Giorno: 1 maggio 2016

Quanto ancora Aleppo reggerà alla distruzione?

Di Abdulrahman al-Rashed. Asharq al-Awsat (30/04/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen. Il regime siriano sta deliberatamente scegliendo degli obiettivi specifici peri suoi attacchi aerei. Ospedali e quartieri civili sono stati bombardati con violenza mentre gli abitanti sono stati lasciati senza difese e senza viveri a causa dell’embargo internazionale. I bombardamenti ripetuti nei giorni scorsi […]

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1 maggio: lavoro e diritti nei Paesi “cerniera” della guerra infinita

Tra il grande mondo mediorientale, le repubbliche centro asiatiche dell’ex Urss e il subcontinente indiano, tre Paesi – Iran, Afghanistan e Pakistan – rappresentano una sfida aperta tra lavoratori e padronato, che sia rappresentato dall’industria di Stato come in Iran, da landlord e speculatori come in Afghanistan o dal grande settore dell’economia controllato dalle Forze armate in Pakistan. Inoltre queste tre nazioni, oltre alla vicinanza geografica, hanno un elemento comune e cioè sono, seppur a diverso titolo, Paesi in guerra. La guerra, più o meno dichiarata e combattuta in casa o altrove, gioca un elemento fondamentale nel controllo delle istanze di giustizia sociale e dei diritti sul lavoro: leggi speciali, richiami alla difesa della patria, autorità indiscussa delle forze dell’ordine sono infatti tutti elementi che finiscono per governare un mercato del lavoro che con la guerra fa i conti ogni giorno. Questi Paesi “cerniera” tra mondi diversi – il Medio oriente con i suoi conflitti e i suoi governi instabili e autoritari, l’Asia centrale ex sovietica con le sue centrali di potere autocratiche e l’lndia che rappresenta l’eccezione democratica asiatica – stanno vivendo una fase di cambiamento importante in cui la guerra resta però un elemento stabile da decenni. Che finisce a gettare una luce oscura sulle loro economie e soprattutto sui diritti negati di chi lavora.

Iran

Il sindacato ha in Iran una storia antichissima: la prima centrale fu fondata infatti un secolo fa ed ebbe poi un ruolo chiave nella lotta allo Scià. Ma da che esiste la Repubblica islamica, il governo ha fatto del sindacato una sorta di istituzione governativa con limiti fortissimi alla rappresentanza e dove la contrattazione viene regolata non attraverso le lotte ma con un negoziato dove alla fine vince sempre il governo. Dirigenti politici e sindacali vengono arrestati – come nel caso di Ismail Abdi, segretario generale degli insegnanti, imprigionato per aver organizzato “riunioni illegali” – anche se Teheran è un vecchio membro dell’Ilo (l’ufficio Onu del lavoro) di cui ha firmato quasi tutte le convenzioni rifiutandosi di siglare quelle relative alla libertà di associazione (C87) e di organizzazione (C98). Il Paese, che ha ricominciato a crescere nel 2014, sta conoscendo – dopo la fine delle sanzioni – una stagione di apertura che potrebbe farlo uscire da una crisi che si protrae da anni anche in ragione delle altissime spese militari. Non formalmente in guerra, l’Iran sostiene infatti i fronti sciiti nel mondo (dal Libano alla Siria) che rifornisce di armamenti e consiglieri militari.

Afghanistan

L’Afghanistan, con un mercato del lavoro su cui ogni anno si affacciano 400mila nuovi soggetti, è un Paese in forte crisi (il Pnl che nel 2011 cresceva al 6,1% nel 2014 è calato all’1,3). La sua economia, sostenuta per oltre due terzi dai finanziamenti stranieri, ha subito un contraccolpo non indifferente dopo l’uscita di scena di oltre 100mila soldati della Nato e relativi contractor. La fuoriuscita degli eserciti stranieri, ben più che un problema militare, sembra essere alla base della crisi economica attuale nella quale le commesse sono drasticamente diminuite, il boom edilizio si è fermato, il flusso di valuta pregiata si è ridotto e la moneta ha cominciato per la prima volta a perdere terreno su quelle dei Paesi vicini (l’unico fattore forse che può rilanciare un po’ l’asfittico mercato interno). La crisi, gestita da un governo fragile e in costante calo di consensi, vede aumentare la piccola criminalità e diminuire le occasioni di lavoro formale in un Paese dominato da un settore informale privo di ogni diritto. Il sindacato, eredità dei tempi post sovietici, è debole e con scarsa voce in capitolo. E’ un quadro che spiega l’enorme flusso di migranti afgani alle porte d’Europa (il secondo gruppo dopo la Siria) e il piano europeo che vorrebbe ritrasferirne a casa, via Turchia, almeno 80mila (quasi la metà degli attuali residenti). Tra Pakistan e Iran, altri 2,5 milioni restano fuori dal Paese in cerca di migliori occasioni di vita.

Pakistan

Il Pakistan ha come l’India una tradizione sindacale importante ma nel Paese islamico, che ha un’altrettanto lunga tradizione di dittature militari e solo da pochi anni conosce governi civili stabili, i diritti sul lavoro, benché abbiano fatto passi avanti, sono ancora molto ignorati specie nel settore informale, una fetta importante dell’economia pachistana. Il costo della guerra, che in Afghanistan è stato sostenuto dagli stranieri e che in Iran è piuttosto sotto traccia e indiretto, è alla luce del sole: nel 2013 il governo valutava in 100 miliardi di dollari le perdite dovute alla sua adesione alla guerra al terrorismo e ai talebani pachistani. Spese che sono aumentate da quando, oltre un anno e mezzo fa, Islamabad si è impegnata in un conflitto senza quartiere nell’area tribale del Waziristan. Il costo umano del terrorismo è enorme: una media di 2mila vittime l’anno e due milioni di sfollati interni. Leggi e corti speciali fanno il resto. E nelle maglie strette ci finiscono anche i sindacalisti.

1 maggio: lavoro e diritti nei Paesi “cerniera” della guerra infinita

Tra il grande mondo mediorientale, le repubbliche centro asiatiche dell’ex Urss e il subcontinente indiano, tre Paesi – Iran, Afghanistan e Pakistan – rappresentano una sfida aperta tra lavoratori e padronato, che sia rappresentato dall’industria di Stato come in Iran, da landlord e speculatori come in Afghanistan o dal grande settore dell’economia controllato dalle Forze armate in Pakistan. Inoltre queste tre nazioni, oltre alla vicinanza geografica, hanno un elemento comune e cioè sono, seppur a diverso titolo, Paesi in guerra. La guerra, più o meno dichiarata e combattuta in casa o altrove, gioca un elemento fondamentale nel controllo delle istanze di giustizia sociale e dei diritti sul lavoro: leggi speciali, richiami alla difesa della patria, autorità indiscussa delle forze dell’ordine sono infatti tutti elementi che finiscono per governare un mercato del lavoro che con la guerra fa i conti ogni giorno. Questi Paesi “cerniera” tra mondi diversi – il Medio oriente con i suoi conflitti e i suoi governi instabili e autoritari, l’Asia centrale ex sovietica con le sue centrali di potere autocratiche e l’lndia che rappresenta l’eccezione democratica asiatica – stanno vivendo una fase di cambiamento importante in cui la guerra resta però un elemento stabile da decenni. Che finisce a gettare una luce oscura sulle loro economie e soprattutto sui diritti negati di chi lavora.

Iran

Il sindacato ha in Iran una storia antichissima: la prima centrale fu fondata infatti un secolo fa ed ebbe poi un ruolo chiave nella lotta allo Scià. Ma da che esiste la Repubblica islamica, il governo ha fatto del sindacato una sorta di istituzione governativa con limiti fortissimi alla rappresentanza e dove la contrattazione viene regolata non attraverso le lotte ma con un negoziato dove alla fine vince sempre il governo. Dirigenti politici e sindacali vengono arrestati – come nel caso di Ismail Abdi, segretario generale degli insegnanti, imprigionato per aver organizzato “riunioni illegali” – anche se Teheran è un vecchio membro dell’Ilo (l’ufficio Onu del lavoro) di cui ha firmato quasi tutte le convenzioni rifiutandosi di siglare quelle relative alla libertà di associazione (C87) e di organizzazione (C98). Il Paese, che ha ricominciato a crescere nel 2014, sta conoscendo – dopo la fine delle sanzioni – una stagione di apertura che potrebbe farlo uscire da una crisi che si protrae da anni anche in ragione delle altissime spese militari. Non formalmente in guerra, l’Iran sostiene infatti i fronti sciiti nel mondo (dal Libano alla Siria) che rifornisce di armamenti e consiglieri militari.

Afghanistan

L’Afghanistan, con un mercato del lavoro su cui ogni anno si affacciano 400mila nuovi soggetti, è un Paese in forte crisi (il Pnl che nel 2011 cresceva al 6,1% nel 2014 è calato all’1,3). La sua economia, sostenuta per oltre due terzi dai finanziamenti stranieri, ha subito un contraccolpo non indifferente dopo l’uscita di scena di oltre 100mila soldati della Nato e relativi contractor. La fuoriuscita degli eserciti stranieri, ben più che un problema militare, sembra essere alla base della crisi economica attuale nella quale le commesse sono drasticamente diminuite, il boom edilizio si è fermato, il flusso di valuta pregiata si è ridotto e la moneta ha cominciato per la prima volta a perdere terreno su quelle dei Paesi vicini (l’unico fattore forse che può rilanciare un po’ l’asfittico mercato interno). La crisi, gestita da un governo fragile e in costante calo di consensi, vede aumentare la piccola criminalità e diminuire le occasioni di lavoro formale in un Paese dominato da un settore informale privo di ogni diritto. Il sindacato, eredità dei tempi post sovietici, è debole e con scarsa voce in capitolo. E’ un quadro che spiega l’enorme flusso di migranti afgani alle porte d’Europa (il secondo gruppo dopo la Siria) e il piano europeo che vorrebbe ritrasferirne a casa, via Turchia, almeno 80mila (quasi la metà degli attuali residenti). Tra Pakistan e Iran, altri 2,5 milioni restano fuori dal Paese in cerca di migliori occasioni di vita.

Pakistan

Il Pakistan ha come l’India una tradizione sindacale importante ma nel Paese islamico, che ha un’altrettanto lunga tradizione di dittature militari e solo da pochi anni conosce governi civili stabili, i diritti sul lavoro, benché abbiano fatto passi avanti, sono ancora molto ignorati specie nel settore informale, una fetta importante dell’economia pachistana. Il costo della guerra, che in Afghanistan è stato sostenuto dagli stranieri e che in Iran è piuttosto sotto traccia e indiretto, è alla luce del sole: nel 2013 il governo valutava in 100 miliardi di dollari le perdite dovute alla sua adesione alla guerra al terrorismo e ai talebani pachistani. Spese che sono aumentate da quando, oltre un anno e mezzo fa, Islamabad si è impegnata in un conflitto senza quartiere nell’area tribale del Waziristan. Il costo umano del terrorismo è enorme: una media di 2mila vittime l’anno e due milioni di sfollati interni. Leggi e corti speciali fanno il resto. E nelle maglie strette ci finiscono anche i sindacalisti.

1 maggio: lavoro e diritti nei Paesi “cerniera” della guerra infinita

Tra il grande mondo mediorientale, le repubbliche centro asiatiche dell’ex Urss e il subcontinente indiano, tre Paesi – Iran, Afghanistan e Pakistan – rappresentano una sfida aperta tra lavoratori e padronato, che sia rappresentato dall’industria di Stato come in Iran, da landlord e speculatori come in Afghanistan o dal grande settore dell’economia controllato dalle Forze armate in Pakistan. Inoltre queste tre nazioni, oltre alla vicinanza geografica, hanno un elemento comune e cioè sono, seppur a diverso titolo, Paesi in guerra. La guerra, più o meno dichiarata e combattuta in casa o altrove, gioca un elemento fondamentale nel controllo delle istanze di giustizia sociale e dei diritti sul lavoro: leggi speciali, richiami alla difesa della patria, autorità indiscussa delle forze dell’ordine sono infatti tutti elementi che finiscono per governare un mercato del lavoro che con la guerra fa i conti ogni giorno. Questi Paesi “cerniera” tra mondi diversi – il Medio oriente con i suoi conflitti e i suoi governi instabili e autoritari, l’Asia centrale ex sovietica con le sue centrali di potere autocratiche e l’lndia che rappresenta l’eccezione democratica asiatica – stanno vivendo una fase di cambiamento importante in cui la guerra resta però un elemento stabile da decenni. Che finisce a gettare una luce oscura sulle loro economie e soprattutto sui diritti negati di chi lavora.

Iran

Il sindacato ha in Iran una storia antichissima: la prima centrale fu fondata infatti un secolo fa ed ebbe poi un ruolo chiave nella lotta allo Scià. Ma da che esiste la Repubblica islamica, il governo ha fatto del sindacato una sorta di istituzione governativa con limiti fortissimi alla rappresentanza e dove la contrattazione viene regolata non attraverso le lotte ma con un negoziato dove alla fine vince sempre il governo. Dirigenti politici e sindacali vengono arrestati – come nel caso di Ismail Abdi, segretario generale degli insegnanti, imprigionato per aver organizzato “riunioni illegali” – anche se Teheran è un vecchio membro dell’Ilo (l’ufficio Onu del lavoro) di cui ha firmato quasi tutte le convenzioni rifiutandosi di siglare quelle relative alla libertà di associazione (C87) e di organizzazione (C98). Il Paese, che ha ricominciato a crescere nel 2014, sta conoscendo – dopo la fine delle sanzioni – una stagione di apertura che potrebbe farlo uscire da una crisi che si protrae da anni anche in ragione delle altissime spese militari. Non formalmente in guerra, l’Iran sostiene infatti i fronti sciiti nel mondo (dal Libano alla Siria) che rifornisce di armamenti e consiglieri militari.

Afghanistan

L’Afghanistan, con un mercato del lavoro su cui ogni anno si affacciano 400mila nuovi soggetti, è un Paese in forte crisi (il Pnl che nel 2011 cresceva al 6,1% nel 2014 è calato all’1,3). La sua economia, sostenuta per oltre due terzi dai finanziamenti stranieri, ha subito un contraccolpo non indifferente dopo l’uscita di scena di oltre 100mila soldati della Nato e relativi contractor. La fuoriuscita degli eserciti stranieri, ben più che un problema militare, sembra essere alla base della crisi economica attuale nella quale le commesse sono drasticamente diminuite, il boom edilizio si è fermato, il flusso di valuta pregiata si è ridotto e la moneta ha cominciato per la prima volta a perdere terreno su quelle dei Paesi vicini (l’unico fattore forse che può rilanciare un po’ l’asfittico mercato interno). La crisi, gestita da un governo fragile e in costante calo di consensi, vede aumentare la piccola criminalità e diminuire le occasioni di lavoro formale in un Paese dominato da un settore informale privo di ogni diritto. Il sindacato, eredità dei tempi post sovietici, è debole e con scarsa voce in capitolo. E’ un quadro che spiega l’enorme flusso di migranti afgani alle porte d’Europa (il secondo gruppo dopo la Siria) e il piano europeo che vorrebbe ritrasferirne a casa, via Turchia, almeno 80mila (quasi la metà degli attuali residenti). Tra Pakistan e Iran, altri 2,5 milioni restano fuori dal Paese in cerca di migliori occasioni di vita.

Pakistan

Il Pakistan ha come l’India una tradizione sindacale importante ma nel Paese islamico, che ha un’altrettanto lunga tradizione di dittature militari e solo da pochi anni conosce governi civili stabili, i diritti sul lavoro, benché abbiano fatto passi avanti, sono ancora molto ignorati specie nel settore informale, una fetta importante dell’economia pachistana. Il costo della guerra, che in Afghanistan è stato sostenuto dagli stranieri e che in Iran è piuttosto sotto traccia e indiretto, è alla luce del sole: nel 2013 il governo valutava in 100 miliardi di dollari le perdite dovute alla sua adesione alla guerra al terrorismo e ai talebani pachistani. Spese che sono aumentate da quando, oltre un anno e mezzo fa, Islamabad si è impegnata in un conflitto senza quartiere nell’area tribale del Waziristan. Il costo umano del terrorismo è enorme: una media di 2mila vittime l’anno e due milioni di sfollati interni. Leggi e corti speciali fanno il resto. E nelle maglie strette ci finiscono anche i sindacalisti.

Il raid su Msf a Kunduz? Errore tecnico dice il Pentagono

Fu un “errore di procedura”, un errore “tecnico e umano” il bombardamento che nella notte fra il 2 e il 3 ottobre del 2015 prese ripetutamente di mira l’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz in Afghanistan. Un raid aereo in cui furono uccise 42 persone e altre decine furono ferite. E’ questa la conclusione presentata venerdi dal generale americano Joseph Votel in una conferenza stampa in cui sono stati resi noti i risultati di un rapporto di 3mila pagine con cui il Pentagono ritiene di aver scritto la parola fine sulla vicenda. La reazione di Msf, che si riserva nuovi commenti alla fine di un esame approfondito del dossier, non si è fatta attendere: l’organizzazione umanitaria ritiene infatti che molte domande siano rimaste senza risposta e continua a chiedere un’indagine indipendente che stabilisca nettamente le responsabilità e soprattutto il peso di una delle pagine più buie della storia recente del conflitto afgano.

Pazienti e membri dello staff di Msf (14) furono dunque vittime di un errore perché l’equipaggio del bombardiere “non sapeva” che stava colpendo un nosocomio ma era invece convinto di stare sbaragliando un covo di talebani situato a 400 metri dall’ospedale. L’azione all’origine della strage non fu pertanto “intenzionale” anche se non è chiaro come mai l’equipaggio non abbia avuto accesso alla lista degli edifici in città che non andavano colpiti (il rapporto fa riferimento a problemi di comunicazione) tra cui era stato da tempo segnalato il centro medico di Msf a Kunduz. E’ molto chiaro invece come i militari abbiano deciso di non procedere penalmente ma solo amministrativamente dal momento che, ha spiegato Votel, l’accusa di crimine di guerra si può applicare solo in presenza di atti deliberati.

Sedici membri dello staff militare e un ufficiale con funzioni di comando sono dunque stati sottoposti a misure disciplinari e in particolare a punizioni che includono la sospensione o la rimozione da posizioni di comando, lettere di monito e attività obbligatorie di training o consultazioni medico-psicologiche. Per cinque fra questi c’è anche l’espulsione dal teatro. Un buffetto sulla guancia insomma e magari un freno alla carriera, non certo un’accusa che li possa spedire davanti a una corte marziale: una risposta che Msf giudica sproporzionata rispetto alla distruzione di una struttura medica protetta, alla morte di 42 persone, al ferimento di decine di altre e alla totale perdita di servizi medici vitali per la popolazione.

Ma non sono certo le pene, più o meno dure, a preoccupare Msf, cui la Difesa statunitense intende pagare, con i risarcimenti ai parenti delle vittime, 5,7 milioni di dollari per ricostruire l’ospedale ridotto a un cumulo di macerie: secondo l’organizzazione umanitaria, quanto affermato dal vertice militare americano “equivale all’ammissione di un’operazione non controllata in un’area urbana densamente popolata, durante la quale le forze statunitensi hanno disatteso le regole di base della guerra” ha detto Meinie Nicolai, presidente di Msf, secondo cui “non si comprende perché, nelle circostanze descritte dagli Stati Uniti, l’attacco non sia stato annullato”. “Il discrimine che può rendere questo incidente mortale una grave violazione del diritto internazionale umanitario non è la sua intenzionalità” aggiunge Nicolai, perché in guerra, si tratti di Afghanistan o di Siria, “i gruppi armati non possono eludere le proprie responsabilità sul campo semplicemente negando l’intenzionalità di un attacco contro strutture protette come un ospedale.” Il Pentagono non la pensa così.

Il raid su Msf a Kunduz? Errore tecnico dice il Pentagono

Fu un “errore di procedura”, un errore “tecnico e umano” il bombardamento che nella notte fra il 2 e il 3 ottobre del 2015 prese ripetutamente di mira l’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz in Afghanistan. Un raid aereo in cui furono uccise 42 persone e altre decine furono ferite. E’ questa la conclusione presentata venerdi dal generale americano Joseph Votel in una conferenza stampa in cui sono stati resi noti i risultati di un rapporto di 3mila pagine con cui il Pentagono ritiene di aver scritto la parola fine sulla vicenda. La reazione di Msf, che si riserva nuovi commenti alla fine di un esame approfondito del dossier, non si è fatta attendere: l’organizzazione umanitaria ritiene infatti che molte domande siano rimaste senza risposta e continua a chiedere un’indagine indipendente che stabilisca nettamente le responsabilità e soprattutto il peso di una delle pagine più buie della storia recente del conflitto afgano.

Pazienti e membri dello staff di Msf (14) furono dunque vittime di un errore perché l’equipaggio del bombardiere “non sapeva” che stava colpendo un nosocomio ma era invece convinto di stare sbaragliando un covo di talebani situato a 400 metri dall’ospedale. L’azione all’origine della strage non fu pertanto “intenzionale” anche se non è chiaro come mai l’equipaggio non abbia avuto accesso alla lista degli edifici in città che non andavano colpiti (il rapporto fa riferimento a problemi di comunicazione) tra cui era stato da tempo segnalato il centro medico di Msf a Kunduz. E’ molto chiaro invece come i militari abbiano deciso di non procedere penalmente ma solo amministrativamente dal momento che, ha spiegato Votel, l’accusa di crimine di guerra si può applicare solo in presenza di atti deliberati.

Sedici membri dello staff militare e un ufficiale con funzioni di comando sono dunque stati sottoposti a misure disciplinari e in particolare a punizioni che includono la sospensione o la rimozione da posizioni di comando, lettere di monito e attività obbligatorie di training o consultazioni medico-psicologiche. Per cinque fra questi c’è anche l’espulsione dal teatro. Un buffetto sulla guancia insomma e magari un freno alla carriera, non certo un’accusa che li possa spedire davanti a una corte marziale: una risposta che Msf giudica sproporzionata rispetto alla distruzione di una struttura medica protetta, alla morte di 42 persone, al ferimento di decine di altre e alla totale perdita di servizi medici vitali per la popolazione.

Ma non sono certo le pene, più o meno dure, a preoccupare Msf, cui la Difesa statunitense intende pagare, con i risarcimenti ai parenti delle vittime, 5,7 milioni di dollari per ricostruire l’ospedale ridotto a un cumulo di macerie: secondo l’organizzazione umanitaria, quanto affermato dal vertice militare americano “equivale all’ammissione di un’operazione non controllata in un’area urbana densamente popolata, durante la quale le forze statunitensi hanno disatteso le regole di base della guerra” ha detto Meinie Nicolai, presidente di Msf, secondo cui “non si comprende perché, nelle circostanze descritte dagli Stati Uniti, l’attacco non sia stato annullato”. “Il discrimine che può rendere questo incidente mortale una grave violazione del diritto internazionale umanitario non è la sua intenzionalità” aggiunge Nicolai, perché in guerra, si tratti di Afghanistan o di Siria, “i gruppi armati non possono eludere le proprie responsabilità sul campo semplicemente negando l’intenzionalità di un attacco contro strutture protette come un ospedale.” Il Pentagono non la pensa così.

Il raid su Msf a Kunduz? Errore tecnico dice il Pentagono

Fu un “errore di procedura”, un errore “tecnico e umano” il bombardamento che nella notte fra il 2 e il 3 ottobre del 2015 prese ripetutamente di mira l’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz in Afghanistan. Un raid aereo in cui furono uccise 42 persone e altre decine furono ferite. E’ questa la conclusione presentata venerdi dal generale americano Joseph Votel in una conferenza stampa in cui sono stati resi noti i risultati di un rapporto di 3mila pagine con cui il Pentagono ritiene di aver scritto la parola fine sulla vicenda. La reazione di Msf, che si riserva nuovi commenti alla fine di un esame approfondito del dossier, non si è fatta attendere: l’organizzazione umanitaria ritiene infatti che molte domande siano rimaste senza risposta e continua a chiedere un’indagine indipendente che stabilisca nettamente le responsabilità e soprattutto il peso di una delle pagine più buie della storia recente del conflitto afgano.

Pazienti e membri dello staff di Msf (14) furono dunque vittime di un errore perché l’equipaggio del bombardiere “non sapeva” che stava colpendo un nosocomio ma era invece convinto di stare sbaragliando un covo di talebani situato a 400 metri dall’ospedale. L’azione all’origine della strage non fu pertanto “intenzionale” anche se non è chiaro come mai l’equipaggio non abbia avuto accesso alla lista degli edifici in città che non andavano colpiti (il rapporto fa riferimento a problemi di comunicazione) tra cui era stato da tempo segnalato il centro medico di Msf a Kunduz. E’ molto chiaro invece come i militari abbiano deciso di non procedere penalmente ma solo amministrativamente dal momento che, ha spiegato Votel, l’accusa di crimine di guerra si può applicare solo in presenza di atti deliberati.

Sedici membri dello staff militare e un ufficiale con funzioni di comando sono dunque stati sottoposti a misure disciplinari e in particolare a punizioni che includono la sospensione o la rimozione da posizioni di comando, lettere di monito e attività obbligatorie di training o consultazioni medico-psicologiche. Per cinque fra questi c’è anche l’espulsione dal teatro. Un buffetto sulla guancia insomma e magari un freno alla carriera, non certo un’accusa che li possa spedire davanti a una corte marziale: una risposta che Msf giudica sproporzionata rispetto alla distruzione di una struttura medica protetta, alla morte di 42 persone, al ferimento di decine di altre e alla totale perdita di servizi medici vitali per la popolazione.

Ma non sono certo le pene, più o meno dure, a preoccupare Msf, cui la Difesa statunitense intende pagare, con i risarcimenti ai parenti delle vittime, 5,7 milioni di dollari per ricostruire l’ospedale ridotto a un cumulo di macerie: secondo l’organizzazione umanitaria, quanto affermato dal vertice militare americano “equivale all’ammissione di un’operazione non controllata in un’area urbana densamente popolata, durante la quale le forze statunitensi hanno disatteso le regole di base della guerra” ha detto Meinie Nicolai, presidente di Msf, secondo cui “non si comprende perché, nelle circostanze descritte dagli Stati Uniti, l’attacco non sia stato annullato”. “Il discrimine che può rendere questo incidente mortale una grave violazione del diritto internazionale umanitario non è la sua intenzionalità” aggiunge Nicolai, perché in guerra, si tratti di Afghanistan o di Siria, “i gruppi armati non possono eludere le proprie responsabilità sul campo semplicemente negando l’intenzionalità di un attacco contro strutture protette come un ospedale.” Il Pentagono non la pensa così.