Giorno: 31 gennaio 2016

“Un’Italiana a Tunisi”

italiana 110Giada Frana, giornalista italiana free-lance, collaboratrice dalla Tunisia per alcuni quotidiani italiani, è curatrice di una pagina face book molto seguita, “Un’Italiana a Tunisi”, in cui racconta la bellezza di quello che considera il suo nuovo Paese d’adozione, ma anche i limiti, i punti di debolezza. Dal suo osservatorio un’analisi dell’attuale situazione tunisina dopo le ultime proteste.

Viaggio della libertà di Khebez Dawle, band rock siriana

anas 110Intervista a Anas Maghrebi, frontman della band. Dopo l’uccisione del loro batterista nel 2012, i ragazzi della band sono fuggiti dalla guerra civile approdando in Libano. A Beirut hanno registrato il loro primo album. Poi su un gommone hanno attraversato il Mediterraneo e dai Balcani hanno raggiunto Berlino. “Città perfetta per gli artisti”.

Novità editoriali: La strega nera di Teheran

La strega nera di Teheran è una storia nera di vendetta e superstizione che ci trasporta dai vicoli del bazar e dai palazzi orientali di Teheran alle autostrade e alle ville hollywoodiane di Los Angeles. Il romanzo è la saga famigliare dei Suleyman, una famiglia di ricchi commercianti ebrei di Teheran costretta a emigrare in […]

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Il Marocco tra messaggi di odio e lotta agli islamisti

Di Abd al-Ali Hami al-Din. Al-Quds (28/01/2016). Traduzione e sintesi di Alessandro Mannara. Durante l’assemblea generale di un’associazione marocchina per i diritti umani, si sono sollevate molte voci che avvertivano di un crescente messaggio di odio e risentimento nel Paese. Questo messaggio, che porta con sé i germi della violenza verbale, è profondo incubatore di […]

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Terrorismo: la sfida pachistana

Tra tre colossi: India, Iran e Cina

E’vero che Islamabad ha cambiato strategia e politica nei confronti dei gruppi jihadisti a lungo coccolati sin dai tempi di Zia Ul Haq? La decisione sembra presa e i fatti in parte lo dimostrano. Un’analisi del nuovo corso pachistano. Tra mille difficoltà e una scomoda eredità.

Il 15 gennaio, dopo il discorso di Barack Obama sullo Stato dell’Unione, i pachistani hanno risposto con sdegno. La frase che non è piaciuta a Islamabad riguarda il futuro di instabilità nel quale il presidente americano ha incluso Afghanistan e Pakistan ma in realtà anche altre parti del pianeta come, evidentemente, il Medio oriente. La risposta piccata, affidata a Sartaj Aziz, il consigliere per la sicurezza del premier Nawaz Sharif e uno dei più influenti funzionari del Paese, dimostra chiaramente il grado di sensibilità che il Pakistan ha in tema di terrorismo. A molti il discorso di Obama può aver dato fastidio. Nei pachistani ha suscitato una reazione persino eccessiva. Proprio perché il problema esiste anche se il Pakistan sta effettivamente tentando di fare della lotta al terrorismo una priorità.

Nelle stesse ore, l’Amministrazione americana trascriveva una nuova sigla nella lista (Fto) delle organizzazioni terroristiche: Isil-K (Isil Khorasan) che, spiega il sito del Dipartimento di Stato, ha annunciato la sua creazione il 10 gennaio 2015. «Il gruppo – argomenta il DoS – ha sede nella regione Afghanistan/Pakistan ed è composto principalmente da ex membri del Tehreek e Taliban Pakistan e da talebani afgani. La leadership di Isil-K ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al Bagdadi, il capo di Isil. Questo impegno è stato accettato a fine gennaio 2015 e da allora Isil-K ha effettuato attentati suicidi, attacchi armati minori e rapimenti nell’Afghanistan orientale contro i civili e l’esercito afgano. Ha inoltre rivendicato gli attacchi contro civili a Karachi, Pakistan, nel maggio 2015». Isil-K, una formazione di cui non si conosce esattamente la forza numerica e la capacità operativa, sarebbe dietro anche al recente assalto contro una missione diplomatica pachistana in Afghanistan. E’ solo l’ultimo atto di una saga infinita cominciata diversi decenni fa.

Uono forte: Raheel  Sharif, a capo
delle Forze armate. Il suo mandato è in scadenza

Il Pakistan, attraverso soprattutto una branca dei suoi servizi segreti (Isi), ha iniziato flirtare coi gruppi islamisti e jihadisti sin dall’epoca di Zia Ul Haq, generale dittatore che, al governo dal 1977 al 1988, voleva trasformare il Pakistan da Stato laico (come il suo fondatore, Jinnah, lo aveva voluto) a Paese islamico a tutti gli effetti. Operazione condotta trasformando la Costituzione e istituendo tribunali che adottavano la sharia. Per Zia i gruppi islamisti radicali potevano essere ben impiegati in Kashmir contro le truppe indiane nella zona controllata da Delhi ma anche contro la minoranza sciita oppure più semplicemente come pedine per far sparire gli oppositori. Negli anni a seguire nessuno governo – fosse quello di Benazir Bhutto, del generale Musharraf o dello stesso Nawaz Sharif (già premier due volte prima del mandato attuale) – ha mai messo i ceppi a movimenti che hanno proliferato a dismisura fino a diventare, negli ultimi anni, una vera minaccia interna. Le cose sono cambiate quando, da semplici pedine di una lotta contro i nemici del Pakistan, molti mujahedin si sono dimostrati protagonisti ricettivi al richiamo di chi individuava nel governo pachistano – reo di aver abbandonato la strada di Zia – il vero obiettivo.

Negli ultimi dieci anni il jihadismo pachistano si è andato trasformando. La svolta definitiva è del 2007 con la nascita del Tehreek e Taliban Pakistan – un cartello fedele agli insegnamento del leader talebano mullah Omar e alle radici teologiche della scuola Deobandi. Il Ttp raggruppava una serie di organizzazioni islamiste e jihadiste, dimostrava simpatia per Al Qaeda e aveva la sua principale base operativa – con azioni che andavano dal Pakistan all’Afghanistan – nell’area tribale (Fata) al confine tra i due Paesi, area abitata in prevalenza da pathan sunniti (il nome pachistano dei pashtun), un popolo diviso dal righello coloniale di sir Mortimer Durand che ne 1893 disegnò la famosa Durand Line che ancora segna il confine (poroso e contestato dai due Paesi) tra le due nazioni a cavallo tra Asia centrale e subcontinente indiano. Il problema connesso al Ttp (una formazione che ha subito scissioni e ha visto continue lotte intestine di successione) era ed è che, da una parte sfuggiva sempre più al controllo dei servizi, dall’altro aveva modificato l’agenda politica: non più e non solo lotta contro gli invasori dell’Afghanistan a sostegno dei fratelli pashtun, ma contro il governo apostata di Islamabad, reo di non voler fare del Pakistan un emirato ma una volgare imitazione delle corrotte democrazie occidentali.

Sostegno e contatto ai gruppi jihadisti (a cui non sono estranei gli aiuti dell’Arabia saudita e dei Paesi del Golfo) sono dunque andati scemando mentre, di contro, il Ttp allargava il suo raggio d’azione fuori dalle aree tribali, con azioni terroristiche in altre zone del Pakistan e tentando la conquista (riuscita per un breve periodo) della valle settentrionale di Swat (dove si è verificato l’attentato a Malala Yusufzai nel 2012).

Il sacro Corano: vocazione islamica
o islamista? Il bivio pachistano

L‘arrivo di Daesh e la necessità di isolare il Ttp ripristinando al contempo buone relazioni con Kabul, hanno accelerato una spinta che le nuove istituzioni civili e democraticamente elette – seguite a una lunga stagione di governi militari golpisti – hanno trasformato in un’azione forte: che inizialmente mirava forse solo a contenere e controllare ma che si è poi trasformata in una vera e propria guerra ai movimenti islamisti, sia nelle zone tribali sia in altre aree del Paese. Quando un anno e mezzo fa il Pakistan ha dato luce verde all’operazione Zarb e Azb (nel mirino la regione tribale del Waziristan al confine con l’Afghanistan) si è capito che Islamabad stava facendo sul serio. Al netto delle polemiche su come la campagna viene condotta (i media sono off limits e i dati sulle vittime civili sono molto incerti senza contare che il Pakistan ha ripristinato la pena capitale che può essere comminata da undici tribunali speciali militari), Zarb e Azb sembra aver assestato un duro colpo ai gruppi terroristici pachistani e stranieri che hanno nel Waziristan del Nord i loro santuari.

Al Bagdadi: progetto Khorasan

Nel dicembre scorso i primi 18 mesi di Zarb e Azb sono stati definiti un grande successo che ha visto circa 30mila soldati impegnati sul terreno col sostegno dell’aviazione. Secondo le forze armate pachistane, dirette dal potente e abile generale Raheel Sharif, 3.400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli ora distrutti grazie a 13.200 operativi militari. Le vittime tra i soldati ammontano a 488 morti e 1.914 feriti. In giugno l’esercito aveva sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili, un’affermazione non verificabile quanto poco credibile anche perché il numero degli sfollati parla chiaro: secondo la stampa pachistana erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione – un milione… su una popolazione del Waziristan stimata tra le 4 e le 5oomila unità. Il 40% degli sfollati sarebbe ora – dice sempre l’esercito – rientrato a casa.

Il cambio di strategia è chiaro. Zarb e Azb è stata accompagnata da una politica di ammorbidimento delle relazioni con Kabul e da un lavoro di pressione sui talebani afgani, che hanno finora sempre goduto del sostegno più o meno diretto di Islamabad. Che li starebbe ora convincendo a trattare. Pugno duro con le organizzazioni islamiste guerrigliere del Kashmir (c’è appena stato un problema con l’India dopo l’attacco in gennaio a una base dell’aviazione a Pathankot dove guerriglieri pachistani hanno impegnato i militari di Delhi per tre giorni) dalle quali Islamabad va prendendo sempre più le distanze. Infine pugno duro anche con le organizzazioni settarie anti sciite, nate durante l’avvento della Repubblica islamica in Iran. Adesso Islamabad mira a buone relazioni con gli iraniani tanto che la sua posizione di semi neutralità nella recente fase di tensione tra Riad e Teheran ha notevolmente irritato i sauditi che già si erano visti opporre un gran rifiuto quando avevano chiesto al Pakistan, l’anno scorso, di fornire uomini e mezzi per la guerra contro la minoranza sciita nello Yemen.

Il problema del terrorismo in Pakistan non si risolverà a breve e, come ha detto Obama, questa resta un’area di instabilità e un vivaio per lo stesso jihad internazionale. Ma la svolta va registrata anche se, dopo anni di connivenza, mettere ora il bavaglio ai jihadisti non sarà impresa facile.

Terrorismo: la sfida pachistana

Tra tre colossi: India, Iran e Cina

E’vero che Islamabad ha cambiato strategia e politica nei confronti dei gruppi jihadisti a lungo coccolati sin dai tempi di Zia Ul Haq? La decisione sembra presa e i fatti in parte lo dimostrano. Un’analisi del nuovo corso pachistano. Tra mille difficoltà e una scomoda eredità.

Il 15 gennaio, dopo il discorso di Barack Obama sullo Stato dell’Unione, i pachistani hanno risposto con sdegno. La frase che non è piaciuta a Islamabad riguarda il futuro di instabilità nel quale il presidente americano ha incluso Afghanistan e Pakistan ma in realtà anche altre parti del pianeta come, evidentemente, il Medio oriente. La risposta piccata, affidata a Sartaj Aziz, il consigliere per la sicurezza del premier Nawaz Sharif e uno dei più influenti funzionari del Paese, dimostra chiaramente il grado di sensibilità che il Pakistan ha in tema di terrorismo. A molti il discorso di Obama può aver dato fastidio. Nei pachistani ha suscitato una reazione persino eccessiva. Proprio perché il problema esiste anche se il Pakistan sta effettivamente tentando di fare della lotta al terrorismo una priorità.

Nelle stesse ore, l’Amministrazione americana trascriveva una nuova sigla nella lista (Fto) delle organizzazioni terroristiche: Isil-K (Isil Khorasan) che, spiega il sito del Dipartimento di Stato, ha annunciato la sua creazione il 10 gennaio 2015. «Il gruppo – argomenta il DoS – ha sede nella regione Afghanistan/Pakistan ed è composto principalmente da ex membri del Tehreek e Taliban Pakistan e da talebani afgani. La leadership di Isil-K ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al Bagdadi, il capo di Isil. Questo impegno è stato accettato a fine gennaio 2015 e da allora Isil-K ha effettuato attentati suicidi, attacchi armati minori e rapimenti nell’Afghanistan orientale contro i civili e l’esercito afgano. Ha inoltre rivendicato gli attacchi contro civili a Karachi, Pakistan, nel maggio 2015». Isil-K, una formazione di cui non si conosce esattamente la forza numerica e la capacità operativa, sarebbe dietro anche al recente assalto contro una missione diplomatica pachistana in Afghanistan. E’ solo l’ultimo atto di una saga infinita cominciata diversi decenni fa.

Uono forte: Raheel  Sharif, a capo
delle Forze armate. Il suo mandato è in scadenza

Il Pakistan, attraverso soprattutto una branca dei suoi servizi segreti (Isi), ha iniziato flirtare coi gruppi islamisti e jihadisti sin dall’epoca di Zia Ul Haq, generale dittatore che, al governo dal 1977 al 1988, voleva trasformare il Pakistan da Stato laico (come il suo fondatore, Jinnah, lo aveva voluto) a Paese islamico a tutti gli effetti. Operazione condotta trasformando la Costituzione e istituendo tribunali che adottavano la sharia. Per Zia i gruppi islamisti radicali potevano essere ben impiegati in Kashmir contro le truppe indiane nella zona controllata da Delhi ma anche contro la minoranza sciita oppure più semplicemente come pedine per far sparire gli oppositori. Negli anni a seguire nessuno governo – fosse quello di Benazir Bhutto, del generale Musharraf o dello stesso Nawaz Sharif (già premier due volte prima del mandato attuale) – ha mai messo i ceppi a movimenti che hanno proliferato a dismisura fino a diventare, negli ultimi anni, una vera minaccia interna. Le cose sono cambiate quando, da semplici pedine di una lotta contro i nemici del Pakistan, molti mujahedin si sono dimostrati protagonisti ricettivi al richiamo di chi individuava nel governo pachistano – reo di aver abbandonato la strada di Zia – il vero obiettivo.

Negli ultimi dieci anni il jihadismo pachistano si è andato trasformando. La svolta definitiva è del 2007 con la nascita del Tehreek e Taliban Pakistan – un cartello fedele agli insegnamento del leader talebano mullah Omar e alle radici teologiche della scuola Deobandi. Il Ttp raggruppava una serie di organizzazioni islamiste e jihadiste, dimostrava simpatia per Al Qaeda e aveva la sua principale base operativa – con azioni che andavano dal Pakistan all’Afghanistan – nell’area tribale (Fata) al confine tra i due Paesi, area abitata in prevalenza da pathan sunniti (il nome pachistano dei pashtun), un popolo diviso dal righello coloniale di sir Mortimer Durand che ne 1893 disegnò la famosa Durand Line che ancora segna il confine (poroso e contestato dai due Paesi) tra le due nazioni a cavallo tra Asia centrale e subcontinente indiano. Il problema connesso al Ttp (una formazione che ha subito scissioni e ha visto continue lotte intestine di successione) era ed è che, da una parte sfuggiva sempre più al controllo dei servizi, dall’altro aveva modificato l’agenda politica: non più e non solo lotta contro gli invasori dell’Afghanistan a sostegno dei fratelli pashtun, ma contro il governo apostata di Islamabad, reo di non voler fare del Pakistan un emirato ma una volgare imitazione delle corrotte democrazie occidentali.

Sostegno e contatto ai gruppi jihadisti (a cui non sono estranei gli aiuti dell’Arabia saudita e dei Paesi del Golfo) sono dunque andati scemando mentre, di contro, il Ttp allargava il suo raggio d’azione fuori dalle aree tribali, con azioni terroristiche in altre zone del Pakistan e tentando la conquista (riuscita per un breve periodo) della valle settentrionale di Swat (dove si è verificato l’attentato a Malala Yusufzai nel 2012).

Il sacro Corano: vocazione islamica
o islamista? Il bivio pachistano

L‘arrivo di Daesh e la necessità di isolare il Ttp ripristinando al contempo buone relazioni con Kabul, hanno accelerato una spinta che le nuove istituzioni civili e democraticamente elette – seguite a una lunga stagione di governi militari golpisti – hanno trasformato in un’azione forte: che inizialmente mirava forse solo a contenere e controllare ma che si è poi trasformata in una vera e propria guerra ai movimenti islamisti, sia nelle zone tribali sia in altre aree del Paese. Quando un anno e mezzo fa il Pakistan ha dato luce verde all’operazione Zarb e Azb (nel mirino la regione tribale del Waziristan al confine con l’Afghanistan) si è capito che Islamabad stava facendo sul serio. Al netto delle polemiche su come la campagna viene condotta (i media sono off limits e i dati sulle vittime civili sono molto incerti senza contare che il Pakistan ha ripristinato la pena capitale che può essere comminata da undici tribunali speciali militari), Zarb e Azb sembra aver assestato un duro colpo ai gruppi terroristici pachistani e stranieri che hanno nel Waziristan del Nord i loro santuari.

Al Bagdadi: progetto Khorasan

Nel dicembre scorso i primi 18 mesi di Zarb e Azb sono stati definiti un grande successo che ha visto circa 30mila soldati impegnati sul terreno col sostegno dell’aviazione. Secondo le forze armate pachistane, dirette dal potente e abile generale Raheel Sharif, 3.400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli ora distrutti grazie a 13.200 operativi militari. Le vittime tra i soldati ammontano a 488 morti e 1.914 feriti. In giugno l’esercito aveva sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili, un’affermazione non verificabile quanto poco credibile anche perché il numero degli sfollati parla chiaro: secondo la stampa pachistana erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione – un milione… su una popolazione del Waziristan stimata tra le 4 e le 5oomila unità. Il 40% degli sfollati sarebbe ora – dice sempre l’esercito – rientrato a casa.

Il cambio di strategia è chiaro. Zarb e Azb è stata accompagnata da una politica di ammorbidimento delle relazioni con Kabul e da un lavoro di pressione sui talebani afgani, che hanno finora sempre goduto del sostegno più o meno diretto di Islamabad. Che li starebbe ora convincendo a trattare. Pugno duro con le organizzazioni islamiste guerrigliere del Kashmir (c’è appena stato un problema con l’India dopo l’attacco in gennaio a una base dell’aviazione a Pathankot dove guerriglieri pachistani hanno impegnato i militari di Delhi per tre giorni) dalle quali Islamabad va prendendo sempre più le distanze. Infine pugno duro anche con le organizzazioni settarie anti sciite, nate durante l’avvento della Repubblica islamica in Iran. Adesso Islamabad mira a buone relazioni con gli iraniani tanto che la sua posizione di semi neutralità nella recente fase di tensione tra Riad e Teheran ha notevolmente irritato i sauditi che già si erano visti opporre un gran rifiuto quando avevano chiesto al Pakistan, l’anno scorso, di fornire uomini e mezzi per la guerra contro la minoranza sciita nello Yemen.

Il problema del terrorismo in Pakistan non si risolverà a breve e, come ha detto Obama, questa resta un’area di instabilità e un vivaio per lo stesso jihad internazionale. Ma la svolta va registrata anche se, dopo anni di connivenza, mettere ora il bavaglio ai jihadisti non sarà impresa facile.