Giorno: 10 dicembre 2013

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
 

Marocco. La battaglia delle soulaliyate

Sono le “donne delle terre collettive”, quelle che il diritto consuetudinario tribale esclude dall’eredità. In gran parte analfabete, provenienti dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche risultato.

 

 

Fatima è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in località douar Bled Dendou.

All’interno del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all’assenza di pavimento, separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza la striscia d’asfalto dell’autostrada fendere i campi circostanti, per lo più lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.

La donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto – pulizie negli appartamenti in città – sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad assicurare un’istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole qualcosa di diverso.

Fatima fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.

Leggi e consuetudini

Queste donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone) tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di famiglia (moudawwana) del 2004, che ha gettato le basi – almeno a livello legale – per un miglioramento della condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per le donne a metà di quella prevista per gli uomini).

Le soulaliyate infatti restano sottoposte al diritto consuetudinario, orfo azerf in lingua amazigh, che le priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù, trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono affidate al consiglio dei delegati, i nouab, posto sotto la “tutela” dello Stato: è il Ministero dell’Interno, in base al dahir (decreto reale) del 1919, che ne detiene il controllo.

Considerate per legge “inalienabili”, il diritto di usufrutto di queste terre viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni ’90 si è resa possibile una nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).

In questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne – se divorziate, vedove o sposate con un “estraneo” (esterno al lignaggio) – rimangono escluse dai proventi o peggio ancora, nell’ipotesi in cui vivano sui terreni passati di mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un’altra zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.

Fatima è una di queste.

L’area di Kenitra-Mahdia, tra l’altro, è uno degli esempi più eclatanti dell’esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese, in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a ritmo serrato e dall’oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.

La vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla classe media, che non sono disposti a pagare l’alto canone di affitto solitamente imposto nella capitale.

Fatima ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyatenel 2011, quando le “donne delle terre collettive” si sono unite alle manifestazioni – quasi quotidiane – del Movimento 20 febbraio, dando maggior impulso all’attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.

Rompere il muro del silenzio

“All’inizio le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a minacciarmi” racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al lignaggio degli Haddada ma sposata con un “estraneo”, Rkia si è vista rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. “Ho otto fratelli maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha ricevuto i risarcimenti del caso”.

L’amarezza che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera, accompagna il ricordo dell’umiliazione subita nel momento in cui l’anziana militante aveva cercato di far valere i propri diritti. “I delegati della tribù mi hanno liquidata dicendo: sei solo una donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale femminile, variante del caftano. Nda]. Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti. La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica”.

E’ a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull’Association démocratique des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell’organizzazione è stata messa a disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi l’alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle donne, che si presentavano man mano, l’importanza di creare una rete e di federarsi.

Così, sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al Parlamento, dove circa mille soulaliyate– arrivate da tutto il paese – hanno manifestato chiedendo la modifica della legislazione in vigore e l’accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.

“Diritti a dosi omeopatiche”

Da allora le soulaliyate, forti del sostegno dell’ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell’Interno ha emesso una circolare che autorizza le “donne delle terre collettive” a ricevere una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova costituzione, voluta dal sovrano per arginare la “primavera” locale nel 2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo un’arma in più – a livello legale – alla battaglia femminista.

“Il mio è l’esempio vivente che la nostra lotta non è vana” afferma Leila R., originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l’interno rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un lato è la prova che l’usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio esclusivo degli uomini, dall’altro i soldi ricevuti sono briciole, se paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli introiti.

Più in generale, fa sapere l’ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di “un primo passo”, precisano le attiviste. Le somme concesse sono “insignificanti” e soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del “Marocco profondo” in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l’applicazione delle circolari o in cui le donne sono tenute all’oscuro delle transazioni effettuate sul patrimonio collettivo.

A precludere ulteriori progressi c’è la mancanza di trasparenza dell’intero processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli statali. D’altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé – con decreti reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a vicenda – fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta per il momento un lontano miraggio.

Piuttosto che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi – nell’aprile scorso – nei locali dell’ADFM a Rabat. “Per prima cosa ricorreremo in tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve” dichiara Maryam D., quarant’anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver terminato gli studi superiori.

“Continueremo anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per chiedere la revisione di un dahirormai centenario e palesemente incostituzionale – prosegue in tono agguerrito la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi omeopatiche”.

Come ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al consiglio dei nouab. “Vogliamo essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere raggirate al momento della ripartizione dei proventi”.

Le soulaliyate, insomma, sono decise a rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora dimenticate – tra arcaismo e discriminazione – in un paese che si vanta degli avanzamenti democratici, ma che troppo spesso “fatica” a passare dalla teoria alla pratica.

 

(articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)