stato maggiore dell’esercito e dai quattro comandanti delle forze armate (terra, mare, cielo, corpi speciali). Durante l’epoca di Zia – un dittatore di ispirazione islamista – la preoccupazione poteva forse essere legittima anche se il generale si limitò a usare lo spauracchio nucleare contro l’India. E’ anche vero però che Al Qaeda ha studiato un possibile piano di sviluppo dell’arma nucleare e Daesh potrebbe fare altrettanto, utilizzando infiltrati nel programma nucleare o sfruttando i legami con settori deviati dei servizi. Fittizia o reale che sia l’ipotesi, gli Stati Uniti si sono mossi per cercare un accordo simile a quello siglato con l’India proprio per attenuare le tensioni tra i due Paesi asiatici e per garantire un maggior controllo internazionale sul nucleare pachistano e sulla possibilità che sia copiato da terzi. C’è dell’altro.
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Il Pakistan è in effetti molto corteggiato, in primis dall’Arabia saudita, proprio per la sua capacità offensiva nucleare. Quando l’anno scorso il Pakistan si è rifiutato di mandare le sue forze armate nello Yemen o quando Islamabad si è dimostrata fredda all’appello di Riad nicchiando sulla sua partecipazione alla grande coalizione contro il terrorismo nata con evidenti intenzioni anti-iraniane, per i sauditi si è trattato di uno schiaffo che ha turbato le tradizionalmente solide relazioni tra i due Paesi: la presenza del Pakistan a fianco di Riad significa di fatto per i sauditi poter contare sulla capacità nucleare del Pakistan, anche solo per utilizzarla come deterrente.

Il futuro per ora non sembra promettere grandi sorprese. I rapporti con l’India restano tesi benché il premier indiano Narendra Modi, la cui politica interna non si può dire certo aperta verso la minoranza musulmana indiana, abbia visitato il Pakistan. Il test indiano dell’11 maggio di un avanzato intercettatore balistico, incidenti ripetuti lungo la frontiera (lunga oltre duemila chilometri), un recente attacco terroristico nella base indiana di Pathankot, la continua tensione nel Kashmir e la costruzione del sottomarino non promettono nulla di buono. Il Pakistan inoltre, se è colpevole di un mancato controllo (quando non di un’etero direzione) sui gruppi jihadisti attivi in India, ha fatto a Delhi sei proposte per un accordo bilaterale di non proliferazione – dall’adesione di entrambe le nazioni al Npt alla formazione di una South Asia Zero-Missile Zone – che gli indiani hanno finora sempre rigettato.

In Turchia la crisi ha il nome di Erdogan

Di Jihad al Khazen. Al Hayat (24/05/2016). Traduzione e sintesi di Laura Formigari. Quando Recep Tayyip Erdogan è diventato prima leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo e, successivamente, primo ministro nel 2003, molti arabi hanno accolto benevolmente la sua venuta, temendo tuttavia che potesse capitargli la stessa sorte del primo ministro islamico, […]

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Loose thoughts on social media theory, Syria, and digital naked lunches

I recently had the great chance of reading Geert Lovink’s latest book “Social Media Abyss” (just out for Polity Press) and his essay “On the social media ideology” which is part of an ongoing research. Both are pushing me to think more about what we are really talking about when we talk about social media..what […]

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Syria Off Frame opens in NYC

“Syria Off Frame”, the exhibition I curated last year within the Imago Mundi Project that features 141 Syrian artists, just opened last monday at the Pratt Institute in Brooklyn, NYC.   Meanwhile, we launched the catalogue of the exhibition in three languages (Italian-English-Arabic). For those who are interested, you can find it here. These are […]

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Alla testa della guerriglia in turbante

Haibatullah: religioso
ex barccio destro di Mansur

I Talebani hanno un nuovo leader: il mawlawi Haibatullah Akhundzada. È stato eletto ieri, probabilmente a Quetta, in Pakistan, dalla Rabhari shura, il massimo organo di indirizzo politico degli studenti coranici. La sua nomina avviene a pochi giorni dalla morte del predecessore, mullah Mohammad Akhtar Mansur, ucciso da un drone americano mentre era in viaggio nel Belucistan pachistano. Come vice di Haibatullah Akhundzada è stato nominato mullah Yacub, figlio dello storico leader mullah Omar e già a capo di una delle Commissioni talebane sotto la leadership di Mansur, che Yacub aveva poi finito per sostenere dopo averne contestato la nomina, nel luglio 2015; al suo fianco, ieri i barbuti hanno confermato Sirajuddin Haqqani, figlio del fondatore dell’omonimo network di islamisti, attivo dagli anni Ottanta e, oggi, tra i più pericolosi gruppi armati che operano tra Afghanistan e Pakistan, con ramificazioni economiche che arrivano nei Paesi del Golfo.

Nella scia di mullah Omar

Le notizie su Haibatullah Akhundzada sono frammentarie, ma sufficienti a capire le ragioni della scelta: sembra che abbia 47 anni, è nato nell’area di Sperwan, distretto di Panjwayi, nella provincia meridionale afghana di Kandahar, storica roccaforte dei Talebani. Membro della potente tribù pashtun dei Noorzai, qualcuno dice che abbia combattuto i sovietici nelle file dell’Hezb-e-Islami Khalis, altri che abbia invece vissuto in Pakistan tra il 1979 e il 1989, negli anni dell’occupazione. Quel che è certo è che vanta credenziali religiose, più che militari. È infatti uno sheikh ul-hadith, un religioso autorevole, specialista nell’esegesi dei detti del profeta Maometto. Secondo Thomas Ruttig, co-direttore dell’Afghanistan Analysts Network di Kabul, Akhundzada avrebbe goduto dell’incondizionata fiducia del mullah Omar, che lo consultava per dirimere le questioni più delicate. Ha ricoperto incarichi rilevanti nel settore della Giustizia al tempo dell’Emirato islamico d’Afghanistan, e negli anni successivi ha usato la propria autorevolezza religiosa per fare propaganda, reclutare giovani guerriglieri e mediare i conflitti interni al movimento, come quelli, recenti, tra gli uomini del leader mullah Mansur e di mullah Rasul, uno degli “scissionisti” (poi arrestato dai pachistani) che contestava la nomina di Mansur.

Con la nomina di Akhundzada, uomo della vecchia guardia, conosciuto e rispettato, simbolo della matrice “kandaharì” da cui è nato il movimento negli anni Novanta, i Talebani puntano alla continuità, a una figura di “compromesso” e di mediazione. Un uomo che, con la sua autorevolezza religiosa, possa fare da collante tra le varie anime politiche, in una delicata fase di transizione iniziata nel luglio 2015, con l’annuncio della morte di mullah Omar.

La morte di Mansur sembra
allontanare la pace ancora di più

Cosa accadrà adesso è la grande domanda che si mischia a un’altra: cosa rappresentava davvero Mansur e cosa e chi rappresenta adesso Haibatullah? Se del primo si è detto tutto e il contrario di tutto (che era l’uomo del Pakistan e che invece addirittura a ucciderlo sarebbero state proprio le indicazioni dei pachistani che non lo consideravano più il loro cavallo) sul secondo circolano ipotesi altrettanto diverse. La caratura religiosa e l’origine kandahari fanno propendere per una scelta che, nella continuità, dovrà tendere a riunire un movimento da sempre disomogeneo che da anni vive ormai di faide e secessioni e ora anche della concorrenza di Daesh. L’uomo non è però noto per il suo carisma e la sua tribù, per quanto potente, lo è meno di altre e resta comunque un elemento soprattutto locale. Non si sa cosa Haibatullah pensi del processo negoziale né molto si sa dei suoi rapporti col Pakistan ma quel che è certo è che ora, ancora più di Mansur, dovrà dimostrare di essere “il capo”, il nuovo emiro dei credenti. Per farsi accettare e far accettare i suoi ordini dovrà quindi soprattutto, com’è nella logica della guerriglia, puntare sulla vittoria militare anche per dimostrare che il raid che ha ucciso Mansur va vendicato. Si dovrà dunque appoggiare agli Haqqani, la rete jihadista che è stata molto vicina ad Al Qaeda, ai servizi segreti deviati di Islamabad e ai sauditi con cui gli Haqqani hanno un rapporto antico e molto saldo. Se dunque la nomina di Yacub a vice mira a dimostrare che lo spirito di mullah Omar è al fianco di Haibatullah anche materialmente, ecco che la figura di Siraj acquista un rilievo particolare sul piano militare.

Dobbiamo dunque aspettarci una nuova offensiva talebana e per altro in un audio messaggio diffuso dal nuovo leader ai comandanti,  il negoziato viene rifiutato e si inneggia invece alla lotta armata. L’offensiva dunque cui sarà   anche se il capo di stato maggiore afgano, generale Qadam Shah Shahim, ha bollato di fallimento la campagna “Omari”, la cosiddetta campagna di primavera dei Talebani. Ma è un fallimento tutto da dimostrare mentre l’ennesimo attentato contro un pulmino di funzionari del ministero di Giustizia uccideva ieri dieci persone.

A quattro mani con Giuliano Battiston per il manifesto

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Dobbiamo dunque aspettarci una nuova offensiva talebana e per altro in un audio messaggio diffuso dal nuovo leader ai comandanti,  il negoziato viene rifiutato e si inneggia invece alla lotta armata. L’offensiva dunque cui sarà   anche se il capo di stato maggiore afgano, generale Qadam Shah Shahim, ha bollato di fallimento la campagna “Omari”, la cosiddetta campagna di primavera dei Talebani. Ma è un fallimento tutto da dimostrare mentre l’ennesimo attentato contro un pulmino di funzionari del ministero di Giustizia uccideva ieri dieci persone.

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I Talebani hanno un nuovo leader: il mawlawi Haibatullah Akhundzada. È stato eletto ieri, probabilmente a Quetta, in Pakistan, dalla Rabhari shura, il massimo organo di indirizzo politico degli studenti coranici. La sua nomina avviene a pochi giorni dalla morte del predecessore, mullah Mohammad Akhtar Mansur, ucciso da un drone americano mentre era in viaggio nel Belucistan pachistano. Come vice di Haibatullah Akhundzada è stato nominato mullah Yacub, figlio dello storico leader mullah Omar e già a capo di una delle Commissioni talebane sotto la leadership di Mansur, che Yacub aveva poi finito per sostenere dopo averne contestato la nomina, nel luglio 2015; al suo fianco, ieri i barbuti hanno confermato Sirajuddin Haqqani, figlio del fondatore dell’omonimo network di islamisti, attivo dagli anni Ottanta e, oggi, tra i più pericolosi gruppi armati che operano tra Afghanistan e Pakistan, con ramificazioni economiche che arrivano nei Paesi del Golfo.

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