Giorno: 4 dicembre 2013

Marrakech, 3-5 dicembre 2013: Conferenza sul Dialogo Fiscale Internazionale

Marrakech, 3-5 dicembre 2013: Conferenza sul Dialogo Fiscale Internazionale

La città di Marrakech ospita la quinta edizione della Conferenza sul Dialogo Fiscale Internazionale (ITD), un’iniziativa per un dibattito di alto livello sulle questioni di fiscalità, i meccanismi del finanziamento sullo sviluppo e le buone pratiche.

L’ITD è un accordo di collaborazione della Commissione Europea (CE), La Banca Interamericana per lo Sviluppo (BID), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l?Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCDE), la Banca Mondiale e il Centra Interamericano delle amministrazioni fiscali (CIAT). Lo scopo di questa iniziativa è di promuovere il dialogo sulle questioni fiscali e lo scambio di buone pratiche.

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    L’Islam, il reato, la pena

    L’ISTITUTO PER L’ORIENTE C. A. NALLINO ha il piacere d’invitare la S.V. nei locali dell’Istituto venerdì 6 dicembre 2013, alle ore 17, alla presentazione del volume di Deborah Scolart L’Islam, il reato, la pena Dal fiqh alla codificazione del diritto penale. Il libro sarà presentato da Massimo Papa (Università di Roma “Tor Vergata”). Istituto per l’Oriente […]

    L’Islam, il reato, la pena

    L’ISTITUTO PER L’ORIENTE C. A. NALLINO ha il piacere d’invitare la S.V. nei locali dell’Istituto venerdì 6 dicembre 2013, alle ore 17, alla presentazione del volume di Deborah Scolart L’Islam, il reato, la pena Dal fiqh alla codificazione del diritto penale. Il libro sarà presentato da Massimo Papa (Università di Roma “Tor Vergata”). Istituto per l’Oriente […]

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    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.

    L’Egitto di el-Sisi


    http://www.communianet.org/news/l%E2%80%99egitto-di-el-sisi

    Di SAMEH NAGUIB, ROSEMARY BECHLER, RANA NESSIM

    Seguito dell’intervista con Sameh Naguib, membro principale dei Socialisti Rivoluzionari egiziani. Si parla dell’Egitto di el-Sisi, delle nuove alleanze attorno al Generale, delle sfide che affrontano i partiti e i movimenti di opposizione e del futuro di piazza Tahrir
    L’intervista, che ha avuto luogo il 24 ottobre è ancora attualissima alla luce delle manifestazioni dei giorni scorsi che stanno nuovamente scaldando il clima politico egiziano.

    RB: Sameh, sono successe tante cose dall’ultima volta che ci siamo visti. Come sta? Com’è la vita dei Socialisti Rivoluzionari in Egitto?
    SN: Più difficile di quanto si possa ricordare e uno degli aspetti più difficili è che la maggior parte della sinistra e degli intellettuali liberali sostiene pienamente, al 100%, il regime militare.

    RB: Sembrerebbe una definizione molto strana per un liberale di sinistra, no?
    SN: Sì, è una definizione strana. Chi dice di essere di sinistra, e non parlo soltanto di gruppi organizzati, come il Partito Comunista, ma anche di scrittori come Sonallah Ibrahim, intellettuali, poeti… Figure ben note insomma, con un lungo passato di lotta democratica e attenzione ai diritti del popolo, che adesso sembrano tutti cantare la stessa canzone inneggiante al Generale.

    RB: Un cambiamento di posizione che è avvenuto praticamente da un giorno all’altro, non è vero?
    SN: Praticamente sì.

    RB: Parliamo del ruolo che ha avuto la campagna mediatica nel cambiamento del clima politico. Non è stata appoggiata soltanto da intellettuali, giusto? Questa campagna ha ottenuto il sostegno di vaste sezioni di egiziani, è così?
    SN: Hanno persuaso tantissime persone, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano. Non è che tutti siano d’accordo, ma se oggi cercassimo di organizzare una manifestazione di protesta, saremmo subito attaccati da delinquenti organizzati che, indipendentemente dal luogo in cui decidessimo di tenere la protesta, arriverebbero nel giro di 10 minuti.

    RB: Anche la gente comune è contro le proteste?
    SN: La gente comune reagisce in vari modi. Ha paura. Alcuni dicono: “Non vogliamo più queste proteste, sono troppo rischiose”, altri dicono: “Basta. Lasciamo che se ne occupino i militari. Ne abbiamo avuto abbastanza.” Il supporto dei passanti, è riluttante. Ma oggi in realtà, oltre ai ranghi dei Fratelli musulmani, sono gli attivisti esperti che si avventurano fuori a protestare.

    RB: E per quanto riguarda i vostri rapporti con i sostenitori della Fratellanza?
    SN: Ripeto, la situazione è molto complicata. Noi non andiamo alle loro manifestazioni, non possiamo. Non solo per via della repressione estrema, ma anche per via della natura settaria di tanti slogan e del fatto che continuano a chiedere il ritorno di Morsi, cui noi ci opponiamo.

    RB: Il regime sta pian piano estirpando i primi e i secondi ranghi dei Fratelli musulmani, è così?
    SN: Sopravviveranno a questi attacchi. Il movimento è abbastanza vasto e profondo da sopportarli. Ma il nostro no. Se attaccassero le frange che sopravvivono della sinistra organizzata nella stessa maniera, saremmo spazzati via per anni a venire. Le nostre posizioni sono popolari tra i giovani dei Fratelli musulmani, ne sono conferma i commenti che lasciano su Facebook. Ma come si potrà immaginare, ci chiedono sempre: “Perché non scendete in strada con noi?” e, dall’altro lato, quelli che appoggiano il governo militare ci accusano di essere parte della “cospirazione dei Fratelli musulmani”. La nostra esperienza è quindi molto isolata, molto solitaria. Ci attaccano da tutti i lati. I giovani militanti della Fratellanza ci vogliono nelle strade con loro, mentre altri ci accusano di essere sostenitori della Confraternita. Ed è estremamente difficile mantenere una linea indipendente e allo stesso tempo convincere le persone a continuare a lottare.

    RB: Questo vale anche per il movimento sindacale indipendente? Anche loro sono divisi allo stesso modo, in due fazioni?
    SN: Certamente. Il leader adesso è un ministro e uno dei più devoti sostenitori del regime militare. Questo è un duro colpo per qualsiasi organizzazione sindacale.

    RB: Di nuovo, mi sembra molto strana come riflessione su un’organizzazione sindacale indipendente.
    SN: Infatti, è questa la gravità! Prima era un movimento sindacale indipendente serio, nato da scioperi di massa organizzati dai comitati, di cui Abu Eita era uno dei principali leader. Ed è questa la misura del tradimento avvenuto in Egitto.

    RB: Ma quindi sono rimaste circoscrizioni con cui sarebbe possibile ricostruire una coalizione?
    SN: Dall’esterno, superficialmente, sembrerebbe ci sia solo un mare di sostenitori di el-Sisi. Ed è così. Ma uno sguardo approfondito coglierà le diverse opinioni, consapevolezze e motivazioni, per non parlare delle aspettative, molto contraddittorie del popolo egiziano. Certamente tali aspettative sono disattese. Quattro mesi dopo il golpe il settore turistico ancora non accenna a riprendersi. La rete ferroviaria è stata chiusa per la prima volta in 150 anni, cioè da quando fu costruita dagli inglesi. Quest’anno, per la prima volta, la gente non ha potuto prendere il treno per tornare a casa durante le feste religiose e questo ha causato grande sofferenza e caos. I pendolari che da Banha, Tanta o altre città satelliti, si recano al Cairo per lavoro ogni mattina sono oltre tre milioni, come in qualsiasi altra grande città. Queste persone adesso devono pagare il triplo, forse anche il quadruplo della normale tariffa di viaggio, impiegandoci il doppio del tempo, per viaggiare su minibus e altri mezzi di trasporto privati per andare a lavorare. In un clima del genere, è facile immaginare che l’elevato livello di appoggio dato finora ai nuovi “salvatori” si abbasserà presto.

    RB: Forse la cosa interessante in tutto questo è proprio che, se tutto questo fosse accaduto durante la presidenza di Morsi, i Fratelli musulmani sarebbero stati travolti dalla protesta generale. Ma siccome è accaduto invece sotto el-Sisi, la gente non ha reagito proprio allo stesso modo. È così? 
    SN: Esatto, ha preferito concedere ai militari il beneficio del dubbio, perché, tornando sui militari e sui loro media, questi hanno avviato una massiccia campagna mediatica, paragonando el-Sisi a Nasser, enfatizzando incessantemente il ruolo nazionalista e progressista dell’esercito e la sua centralità.

    RB: Questo vale per tutti i canali mediatici? Sia pubblici che privati?
    SN: Sì, tutti. Quelli musulmani sono stati chiusi e non abbiamo stampa indipendente.

    RB: Questo è un altro aspetto inusuale: la manovra politica militare ha fatto in modo che tutti quanti cantassero la stessa canzone, dallo stesso spartito.
    SN: Sì, è inusuale, è vero. Ma non credo sia sostenibile. 

    RB: Prima di parlare del futuro, possiamo fare un passo indietro, e un po’ lungo, per capire come l’esercito egiziano sia riuscito a tornare al potere con un enorme livello di controllo e un massiccio supporto? Si sono liberati della Fratellanza, vecchio alleato secondo alcuni, servito allo scopo solo per un certo periodo di tempo, ma ora non più utile. Da questa prospettiva, non ci troveremmo di fronte a un esercito secolare che rappresenti la rivoluzione nasserista in corso, il cui nemico sarebbe l’Islam politico, ma il potere militare starebbe semplicemente rimuovendo gli ostacoli che si trova davanti. È forse troppo schematica come tesi?
    SN: É schematica, leggermente cospirativa e troppo nitida. Uno dei problemi per esempio, non è sorto tra i Fratelli musulmani e l’esercito, ma tra l’esercito e le forze di polizia e di intelligence. Sin dai tempi di Nasser, il problema dell’esercito è stato che, una volta eletto presidente Nasser, questi non ne ha più avuto il controllo diretto. Abdel Hakim Amer, capo dell’esercito e feldmaresciallo, aveva all’epoca un potere enorme, tanto che il presidente dovette creare un apparato di stato parallelo per controbilanciare il potere dell’esercito. Quindi, negli anni Sessanta, Nasser creò le forze di sicurezza centrale e di stato (“Amn Markazy” e “Amn el-Dawla”) composte da forze speciali di polizia antisommossa, paramilitari che facevano prima parte dell’esercito ma che ora passavano sotto il diretto controllo della Presidenza e del Ministero degli Interni, e un servizio parallelo di sicurezza interna, anche questo separato dall’esercito e collegato direttamente alla polizia.
    Ora, durante il governo Mubarak, quest’aspetto della macchina statale è diventato estremamente potente nella lotta contro i movimenti islamici, specialmente contro gruppi islamisti armati. Con l’aumento continuo del potere, l’esercito ha cominciato a fondersi col panorama politico. E di fatto è qui che adesso si combatte la battaglia: da un lato tra l’esercito, che cerca di far risorgere il potere di un tempo, e le forze politiche, e dall’altro tra  il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza. Queste forze di sicurezza, in termini di uomini armati, sono grandi quanto l’esercito stesso; si parla di almeno mezzo milione di forze di polizia armate e mezzo milione di militari armati.

    RB: Sotto la guida dei Fratelli musulmani, quando la gente si è sbarazzata di Mubarak, la polizia è stata costretta ad una ritirata significativa, almeno rispetto alla sua visibile presenza. È così? 
    SN: Sì. E l’esercito ne gioiva. Quando i giovani rivoluzionari sono entrati negli uffici della sicurezza di stato, appropriandosi di cartelle e documenti, fuori c’erano i carri armati. Avrebbero potuto fermarli facilmente. Invece hanno lasciato fare, hanno permesso che la gente irrompesse negli edifici evacuati e prendesse il materiale. Sono intervenuti soltanto in un secondo momento. Con l’esercito che, con grande calcolo, rimaneva a guardare, la polizia ha incassato un duro colpo.

    RB: E adesso la polizia ha di nuovo pieni poteri?
    SN: Sì e la complessità della situazione sta proprio qui. L’esercito ha bisogno della polizia, da solo non può continuare a fronteggiare le manifestazioni, mettendo continuamente a rischio la propria posizione. È quindi costretto a ricostruire la polizia, che intanto riacquista potere, con tutte le contraddizioni annesse e connesse nei confronti dell’esercito. Da qui il fiume di affermazioni contraddittorie da parte di figure statali e mediatiche, per esempio sulla questione di el-Sisi presidente. Ecco la situazione in cui ci troviamo al momento.

    RB: Ci spieghi meglio.
    SN: Beh, il problema per loro è questo: se el-Sisi diventasse presidente, non farebbe più parte dell’esercito, proprio come Nasser. Un altro generale andrebbe al comando e questo sarebbe molto pericoloso in un paese che ha già subito un colpo di stato militare. Si correrebbe il rischio di un secondo golpe. Non c’è ragione di credere che, una volta eletto presidente, l’esercito o il capo dell’esercito, non si darebbe subito da fare per eliminarlo se qualcosa non gli andasse bene. Se el-Sisi rimanesse invece nell’esercito e venisse eletto un altro presidente, come si potrebbe fare per controllarlo? Cosa si potrebbe fare per garantire che questo nuovo presidente non rimuova el-Sisi dalla sua carica e lo chiuda in galera? Se el-Sisi vuole rimanere nell’esercito, ha quindi bisogno di un presidente abbastanza debole. Da queste due alternative scaturiscono le lotte in corso al momento per la costituzione e per il sistema governativo da scegliere, presidenziale o parlamentare. La questione non è quindi quanto sia democratico o antidemocratico il sistema presidenziale o quello parlamentare, tutta la questione è: che fine farà el-Sisi?
    Sisi vuole sì mantenere il potere, ma vuole anche che sia costituzionale, permanente e soprattutto non vuole sfide. Si è appena macchiato dei peggiori massacri perpetrati nella storia egiziana moderna e vuole essere sicuro di non doverne pagare le conseguenze né adesso né mai.

    RB: A questo proposito, quante informazioni sono trapelate riguardo ai massacri avvenuti durante i sit-in? Si sa adesso?
    SN: Sì, adesso è risaputo. Ma per un certo periodo, la polizia e l’esercito hanno sostenuto che fossero stati i Fratelli musulmani ad aver dato fuoco alla loro gente, che fossero armati fino ai denti. Poi si è scoperto che nulla di tutto questo era vero, chiaramente erano menzogne. Anche secondo il Ministero della Salute il 14 agosto sono rimaste uccise oltre mille persone. Secondo i Fratelli musulmani i morti sono oltre seimila. La verità probabilmente è una via di mezzo.

    RB: Le organizzazioni per i diritti umani sono intervenute?
    SN: Sì, costantemente. Sono state coinvolte soprattutto nel compilare elenchi di nomi ed età dei morti. Secondo le principali organizzazioni umanitarie, da quel giorno mancano ancora 400 persone all’appello. Non si sa dove siano, i corpi bruciati, non identificabili, sono tanti. Ma anche le organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che non hanno nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, affermano che il numero dei morti sia molto più elevato rispetto a quello ufficiale fornito dal Ministero della Salute.
    Certamente l’episodio è stato minimizzato in termini mediatici, il rilascio di informazioni è stato fortemente controllato. La televisione egiziana, sia reti private che pubbliche, ha trasmesso immagini del ritrovamento a Rabaa el-Adawiya di enormi scatole contenenti armi. Qui, la domanda chiave è: perché quelle armi non sono state usate? Voglio dire, se è vero che avevano armi, allora avrebbero potuto difendersi, eppure si sono lasciati massacrare… Ma questa domanda non viene posta.

    RB: Cioè: perché non si sarebbero difesi?
    SN: Sì. Perché sono state trovate armi in una scatola? I numeri confermano questa stessa tesi: una quarantina di ufficiali di polizia sono rimasti uccisi in entrambi gli attacchi principali, ma dall’altro lato ci sono stati più di mille morti. Non può essere essere stato uno scontro tra due eserciti o gruppi armati.

    RB: Quindi qual è il ruolo del governo attuale, ad interim, in questa lotta per il potere? I membri dell’assemblea costituzionale, per esempio, che ruolo hanno? 
    SN: Prima di tutto, sono stati scelti uno per uno da el-Sisi. È stato lui ad avvicinare attori, attrici, gente che non ha un passato politico, per formare quest’assemblea di 50 membri. Ma adesso anche in questo gruppo di persone accuratamente selezionate sorgono tensioni. Chiaramente, c’è chi rappresenta el-Sisi direttamente. Vi sono state, per esempio, animate discussioni sulla formula costituzionale che l’Egitto sia uno stato laico; la maggioranza favoriva questa affermazione. Ma el-Sisi ha respinto la formula: lui non vuole avere niente a che fare col secolarismo. Combatte contro gli islamisti per l’appoggio intellettuale e morale, ma ci tiene a dimostrare di essere egli stesso un buon musulmano, alla stregua dei Fratelli musulmani.

    RB: Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: per la sinistra, i liberali, i pluralisti di qualsiasi tipo, che significato ha il sostegno al golpe? Questi gruppi non chiedono semplicemente un ritorno ad una nozione nasserista o kemalista di “nazione”, una nozione monoculturale, un “Noi Nazionale”? E ciò non suggerisce che la maggioranza, inclusi gli intellettuali, possa guardare finalmente al di là della tradizione?
    SN: Questa è una visione orientalistica degli eventi recenti. Non esiste infatti una presa di posizione contro il pluralismo. Esiste però una crescente islamofobia tra gli intellettuali laici, non solo in Egitto, ma anche in Occidente. Questi sarebbero pronti ad allearsi con il diavolo pur di contrastare uno stato vagamente simile a uno stato islamico o con un sistema islamico. In Turchia accade la stessa cosa: un segmento dell’opposizione secolare, inclusa la cosiddetta sinistra, si schiera sempre dalla parte dell’esercitoe contro le forze islamiche. Per loro non ha alcuna importanza che gli islamisti siano saliti al potere democraticamente. 

    RB: Ed è lo stesso anche in Tunisia?
    SN: Lo stesso in Tunisia. La differenza è che al tempo di Atatürk e di Nasser, il programma di riforme da attuare era vasto e comprendeva importanti concessioni economiche e sociali, oltre a concessioni alle donne e così via. Queste riforme sono state la ragione per cui la gente ha accettato di buon grado un tipo di struttura “monoculturale” o “monopolitica”. Erano altri tempi. Adesso non c’è affatto spazio per riforme come quelle di  Atatürk o Nasser. El-Sisi non ha nulla da offrire; né grosse riforme territoriali, nè nazionalizzazioni o programmi di resistenza alle forze colonialiste in agguato, nulla che possa garantirgli sufficiente sostegno popolare. Il fatto è che, in un paese come l’Egitto, non abbiamo neppure dei partiti politici che possano rappresentare questo tipo di progetto.

    RB: Come hanno reagito gli intellettuali laici al rifiuto della formula costituzionale sul secolarismo da parte di el-Sisi?
    SN: Sono divisi sulla questione. Dicono sia sbagliato, alcuni arrivano ad affermare che el-Sisi non dovrebbe essere presidente. Altri invece credono debba essere lui il prossimo presidente. Queste divisioni col tempo si fanno più nette e più visibili. Il che contribuisce a creare nuove speranze, apre finalmente nuovi spazi di manovra. Nelle prime due settimane dopo il massacro, chiunque aprisse bocca per criticare el-Sisi o domandare cosa stesse succedendo, veniva considerato un traditore da eliminare… Se ne parlavi seduto a un caffè, venivano a picchiarti pesantemente. Ora non più, ma non è la prima volta che accade in questo processo rivoluzionario. La gente prima prende posizione, poi ci ripensa. Adesso nei bar e nelle strade si assiste a discussioni tra sostenitori di el-Sisi e altri che dicono: “Questo è troppo, per quanto ancora subiremo il coprifuoco e lo stato di emergenza? Non possiamo tornare a lavorare. Loro non hanno fatto nulla, il governo è debole, non ci sta dando nulla”. Ricomincia tutto da capo: dubitano delle proprie scelte, incluso l’appoggio immediato e prematuro ad el-Sisi.

    RB: L’ultima volta che ci siamo incontrati, l’aveva anticipato; aveva detto che, in ultima analisi, le richieste rivoluzionarie non sono state in alcun modo soddisfatte. È sempre di questo parere?
    SN: Sì. Molti hanno sostenuto Sisi non perché fossero fascisti o ultra laici, ma semplicemente perché pensavano: “I Fratelli musulmani non hanno mantenuto le promesse fatte. Forse i militari manterranno le loro”. Certamente ci sono sezioni della classe media che appoggiano el-Sisi soltanto perché odiano la rivoluzione e l’idea che tutti improvvisamente pretendano una vita decente; detestano l’idea che ogni volta che i poveri abbiano una qualche richiesta, si affrettino a scendere in strada e protestare. Avrebbero certo voluto forse che qualcosa cambiasse nei piani alti, ma senza tutta questa… rivoluzione. Quindi abbiamo da una parte questo tipo di supporto per el-Sisi, dato soprattutto dalle classi medie e alte che adesso, per folle che possa sembrare, lo criticano perché non si è dimostrato abbastanza duro nel contrastare le manifestazioni. Oltre quindicimila arrestati, decine di migliaia (nessuno sa il numero preciso) feriti, almeno due o tremila morti e loro insistono che la repressione non sia abbastanza dura! Vogliono ripulire tutto e tornare alla normalità ad ogni costo.

    Le nuove alleanze attorno a el-Sisi

    RB: Torniamo al Generale el-Sisi e alla sua decisione di respingere la formula sulla secolarizzazione. Che tipo di popolarità spera di ottenere con la sua azione?
    SN: Un ruolo importante in questo nuovo tipo di alleanze attorno a el-Sisi lo ha ora il partito salafita estremista Al-Nour, favorito dall’Arabia Saudita. Bisogna tenere a mente che il golpe è stato appoggiato e finanziato direttamente dai sauditi, che non sono particolarmente famosi per essere laici! Il loro ruolo è centrale affinché l’altra parte possa difendersi dalle accuse di voler completamente gli islamisti dalla scena politica. Gli islamisti di Al Nour sono abbastanza opportunisti da stare al gioco. Sempre sotto pressione saudita.
    RB: E questo è bene accetto dai partiti secolaristi?
    SN: Le loro richieste non sono ben accette. Ma in generale sono tutti contenti che il comitato sia composto anche da islamisti.

    RB: Ci sono divisioni all’interno di Al Nour?
    SN: Sì. Dopo i massacri, si sono allontanati dal comitato e dai negoziati per un po’. Ci sono certamente delle pressioni: è un movimento salafita, testimone della distruzione, davanti ai propri occhi, della più importante unità islamica. Deve essere difficile in tale situazione portare avanti il proprio ideale. Ma l’intero episodio non riguarda tanto la dicotomia tra stato secolare e stato islamico, quanto il potere. Neppure i massacri subiti dai Fratelli musulmani erano semplicemente intesi ad annientare la Fratellanza. L’intenzione era quella di inviare un messaggio chiaro ai rivoluzionari, al popolo egiziano tutto, e quel messaggio era: “E’ finita. Se avete intenzione di continuare, questo sarà il prezzo che pagherete”. Messaggio recepito forte e chiaro, infatti subito dopo, il livello di proteste della sinistra è rapidamente calato. Gli scioperi dei lavoratori si sono ridotti da 900 a meno di 100 al mese. E questo è quello che vuole el-Sisi, questo è il suo programma.
    Si paragonino le sue azioni a quelle di Pinochet: neanche in Cile era necessario uccidere 3000 persone. Non c’era motivo per cui non si sarebbe potuto semplicemente metterle tutte in galera. Ma le uccisero per dare un messaggio forte ai cileni: “È finita, pensate di poter continuare a indire scioperi quando volete? Pensate di poter chiedere e ottenere tutto quello che volete? No!” e in Cile era finita da tanto. La situazione egiziana adesso è più complicate. Non credo che el-Sisi sia Pinochet, non ha lo stesso livello di supporto, sarà forse assetato di sangue allo stesso modo, non mi fraintenda, ma non ha la stessa capacità di annientare un movimento di massa. Soltanto una decina di giorni fa, c’è stato un altro sciopero a Mahalla el-Kobra, sempre lo stesso centro in cui l’intero processo è iniziato, nel 2006. La piazza principale è stata occupata nonostante il coprifuoco, per due giorni interi, e i lavoratori hanno ottenuto tutto quello che chiedevano. L’esercito non si è avvicinato. Se avessero sparato ai lavoratori di Mahalla, il risultato sarebbero stati altri scioperi e a quel punto sarebbe stato difficile controllarli. Sono abbastanza assennati da capire questi pericoli ed evitarli.

    RB: Quale ruolo ha avuto Abu Eita? 
    SN: Ha negoziato l’accordo. Ci sono ancora scioperi ma non si ha più la tensione che veniva aumentando prima del colpo di stato. Potenzialmente, potrebbe accadere di nuovo, credo, ed è proprio el-Mahalla di solito a dare il segnale per prima.

    RB: Cosa mi dice invece delle minoranze e del loro trattamento attuale? I nostri articoli frequenti sul blog “Egypt in the balance” sono abbastanza chiari su questo punto: si assiste all’aumento spaventoso di razzismo e xenofobia. Un crescendo di anti-copti, anti-stranieri, anti-palestinesi ed estrema rigidità nel trattamento dei rifugiati siriani. Da dove nasce quest’odio?
    SN: Dalla campagna del terrore orchestrata dai media, secondo cui siriani e palestinesi farebbero parte di un complotto internazionale per destabilizzare l’Egitto, ammazzare gli egiziani ecc.. É successo anche in Europa in passato:, si crea sufficiente paranoia nella popolazione così che cominci a temere che i siriani, o chiunque abbia un colore della pelle più chiaro o che sembri siriano, possa piazzare bombe da qualche parte. La teoria del complotto è molto potente e viene diffusa; vi sono coinvolti americani, europei, israeliani, siriani, palestinesi, qatariani… Ci sarebbe un’enorme complotto internazionale per smembrare l’Egitto e portarlo ad una situazione simile a quella siriana, smantellare e fare a pezzi lo stato.

    RB: Viene menzionata anche la situazione irachena?
    SN: Sì. Per l’esercito, il messaggio centrale è il fatto di essere l’unico esercito ancora unito, ancora in piedi. L’esercito siriano è disintegrato, quello iracheno pure… In Libia è un disastro. E questo messaggio è ancora una volta rivolto alla gente, prima di tutto: “Volete davvero essere come l’Iraq o la Siria? Se vi mettete contro lo stato egiziano, contro l’esercito, l’apparato di sicurezza, allora porterete il Paese nella stessa direzione”. Il che istiga immediatamente una sorta di contraccolpo nelle classi medie, contro chiunque aderisca a una protesta o a uno sciopero…. Si viene tacciati di stare dalla parte dei terroristi, di quelli che vogliono rovinare questo Paese. In questo senso la xenofobia serve a qualcosa.

    RB: C’è poi “l’Operazione Sinai”, che ha un ruolo simile, forse nei termini del complotto terroristico scoppiato nella regione montuosa che confina con la Tunisia. Potrebbe aggravare la situazione?
    SN: Certamente. Una guerra è il modo migliore per zittire la gente. Col passare degli anni, si è sviluppato un forte odio tra la gente del Sinai e lo stato egiziano e ora la base della resistenza popolare si è estesa. Lo stato egiziano ha sempre trascurato i diritti delle popolazioni del Sinai e adesso l’odio è stato appagato tremendamente inviando carri armati nelle zone e uccidendo tanti civili che non avevano nulla a che fare con i gruppi armati. Intanto sempre più gente si unisce ai gruppi armati che da soli combattono la battaglia vera e propria. La cosa interessante è che dopo quattro mesi di lotta, l’esercito non è più in grado di controllare la situazione nel Sinai. Non stanno semplicemente dando risalto alla guerra, la stanno perdendo. I portatruppe APC sono sotto attacco. Israele ha concesso all’esercito l’accesso al Sinai, e l’esercito ha ricambiato il favore con un gran bel regalo: ha distrutto il 90% dei tunnel verso Gaza, soffocando quasi completamente Gaza e la sua economia.

    RB: E tutto questo in Egitto è stato accolto con equanimità? 
    SN: Con estremo fervore anti-palestinese e con i conseguenti risvolti della campagna sui rifugiati palestinesi. Famiglie intere di siriani vengono arrestate o uccise, inclusi donne e bambini. Non c’è dubbio: per i tanti interessati, una controrivoluzione è riprovevole. E siamo di fronte proprio a una controrivoluzione.

    RB: Sembra incredibile che i copti appoggino ancora el-Sisi…
    SN: Bisogna capire che il movimento islamico in generale, Fratelli musulmani e salafiti, diventano settari di fronte ad altre religioni. La loro è un’agenda islamista in cui parte del programma è fare dei copti dei cittadini di seconda classe. Anche la sezione più moderata dei Fratelli musulmani direbbe che un copto non può diventare presidente, per esempio. E questi sono i più moderati! L’altro lato dello spettro è occupato dai tanti che vogliono chiudere tutte le chiese e cacciare tutti i copti. Quindi, il mito di un esercito nazionalista e di uno stato secolare, che proteggano l’unità di musulmani e cristiani a un tempo diventa un mito molto utile. E questo è il tipo di aiuto che gli islamisti hanno fornito direttamente ai militari, semplicemente esercitando un miope settarismo.
    Il fatto è che più i Fratelli musulmani vengono attaccati e più fanno uso di motti islamisti per convincere i salafiti a passare dalla loro. Questo però vuol dire spingere i copti in direzione opposta. Qualsiasi alleanza con i salafiti estremi, e mi riferisco a Gama’a, avrebbe voluto dire attacchi alle chiese, ai copti per strada e i Fratelli musulmani sapevano benissimo che questo sarebbe accaduto. Ancora una volta la mossa dell’esercito è stata molto intelligente: non proteggendo le chiese, hanno lasciato che le violenze si perpretassero, facendo in modo che fossero gli stessi copti a chiedere aiuto. E così è stato. Le loro paure sono comprensibili, specialmente al sud dove chiese, negozi e case vengono dati alle fiamme.

    Il futuro di piazza Tahrir

    RN: Non sarebbe meglio per noi egiziani avere il generale el-Sisi come presidente e sperare di ricevere lo stesso tipo di esposizione che abbiamo ottenuto con Morsi? Cosa avremmo da perdere dato che neppure Sisi sarà in grado di soddisfare le richieste rivoluzionarie di “pane, libertà e giustizia sociale”?
    SN: Idealmente, dovrebbe esserci almeno qualche candidato al comando che non si sia venduto ai militari e che non sia islamista. Non vogliamo che si ripeta di nuovo la stessa storia. Anche se il candidato prendesse una bassissima percentuale di voti, dovrebbe essere questa la strada per mantenere il movimento d’opposizione “in auge”, in un certo senso. Ecco perché lavoriamo con il Fronte “Way of the Revolution” che in pratica ha una posizione minoritaria e cerca di far passare in questa situazione una terza voce, una voce indipendente. Ahdaf El Soueif e altre figure importanti appoggiano questo fronte, che comprende organizzazioni quali Movimento 6 Aprile, i Socialisti Rivoluzionari, parte di “Strong Egypt” (Masr el Qaweya), che è composto parzialmente giovani di sinistra ex islamisti e giovani attivisti dei movimenti sindacali, anarchici e altre categorie di individui. C’è anche qualche intellettuale, i pochi che non si sono venduti ai militari. 
    Il Fronte si basa su individui invece che su organizzazioni e stiamo tentando di garantire che i gruppi organizzati non diventino predominanti tramite blocchi. Vogliamo che rimanga il più aperto possibile, vogliamo che la gente aderisca e sia attiva e tanti si stanno unendo. Contestano i candidati militari e i processi militari di civili e le leggi draconiane che vogliono applicare alle manifestazioni di protesta (che renderebbero quasi impossibile organizzare una manifestazione e darebbero alla polizia il diritto di sparare ai manifestanti). Ahdaf Soueif sta coraggiosamente e tenacemente opponendosi a tali abusi e sta subendo pesanti attacchi. Il Fronte viene attaccato perché in favore della Fratellanza musulmana, perché cerca di smantellare lo stato e i militari, perché è composto anche da Socialisti Rivoluzionari che non sono altro che un mucchio di pazzi che tenta di mettere il Paese a ferro e fuoco. E questa campagna mediatica è organizzata sia dai media pubblici che da quelli privati.
    Credo sia troppo presto per capire cosa accadrà durante le elezioni. Ancora non sappiamo che tipo di sistema si inventeranno per la costituzione. Abbiamo cominciato a contestare la legittimità di questa costituzione e la farsa che stanno inscenando. Certamente dovremo contestare questa gente su ogni singola proposta, ad ogni singola mossa. Dobbiamo essere chiari: la rivoluzione egiziana ha appena ricevuto il colpo peggiore da quando è nata. La Fratellanza si è rivelata essere un disastro. Molti hanno votato Morsi perché non volevano che vincesse Shafik, ma c’erano anche quattro milioni di persone, quasi cinque, che hanno votato per Hamdeen Sabahi, l’alternativa che, agli occhi di tanti, sembrava più laica e di sinistra ma che poi si è rivelato essere fascista e pro-esercito. Tutto questo è demoralizzante per questi milioni di persone che adesso non sanno chi appoggiare. La sinistra cosiddetta secolare che qualcuno crede nasserita, supporta invece el-Sisi. La situazione è davvero difficile. Ma il movimento democratico iniziato nel 2005, in origine, contava solo una minoranza di persone che protestava davanti al sindacato di giornalisti e avvocati e che, infine, ha ottenuto un sostegno considerevole. Dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

    RN: Al momento l’opposizione è completamente divisa, una mancanza che il  Fronte “Way of the Revolution” sta cercando di colmare. Ma qual è il ruolo dei Fratelli musulmani? Continuano ad organizzare le loro proteste, mentre la maggior parte dei loro capi è dietro le sbarre. Evitano ovviamente di manifestare nelle piazze principali, per sicurezza, ma qual è il loro programma? Quali le lezioni apprese? È chiaro che non vogliano negoziare e allo stesso tempo l’opposizione non può appoggiarli, perché come dice lei, è troppo pericoloso. Quindi cosa faranno? 
    SN: Innanzitutto non è soltanto una questione di pericolo. C’è anche il fatto di avere un programma settario, di destra. Non è possibile manifestare gridando i loro slogan. Loro chiedono il ritorno di Morsi. Noi eravamo alle manifestazioni contro Morsi e non vogliamo che torni. Per noi, questo è un golpe contro la rivoluzione e le sue richieste rivoluzionarie. Per loro invece è semplicemente un colpo di stato contro il presidente Morsi, legittimamente eletto. C’è una differenza. C’è stato un cospicuo movimento di massa contro Morsi. Non solo manifestazioni, ma anche scioperi. Allo stesso tempo, i generali cospiravano per approfittare del momento, liberarsi di Morsi e ritornare alla situazione tal qual era prima della rivoluzione.
    Per quanto riguarda i sostenitori di Morsi che hanno visto calpestati i propri diritti, la gravità della repressione che hanno subito ha certamente avvicinato la gente. I leader sono in prigione e migliaia sono stati uccisi. Le contestazioni interne sono pressoché inesistenti. Certamente c’è chi avanza domande, i Socialisti Rivoluzionari affermano coerentemente che, a meno che non si smantelli lo stato, la rivoluzione ne uscirà sconfitta, cui è stato risposto che questo atteggiamento è un tradimento verso lo stato e che i militari devono essere uniti. “Smantellare lo stato? Non vogliamo mica smantellare lo stato?”. Sono stati molto critici nei nostri confronti e hanno anche tentato di farci causa per aver parlato. Ma adesso tante voci interne alla Fratellanza sono d’accordo con noi, dicono che lo stato li ha annientati e che loro hanno lasciato correre, invece avrebbero potuto fermarlo. Fino a che punto questo sia rappresentativo di un consenso più vasto non saprei. Si arriverà a domandare perché la Fratellanza abbia commesso un tale errore, alleandosi con i militari e con la polizia? Certamente. È logico, è una domanda che dovrà essere posta. Hanno continuato a tessere le lodi di el-Sisi, dei generali e della polizia che invece li ha subito annientati. Qualcosa nel piano non ha funzionato, ma nessuno romperà le righe, non in queste circostanze.

    RN: I Fratelli musulmani avranno un ruolo nelle prossime elezioni? E se sì, quale?
    SN: Quello che stanno cercando di fare adesso è ottenere concessioni dai militari per tirare fuori di prigione i loro capi e riprendersi una certa libertà di movimento. Il processo a Morsi dovrebbe cominciare il 4 novembre.(1) Ma basterebbe una telefonata e potrebbe essere posposto ancora per mesi. Anche questo fa parte della farsa, tutto dipende infatti dai negoziati. I Fratelli musulmani sanno che il Paese non può andare avanti senza reti ferroviarie, che la situazione è insostenibile e invitano i loro membri a portare pazienza, a cercare di mantenere alta la tensione, sapendo che così non può continuare e che prima o poi qualcosa cederà. Questo tipo di pressione crea differenze tra i generali che cominciano a chiedersi se sia arrivato il momento di trattare con i Fratelli, di far uscire di galera qualcuno dei loro. 
    Se riuscissero a mantenere alta la tensione ogni giorno che Dio manda in terra, alla fine i generali dovranno cedere, prima o poi, saranno costretti a fare delle concessioni. Per i militari le strategie sono due: negoziare e arrivare a una specie di accordo e vedere che succede. Due leader della Fratellanza che non sono in prigione parlano con i media apertamente e continuano la lotta. Li hanno lasciati in libertà per lasciare aperta una porta sui negoziati. Tutti i precedenti tentativi finora sono falliti, ma credo che alla fine si arriverà ad un accordo.
    Per quanto riguarda invece il bando della Fratellanza come entità politica, certamente è già successo in passato. Ma l’organizzazione fa ormai parte della società egiziana, conta oltre un milione di iscritti, cosa potrebbero fare? Metterli tutti in galera? E i 10 milioni di sostenitori? Esistono da oltre ottanta anni e sicuramente non spariranno da un giorno all’altro, così come non sparirà da un giorno all’altro l’idea di un Islam politico, che, dopo tanti tentativi, non ha funzionato da nessuna parte, neppure in Turchia. Il grande progetto di Atatürk rimane nonostante tutto. Un secolo dopo e gli islamisti e l’idea dell’Islam sono ancora forti e non spariranno.
    Guarda ai tifosi per esempio, gli ultrà che non solo hanno partecipato alle sommosse ma sono anche stati in prima linea nella rivoluzione e lo sono ancora. Il movimento è di nuovo annientato. Ma così come gli ultrà non se ne andranno, e non dovrebbero, così neppure I Fratelli musulmani spariranno. Se i militanti di sinistra, laici o gli ultrà o qualsiasi altro gruppo cercasse di riappropriarsi di piazza Tahrir, secondo te i giovani militanti dei Fratelli non si affretterebbero anche loro a scendere in piazza? Come è accaduto nella rivoluzione del 2011, le leadership non hanno partecipato sin dall’inizio. Ma i giovani sì. Tali manifestazioni sono vigorose e sostenute da migliaia di uomini e donne, gente cui il dibattito sul futuro dell’Egitto appartiene pienamente. 

    RN: Adesso prepareranno la bozza della nuova costituzione e poi ci sarà un referendum, si suppone, e poi seguiranno le elezioni. Parteciperanno tutti? Oppure si ripeterà quello che è già successo: tanta gente sceglierà di non partecipare credendo che le elezioni siano una farsa e non si fiderà dei militari al comando se non consentiranno alcun tipo di supervisione internazionale?
    SN: Credo sia troppo presto per parlare di elezioni o di se sia giusto o no boicottare. Tuttavia non credo. In tale particolare situazione, l’opposizione dovrà partecipare per forza per non rischiare di deludere anche loro i propri sostenitori. Se non votiamo, ci rimprovereranno che non può finire così, non per colpa nostra. Quindi, in un certo senso, l’opposizione sarà costretta a partecipare. Ma tutto dipende sempre da quello che succederà, da come si arriverà alle elezioni. Se ci saranno carri armati e  poliziotti schierati di fronte ad ogni seggio elettorale, potremmo ripensarci. Dipende da quanto sarà brutta pesante l’aria che si respirerà.

    RB: Volete che tutto il mondo osservi quello che accade durante questa nuova fase?
    SN: Beh, si tratta sempre di una lama a doppio taglio. Da un lato, sì, certo. Vogliamo solidarietà internazionale da parte dei sostenitori delle rivoluzioni egiziane, quanta più possibile. Dall’altro lato, la solidarietà straniera è stata usata per confermare affrettatamente le tesi di cospirazioni e complotti internazionali di cui abbiamo parlato. Bisogna sempre ricordare che se ci demoralizziamo, li aiutiamo a vincere. La nostra sfida più grande è cacciare via la sensazione che la rivoluzione sia finita. E ricordarci che non hanno ancora vinto. Il simbolismo di tutta la nostra lotta non è mai stato così chiaro. Piazza Tahrir è diventata un cimitero, un parcheggio per i carri armati, praticamente. Tutti, in tutto il mondo, hanno visto piazza Tahrir come il centro della rivoluzione, del cambiamento, della democrazia. Una tale speranza trasformatasi in un enorme parcheggio per carri armati, veicoli militari, una tale distesa di mura e filo spinato, completamente svuotata di gente, è, come minimo, demoralizzante.
    Ma questo vuol dire soltanto che dobbiamo riprenderci Tahrir. Ci troviamo davanti a un bivio, il punto in cui non c’è altro da fare se non riprenderci piazza Tahrir. L’unico modo di rivitalizzare la rivoluzione è riprenderci la piazza. La battaglia che seguirà avrà come scopo proprio questo ed ecco perché i Fratelli musulmani ci hanno provato lo scorso 6 ottobre. È per questo che l’esercito ha sparato sulla gente con l’intenzione di uccidere quel giorno e che 50 persone sono rimaste uccise, soltanto perché marciavano, pacificamente, verso piazza Tahrir. L’esercito sa che sarà nei guai se non riuscirà a tenere quella piazza. Ma anche tutti i membri della fratellanza e tutti quelli di sinistra sanno che, senza quella piazza, siamo finiti.
    La battaglia quindi riguarda spazi e tempi. In termini di spazi, sicuramente piazza Tahrir per quel che rappresenta, come pure il simbolismo di Rabaa el-Adaweya diventato essenziale per gli islamisti  assieme all’idea del numero 4 e del colore giallo. Rabaa el-Adawiya ha assunto un importante valore simbolico. E poi c’è la battaglia del tempo, quindi giorni e date: il 19 novembre(2), che ricorda il massacro di Mohamed Mahmoudm, sarà una battaglia importante davanti al Ministero dell’Interno. Il 25 gennaio del prossimo anno invece come sarà? Militari e polizia festeggeranno con tanto di tuoni di jet? Come sarà lo spazio di piazza Tahrir quel giorno?

    RB: Ci sono ancora i graffiti sui muri?
    SN: Sì, e anche per questi si lotta. Una battaglia combattuta soprattuto tra i Fratelli musulmani e le forze pro-militari che ogni giorno li ricoprono. Ogni giorno. I graffitari dipingono e loro coprono. Lunghissime battaglie combattute ogni notte e ogni mattina. Appaiono varie scritte: “Sisi è un assassino”, “Sisi è un killer”, “Sisi via” eccetera che poi vengono completamente coperte, nel giro di qualche ora. Ma poi il graffito riappare.
    In un certo senso quindi, la rivoluzione continua. Sta assumendo una forma nuova, quella di una lotta simbolica tra islamisti ed esercito. Ma questo vuol dire anche che l’energia rivoluzionaria resiste, c’è ancora, e viene fuori anche quando si tratta di battaglie semplici, come quelle dei graffiti… a chi appartengono questi muri?

    Sugli autori
    Rana Nessim è redattore associato e cura la sezione “Primavera Araba” di openDemocracy. Nel 2012 ha lasciato l’Egitto per studiare presso il King’s College di Londra e ha intenzione di tornare nel suo Paese una volta ottenuto il Master. La sua ricerca verte sulle molestie sessuali avvenute durante le manifestazioni.
    Rosemary Bechler è redattore di openDemocracy. 
    Sameh Naguib è uno dei membri principali del partito Socialista Rivoluzionario egiziano.
    Traduzione a cura di Elvira De Rosa.

    Link originale: www.opendemocracy.net/arab-awakening/sameh-naguib-rosemary-bechler-rana-nessim/sisi%E2%80%99s-egypt

    (1) Il processo è stato poi rinviato all’8 gennaio.
    (2) La manifestazione ricorda il 19 novembre di 2 anni fa il Consiglio Supremo delle Forze Armate massacrò decine di persone scese in piazza. Quest’anno sono scese in piazza migliaia di persone al Cairo gridando slogan contro la Fratellanza e contro l’esercito. Lo stesso giorno l’esercito ha tentato di organizzare una parata militare per boicottare la manifestazione, ma senza risultati. La manifestazione ha anche sfidato la nuova “legge antiprotesta” che di fatto rimette in mano all’esercito ed alla polizia il diritto a manifestare.