Mese: dicembre 2014

Dizionario Hoepli Italiano-Arabo

          Claudia Maria Tresso, con la collaborazione di Abdelouadoud El Omarani, Dizionario Hoepli Italiano Arabo, Hoepli, Milano 2014 Se chi traduce dall’arabo ha avuto e ha a disposizione almeno un buon dizionario che, seppure orami datato, … Continua a leggere

Dizionario Hoepli Italiano-Arabo
letturearabe di Jolanda Guardi
letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Dizionario Hoepli Italiano-Arabo

          Claudia Maria Tresso, con la collaborazione di Abdelouadoud El Omarani, Dizionario Hoepli Italiano Arabo, Hoepli, Milano 2014 Se chi traduce dall’arabo ha avuto e ha a disposizione almeno un buon dizionario che, seppure orami datato, … Continua a leggere

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letturearabe di Jolanda Guardi – Ho sempre immaginato che il paradiso fosse una sorta di biblioteca (J. L. Borges)

Campus Breakerz Crew: breakdance per le strade di Gaza

Barakabits. Fare breakdance nelle strade di Gaza è l’ennesimo dimostrazione che i palestinesi sono davvero una fonte di incredibile ispirazione. Nonostante le difficoltà, sanno ancora come divertirsi. Nel campo profughi di Nuseirat, esiste un centro di breakdance organizzato dalla Campus Breakerz Crew, una squadra di “ballerini” creata del 2003 che da allora riunisce giovani palestinesi […]

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Egitto: Mubarak, decisione entro 48 ore

(Agenzie). L’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, che sta scontando tre anni di domiciliari per appropriazione indebita di fondi pubblici, potrebbe essere scarcerato nelle prossime 48 ore. Condannato nel 2012, sabato scorso è stato prosciolto dall’accusa di aver ordinato l’uccisione di 239 manifestanti durante la rivoluzione del 2011. Secondo gli analisti, un eventuale rilascio provocherebbe ulteriori tensioni in […]

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Cisgiordania: palestinese ferita dopo aggressione di un israeliano

(Agenzie) La polizia israeliana ha riportato che una ventenne palestinese è stata gravemente ferita da colpi di arma da fuoco dopo aver aggredito un israeliano nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion. La giovane donna avrebbe pugnalato e ferito un colono israeliano, inizialmente identificato come un soldato, cosa poi smentita dall’esercito. Per ora, non sono ancora note le […]

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Manifestazioni per l’indipendenza dello Yemen del sud

(Agenzie). Centinaia di persone sono scese in piazza nella città di Aden per chiedere l’indipendenza dello Yemen del Sud, in occasione del 47° anniversario della fine dell’occupazione da parte dell’Impero britannico. I manifestanti hanno marciato verso il palazzo del governatorato , provocando la reazione delle forze di polizia. Gli scontri hanno causato minimo 5 feriti.

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“Lahna Binatna”: promuovere la pace partendo dai social network

Barakabits. Dalle foto sui social al cambiamento concreto: questo è lo scopo di “Lahna Binatna”, una campagna multimediale che ha lo scopo di costruire un movimento non-violento in Algeria nel tentativo di sensibilizzare le persone sull’escalation di violenze che colpisce il Paese. L’iniziativa, diffusa con l’hashtag #LahnaBinatna, ha registrato già più di 25.000 sostenitori dal suo lancio lo […]

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Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Libia: il ruolo di attore principale a cui l’Italia non può rinunciare

di Claudio Bertolotti

L’Italia deve essere parte del processo di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza ma.
La Libia è oggi sostanzialmente atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” – governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi, di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali, anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi, l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il 93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale, rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma come?
Certamente non intervenendo direttamente con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari” – attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”, formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non tardare ad arrivare.

Bahrein: forte maggioranza sunnita nel nuovo parlamento

(Agenzie). Una forte maggioranza sunnita, 30 deputati indipendenti, 4 islamisti e 3 donne: queste le caratteristiche del nuovo parlamento del Bahrein formatosi a seguito delle elezioni dello scorso sabato. Le elezioni sono state contrassegnate dal boicottaggio da parte dei più importanti gruppi d’opposizione, tra cui il partito Al Wafeq. Tra le motivazioni del boicottaggio vi era anche […]

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Marocco: il governo Benkirane a caccia di investimenti

Le Matin (28/11/2014). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo. Visita ufficiale a Pechino del ministro dell’Industria, del commercio, dell’investimento e dell’economia digitale Moulay Hafid Elalami, Forum per gli investimenti dei paesi del Golfo a Casablanca: il governo marocchino guidato dal primo ministro Abdelilah Benkirane spiana la strada agli investitori stranieri, contando sul meccanismo dell’arbitrato per rassicurarli.  […]

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Tunisia: poliziotto decapitato al confine con l’Algeria

(Agenzie) Un poliziotto tunisino fuori servizio è stato decapitato da militanti islamisti, dopo essere stato rapito vicino il confine con l’Algeria. Secondo quanto riportato dal portavoce del ministero degli Interni, Mohamed Ali Laroui, il poliziotto sarebbe stato rapito insieme ad altri suoi colleghi da una decina di combattenti islamisti. La decapitazione sarebbe avvenuta nel distretto di […]

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I marocchini non pagano più il conto dell’associazionismo al cous cous

Non sono mai stata femminista e ne vado fiera; le mie battaglie le ho sempre affrontate e vinte come FATIMA cittadina, mai facendo leva sul fatto di essere donna. Non ho mai speculato sul mio genere e nazionalità anche a casua dell’insofferenza verso l’associazionismo marocchino in Italia, che in nome della comunità in generale e delle aspirazioni della donna marocchina in particolare, ha permesso a molti personaggi di acquistare case, … | Continua a leggere

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Non sono mai stata femminista e ne vado fiera; le mie battaglie le ho sempre affrontate e vinte come FATIMA cittadina, mai facendo leva sul fatto di essere donna. Non ho mai speculato sul mio genere e nazionalità anche a casua dell’insofferenza verso l’associazionismo marocchino in Italia, che in nome della comunità in generale e delle aspirazioni della donna marocchina in particolare, ha permesso a molti personaggi di acquistare case, … | Continua a leggere

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Libia, Human Rights Watch: “Derna sotto il controllo dei fondamentalisti”

“Miliziani mascherati appartenenti al Consiglio della Shura per la gioventù hanno inferto 40 frustate a 8 uomini nella piazza di El Shababa. Erano colpevoli di aver bevuto alcol durante una festa di laurea”. Questa è una delle testimonianze raccolte da Human Rights Watch che in un’informativa pubblicata giovedì scorso ha denunciato gli abusi sui residenti di […]

L’articolo Libia, Human Rights Watch: “Derna sotto il controllo dei fondamentalisti” proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Turchia: Putin e Erdogan discutono su maggiore collaborazione

(Agenzie) Il presidente russo Vladimir Putin è in visita ad Ankara per incontrare la sua controparte turca, il presidente Recep Tayyip Erdogan, per discutere sul mantenimento della loro collaborazione nonostante le controversie sulle crisi in Siria e Ucraina. Si tratta della prima visita di Putin dall’elezione di Erdogan a presidente. L’incontro si incentrerà soprattutto sulla cooperazione energetica, […]

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Siria: annunciata nuova coalizione ribelle

(Agenzie) Durante una conferenza stampa tenutasi nei giorni scorsi a Gaziantep, in Turchia, è stata annunciata la creazione di un nuova coalizione di gruppi ribelli siriani, che è stata chiamata “Consiglio del Commando Rivoluzionario”. La nuova alleanza nasce fa una fusione tra alcuni membri dell’Esercito Libero Siriano e il Fronte Islamico, una formazione a maggioranza salafita. […]

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Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

Jihad 3.0: i punti di forza dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Proposte di riflessione per la NATO e la Coalizione internazionale

di Claudio Bertolotti

Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione – sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria.

Il nemico definito dello Stato Islamico (d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS: cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc.. tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte, alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.

Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica, isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].

Altro fattore di preoccupazione è il coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne) che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo locale).

Questo Stato Islamico è inoltre in grado di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al reclutamento e alla raccolta di fondi.

Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le potenzialità dei social-network.

L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2] di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.

Nello specifico, nel ribadire la contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale evidenzia come occorra «conosce­re e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della co­municazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto[3]».

Si rende dunque necessario, anche al fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale, agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line, i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,  dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e dell’apparenza[4]».

Ma per contenere il fenomeno jihadista, gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).

Un ulteriore fattore da tenere in considerazione per la definizione e per il perseguimento di una strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.

La fanatica determinazione dell’IS

In primis, i gruppi di opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono nell’immediato a porre freno.

L’attenzione dei media è tanto più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa, quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.

In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.

La fredda crudeltà delle esecuzioni, la determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.

Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”: amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.

Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione

La violenza religiosa a cui assistiamo è la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni di atti terribili  nel nome di un dio, di una fede, e le somma a rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini – violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte»[5].

L’incitamento ad atti terroristici in nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare ideologie piene di rancore[6].

L’idea del radicalismo religioso si costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in virtù della minaccia futura.

Inoltre, alla base del fondamentalismo vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è “altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.

La crisi che alimenta il fondamentalismo

L’Islam sta attraversando proprio in questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.

Il fondamentalismo è conseguenza perciò «di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato, spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in particolare gli Stati Uniti.

Le ragioni del fondamentalismo vengono così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e sociale.

Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?

Quello a cui stiamo assistendo, ma di cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche anno, di “scontro di civiltà[8]”.

Vi è da parte dei soggetti che fanno parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS – “non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.

Lo scrittore islamico che più ha influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.

Come fermare l’IS?

Fermare l’IS impone di:

  1. affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
  2. adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
  3. indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
  4. avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
  5. collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
  6. disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.

E nel merito dello strumento militare, l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.

Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.

Ma se da un lato, una strategia basata unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro, pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle comunità locali).

All’IS deve perciò essere negato l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti; così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con convinzione ed efficacia sul terreno.

Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti (statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.

Se la politica del dialogo e del compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione Russa e l’Iran.

Prima di tutto è però necessario possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi, al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD), analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence, analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

L’ISIS in Libano: la forza della minaccia terrorista nel Mediterraneo

di Claudio Bertolotti
L’area mediorientale così come l’abbiamo conosciuta sino a ora è irreversibilmente destabilizzata. Il Medio Oriente composto dagli Stati e dai confini nazionali definiti il secolo scorso è definitivamente scomparso, sebbene sia presto per parlare di ridefinizione politica e geografica.
La guerra civile siriana e l’espansione del Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant) – ha portato alla comparsa di un attore molto forte che, sebbene non riconosciuto sul piano formale, si è imposto come proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione regionale e con forti “manifestazioni” a livello globale. Una realtà che è in grado di detenere il monopolio della violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni di abitanti, tra Iraq e Siria: tutto ciò anche attraverso la vendita sottocosto di petrolio. Ma alla preoccupante espansione geografica si unisce quella virtuale e propagandistica condotta sul piano mediatico.
Un’avanzata repentina che è giunta al Mediterraneo, attraverso l’affiliazione di gruppi jihadisti locali, dall’Algeria alla Libia. Ma, sebbene l’attenzione mediatica sia concentrata sul fronte principale siro-iracheno – quello che vede impegnata la nuova Coalizione di oltre quaranta paesi, molti dei quali arabi, e la tacita quanto opportuna collaborazione tra Usa, Siria e Iran –, anche il Libano è stato travolto dal fenomeno IS (Stato islamico), così come il conflitto israele-palestinese è stato interessato da ripercussioni più o meno dirette.
In particolare, la penetrazione e le capacità operative dell’IS in Libano sono significative; numerosi sono i combattimenti registrati tra unità dell’IS e l’esercito nazionale libanese. 
Libano del nord: l’IS dalla Bekaa a Tripoli
Quello che si sta preparando in Libano è il possibile avvio (o riavvio) di una nuova fase di guerra civile; certamente ridotta rispetto al conflitto aperto sul fronte siriano o iracheno, ma pur sempre una guerra combattuta e che porta l’IS a imporsi su un’ampia fascia di territorio che va dall’Iraq al Mediterraneo. 
Arsal 
In particolare, l’area libanese di Arsal è luogo di scontro fisico tra forze di sicurezza libanesi affiancate da Hezbollah, da un lato, e jihadisti, dall’altro, – nominalmente il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra di recente schieratosi con il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, dunque combattenti dell’IS. 
Arsal, attaccata nel mese di agosto dall’IS, è una città della Valle della Beqaa, in prossimità del confine siriano e con una popolazione di circa 40.000 abitanti a predominanza sunnita; ma è anche la città che ospita il più alto numero di profughi in fuga dalla guerra in Siria: almeno 1.100.000 sono i rifugiati registrati nell’area dall’Onu. E Arsal ha un’importanza strategica per i gruppi jihadisti in quanto zona franca utilizzata come base di supporto e riorganizzazione per le operazioni in territorio siriano.
Qui, in occasione di un importante confronto armato, i combattenti dell’IS hanno occupato importanti edifici civili: una scuola, un ospedale e una moschea; con ciò confermando una tecnica ampiamente utilizzata nell’attuale conflitto, così come già in quello israelo-palestinese: indurre il nemico (in genere le forze governative) a colpire obiettivi non militari in modo da provocare una funzionale reazione da parte dell’opinione pubblica, locale e internazionale. 
L’esercito libanese, militarmente non preparato ad affrontare uno scontro allargato, si sta muovendo con estrema cautela cercando di evitare un inasprimento del conflitto e scongiurando l’inizio di una vera e propria guerra sul territorio del Libano. Ma gli scontri sono sempre più intensi e numerosi; così come intensa è l’opera di propaganda mass-mediatica e tradizionale condotta dai combattenti jihadisti proprio in Libano.
Nel complesso sono oltre cinquanta gli appartenenti ai gruppi jihadisti che l’esercito libanese ha dichiarato di aver ucciso in scontri diretti. E operazioni di contrasto all’infiltrazione jihadista sono state condotte all’interno dei campi profughi di Arsal e in altre località all’interno dei confini nazionali (Ras Sharj, Sanabil e altri due campi minori); operazioni che avrebbero portato, secondo fonti ufficiali, alla cattura di 486 soggetti sospettati di essere membri di Jabhat al-Nusra e dell’IS, coinvolti negli scontri delle scorse settimane e operativi dagli stessi campi per rifugiati, unitamente ad armi, equipaggiamenti e materiale informatico. Il 24 settembre altri tre campi della Beqaa meridionale, tra le località di Ayn e Jdeidet al Fakiha, sono stati chiusi dall’esercito libanese: episodi che hanno provocato reazioni di protesta degli stessi profughi che hanno denunciato maltrattamenti, violenze e uccisioni arbitrarie da parte dell’esercito di Beirut (nel merito mancano conferme o dichiarazioni ufficiali dei vertici militari libanesi). 
Sul fronte opposto, IS e Jabhat al-Nusra hanno catturato 29 soldati libanesi – due dei quali decapitati per rappresaglia e cinque rilasciati – e requisito armi e veicoli militari; soldati dell’esercito libanese che per oltre un anno hanno tentato invano di chiudere i passaggi di frontiera precludendo ai gruppi jihadisti una via di comunicazione tra Siria e Libano, così come al di là del confine hanno tentato di fare gli omologhi siriani.
Un tentativo, dell’una e dell’altra parte, che non ha raggiunto lo scopo ma che ha inevitabilmente portato allo scontro diretto tra jihadisti sunniti – responsabili di attacchi diretti contro obiettivi sciiti in Libano – e le forze libanesi affiancate da Hezbollah. 
Tripoli 
Desta preoccupazione quanto sta avvenendo nel secondo più importante centro urbano libanese, abitato in prevalenza da sunniti, dove è confermata una significativa presenza e attività di IS e Jabhat al-Nusra. Presenza confermata dalla comparsa di un numero crescente di bandiere nere dello Stato Islamico e dalle minacce dirette ai cristiani dei villaggi di Minieh e Mina. 
E proprio a Tripoli, alla fine di luglio, le forze speciali libanesi hanno ucciso Mounzer el-Hassan, jihadista sunnita responsabile del coordinamento logistico coinvolto nella condotta dei recenti attacchi suicidi contro obiettivi sciiti e l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Morte che si accompagna all’arresto di Houssam Sabbagh, jihadista salafita – già combattente in Afghanistan, Cecenia e Iraq – a capo di una milizia sunnita impegnata in attacchi contro gli sciiti alawiti di Tripoli e tra i pochi leader locali che si erano rifiutati di partecipare al “security plan” proposto dal governo libanese per la città.
Tensioni e forti preoccupazioni emergono dalle comunità cristiane del Libano che si preparano al possibile scontro con le forze dell’IS. Per la prima volta dalla fine della guerra civile, organizzazioni civili hanno avviato un processo di riarmo finalizzato all’auto-difesa; armi che provengono, per lo più, dalle milizie comuniste e da Hezbollah. 
Elementi dinamizzanti del conflitto 
Hezbollah è da tempo impegnato, con migliaia dei suoi miliziani, a contrastare la minaccia dell’IS in Siria; questo ruolo combattente in funzione anti-sunnita ha indotto gli jihadisti di IS e al-Nusra a rispondere colpendo obiettivi sciiti all’interno dei confini libanesi. Uno sviluppo del conflitto che ha portato Hezbollah e gli Stati Uniti (e con essi la Coalizione internazionale) a combattere sullo stesso fronte. 
Questo può significare che Hezbollah e Usa sono alleati? Certamente no sul piano formale, ma la realpolitik induce a guardare oltre. Hezbollah – inserita da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche – può invertire il suo ruolo sul piano internazionale proprio grazie all’impegno nella lotta al terrorismo (contro l’IS), guadagnando in questo modo legittimità e ampi margini di manovra politica e militare (dagli indubbi vantaggi sul piano politico interno e internazionale).
La conferma di questo mutamento di clima è dato dal sostegno diretto degli Stati Uniti. In primis attraverso il supporto intelligence, concretizzatosi nel contrasto alla minaccia di attacchi suicidi contro obiettivi sciiti a Beirut. In secondo luogo attraverso l’elargizione di aiuti militari, in termini di armi ed equipaggiamenti, ufficialmente forniti all’esercito nazionale del Libano per la difesa delle frontiere ma, nella pratica, condivisi proprio con Hezbollah che sulle frontiere è impegnato nel contrasto all’avanzata dell’IS; un fatto, questo, formalizzato all’indomani della cacciata dei gruppi jihadisti da Arsal dove Hezbollah ha combattuto al fianco delle forze nazionali. Una forma di supporto basata sul presupposto della collaborazione tra esercito libanese e Hezbollah; collaborazione attiva da tempo.
Una decisione sulla quale hanno certamente influito gli sviluppi in un altro settore del fronte che vede impegnato Hezbollah, quello al confine con Israele. Sebbene Hezbollah ufficialmente tenda a ridimensionare il pericolo rappresentato dall’IS, è però vero che la minaccia continua a rimanere concreta e a preoccupare; a fronte delle rassicurazioni ufficiali del leader sciita Sayyed Hasan Nasralah, il gruppo siriano Jabhat al-Nusra è riuscito ad infliggere una battuta d’arresto alle unità di Hezbollah imponendo loro l’abbandono, e dunque la perdita di controllo, della zona di confine tra la Siria e il territorio libanese delle fattorie di Shebaa, area di valenza strategica nel conflitto con Israele. Uno sviluppo tattico che ha portato all’isolamento di Hezbollah nell’area e alla sua concreta limitazione dello spazio di manovra; il risultato è il pieno controllo dei militanti jihadisti del punto nodale del triangolo Siria-Libano-Israele. La crescente instabilità del Golan conseguente alla presenza di Jabhat al-Nusra, e dunque di IS, è per Israele una minaccia diretta, così come lo è per la missione Onu, attiva dal 1973, che potrebbe perdere il controllo della regione.
Ragione in più per Hezbollah per approfittare della generosa offerta di aiuto da parte statunitense. 
Breve Analisi conclusiva 
Il Libano, caratterizzato da una forte instabilità politica interna, dalla debolezza del governo e dalle conflittualità di natura confessionale, potrebbe essere il prossimo obiettivo della violenta offensiva jihadista.
Il radicalismo è in fase di ascesa e la lotta per il potere tra la maggioranza sunnita e quella sciita, e le minoranze cristiana e drusa, rendono il Libano un teatro di facile destabilizzazione. Una destabilizzazione che, muovendo lungo le linee di tensione settaria, trova un terreno fertile per il radicamento del fondamentalismo propugnato dall’IS – così come avvenuto in Siria e in Iraq.
L’IS persegue il proprio obiettivo di creare un califfato abbattendo tutti i confini nazionali così come li conosciamo e solamente l’efficace uso dello strumento militare potrà contrastare tale velleità. Una velleità confermata, tra l’altro, dalla decisione di nominare un “emiro” del Libano, a cui spetterà il coordinamento di attacchi diretti contro obiettivi sciiti e personalità pubbliche di rilievo.
In linea con tale approccio, Abou Malek al-Talleh, “emiro” di Qalamun nominato da al-Nusra, ha recentemente dichiarato che “migliaia di jihadisti in Libano sono in attesa di ricevere l’ordine di dare avvio alla battaglia” e che “la guerra è all’orizzonte e non sarà limitata al confronto con Hezbollah sui confini del paese”, bensì sarà portata nel cuore del Libano “superando tutte le barriere di sicurezza”.
Propaganda e capacità di comunicazione mediatica a parte, la situazione è preoccupante e in fase di peggioramento, in particolare nella regione della Beqaa dove l’IS potrebbe contare sul sostegno dei villaggi sunniti, dai quali nei mesi scorsi sono partiti molti volontari per la guerra in Siria.
È inoltre importante sottolineare che l’IS controlla i valichi della Beqaa verso la Siria e gode della collaborazione del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, da tempo operativo in territorio libanese. Il Libano per l’IS rappresenta un obiettivo certamente non secondario; questo essenzialmente per due ragioni.
La prima è uno sbocco sul Mediterraneo, funzionale all’ampliamento dell’influenza verso il Maghreb arabo, ottenibile attraverso l’allargamento della destabilizzazione regionale e la dispersione sul “campo di battaglia” (strategicamente importante per indebolire la concentrazione dello sforzo della Coalizione).
La seconda è la volontà di divenire, attraverso repentini successi, punto di riferimento e coordinamento dei movimenti jihadisti arabo-sunniti, tra loro collegati ideologicamente, ma privi di un centro di comando comune. In altri termini l’IS sta cercando di espandere quanto più possibile la sua azione, in ciò puntando a sostituirsi alla vecchia rete di al-Qa’ida; e lo farà, come già lo sta facendo, attraverso la lotta sul campo di battaglia “convenzionale” e una razionale amplificazione mass-mediatica sul campo di battaglia “virtuale” (nel cui contesto l’IS padroneggia pienamente le moderne tecniche comunicative: efficaci, a basso costo e ad alta diffusione). Recentemente l’IS avrebbe avviato una forma di collaborazione “informatica” e un dialogo collaborativo con alcuni militanti egiziani. E proprio guardando all’Egitto è possibile intravvedere nel breve periodo l’apertura di un nuovo, ulteriore, fronte. 

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista Ogni mattina indossare una divisa, a…

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista

Ogni mattina indossare una divisa, assistere al’ alzabandiera, ribadire il proprio impegno in favore della patria panaraba e socialista. Mi è capitato spesso, per spiegare i motivi che hanno spinto i siriani a scendere in piazza e l’umiliazione quotidiana del cittadino ridotto suddito della dittatura, di raccontare la scuola siriana sottolineando le similitudini con i balilla e la gioventù fascista durante il ventennio o come la “saqafa qaumia” (in italiano, cultura patriottica) sia identica a quel che si insegnava nel primo e secondo libro del fascismo ed è una materia obbligatoria di tutti i curriculum di studio, dalle elementari al master post laurea in qualunque materia. Chi capisce l’arabo può ascoltare questo programma radiofonico di circa 30 minuti sulla relazione tra scuola siriana ed ideologia. La radio è Souriali.


‫المدارس السورية والأيديولوجية السياسية‬
soundcloud.com
‫برنامج أخد وعطا بحلقتنا اليوم راح نحكي عن الأدلجة السياسية والحزبية بالعملية التعليمية ضمن المدارس السورية بالمناطق الخاضعة للنظام السوري، وراح نحكي عن التجارب البديلة اللي عم تظهر بالمناطق الخارجة ع‬ Continua a leggere

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista Ogni mattina indossare una divisa, a…

Le scuole siriane e l’ideologia ba’athista

Ogni mattina indossare una divisa, assistere al’ alzabandiera, ribadire il proprio impegno in favore della patria panaraba e socialista. Mi è capitato spesso, per spiegare i motivi che hanno spinto i siriani a scendere in piazza e l’umiliazione quotidiana del cittadino ridotto suddito della dittatura, di raccontare la scuola siriana sottolineando le similitudini con i balilla e la gioventù fascista durante il ventennio o come la “saqafa qaumia” (in italiano, cultura patriottica) sia identica a quel che si insegnava nel primo e secondo libro del fascismo ed è una materia obbligatoria di tutti i curriculum di studio, dalle elementari al master post laurea in qualunque materia. Chi capisce l’arabo può ascoltare questo programma radiofonico di circa 30 minuti sulla relazione tra scuola siriana ed ideologia. La radio è Souriali.


‫المدارس السورية والأيديولوجية السياسية‬
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‫برنامج أخد وعطا بحلقتنا اليوم راح نحكي عن الأدلجة السياسية والحزبية بالعملية التعليمية ضمن المدارس السورية بالمناطق الخاضعة للنظام السوري، وراح نحكي عن التجارب البديلة اللي عم تظهر بالمناطق الخارجة ع‬ Continua a leggere

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

LIBANO – Effetti della guerra in Siria e del conflitto Israele-Hamas

di Claudio Bertolotti
L’ultima offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il Libano.
In quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo rapporto con il Paese dei Cedri. 
L’approccio generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi anche in territorio libanese.
Pur tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è concentrata: 
    sull’attività di riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano; 
    sulle possibili e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano. 
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado di controllare il sud del paese. 
Il pericolo concreto deriverebbe invece dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha. Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio, rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti: 
  Israele ha risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né danni materiali, né vittime). 
  La polizia libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele. 
  Hezbollah (nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici “fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello stesso Libano. 
  Infine, la missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio Oriente. 
I venti siriani sul Libano
L’incremento delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
 Israele si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici provenienti dagli arsenali siriani. 
In tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco, indicato come centro di sviluppo e  produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano. 
Da una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un “repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.

La fame come arma di guerra La politica del “piegatevi o morite di fame” si è ri…

La fame come arma di guerra
La politica del “piegatevi o morite di fame” si è rivelata tra le armi più efficaci nelle mani del regime. L’assedio di medioevale memoria con cui Assad ha costretto a tregua che sono rese di fatto vari quartieri di Damasco ed altre aree come il centro storico di Homs. Un documentario lungo un ora realizzato dalla tv americana CBS ci porta tra profughi e civili sotto assedio per raccontare la fame.


War and hunger
www.cbsnews.com
Scott Pelley reports on the men and women of the World Food Programme who are risking their lives to save Syrians from starvation Continua a leggere