Giorno: 15 gennaio 2016

Oscar 2016: con Ave Maria la Palestina di nuovo sul Red Carpet

Dopo “5 Broken Cameras” di Emad Burnat e “Omar” del regista Hany Abu Assad la Palestina è di nuovo in scena agli Oscar. Il film “Ave Maria” del regista palestinese Basil Khalil è stato nominato per il più importante premio cinematografico del mondo nella categoria miglior cortometraggio. L’opera racconta di un gruppo di suore palestinesi votate al […]

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Somalia: al-Shabab attacca base Unione Africana

(Agenzie). Oltre 60 militari kenioti sono rimasti uccisi nell’assalto alla base dell’Unione Africana da parte del gruppo jihadista al Shabab. La base militare, gestita dalle forze di pace keniote, si trova nella città di el-Ade, a circa 550 chilometri da Mogadiscio, vicino al confine con il Kenya. Fonti dell’esercito hanno riferito che un’autobomba che si […]

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Turchia: arrestati 21 professori pro PKK

(Agenzie). La polizia turca ha arrestato 21 professori dell’Università  di Kocaeli, a sud di Istanbul, accusati di “propaganda terroristica” per aver firmato una petizione a favore della pace con i curdi. L’appello, chiamato “Noi non saremo parte di questo crimine!”, è stato lanciato dal gruppo “Accademici per la pace” a denuncia delle azioni svolte contro […]

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Marocco: linee rosse in movimento

Di Muhammad Ahmed Bennis. Al-Araby al-Jadeed (14/01/2016). Traduzione e sintesi di Irene Capiferri. Da giorni l’opinione pubblica marocchina è scossa da ciò che è stato chiamato “il massacro del giovedì nero”, quando le forze di sicurezza sono intervenute violentemente per disperdere le marce pacifiche organizzate in alcune città dai professori per protestare contro due decreti governativi […]

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Cinque anni dalla “primavera araba”: ritorno della “normalità”?

Santiago Alba Rico. Cinque anni dopo quel 14 gennaio 2011 in cui il popolo tunisino rovesciò il dittatore Ben Ali, la contagiosa e massiccia intifada regionale che -dal Marocco all’Arabia Saudita- fece cadere o minacciò le tirannie arabe in nome della libertà politica e della giustizia sociale, ha ceduto il passo a una versione estrema della “normalità” precedente: le dittaure […]

Cinque anni dalla “primavera araba”: ritorno della “normalità”?

Santiago Alba Rico. Cinque anni dopo quel 14 gennaio 2011 in cui il popolo tunisino rovesciò il dittatore Ben Ali, la contagiosa e massiccia intifada regionale che -dal Marocco all’Arabia Saudita- fece cadere o minacciò le tirannie arabe in nome della libertà politica e della giustizia sociale, ha ceduto il passo a una versione estrema della “normalità” precedente: le dittaure […]

Cinque anni dalla “primavera araba”: ritorno della “normalità”?

Santiago Alba Rico. Cinque anni dopo quel 14 gennaio 2011 in cui il popolo tunisino rovesciò il dittatore Ben Ali, la contagiosa e massiccia intifada regionale che -dal Marocco all’Arabia Saudita- fece cadere o minacciò le tirannie arabe in nome della libertà politica e della giustizia sociale, ha ceduto il passo a una versione estrema della “normalità” precedente: le dittaure […]

Riguardo il fallimento della politica araba

Di Talal Sulman. As-Safir ( 13/01/2016). Traduzione e sintesi di Carlotta Castoldi. La regione che noi chiamiamo, con speranza o desiderio, “la patria araba” sta vivendo una situazione senza precedenti di disgregazione, mancanza di leadership e carenza di solidarietà, senza distinzione tra i Paesi ricchi e quelli poveri: i paesi ricchi dissanguano le loro risorse finanziarie, […]

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Passaggi: “Ecco il mio nome” di Adonis

Oggi voglio condividere con voi un frammento di bellezza. Di bellezza in versi. Si tratta delle strofe finali della poesia di Adonis intitolata “Ecco il mio nome”, che gioca con il nome reale del poeta siriano, Ali Ahmad Sa’id Isbir. La potete trovare completa nell’omonima raccolta, tradotta da Francesca Corrao, edita da Donizzelli nel 2009. […]

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Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L‘Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora – nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E’ in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L‘Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora – nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E’ in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

Giacarta, nuovi progetti e vecchie nostalgie

Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Giacarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita sopratutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa.

L‘Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno – oggi come allora – residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi – dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto – per controllare possibili ribelli. Poi ancora – nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia – per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, ordine nuovo.

Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non son mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi – complice una magistratura molto morbida – le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.

Joko Widodo

Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. E’ in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi.

Le iniziative dei rifugiati per guadagnarsi la fiducia dei tedeschi

Di Suleiman Abdallah. The Huffington Post Arabi (13/01/2016). Traduzione e sintesi di Paola Conti. In Germania si continua a discutere della “notte della vergogna” di Colonia, come è stata descritta dalla stampa tedesca, non solo a livello ufficiale e popolare, ma anche per quel che riguarda il clima di diffidenza e sospetto con cui milioni di […]

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