Giorno: 4 dicembre 2012

Writers attack. Nella primavera araba.

Su Exibart.com . Ecco un estratto.
L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
[ … ]
Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
[ … ]
Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
Leggi l’intervista completa QUI.

 

 

Writers attack. Nella primavera araba.

Su Exibart.com . Ecco un estratto.
L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
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Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
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Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
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Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
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Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
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«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
[ … ]
Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
Leggi l’intervista completa QUI.

 

 

Writers attack. Nella primavera araba.

Su Exibart.com . Ecco un estratto.
L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
[ … ]
Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
Leggi l’intervista completa QUI.

 

 

Writers attack. Nella primavera araba.

Su Exibart.com . Ecco un estratto.
L’intervista – I muri come “social network” del presente. I graffiti che raccontano le proteste al Cairo oggi, come a New York quaranta anni fa. Ma con una radicalizzazione politica e l’aiuto della tecnologia. Abbiamo intervistato Elisa Pierandrei, giornalista e arabista che nel 2011 ha vissuto i fatti in presa diretta, da quell’osservatorio privilegiato che è stato piazza Tahrir al Cairo. E che oggi pubblica un e-book sul fenomeno dei graffiti made in Medio Oriente [di Matteo Bergamini] 
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Il fumetto del libanese George Abou Mahya,
Beirut è una sorta di Gotham City mediorientale
I ragazzi di piazza Tahrir hanno adottato un mezzo linguistico che fa parte della cultura occidentale, soprattutto statunitense. Eppure hanno assimilato tag e  bombolette come “modus operandi” di stampo politico. Pensi che in Occidente non sarebbe più possibile una corrispondenza del genere?
«I murales politici in Egitto, Tunisia e Libia sono espressione di una parte della scena culturale metropolitana giovanile fortemente globalizzata. È un fenomeno che fa riferimento ad altre rivoluzioni accadute altrove, in tempi non troppo lontani. Mi riferisco, ad esempio, alla rivoluzione portoghese dei Garofani, nel 1974. Anche all’epoca il linguaggio visivo servì ad amplificare i messaggi politici e creò nuove forme di intervento nello spazio pubblico. I rivoluzionari portoghesi si espressero attraverso adesivi, murales, manifesti politici, caricature, vignette e fotomontaggi».
Hai detto che i muri delle città arabe sono un “social network fisico”. Spesso le autorità sono intervenute a rimuovere parole, disegni e invocazioni, messi in scena ad esempio dall’artista iraniano Maziar Mohktari con la serie di stampe Palinsest: ad Isfahan durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Qual è la forza e la funzione del graffito urbano in Medio Oriente?
«Come spiega bene la gallerista Stefania Angarano nell’introduzione a Urban Cairo, “i graffiti sono riproducibili all’infinito, grazie alla tecnica dello stencil di velocissima esecuzione, spesso piccoli e quindi adattabili a qualunque spazio, sono realizzabili da chiunque, anche da chi artista non è”. Sono anche il volto pacifista della guerriglia urbana, grazie alla quale nei mesi delle rivolte arabe i volti delle vittime hanno sostituito nella memoria collettiva il ritratto dell’egiziano Mubarak o quello del tunisino Ben Ali. Il solo fatto di esistere come movimento, che ha un obiettivo comune ed è capace a volte di coordinarsi,  è stato e continua ad essere un atto di grande resistenza, in un contesto urbano pieno zeppo di divieti».
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Urban Cairo è anche un e-book: quanto conta la condivisione in questo preciso periodo storico? Che cosa è necessario al rinnovamento europeo, prendendo esempio dalla vicina primavera araba? 
«Pensare alla primavera araba in formato e-book (che ha una mappa interattiva dei graffiti del Cairo) è stata la sfida che cercavo. Quando l’editore mi ha contattata per chiedermi se volevo partecipare al lancio di una nuova collana di e-book sul giornalismo narrativo e investigativo non ho avuto grosse esitazioni. L’e-book  promuove il libero e rapido scambio di idee, ovunque tu sia. In metro, in aereo, in treno, sul tuo smartphone o su un tablet o un e-reader. Inoltre per me era importante esprimermi attraverso un mezzo di comunicazione digitale, per rafforzare l’idea che le rivolte arabe sono un segno del cambiamento dei tempi e comunicarne l’urgenza. Ho sempre considerato molto stimolante la lettura di “The medium is the message”, dell’intramontabile Marshall McLuhan. A volte mi sembra che noi europei non abbiamo una visione altrettanto elaborata della funzione dei nuovi media».
 
Leggi l’intervista completa QUI.